Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2014)


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Bibliografia consultata e consigliata

Mercoledì, 6 agosto.


Letture. Nel pomeriggio al mare con Edoardo mi sono assorto nella lettura del De vera religione di Agostino, con tanto di testo latino a fronte. Sono rimasto stupito dall'ordine delle mie precedenti chiose al testo, oltre che dal fatto che Agostino è un ottimo neo – platonico ma come cristiano ricorda certi integralismi 'leninisti'. Bellissime e di importanza storica sono le descrizioni relative agli stili di vita delle comunità cristiane 'autentiche', cioè 'spirituali', per adottare la sua terminologia. È una lettura davvero interessante, soprattutto perché la sto mettendo in relazione con il mio vissuto attuale. In ogni caso rimane splendida la dimostrazione dell'assenza del male, della vita e della sostanza / essenza come bene e del sommo bene. L'identificazione del sommo bene nel Dio dei cristiani è forzata, almeno in quest'opera, anche se fa riferimento alla 'perfezione' delle comunità 'spirituali' cristiane e cioè a un fondamento etico e a quella 'eticità di massa' – ordo divino demonstrata (Spinoza parafrasando) – che ebbe successo a partire dal III secolo.

Giovedì, 7 agosto.

Ai margini di De vera religione. È davvero illusorio credere di poter cambiare la propria vita in poche settimane e forse anche l'idea di cambiare la propria vita da soli. Ancora una volta l'espressione 'vita precedente', risulta divertente in ragione del fatto che è semplicistica e in parte ridicola e patetica, anche se, alla mia percezione attuale è esistita una 'vita precedente', una vita nella quale mi esercitavo a non affrontare i problemi.
Il fatto, però, che ora mi sia deciso ad affrontarli non significa affatto che sia in grado di risolverli e, in genere, potrebbe essere che i problemi che si lasciano risolvere non siano affatto problemi ma semplici difficoltà soggettive, mentre le difficoltà oggettive, quelle che vengono dal di fuori di noi, non sono superabili, a meno che non si trovi solidarietà collettiva intorno a quelli, a meno che non offendano, cioè, più sensibilità. Non sto scrivendo di quelli che vengono detti 'problemi sociali', che hanno immediata deriva politica, ma di quelli che hanno e vivono in una dimensione non solo pre – politica ma 'pre – sociale', pur avendo condivisione e socialità, dei problemi di relazione e comunicazione nella collettività, negli spazi pubblici (strada, quartiere, bar, luogo di lavoro, feste, concerti, passeggiate, vacanze, sport, stadio, teatro, cinema, piazza, i loro libri, i morti degli altri e le loro parentele) oltre che, naturalmente, in quelli privati (casa, famiglia, i nostri morti, il nostro lignaggio, le nostre parentele, la televisione, la radio, i nostri libri). Dal neolitico fino all'epoca moderna, in verità, questa fu la vera socialità, tutto quello che riguardava la socialità nella sua accezione contemporanea era di piena competenza del sovrano e del suo potere: era già politica. La nostra specie, quindi, si è allontanata dalla socialità primordiale, quella che innervava le organizzazioni tribali e ancora le società classiche e del primo medioevo, dalla socialità delle relazioni molecolari, per addentrarsi sul terreno dell'astrattezza sociale (rapporto di lavoro, rapporto di coppia, rapporto di amicizia, rapporto contrattuale), ponendo in secondo piano l'elemento molecolare della socialità. Ho osservato i bambini nei loro giochi: in quelli il principio di proprietà, di possesso, fa parte delle relazioni ma non ne è il fondamento, perché distruggerebbe il gioco. Negli adulti il principio di proprietà fonda la vita e, spesso, anche i loro giochi.La stessa evoluzione è avvenuta nei confronti della socialità.Lasciando da parte questi ragionamenti che porterebbero diritti – diritti a una rivisitazione della critica alla vita quotidiana di origine situazionista, potrei dire che, con stasera, io ed Edo abbiamo passato delle magnifiche e stranamente fresche serate d'estate tra gelati, spiaggia e giochi di pallone.
Proseguirò, comunque, la lettura del De vera religione: gran parte di questi ragionamenti ne sono un effetto indiretto.

Venerdì, 8 agosto

Annotazione. Se esiste una giustificazione all'uso della forza nella vita sociale e politica, non esiste per quella pre – sociale, dove con quello si nega l'altro per quanto sia crudele, dominato da un'autentica crudeltà mentale, perché ci si contrappone direttamente al suo essere, alla sua vita, per quanto possano essere sbagliati e dominati dall'errore.

Sabato, 9 agosto

Annotazione. Ho riscoperto la voglia di leggere e ancora di più quella di scrivere nuove cose (questo diario ne è l'effetto) e anche di rivedere, con calma, quello che ho già scritto, concentrandomi sulla linearità del pensiero, sulla chiarezza e 'freschezza' dell'enunciato e, anche, sulla punteggiatura: così sto rivedendo i materiali sulla storia bizantina e romana.
Oggi partiamo per Castel del Piano e mi porterò dietro questo quaderno, il notebook (cioè vale a dire la storia romana e bizantina), naturalmente il De vera religione (che ieri, andando nel pomeriggio alla spiaggia con Edo, mi ero dimenticato a casa, con grave mio disappunto), la 'civiltà egizia' di Gardiner, un assoluto 'fuori moda' come 'il caso tessile', edito nel 1974 per i tipi della Mazzotta e redatto da due giovani ricercatori dell'università di sociologia di Trento, e i tre volumi, pubblicati da Derive e Approdi, sugli autonomi (l'autonomia operaia), opera collettiva uscita tra 2007 e 2008, che non avevo neanche ancora sfogliato, neppure per vedere gli indici.

Domenica, 10 agosto

Letture. Il sole è quasi al tramonto ed è quasi piacevole scrivere malagevolmente su una panchina alle 'storte'; darò acqua alle ortensie. Prosegue la lettura del De vera religione e ho letto qualche pagina (Sergio Bianchi) introduttiva dell'opera sugli autonomi. Ansia al pensiero di rientrare a casa, ma devo farlo, dopo il crodino.
I ragionamenti di Agostino su monoteismo e relazione tra autorità e ragione (fede e autorità) sono estremamente netti, anche se cerca di creare una relazione tra i due strumenti che mi ricordavo più dialettica. L'autorità è una specie di suprema ragione indimostrabile ma, in misura e modalità che non descrive compiutamente, sottoposta al controllo della ragione che, comunque, nulla può fare per confutarla. Eccezionali le descrizioni della vita spirituale, in relazione all'uomo 'nuovo', per lo spirito di ritiro e allontanamento dalla vita pubblica che, storicamente, dovette avere un certo impatto.
La lettura di uno dei prologhi di 'Autonomi', invece, non mi ha riservato sorprese.

Lunedì, 11 agosto

Annotazione. Il “caso tessile” è troppo fuori moda; la lettura di Autonomi rischia di esserlo, anche se sono solo ai prologhi e dunque per me materia scontata, soprattutto sotto il profilo delle informazioni storiche che vi sono fornite.

Martedì, 12 agosto

Letture. La descrizione che fa di Genova, sub specie operaia, Giorgio Moroni, nell'opera collettiva sugli 'Autonomi', è di una precisione, sinteticità e realismo sconvolgenti. Meriterebbe, se gli interessasse e non l'avesse già, la cittadinanza onoraria. Privi di ipocrisia, inoltre, sono gli elementi analitici e la descrizione della genesi della colonna 'genovese' delle Brigate Rosse, come anche dell'attività dei gruppi, in una realtà impermeabile alla loro diffusione.
Il contributo ha un solo limite che, però, può essere tradotto in valore, poiché impedisce proiezioni analitiche sul presente e giudizi categorici sul passato, è un intervento quasi memorialistico, ma di ottima e ben distribuita memoria.

Mercoledì, 13 agosto

Annotazioni. Buona, ma chi può essere giudice di se stesso?, la maniera nella quale sto revisionando il capitolo su Aureliano, allo scopo di renderlo più fresco e immediatamente informativo, oltre che, per certi versi, 'modernizzare', con equilibrio, il personaggio, tenendosi lontani da legittimi ma troppo meccanici riferimenti alla cultura e politica della modernità, che ho sempre evitato. Certamente, però, gran parte di questi 'appunti in forma strutturata' è prodotto di una volontà di analizzare il presente attraverso il passato, che è, comunque, cosa ben diversa dal 'modernizzarlo', ovverosia dargli forme moderne. Per purissimo caso, e mi sia perdonato l'accostamento, proprio quando iniziavo quegli appunti, intorno al 1998 / 1999, usciva alle stampe 'Impero' di Antonio Negri: una stranissima coincidenza, questa, sulla quale ho spesso ragionato.
In effetti il mondo di Roma imperiale, soprattutto il tardo mondo, quello che viene definito, a seconda delle prospettive di lettura, tardo – antico o basso impero, mi ha affascinato per le incredibili anticipazioni che introduceva, tanto nella forma – stato, quanto nella forma sociale. Nella storiografia più accreditata e 'testata', questa anticipazione si limita al medioevo, nella forma di una localizzazione dell'economia e delle risorse militari, nella genesi della controversa ed embrionale idea di nationes e nel declino del concetto giuridico di proprietà privata, proprietà prediale, vincolata, in molteplici aspetti e maniere, al corpo del tenutario e ai corpi dei lavoratori (vulgo fenomeno detto gleba) e al consenso del sovrano.
Tutti elementi, questi, indiscutibili.
Quel che, però, mi interessava maggiormente era un carattere 'minore' storiograficamente del tardo – antico e basso impero, che è in netta collisione con i suoi esiti 'naturali' verso la società medioevale e, infine, in rapporti di produzione feudali; il fatto, inequivocabile, che la società tardo – antica è una società di massa o, meglio, massificata, secondo le inclinazioni culturali dell'epoca e secondo le capacità tecnico – produttive di quella.
L'assunzione del monoteismo, prima solariano e poi cristiano, la diffusione di un'ideologia etica uniforme non sono solo tutto il contrario del futuro e rinnovato particolarismo feudale, ma anche la prefigurazione di una forma – stato totalizzante alla quale corrisponde una società omogenea, per quanto era possibile dentro rapporti di produzione non egemonizzati da una particolare forma di appropriazione della ricchezza sociale.
L'anticipazione del tardo – antico va verso lo stato assoluto della modernità e prefigura anche, in maniera molto indiretta, una forma istituzionale centralizzata ma capace di fare presa sul territorio e i soggetti che lo abitano. In occidente questa, per me, innegabile 'modernità' si interruppe, in maniera quasi brusca, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, mentre in oriente perdurò lungo tutto il periodo medioevale nella forma dell'impero bizantino. Gli appunti in forma strutturata su Bisanzio sono stati, quindi, una necessità analitica ineluttabile e non solo per una specie di rispetto della cronologia, ma per il fatto che, avendo scritto di tardo – antico e basso impero non come un prologo al medioevo, ma come una possibilità per una 'modernità anticipata', la storia bizantina realizzava questa necessità analitica.
Per quanto riguarda l'opera di Negri confesso che non mi ha affatto entusiasmato: Negri parte (lo fa sempre nel suo operare intellettuale) da un postulato, la dimostrazione del quale pretende l'esistenza del postulato. Consiglierei lui di scrivere di storia e di non occuparsi di filosofia politica e ancor meno di lotta di classe (se esiste ancora nelle forme in cui immagina, ovverosia, ehm!, postula).

Annotazioni. Sembra quasi settembre: un vento freddo di ponente ha spazzato e continua a spazzare il paese; ne ho approfittato per rimettere a posto della legna abbandonata (in verità dei rami di un imprecisato albero) spaccandola con l'accetta, novità assoluta per me ed estremamente rilassante, in modo da renderla combustibile dentro un eventuale camino. Ho anche capito perché, spesso, si consiglia agli individui annoiati e troppo ansiosi di “mettersi a spaccare legna”, non è tanto la fatica fisica a giovare, quanto il risultato: da un ammasso intricato di rami e foglie secche raggiungere l'armonia di pezzi di legno di simile grandezza. C'è il segno indelebile del tuo intervento sulla natura che è il mistero e il fascino del lavoro contadino, che è un'attività di armonizzazione della natura fin dal neolitico. Oggi, ovviamente, per via dei processi di industrializzazione agricola è tutt'altra cosa.
In libreria ho acquistato il 'Contratto sociale' di Rousseau, edito per la Laterza, con traduzione di Nadia Garin; non so perché la scelta è caduta su quest'opera che, tra le altre cose, ho già letto molti anni fa.

Giovedì, 14 agosto

Ai margini di. Memorie. Ancora sulle letture e ancora sul cognome Moroni, ma di un altro, di nome Primo e di tutt'altra città, Milano, presente nell'opera collettiva sull'autonomia operaia. Al di là della splendida e sintetica descrizione di Milano come città radiale e policentrica, quello che mi ha colpito e quasi 'rapito' è stata la partecipazione, oltre che la correttezza analitica, con la quale ha presentato l'esperienza del movimento dei circoli del proletariato giovanile milanese del 1976, questo perché, sotto il profilo del mondo alternativo e antagonista degli anni settanta, Trento e Milano hanno avuto relazioni strettissime, non tanto organizzative quanto nei comportamenti. Quindi Primo scriveva di una realtà della quale ho fatto parte tra i sedici e i diciassette anni, dopo molti anni, nonostante la mia giovanissima età, di militanza in un gruppo di quella che era detta “sinistra rivoluzionaria”. A Man e San Bartolomeo (periferia sud di Trento, periferia schiettamente operaia) precisamente come alla Bovisa, Quarto Oggiaro, Cernusco, Pero (e chi più ne ha ne metta) a Milano cresceva il rifiuto del lavoro unito al rifiuto della politica e, come ben scrive Primo, il rifiuto del centro cittadino: il quartiere dove sei cresciuto diviene una specie di 'zona liberata', di riserva e il centro delle vetrine, dei supermercati e dei negozi un luogo estraneo, nemico, sul quale calare il sabato sera per divertirsi senza pagare nulla, neanche il biglietto dell'autobus che ti ci porta. Anche a Trento, dunque, vetrine sfasciate, negozi saccheggiati, cinema e concerti autoridotti e qualche volta botte con la polizia.
Tutto questo mi stupì, allora, abituato alla logica secondo la quale l'uso della forza doveva avere connotazioni eminentemente politiche e, dunque, razionali, mentre vedevo praticare da questi miei coetanei, 'schiopadeli' (un po' bevitori, un po' consumatori assidui di mariuana) un'azione diretta contro l'egemonia del capitale sul territorio urbano.
Poi, precisamente come a Milano, si è diffusa l'eroina e il riflusso e il movimento dei 'circoli' è sparito, senza, quasi, lasciare traccia di sé, tra la fine del '77 e gli inizi del '78 e dopo quell'incredibile avventura e stagione di aggregazione, crescita politica, crescita critica che si verificò, anche a Trento, nell'inverno e nella primavera del 1977, attraverso l'occupazione di tutte le scuole superiori, dell'università di Sociologia, della mensa e di qualche appartamento sfitto nel centro storico della città.
Il situazionismo, in quei mesi, divenne fenomeno di massa, come a Roma e a Bologna, mentre a Milano e qui va sottolineata una netta diversità con Trento, il vero movimento del '77 si espresse prima, tra '75 e '76. A Trento, paradossalmente, ciò che era partito nel '75 durò almeno ancora un anno in più, coniugandosi con l'insurrezione studentesca dei primi sei mesi del '77, ottenendo da quella nuovo vigore, portando in quello i suoi contenuti e contaminandolo.
Scrivere di quegli anni porta inevitabilmente a ragionare sull'eroina che, non a caso, viene spesso citata come una delle cause – effetto (nell'opera collettiva in questione, in più parti e contenuti) del declino e riflusso del movimento degli anni settanta, dell'autonomia diffusa e del '77, insieme con la scelta della lotta armata che, giustamente, viene considerata la 'seconda opzione' dopo l'eroina, l'altra faccia di quella medaglia.
A Trento prevalse assolutamente la prima faccia: che io sappia nessun militante dei gruppi, dei circoli o del '77 scelse le Brigate Rosse o Prima Linea. Fu l'eroina a divenire protagonista nelle 'riserve', negli 'spazi liberati', ma ora inoccupati, e nelle periferie, con una diffusione velocissima ed esponenziale, quasi da un giorno all'altro.
Il mio gruppo informale, nel quale 'militavo', dopo lo scioglimento, nel '76, dell'organizzazione, Lotta Continua, cui appartenevo è quasi emblema di una diffusione disorganizzata e smodata della critica, dell'azione diretta, quasi priva di ideologia che non fosse quella dell'assidua critica al presente e alla vita quotidiana. Non appartenevamo neanche allo stesso quartiere e quindi non eravamo neppure configurabili come circolo, eravamo un gruppo, che nei mesi assumeva diversi nomi a seconda delle occasioni.
Questo gruppo era formato da qualche ex di Lotta Continua, qualche simpatizzante molto distaccato dell'Autonomia ma, soprattutto, da giovani senza un passato politico e proprio per questo comunque rivoluzionari e ribelli su ogni aspetto della vita sociale, anzi molto più decisi in questo di noi che, invece, avevamo avuto un'esperienza e formazione extraparlamentare. La magmaticità della nostra situazione e di quella generale tra '76 e '77 è ben rappresentata dai rapporti instabili che nutrivamo con i circoli della periferia sud, che si riducevano ad alleanze temporanee in ragione di qualche evento specifico (aumento delle tariffe del trasporto pubblico, organizzazione delle luminarie natalizie nel centro storico da parte del comune, autoriduzione ai concerti e ai cinema e via discorrendo).
Famosa fu l'iniziativa del 'natale proletario', nel dicembre 1976, nel quale i circoli, i residuali di Avanguardia Operaia, i primi, piccolissimi, embrioni dell'Autonomia, che spesso si confondevano con i componenti dei circoli, e soprattutto moltissimi freackettoni, cani sciolti, schiopadelli, dei quali faceva parte il mio gruppo, organizzarono la contestazione del 'paradiso delle vetrine', abbattendo le luminarie, gli addobbi natalizi e spaccando a sassate i diffusori di musica che il comune aveva sistemato in ogni angolo di strada del centro storico. Qualche negozio di abbigliamento venne saccheggiato ('espropriato' si diceva) e le vetrine dell'UPIM andarono in frantumi, fino a che la polizia non intervenne e ci sciogliemmo, astutamente, senza neppur ingaggiar battaglia e ritornando in periferia. Innumerevoli questi episodi che, in forma residuale, si protrarranno addirittura fino al 1979, come negli scontri del gennaio di quell'anno, dove, al termine di una manifestazione e presidio antifascista non autorizzato, dopo alcune cariche della polizia, almeno quattro o cinque  gruppi di venti o trenta manifestanti ciascuno, si dispersero nella città, saccheggiando una decina di negozi e sfasciando le vetrine dei principali supermercati. In quell'occasione due automobili della polizia furono colpite da alcune molotov e saltarono in aria. Fu necessario l'intervento del battaglione celere di Padova per riportare la calma in città, che fu ottenuta solo a notte fonda, intorno alle due o tre del mattino.
In estrema sintesi devo confessare che se lungo tutto il '77 partecipai ad azioni di questo tipo, a questa 'illegalità spontanea e non programmata', proprio perché si dava alla luce del sole, faceva parte dei modi di essere del movimento ed era per certi versi 'esemplare' verso le altre componenti del movimento che, invece, erano sulla difensiva (intendo gli operai) e se ne rimanevano a casa o in fabbrica, non mi piacevano le teorizzazioni in base alle quali, anche nel gruppo, questo era l'unico vero modo di essere del movimento. Io ne individuavo e apprezzavo molti altri: l'ironia, spesso anche la non – violenza, il distacco, la satira e la consapevolezza che l'uso della forza era una necessità ma non una gioia.
L'idea che il modo di essere illegale fosse il vero, autentico e unico modo di essere del / nel movimento prese piede nel gruppo dopo la fine del '77 e soprattutto nel '78, dopo il rapimento Moro. In quell'anno queste pratiche divennero programmate, notturne e clandestine, anche perché il movimento era rifluito e anche noi, alla fine, eravamo rifluiti, pratiche che non potevano più avere più alcun impatto sull'immaginario collettivo, nessuna giustificazione politica e nessun effetto se non quello di una gratificazione personale e psicologica, un affermarsi, un dire 'ci sono / siamo ancora', che poi era quello che, su scala diversa e con qualità diversa, facevano le Brigate Rosse. Io, per di più, al contrario degli altri continuavo a far lavoro politico alla 'luce del sole' nella mia scuola dove riuscivo ad ottenere qualche successo e consenso.
Gli incidenti del gennaio '79, poi, furono del tutto insensati sia sotto il profilo della genesi, un presidio antifascista ridicolo e specioso al quale parteciparono circa duecento – trecento compagni, e nel suo epilogo, una specie di orda senza ordini e coordinamento lanciato verso un saccheggio indiscriminato, senza uno slogan, senza una scritta su un muro, ma solo molotov e sanpietrini da tirare e quei fatti mi convinsero ad abbandonare definitivamente quel che restava del gruppo, ormai indebolito da arresti (cinque o sei finirono, colti sul fatto, per qualche mese ospiti delle patrie galere) ed eroina, in una combine micidiale.
L'eroina fece proseliti in questo mondo separato proprio perché proponeva una definitiva separazione dalla società, una scelta totalizzante e radicale, un porsi con le armi della chimica al di fuori che era isomorfo all'al di fuori praticato con le armi della critica rivoluzionaria fino a qualche giorno / mese prima. Almeno quattro o cinque degli appartenenti al gruppo (intorno a noi giravano in alcuni momenti anche trenta ragazzi), tra la fine del '77 e gli inizi del '78 principiò a far uso della polvere, rimanendoci dentro, chi più, chi meno. Sono certo che l'illegalità dell'eroina abbia favorito la sua diffusione, il che potrebbe apparire un paradosso, proprio perché si rimaneva in forme chimiche su un terreno antagonista e di rifiuto, e perché imponeva, necessariamente, una vita nell'illegalità (il furto, la spaccata, l'autoradio) e nella prosecuzione del non – lavoro, nel rifiuto del lavoro praticato nell'esistenza, nella concretezza.
Solo in questo senso e proprio per questo l'eroina è diventata e viene classificata come una droga pesante, che provoca tolleranza unita a dipendenza fisica, ma, nella realtà, nella sua fase iniziale e questa può durare anche mesi, la vera 'scimmia' verso l'eroina è di carattere psicologico, poi, ma solo poi, quasi che uno lo decida, si sceglie anche la dipendenza fisica e il definitivo annullamento di sé. È un processo questo abbastanza simile a quello che riguarda l'alcol, introdotte le dovute e necessarie differenze tossicologiche, che sono evidenti, secondo me.
Proviamo, a questo proposito, a immaginarci di ribaltare la legislazione, rendendo perfettamente legale l'eroina, che verrà distribuita in supermercati, in bar  e negozi specializzati (eroinoteche), in bustine variopinte a seconda della qualità, delle modalità d'uso (da endovena, intramuscolare, da inalare, da mescolare con il tabacco e fumare) con le quali si potrebbe creare una varietà merceologica di almeno una ventina di prodotti e, contemporaneamente, proviamo a immaginarci la proibizione assoluta dell'alcol, elevato a droga pesante e il cui uso può essere solo terapeutico. In questa ipotesi al mercato illegale una bottiglia di birra costerà venti euro, di vino cinquanta, di grappa duecento.
Sono convinto che la quasi totalità dei bevitori smetterebbe di bere e solo gli etilisti cronici, e una minima parte di loro, si metterebbero a rubare per comprare al mercato nero.
Non così per l'eroina che dopo anni di distribuzione legale avrebbe creato un gruppo di dipendenti fisici ben più vasto. Senza fare l'elogio dell'alcol, non è per me questo il momento e il caso, va ammesso che gli alcolici producono una dipendenza psicologica (simile a quella esercitata dall'eroina e imparentata con quella: separazione, costituzione di un'identità per certi versi critica, euforia, tranquillità, apparente serenità etc. etc. sono tutti i risultati dell'uso di entrambe le sostanze) ma una sostanzialmente bassa (fatta eccezione per particolari fisiologie) dipendenza fisica: uscire dall'alcol, anche per gli etilisti cronici (quelli, intendo, che fanno colazione con una grappa o due o tre bianchi per poi proseguire così tutta la giornata) è abbastanza facile sotto il profilo degli eventi fisici, se poi l'alcol fosse bandito e non si trovasse a ogni angolo di strada e a prezzi contenuti sarebbe facilissimo.
Uscire dall'eroina, per l'eroinomane, significa letteralmente abbandonare un sostituto di sé anche dal punto di vista biochimico, ritrovarsi senza il ciclo delle endorfine, soffrire di dolori acuti e immotivati, brividi e tremori incontrollabili, patire diarree violente, subire un'assoluta inappetenza e questo per giorni e giorni, alle quali si aggiunge, come per l'alcolista, l'effetto della dipendenza psicologica: depressione, assoluta perdita del significato della vita.
Alcol ed eroina, comunque, si assomigliano tanto è vero che se, in quegli anni, buona parte dei miei compagni scelse l'eroina, io, animato dalle stesse ansie e delusioni, scelsi, in maniera abbastanza moderata e 'sostenibile', l'alcol.

Venerdì, 15 agosto

Letture. Ho terminato la lettura del De vera religione, con un'impressione positiva, non tanto per l'opera in sé, ma perché richiede e provoca al contempo distacco e un'aspirazione all'introspezione, anche se di segno squisitamente occidentale e quindi tutta votata all'etica e se si vuole all'utilitarismo e alla praticità. Alla fine il De vera religione è un'opera cinica, nel senso moderno e volgare del termine.
Sentimenti quasi opposti procura la lettura di 'Autonomi', soprattutto quella di alcuni contributi dell'area milanese dell'Autonomia, qui sono i miei ricordi oltre che il loro riemergere: il risultato è partecipazione emotiva, ragionamento (spesso affannato) sulle cose e gli eventi e assoluta mancanza di elemento introspettivo. Inevitabile, poi, la malinconia che deriva dal senso di sconfitta presente ovunque in quelle pagine: malinconia per una grande occasione persa, per lo smarrimento di quella felicità, seppur infantile, seppur, per certi versi, 'imbecille'.

Ai margini. Letture. Alle volte le letture si incrociano, quasi sovrapponendosi, anche nei loro risultati: l'incontro tra un brano autobiografico scritto da Maria Rosa Belloli, presente nell'opera collettiva sugli Autonomi, scritto nel lontano 1984 e l'inizio della lettura del 'Contratto sociale' di Rousseau hanno prodotto un ragionamento utopico ma interessante, almeno per me, che ne sono l'autore. La Belloli, quando scrive è in carcere, essendo stata una militante delle Brigate Rosse e quando il libro che ne raccoglie la breve testimonianza viene edito, nel 2007, è ancora in carcere con una condanna all'ergastolo, vale a dire a vita. Non so di quali attentati e crimini sia stata accusata Maria Rosa, so solo che quando ha compiuto la sua scelta era appena maggiorenne con una vita, a quanto scrive, non particolarmente facile (sotto il profilo economico e sociale) alle spalle e che quella stessa vita la terminerà in carcere (fatti salvi sconti di pena o una conversione a regimi di detenzione più morbidi).
Ebbene, rousseaunianamente, opterei per il mantenimento di una simile punizione nel diritto, sotto forma di una sorta di minaccia, di spauracchio giudiziario, ma renderei la condanna a una simile pena non applicabile, anche se emessa, poiché in assoluto conflitto con l'interesse generale, dell'individuo e della società e soprattutto con la moralità e il buon senso. Anche i parenti delle vittime non sapranno che farsene di sapere che a vent'anni dalla perdita del loro congiunto, l'assassino è ancora sotterrato in una cella; anche il più vendicativo tra quelli, credo, avrà qualche dubbio sull'opportunità della cosa. La società, poi, quale pericolosità potrà reperire in un individuo dopo decenni di detenzione e isolamento, durante i quali, tra l'altro, il contesto dei crimini e i loro moventi si sono dissolti? Credo nessuna.
Infine, quale moralità si forma attraverso l'esempio di un uomo che per una serie di sbagli commessi perde per sempre la possibilità di sbagliare, almeno in maniera socialmente rilevante? La moralità della negazione dell'errore, la morale dell'impossibilità della libera scelta, la morale della coercizione e dunque la negazione della morale (ancora Rousseau ex cathedra).

Sabato, 16 agosto

Memorie. Ripensando agli anni affrontati dal primo volume di 'autonomi', mi è venuto in mente anche questo posto, Castel del Piano, che non fu completamente immune dal fenomeno. L'avverbio “completamente” è molto appropriato perché, precisamente come descritto da Giorgio Moroni per Genova, il Partito Comunista Italiano fece barriera attraverso la sua articolazione organizzativa fin dentro le famiglie contro le nuove insorgenze e stili di vita. Si creò, comunque, un'area giovanile alla sua sinistra, che aveva il suo baricentro intorno al Bar 'D', dove il giornale più letto era il Manifesto e che raccoglieva, in maniera informale, una ventina – trentina di giovani. Ci fu, che io sappia, intorno al '75 / '76 il tentativo di formalizzare questa presenza con l'apertura di un piccolo locale, una specie di 'circolo' in corso Nasini. Delle concrete iniziative di questo gruppo, però, non so praticamente nulla: tranne che di un corteo, organizzato autonomamente, al centro del paese che vide l'adesione di un centinaio di persone.
Gli stili caratterizzanti quest'area erano i soliti: uso della mariuana, letture alternative, il Manifesto (che era l'unico giornale della sinistra 'rivoluzionaria' che veniva distribuito tramite i normali canali di distribuzione della stampa) e serate al Bar 'D', oltre che inoccupazione stabile. Poi anche qui, forse peggio che a Trento, arrivò l'eroina, che si diffuse in maniera impressionate tra i giovani proletari dell'area amiatina, fino al punto di divenire un autentico problema sociale e di ordine pubblico: a Castel del Piano erano almeno una cinquantina di 'tossici'. Fu tutto risolto in maniera militare: nel 1981 un blitz della polizia di stato, seguendo il modello Dalla Chiesa, pose il paese  in stato di assedio, arrestando decine di persone tra spacciatori e semplici consumatori. Anche qui, per certi versi, si chiuse il ciclo degli anni settanta.

Domenica, 17 agosto

Letture. Faccio molta fatica a comprendere, nel pensiero di Rousseau, l'esatta collocazione del potere sovrano, vale a dire come lo stato assoluto possa rappresentare la 'volontà generale'; a tratti Rousseau sembra dare legittimità all'istituto monarchico, in altri no. Molto interessante, in questa edizione, il fatto che le note al testo sono quelle introdotte dall'autore, con citazioni di Machiavelli davvero illuminanti e sublimi. L'opera, nel suo svilupparsi, è molto vivace intellettualmente, quasi affannosa.

Letture. 'Autonomi'. In altri interventi sull'esperienza veneta ho trovato un po' di cattiva coscienza che, all'epoca, fu anche mia. Ho trovato la pretesa (costruita a posteriori a mio parere) che il movimento, dopo aver enfatizzato certi comportamenti illegali, li avrebbe controllati; in verità non è affatto così perché, in primo luogo, non li ha controllati e, in secondo luogo, spesso li ha praticati senza alcun auto – controllo, facendosi trascinare dalla deriva psicologica. Il disastro del '79 – '80 nasce anche da questo gravissimo errore e dalla sottovalutazione, che allora si fece, di quest'errore: era terribilmente 'fuori moda', ormai, denunciare certi comportamenti e presto divenne 'fuori tempo', perché ci pensò la ristrutturazione 'globale' a denunciarli e sotterrarli e, davvero, in pochissimo tempo, la qual cosa dovrebbe dare da ragionare sulla serietà di alcuni comportamenti.

Martedì, 19 agosto

Letture. Finalmente qualcuno, nell'opera collettiva sugli autonomi, ha affrontato anche gli anni ottanta, o meglio il primo lustro di quelli, non a caso, il contributo è di un ex appartenente al movimento bolognese: i bolognesi si distinguono, come si distinsero notevolmente anche allora, per i loro deragliamenti dalle forme che dal dopo '77 (ma anche durante il '77) il movimento aveva assunto, privilegiando assolutamente uno dei suoi modi di essere contro tutti gli altri.
L'area padovana e romana si erano rifugiate nella coazione verso l'organizzazione, identificando organizzazione e movimento, stabilendo così una semplice e assolutamente bugiarda equazione. Altre aree avevano fatto dello 'spontaneismo armato' la loro ragion d'essere, il dimostrarsi in vita del / nel movimento, rispettando in forme diverse, l'equazione di poco sopra, altre, ancora, erano scomparse.
Il movimento, nei primi tre – quattro anni degli ottanta, si diede e perpetrò nelle forme della resistenza, della residualità e si ridusse, quasi a elemento testimoniale, chiuso, anche analiticamente, verso qualsiasi nuovo fenomeno: schegge dei settanta dentro gli ottanta, null'altro.
L'intervento dell'ex militante di Bologna descrive bene questo processo nella genesi dei primi centri sociali che furono contraddistinti da questa contraddizione e scontro tra 'testimoni' e soggetti sociali che venivano fuori in maniera debole, necessariamente, e politicamente 'impropria'. Anche a Genova, l'esperienza dell'Officina ha registrato questo fenomeno. Di Genova dei primi anni ottanta, Genova dove rientrai da Trento nel 1981, mi piacerebbe scrivere (ma non ora), soprattutto del periodo che va all'85, anno in cui abbandonai definitivamente la politica attiva, a fronte del fatto che il movimento antagonista (tutto volto alle tematiche dell'imperialismo e del nucleare) aveva perduto ogni modo di essere.
Quel che mi preme fino da adesso fissare è il fatto che in una città dove il '77 fu una miniatura, una rappresentazione rituale e iconografica di quello che altrove accadeva, ben riassumendo le difficoltà che il movimento antagonista aveva incontrato nel decennio, il pensiero alternativo e rivoluzionario fu, in gran parte, un fenomeno di importazione e ciò, dopo il '79 – '80 e la ristrutturazione 'globale', determinò una grande confusione, ma non positiva, negativa: i compagni si aggrapparono chi all'uno chi all'altro ai diversi spezzoni delle schegge che rapimento Moro e Dallachiesismo avevano provocato: lotta armata, padovani, 'area Negri', area o sentimenti bolognesi e pochissimo, davvero risibile, se non nelle macchinazioni poliziesche e montature pubblicistiche, 'spontaneismo armato', un nulla, e scrivo fortunatamente, rispetto ad altre realtà, anche quella trentina.

Mercoledì, 20 agosto

Letture. Meglio non scriverne dopo una giornata come questa ma, in estrema sintesi, mi sono imbattuto nei contributi dell'area romana dell'autonomia; molto 'gruppettari', pieni di orgoglio ma anche di buon senso, quel buon senso che mancò a buona parte del fronte autonomo in quegli anni e che neanche a me, all'epoca, nell'assoluta confusione  e schizofrenia che mi governava (tra coazione alla militanza tradizionale, tentazioni illegali, fascinazioni desideranti bolognesi)  piacque e che confusi con un rinnovato leninismo post – operaista, mentre il resto, Milano e Padova, sembrava percorrere sentieri nuovi, non sperimentati. Oggettivamente, nonostante il fortissimo radicamento a Roma, direi viscerale, il collettivo autonomo di via dei Volsci si mosse e fu sempre vissuto come una componente minoritaria, settaria, economicista e 'partitista', in un giudizio probabilmente ingiusto, capace di portare al massimo frutto solo le esperienze della prima metà degli anni settanta e quelle di riprodurre, ma incapace di comprendere la nuova emergenza e con quella la nuova teoria che, però, non era altro che la riproposizione, in nuovi abiti, dell'autonomia del politico di Tronti sub specie Negri.
Per quanto riguarda Rousseau mi sto avvicinando nella lettura, lo credo e lo spero, al punto in cui espliciterà la sua posizione sul sovrano e sulla monarchia, cosa che fino ad adesso mi è rimasta difficile da interpretare.
È notte fonda ed è meglio che vada a dormire, anche se sono pieno di pensieri, quasi una tempesta di quelli. 

Giovedì 21 agosto

Letture. Ancora sulla lettura di Rousseau nel contratto sociale. Se speravo di trovare un preciso riferimento all'attualità politica (la Francia di Luigi XV) mi sbagliavo: il concetto di sovrano e sovranità in Rousseau si sovrappongono. Esistono indiretti riferimenti storici, insieme con delle potenziali fughe prospettiche verso il futuro ma, come nel Marx dei 'Lineamenti' ovvero i 'Grundisse', queste sono indirette (e su quelle tornerò dopo aver letto il capitolo sulle forme di governo che ora mi attende), ma l'opera del ginevrino è sostanzialmente anti – storicista, generalizzante, un trattato di sociologia assoluta, cioè slegata dalla concretezza dell'oggetto. I concetti di volontà generale, corpo sociale, stato, sovrano, principe e governo sono, in verità, astrazioni. L'idea dei loro rapporti reciproci e della loro validità, al contrario, sono concetti storici e hanno un valore ideologico. Rousseau scopre un po' prima di Hegel lo stato come supremo interprete della volontà generale e la volontà generale come riassunto massificato e spesso totalitario e indiscutibile politicamente del corpo sociale / politico che ne è, al contempo, causa ed effetto: volontà generale e corpo politico sono sulla stessa sfera, quasi perfettamente coincidenti.

Venerdì, 22 agosto

Letture. Prosegue la lettura di Rousseau mentre l'opera collettiva sugli Autonomi affronta l'area autonoma del mezzogiorno: notevoli i contributi, per freschezza e vivacità, su Napoli e Basilicata (Lucania nel libro), meno convincente quello sulla Puglia, anche le espressioni politiche di quella particolare storia rasentano l'ingenuità, anche se, a tratti, sono davvero commoventi.
Per quanto riguarda Rousseau, mi sto chiarendo sempre più le idee che sono molto critiche; se mi capita la voglia ne scriverò.

Sabato, 23 agosto

Letture. Bellissimo, perché capace di rappresentare in maniera immediata, senza pretese analitiche ma con grande amore per la propria terra e intelligenza nell'interpretare le reali esigenze di quella, l'intervento di un certo Cirillo sull'autonomia 'proletaria', come la dice lui, in Calabria: lotte di interi paesi, contadini nel movimento, municipi occupati, come durante i fasci siciliani del 1893.

Domenica, 24 agosto

Annotazione. Che tristezza i telegiornali regionali, ne ho visti un paio in questi giorni, sono confezionati con un provincialismo e localismo che riescono a esserne addirittura la caricatura, rappresentando un territorio nel quale si fa fatica a riconoscersi, e sono appiattiti, in maniera spudoratamente chiara, apertamente confessa (per così dire), sulle esigenze economiche ora delle imprese, ora dei commercianti, ora delle irriconoscibili comunità; pare quasi di vedere davanti alle telecamere passare i suggerimenti, le pressioni e anche qualche piccolo finanziamento per la redazione; le 'marchette' giornalistiche di un tempo si dichiaravano, oggi, invece, c'è ben poco da dichiarare: è la normalità dell'informazione a carattere locale e localista.

Mercoledì, 27 agosto

Letture. Libro collettivo sugli 'Autonomi'. Ho iniziato il secondo volume, che contiene un'ottima, documentata e precisa cronologia '73 – '79 (purtroppo si ferma tutto al '79 e questo è il grande, anche se, credo, voluto limite dell'opera), con un'antologia di interventi contemporanei ai fatti. I primi intorno all'assemblea dei comitati autonomi operai in Bologna (marzo '73), due  contributi di Negri sulla coeva lotta a Mirafiori (“Il partito di Mirafiori”), che è ottimo nell'incipit e poi inconcludente, quando, dopo aver esaltato il portato di quell'ondata operaia (se ne parlava anche a Lotta Continua di quella stagione come riferimento anche se veniva percepita più come un episodio eccezionale che non un evento con valenze strategiche), individuando la costituzione di una direzione spontanea e operaia, il Partito – Mirafiori appunto, poi ne denuncia i limiti nei confronti dell'ondata di lotte di tre anni prima (incapacità di parlare al quartiere e all'esterno della fabbrica), lasciando in un'aporia teorica spaventosa il lettore; un altro contributo di Negri sullo scioglimento di Potere Operaio e sull'adesione alla nascente autonomia (sempre del '73) veramente poco concreto e spesso fumosa la descrizione del futuro profilo strategico e organizzativo. Bellissimo, al contrario, l'intervento del gruppo Gramsci (datato dicembre '73) sullo scioglimento del gruppo, sulla crisi generale dei gruppi e soprattutto sul 'nuovo modo di fare politica' che, davvero, rende quasi ininterpretabile la convergenza con Negri, che ci fu, e che anticipa teorie pienamente espresse nel '76 – '77 e che ricorda da vicino le tendenze e le teorizzazioni della componente di 'sinistra' di Lotta Continua (penso a Firenze e a parte dell'organizzazione di Roma e Torino) del periodo '74 – '75, poco prima dello scioglimento.
Io, all'epoca, ero schierato sul fronte opposto: organizzazione come processo della centralità operaia nella forma dell'autonomia operaia, quindi abbastanza vicino a Negri (che non conoscevo, ovviamente, e neppure avevo letto), sulla necessità del 'partito' o meglio Lotta Continua come riassunto politico del vero antagonismo proletario. In LC forse i milanesi esprimevano al meglio questo fronte analitico. Più che di un  fronte opposto si trattava di una frazione 'intermedia', una sorta di 'centro' che faceva della difesa dell'organizzazione dell'autonomia operaia dentro Lotta Continua la sua identità. C'era, in effetti, una vera 'destra' in Lotta Continua tra il '75 e il '76 che, nei fatti, depotenziava il concetto di autonomia operaia  e di bisogno naturale di comunismo, costitutivi nella teoria di LC, occhieggiava già a uno scioglimento nel movimento, ma non tanto verso l'autonomia operaia come fatto organizzato ma, semmai, verso quel complesso di situazioni che venivano allora definite di “sinistra sindacale” e, probabilmente, questi compagni pensavano seriamente di ridurre la nostra esperienza a qualche spazio politico – organizzativo in quegli apparati periferici del sindacato, magari ben contraddistinto e che funzionasse come nostro 'organismo di massa' egemonizzandoli.  Preferivo, ovviamente, come organismi di massa la base dei Consigli di Fabbrica delle fabbriche più combattive o il coordinamento dei delegati autonomi della IGNIS – IRET (annate dal '76 fino, addirittura, al '79).

Giovedì, 28 agosto

Ai margini. Sempre ai margini di 'Autonomi'. E memorie.
Ricordo il '76, anno dello scioglimento di Lotta Continua, in cui la 'sinistra' prese il sopravvento e le lotte delle scuole professionali ci portavano in sede decine e decine di nuovi compagni e soprattutto compagne e di transfughi dalla F.G.C.I.. Dopo un inizio anno di stagnazione e una seconda fase del '75, con il contratto, in cui l'obiettivo delle 35 ore si affermò ma non egemonizzò le assemblee operaie e sindacali, e gli operai iniziavano a disertare la sede (di duecento che erano ne rimasero una cinquantina che era, comunque, una bella cifra), ci fu questo afflusso incredibile di giovani donne. A Trento Lotta Continua fece quello che a Milano stava facendo l'autonomia ossia assunse lo stesso ruolo: nella catena di occupazioni scolastiche del '76, la F.G.C.I. non aveva diritto di parola, appena prendeva il microfono erano fischi, bordate di fischi, non organizzati da noi ma spontaneamente sorti dalla massa degli studenti: lo avevano capito da soli e noi non li avevamo insegnato niente.
Quello che ci separava da Autonomia Operaia (e mi limito a Trento nel mio ragionamento), ed era una separazione ereditata dalle divergenze con Potere Operaio, era il modo di intendere l'uso della forza e dell'illegalità: noi non credevamo all'esemplarità dell'azione diretta e avevamo un 'decalogo', non certo non – violento, intorno all'uso delle armi, armi sub specie legge Reale (vale a dire molotov come armi da guerra secondo la allora recente equazione legislativa).
1 - l'uso della forza doveva essere commisurato alla situazione e maturità del movimento e in questo era perfetta l'assonanza di vedute con Potere Operaio e Autonomia.
2 – il livello dello scontro doveva essere scelto dal movimento di massa e non viceversa imposto dall'esterno del movimento e anche qui, più nella forma che nella sostanza, coincidenza con Potere Operaio e Autonomia Operaia.
3 – il riferimento per la valutazione del livello dello scontro non dovevano essere le avanguardie, i momenti più alti dello scontro e del dibattito dentro la classe, ma si doveva operare una valutazione complessiva su tutte le componenti del movimento, anche le più arretrate e indifese: e questo ci separava sia da Potere Operaio che dall'Autonomia.
4 -  lo scontro militare aveva una valenza politica immediata (in accordo con P.O. e Aut. Op.) ma una sconfitta subita sul terreno militare diventava immediatamente una sconfitta politica (il riferimento ai fatti della Scala e ai suoi effetti fu la prova del nove per questo ragionamento), ergo l'uso della forza, anche da parte di una minoranza doveva tener presente il fatto che nel corteo e dunque nel movimento erano presenti altre componenti, altre composizioni sociali, che non andavano per nessuna ragione esposte al contrattacco della polizia.
5 – infine una valutazione di tipo etico: il comunismo non era solo il bisogno di una classe, ma dell'intera società, anche degli appartenenti alla classe nemica, il comunismo era la completa ed effettiva liberazione di ognuno. L'uso della forza, che implica in alcune casi la morte del nemico di classe, doveva essere il più possibile ridotto: anche il nemico, sconfitto, avrebbe dovuto godere dei benefici della nuova cooperazione sociale.

Venerdì, 29 agosto

Letture. Sono andato avanti con Rousseau, quando, per spiegare il funzionamento di legislativo e magistratura e la genesi delle loro attribuzioni fa costante riferimento al periodo monarchico e alto – repubblicano di Roma. Mi è parso un po' pedante ma interessante e molto puntuale e informato. Il vero grande difetto di Rousseau  sta nell'astrattezza, nel modo in cui le sue categorie analitiche non fanno, spesso, riferimento alla socialità concreta.
Letture. Finito di leggere il 'Contratto', più avanti i commenti.

Sabato, 30 agosto

Letture. Davvero difficile esprimere un giudizio sul contratto sociale di Rousseau. Per certi versi l'opera si è rivelata sfuggente oppure io sono sfuggito dall'opera. Non è certamente un classico della democrazia e questo è un merito, nel senso che Rousseau non banalizza il problema della democrazia; è certamente un classico del potere, nel senso che il concetto di volontà generale come fondamento di qualsiasi corpo politico, seppur censurabile, è notevole ed è notevole nella misura in cui è 'storicizzabile' ed esprime un nuovo concetto di consenso, emergente nel XVIII secolo, che è quello della borghesia. Certo è che Rousseau ha troppo presente e vicina l'esperienza dei parlamenti feudali di Francia per creare una relazione diretta e lineare tra volontà generale → generazione del corpo politico → creazione / acquisizione del consenso → democrazia. Questa linea sarà sviluppata solo in epoca giacobina. Rousseau non può sbilanciarsi in tal senso e le condizioni della democrazia, anche diretta ed evoluta che lui spesso immagina come adatta a particolari situazioni, si limitano, infatti, alla realtà locale e infine al relitto localistico della Francia dei parlamenti o della Ginevra dei borghigiani o di Venezia del patriziato.

Domenica, 31 agosto

Letture. Autonomi (2° volume), anno 1974, interessante l'intervento sul salario / lavoro domestico, non tanto per l'obiettivo proposto (salario) ma per l'analisi (lavoro). L'obiettivo, anche se, a mio parere, intrinsecamente sbagliato, era corretto in termini generali perché poneva la questione strategica del lavoro domestico come lavoro connaturato a un genere, coessenziale con quello,  e dunque un lavoro necessario ma non riconosciuto dal capitale sotto il profilo della normale contrattualità che riguarda il resto del lavoro, quindi un non – lavoro.
La richiesta del salario domestico punta a scardinare questo assunto non – lavorista relativo al lavoro domestico, a mettere in discussione il ruolo della donna (riproduzione della forza lavoro, sua conservazione e crescita e dunque lavoro biologico, intellettuale, morale, emotivo e sessuale) che era quello di svolgere un'attività che, paradossalmente, proprio perché possiede un'altissima intensità pre – sociale (richiede e implica il controllo di sé, degli stati d'animo, del tempo della propria vita che coincide con il tempo di questa attività priva delle connotazioni del lavoro secondo la normale contrattualità, e che è alla fine un tempo di lavoro disteso sulla socialità) non può essere pensata come lavoro e quindi non può essere retribuito ma, invece, deve essere legato naturalmente, all'appartenenza a un genere.
Questo sul lavoro domestico, seppur censurabile, è l'unico contributo presente nell'antologia relativa a quell'anno non storicizzabile e ancora, dunque, valido in larga parte; gli altri contributi (divertente un articolo dell'assemblea autonoma dell'Alfa Romeo di Milano sul ruolo di operai e intellettuali nell'organizzazione che è rozzamente e brutalmente operaista, meccanicista e quasi infantile) già l'anno seguente sarebbero stati 'vecchi e datati'.

Letture. Ho scelto di mettermi dietro a un'opera della quale ho sentito spesso parlare e nella quale mi sono imbattuto solo indirettamente e sulla quale ho letto molti giudizi e riferimenti ma che non ho mai preso in mano e letto, l'Apocalisse di Giovanni, con testo latino a fronte, traduzione della vulgata di Massimo Bontempelli, edita per i tipi della Feltrinelli nel 1992; di Giovanni ho letto solo il vangelo omonimo con il famoso e moderatamente apocalittico incipit: “all'inizio era il Verbo”.

Ai margini di. Letture. Per quanto riguarda 'Autonomi' siamo al 1975, con le luci e le ombre di quel periodo di analisi. Da un parte è la fumosità, pomposamente esposta, al punto che sembra di leggere un trattato di teologia dove le parole hanno un peso tale da perderlo, della necessità della costruzione del 'partito' (estratto da Linea di condotta da proibire per l'italiano usato); sette pagine scritte allo scopo di cercare di dire, eventualmente e forse, qualcosa senza sbilanciarsi su nulla e in nessuna concretezza: sette pagine di parole. Dall'altra parte la schiettezza e freschezza di due articoli tratti da A/Traverso sul proletariato giovanile (concetto quasi nuovo in quell'anno) – la ristrutturazione – la nuova forma del comando del capitale – la possibile / probabile forma della risposta comunista.
Il 1975 fu, davvero, un anno cruciale (anche se un po' meno, a mio parere, di quello immediatamente seguente), percorso dal rinnovo contrattuale dei metalmeccanici e le ipotesi sulle 35 ore (il 'lavorare meno, lavorare tutti'), la ristrutturazione che licenziava e al contempo la disoccupazione che iniziava timidamente a venir vista come 'libertà' dal lavoro e quindi nessun ricatto sugli occupati e nessun esercito di riserva. La crisi non generava i soliti meccanismi di stratificazione nella soggettività tra le diverse componenti della classe subalterna, nel senso della divisione dentro di quella, e rimandava, quindi, o annullava, sempre secondo A/Traverso, il problema della costruzione del 'partito' come momento indispensabile alla ricomposizione politica della classe giacché non si era data scomposizione. Teorie queste che erano molto vicine alle mie, seppur militassi in Lotta Continua e non sapessi neppure che A/Traverso veniva pubblicato.

rivedi agosto

Inizio anno


Lunedì, 1 settembre

Letture. Prefazione dell'Apocalisse. Mi sono soffermato sul problema della datazione, inscindibile da quello dell'identità dell'autore. Per i protestanti siamo sotto Vespasiano (69 – 79) e dunque Giovanni autore dell'Apocalisse è l'evangelista, per i cattolici siamo sotto Domiziano (81 – 95) e dunque Giovanni è l'evangelista in età avanzatissima, per altri ancora è opera degli inizi del II secolo (scritta in un greco sgrammaticato e inusuale alla tradizione evangelica) di un Giovanni presbitero molto conosciuto tra le chiese dell'oriente.
Una datazione imprecisa è eloquente delle difficoltà interpretative sull'opera. Come ancora di più, secondo Andrea Tagliapietra, autore della prefazione, i dubbi intorno alla reale ispirazione dell'opera che, soprattutto nel mondo orientale, ma anche tra i protestanti, venne accusata di essere influenzata dal marcionitismo, eresia coeva, e poi di essere un'opera di tipo origeniano a causa della concezione del male come non eterno; ma soprattutto il suo carattere apocalittico di 'disvelamento' del tempo, di opera, descrizione e visione al di fuori del tempo e l'idea di essere l'opera di chiusura 'ufficiale' della rivelazione profetica dentro il mondo cristiano fu da più parti contestato.

Martedì, 2 settembre

Letture. Apocalisse di Giovanni. Si leggono le invettive contro i nicolaiti di Giovanni operata da parte della 'rivelazione' “di ciò che fu, è e che verrà”, apparso come una figura dai capelli bianchi, con la faccia viva e folgoreggiante come il sole, con in mano una spada a doppia lama e i sette candelabri e i sette sigilli.

Mercoledì, 3 settembre

Letture. Apocalisse. A tratti sembra opera di un autore ebraico (la descrizione del tempio con l'atrium riservato ai pagani) vissuto prima del 70; potrebbero, però, essere reminiscenze, anche perché la definitiva 'romanizzazione' di Gerusalemme avvenne sotto Adriano (117 – 138). Qualche indizio personalissimamente interpretato mi porterebbe a datare la stesura della 'rivelazione' proprio a quell'epoca e in ambienti influenzati dal marcionitismo.
I nicolaiti ai quali si fa riferimento negativo erano un'altra setta gnostica, diffusa in medioriente (il nome da un certo Nicola di Antiochia) che riteneva Jahvè, il dio ebraico, un dio imperfetto e limitato da contrapporre a quello del nuovo testamento. Venivano accusati di praticare una vita libertina e priva di morale.
La grande meretrice, regina seduta sul trono di Babilonia posta su sette monti è inequivocabilmente Roma, della cui rovina piangeranno tutti i re e i mercanti della terra perché, viene scritto espressamente, verranno a mancare commerci e contrattazioni. Un altro riferimento storico abbastanza stringente è nel prosciugamento dell'Eufrate in modo tale che il re dell'oriente (ab ortu solis) possa attraversarlo. È stranissima, infatti, in un contesto nel quale tutti i fiumi saranno contaminati dal sangue, secondo il disegno apocalittico 'generale' della fine completa dei tempi, questa azione particolare e dedicata che apre la strada a un evento storico. La relazione con le guerre romano – persiane mi pare consona, qui l'apocalisse dovette influenzare certo 'pensiero politico' cristiano del III secolo ed essere influenzato, in negativo, dagli effetti della reductio ad unum traianea dell'oriente (115 circa) con conseguenti turbolenze nelle città della diaspora ebraica orientale.

Giovedì, 4 settembre

Letture. Apocalisse. Siamo alla descrizione della Gerusalemme celeste e delle sue dodici porte di margaritae (di perla), illuminata da luce divina e non solare e sono continui i riferimenti al tempio (che, però, nella Gerusalemme celeste non c'è) e alla seconda e definitiva morte che è anche morte del male.
L'opera è, a mio parere, intensamente anti – manichea e sembra, a tratti, venuta fuori da un giudaismo cristianizzato. Pare di sentire l'odore della guerra giudaica, ma quale delle due? Quella descritta da Flavio Giuseppe, che si svolse sotto Vespasiano, e il riferimento ai sette re di Roma, cinque che furono, uno che è e il settimo che sarà l'ultimo e parte del disegno dell'anticristo, sua componente, porterebbe a pensare proprio all'epoca di Vespasiano o a quella di Galba (a seconda delle elencazioni che si scelgono) ma sempre al 69, ma se, al contrario, quel parametro cronologico portasse all'epoca, invece, della seconda e definitiva distruzione del tempio, allora saremmo in epoca adrianea e durante la seconda e ultima rivolta ebraica.
A quest'ultima ipotesi, giudaizzante, Tagliapietra non pensa nella sua prefazione, eppure mi parrebbe verosimile.
Oggettivamente nulla di più anti – manicheo in quest'opera, dove il dio biblico e il suo Verbo trionfano e distruggono il male dopo la 'seconda morte'; la 'prima morte' è da identificarsi con la prima venuta di Gesù e la sua battaglia 'celeste' e terrena che sono unite nello scritto in immagini non districabili. Il cuore dell'Apocalisse è la contemporaneità degli eventi, la loro uscita dal governo del tempo.

Venerdì, 5 settembre

Letture. Dopo l'Apocalisse ho trovato abbandonata in libreria un'opera su Nietzsche dal titolo affascinato e intrigante: “Nietzsche: la scienza sul Vesuvio”, scritto da Antimo Negri ed edito per la Laterza nel 1994, collana il Quadrante. Mi sono lasciato andare all'intrigo e alla curiosità che mi dominava; d'altronde credo di aver letto tutto di Nietzsche e sempre attraverso l'edizione Adelphi con introduzione del chiarissimo Giorgio Colli e quindi non dovrebbe essere una lettura fuori dalle righe dei miei interessi. Nietzsche ho iniziato a leggerlo nel lontano '76 e credo che nell'85 avevo già letto tutta la sua opera.
Di primissima lettura l'opera di Antimo si presenta erudita per gli accostamenti e i riferimenti a carteggi privati e opere minori, secondo una tendenza tipica della seconda metà degli anni ottanta e poi di tutti i novanta: quel gioco di citazioni che si confermano l'una con l'altra e che articolano altre fughe erudite, fino al punto che qualsiasi tesi in argomento rimane, alla fine, valida. Un processo e una mentalità barocca, quindi, ciò nonostante imprescindibile per ricostruire la conoscenza sulle bollenti fondamenta di un vulcano (il Vesuvio appunto), quindi processo e mentalità negative in sé stesse ma prolifiche se risolte fuori da sé stesse.
E in effetti l'autore sa focalizzare alcune cose e fin da subito. Il concetto di heimatlos, senza patria, senza patria intellettuale ma anche culturale e, forse, psicologica, che ha il coraggio di misurarsi, il senza patria appunto, con il concetto di incalcolabilità sotto il profilo della scienza tradizionale e positivista, anzi, riscopre il concetto, assimilabile all'indeterminato di Kant, in chiave positiva.
La seconda idea del vivere risolutamente / pericolosamente, al di fuori delle certezze scientifiche e delle sue comodità, che è una vita faticosa e pericolosa, perché implica separazione e quindi una nuova scienza che è una nuova vita e non un nuovo tipo d'uomo da costruire e ideare ma da vivere.
Infine l'idea che la scienza è convenzione e comodità e quindi una metafisica (usando il linguaggio di Kant che pure non avrebbe completamente approvato il ragionamento).

Letture. Infine ho ripreso la lettura del secondo volume di 'Autonomi', in oggetto il 1976, ma ne scriverò domani, con più calma.

Sabato, 6 settembre

Ai margini. Letture. Memorie. Secondo volume di 'Autonomi'. Il 1976 fu davvero un anno di passaggio e di un passaggio cruciale e lo si vede bene anche dalla serie di articoli che la pubblicazione collettiva sugli autonomi sceglie.
Fu caratterizzato dal 'contratto bidone', le elezioni (che per alcuni dei gruppi divenne la 'scadenza elettorale'), i nuovi movimenti che dopo la gestazione del '74 / '75 si dispiegarono (donne e proletariato giovanile) e, infine, a fronte di queste novità, dal problema che coinvolge anche l'autonomia in un dibattito (del quale in quell'anno ero poco informato) sul problema, giustamente percepito come urgente, irrisolvibile della costruzione di un tessuto organizzativo centralizzato.
La prima grande aporia dell'autonomia, che allora in Lotta Continua suscitava spesso ilarità e che criticavamo approfonditamente, era quella di affrontare questo problema con anni di ritardo e quindi goffamente e proprio quando diventava effettiva la tendenza di massa alla critica all'organizzazione, una tendenza che io non amavo. Ma con gli occhi di oggi, con gli occhi di quest'epoca posso scrivere che Lotta Continua non aveva tutti i torti a ironizzare.
Ricordo bene, comunque, che nonostante le esorcizzanti ironie, anche per Lotta Continua quell'anno fu difficile e di ardua interpretazione: non era un compito facile per nessuno.
La seconda grande aporia dell'autonomia non  si ubicava nella tempistica e nella 'cronologia' ma nel fatto che la spinta dei nuovi soggetti del movimento non solo andava verso la negazione della forma – partito ma, contemporaneamente, per la ricchezza sociale che esprimeva, per certi versi, non la richiedeva. Lotta Continua, sciogliendosi, chiuse i conti con questo e si levò, giustamente o no, dal gioco.
Un primo intervento, per la penna della segreteria dei collettivi politici di Milano, del marzo '76, è, semplicemente, puerile in proposito, anche se svolto con buona eleganza stilistica che maschera la puerilità. Si prospetta un'organizzazione di livello 'intermedio' che può essere interessante solo per una proposta rivolta alle realtà locali organizzate, senza offenderne l'indipendenza, senza un programma, quindi, e insomma niente di niente, solo l'intento di gettare un sasso nello stagno.
In un altro intervento, l'area romana, i Volsci, riscoprendo la terminologia del soviet, guardano all'esperienza di questi organismi di massa verso il partito bolscevico.
Un contributo che cerca autenticamente di affrontare la questione è quello pubblicato nel luglio su 'Senza tregua', scritto dal coordinamento nazionale dell'Autonomia ed è anche l'unico del quale ebbi notizia all'epoca, attraverso l'ilarità critica di Lotta Continua su quelle tesi.
Innanzitutto l'articolo contiene un'analisi dei risultati del 20 giugno, cosa abbastanza inusuale per l'autonomia, che avevano sancito il venir meno, l'impraticabilità, della grande trappola del 'governo delle sinistre'. Ricordo che Lotta Continua cadde in questa trappola (la destra e parte del centro 'non settario') in base alla quale si teorizzava, in caso di vittoria della sinistra, la possibilità concreta di 'sfondare' il PCI, metterlo alle corde, levargli la base e annientarlo politicamente, ponendolo di fronte alle sue responsabilità di governo e ai movimenti di massa, insomma stritolandolo. Quindi ci fu l'indicazione di votare PCI e non lo stupido, sciocco e ridicolo cartello elettorale dei 'neo-riformisti' del PDUP e Avanguardia Operaia. Il 'centro settario' (al quale mi sentivo di appartenere) e sinistra, ormai in fuori uscita, credevano molto tiepidamente a questa ipotesi intorno al PCI.
Per tornare all'articolo del coordinamento, quella presa di posizione e progetto politico fu davvero fuori luogo e terribilmente fuori tempo, quasi a voler dire: “noi comunque lo progettiamo”. La teoria della trazione diretta al comunismo, che tanta ilarità suscitò in Lotta Continua, era un modo di ridare alla centralità operaia un ruolo polare nell'organizzazione, di fronte al fatto che i nuovi soggetti erano irriducibili a ipotesi organizzative centralizzate. Fu una teoria sterile che permise solo all'autonomia di reclutare qualche militante transfuga dei gruppi, qualcuno tra i più insofferenti nel movimento giovanile e poco di più.
All'autonomia come a Lotta Continua (che non risolvendo il problema scelse di sciogliersi) sfuggiva il senso della situazione reale che era l'ineluttabile declino del lavoro operaio e l'emergere di nuove forme di lavoro e di divisione del lavoro.
Il centralismo operaio e la 'frazione comunista' dell'articolo, impegnati a definire, anche giustamente, l'attualità del comunismo, finivano per teorizzare un ritorno alla fabbrica in forme 'militarizzate', sciocche, controproducenti e pericolose per il tipo di energie, in verità non motivate da una seria analisi della fase, che cercavano di intercettare.
Non è assolutamente casuale che A/Traverso, il vero bersaglio della critica alla concezione neoanarchica dell'organizzazione contenuta nell'articolo, si ritirerà con decisione dal tipo di programma proposto. Proprio questo rifiuto e diniego è il segno tangibile dell'attualità del comunismo e dell'inattualità  della trazione diretta al comunismo organizzata nella forma – partito.
La vigilia del '77 era apparecchiata e in quell'anno, in cui il cielo cercò di cadere sulla terra, alla fine non cadde nulla, ma solo frammenti e schegge, sotto il profilo, ovviamente, dell'organizzazione comunista.
1 – La frazione comunista come refugium peccatorum di ex gruppettari, leninisti ortodossi, neo – leninisti e nostalgici dell'operaismo degli anni sessanta in qualche maniera riuscirà a egemonizzare una componente del movimento '77, senza che quello, però, riconoscesse quell'egemonia e dunque produsse una vittoria politica illusoria.
2 – La frammentazione delle esperienze dei movimenti dei nuovi soggetti sociali determinò la costituzione di situazioni dove, per usare la terminologia del coordinamento autonomo dell'anno precedente, il valore d'uso cercava sempre più di incunearsi nei settori lasciati liberi dal valore di scambio, dall'economia (penso alle teorie poco più tarde di Bifo).
3 – Nuovi soggetti e classe operaia si separarono, anche quando quest'ultima, come accadde, ebbe ancora la forza di esprimersi in maniera autonoma e antagonista.
4 – La fuga di schegge da ognuno di questi frammenti di cielo, non riconducibili all'organizzazione politica proposta dalla frazione comunista, irriducibili alla prospettiva consolatoria del movimento del valore d'uso, incapaci di comprendere la natura della separazione tra operaio massa e operaio sociale incentivò il reclutamento delle organizzazioni combattenti.
Non è affatto una caso che, di fronte a questo ritardo e problematiche, il dibattito sull'organizzazione si riproponga anche durante il '77. Quasi tutti gli interventi raccolti nell'opera collettiva relativi a quell'anno riguardano, ossessivamente, questo tema.
Il dibattito assume una forma polarizzata ancora di più che durante l'anno precedente. L'area bolognese e creativa rifiuta il 'partito', le aree romana e milanese ne propugnano l'importanza; i romani, i Volsci, rimangono sulle posizioni dell'anno precedente (organizzazione politica come prodotto degli organismi di massa  e ritorno politicizzato in quelli, insomma soviet e partito), l'area milanese, al contrario, propone dei ripensamenti anche profondi, ma, purtroppo, secondo il maledetto stile linguistico, mai concreti, indicativi, anche se interessanti perché complessivi.
L'autonomia organizzata milanese si rende conto della nuova e piena insorgenza dei 'marginali' e del  fatto che il cuore dello scontro di classe (e della ristrutturazione e reinvenzione del dominio) si sta trasferendo fuori dalla fabbrica. Contemporaneamente è preoccupata dall'affermarsi di 'avventurismi insurrezionalisti' (gruppi di manifestanti che sparano durante i cortei) e della proliferazione e relativo ingrandirsi delle organizzazioni combattenti. Infine assiste, con giusta critica, al consolidarsi di una palude, la palude che si limita a seguire e vivere nel movimento del valore d'uso e che io, all'epoca, definivo come il risultato di una 'americanizzazione del movimento'.
Fin qui assolutamente concorde, allora come adesso, con gli autori della riflessione del coordinamento nazionale dell'autonomia, le risposte a questa tesi mi trovarono, al contrario, del tutto critico.
Riguardo alla forma – partito si rinunciava all'idea della frazione separata ma contigua al movimento, denunciandola come impraticabile e ritornando a un modello organizzativo vicino al coordinamento delle diverse realtà di base e del movimento del valore d'uso, ma davvero erroneamente, secondo me, si consideravano forme di lotta tra le altre, indifferenti qualitativamente, quelle che prevedevano l'uso delle armi e la clandestinità, che venivano considerate certamente sbagliate ma, appunto, forme di lotta, quasi un'espressione della spontaneità del movimento. È difficile pensare che Curcio e con lui la sua organizzazione si percepisse come il prodotto della spontaneità e di rappresentare solo una forma di lotta tra le tante.
In questa maniera, e con la logica dello struzzo, si negava un'alterità politica radicale all'ipotesi dell'autonomia organizzata: il partito combattente.
Quasi lo stesso abito mentale verso il movimento del valore d'uso, vale a dire, per storicizzarne il contesto e limitarne il concetto al contesto dell'autonomia, i bolognesi e i settori di base dell'autonomia romana e milanese, che non praticano un progetto e un programma preciso (giusto la teorizzazione palese e giustificata marxianamente di avere il diritto di non averlo) e sono ridotti a espressione di un contesto 'moderato' sotto il profilo delle forme di lotta e dei comportamenti.
Anche qui il coordinamento rifiuta di cogliere e accettare l'alterità.
In entrambi i casi esiste, in quest'impianto discutibile, un'intelligenza tattica, anche se, purtroppo, anche quella completamente fallimentare alla prova dei fatti: l'illusione, da parte dell'autonomia organizzata milanese di produrre un ruolo di centralità, di divenire, inevitabilmente, punto di riferimento, stella polare politica e di assumere un'egemonia sulle e contro le differenze nelle forme di lotta, proprio perché si riducevano a essere solo forme di lotta prive di un vero programma politico e dunque 'orfane' in fondo.
Si teorizzava un egemonia sul movimento che era solo virtuale e di questa virtualità sarà testimonianza il crollo dei consensi lungo il '78 e, poi, la disgregazione organizzativa, ben favorita dal teorema Calogero, nel '79.
Dati i presupposti del 1976, che avevano messo al bando le buone idee del '73 – '75, tutto questo era inevitabile. Ma con il senno di poi … ammetto si fa ben poco e soprattutto non si evitano i futuri errori. Dunque, estremo rispetto anche se parimenti e proporzionalmente critico.

Lunedì, 8 settembre

Letture. Ho ripreso Nietzsche sul Vesuvio, nella parte che affronta il problema di quella che potrebbe essere detta gnoseologia. La gnoseologia diventa in Nietzsche ontologia, la volontà e la rappresentazione coincidono precisamente come l'esse e il percipi di Berkeley. Il mondo come creazione dell'interpretazione dei sensi e le cose come combinazioni tra i sensi su quelle che, poi, possono arrivare all'intelletto per fondare una nuova visione del mondo, ma il fondamento del mondo sono le cose percepite attraverso i sensi e che esistono solo mediante quelli.

Martedì, 9 settembre

Letture. Nietsche sul Vesuvio. Impressionismo o espressionismo in Nietzsche, questo è l'argomento del capitolo che si struttura su continui riferimenti a Mach e Husserl. Viene citato anche Lenin nel suo 'Materialismo e empiriocriticismo” (1909). Dunque una lettura non facile.
L'autore tende ad affiancare l'estetica di Nietzsche all'espressionismo, al “il vedere non il guardare”, la dissoluzione della differenza tra soggetto e oggetto. Alla base di questo è un fraintendimento dell'impressionismo, che non è arte del guardare in senso stretto, organizzato, un vedere organizzato secondo le intuizioni spazio – temporali di Kant e i suoi giudizi. In gran parte dell'impressionismo c'è già l'espressionismo: pensiamo a Manet contro Monet o a Sisley.

Mercoledì, 10 settembre

Letture. Antimo Negri, Nietzsche sul Vesuvio. Nietzsche tra impressionismo ed espressionismo come tema per affrontare ulteriormente la sua gnoseologia. Finalmente è stato ammesso che l'idea del rapporto tra soggetto e oggetto come insieme infinito di interpretazioni in grado di costituire un'unità estetica tra res cogitans e res extensa non è patrimonio esclusivo dell'espressionismo ma che già nell'impressionismo questa interpretazione ontologica è testimoniata, secondo una nuova definizione del rapporto tra sensazione e intelletto che corrisponde all'unificazione dei due elementi.
Qui sta, a mio parere, il vero materialismo di Nietzsche, che propone una sola 'realtà' come prodotto del complesso di cose organizzate e vissute attraverso (e non come) un complesso di sensazioni. L'oggetto NON è indipendente dal soggetto e viceversa poiché fanno parte dello stesso processo interpretativo. L'intelletto, quando interviene, non ha il compito di dare organizzazione alle interpretazioni (alle cose e anche ai soggetti) che sarebbe ricostruire una dualismo tra cose e io, rifondare il dualismo ontologico, ma di ragionare e indagare sul complesso delle interpretazioni per costruire un'ipotesi scientifica che non è validabile in assoluto (illuminante il riferimento di Antimo Negri al principio di indeterminazione citato da Bohr).
Nel materialismo di Nietzsche la realtà esiste ma non può esistere la corrispondente verità, la verità non può esistere perché sarebbe la negazione della 'realtà' e quindi del soggetto e dell'oggetto: la verità giungerebbe nuovamente a individuarli come separati tra loro. Questo davvero sarebbe per Nietzsche un vero nichilismo gnoseologico anche se comporterebbe il trionfo in ontologia del realismo, ma si tratterebbe di una soluzione di comodo, una finzione, un ragionare come se fossimo un complesso di sensazioni e non un complesso di sensazioni in quanto tali, hic et nunc.
Il primo modo ci porta alla costruzione di una verità – realtà (di tipo fisico – meccanico, realista e verista), la seconda alla negazione della verità a favore dell'affermazione di una realtà al di là della meccanica, del realismo e del verismo, quindi, è valido l'impressionismo quando le interpretazioni delle cose sono dominate dalle cose (o meglio un complesso di cose che giunge a noi con un maggior gradiente 'naturale') nell'espressionismo il gradiente è ribaltato e il soggetto si proietta sulle cose, questo soggetto è ancora la res cogitans di Cartesio che, però, di cogitans non ha più nulla ed è alla fine solamente una res tra le altre.

Giovedì, 11 settembre

Annotazione. Giornata estremamente impegnativa sul lavoro. Ho affrontato, abbastanza liberamente, un interessante enigma telematico intorno a una connessione dedicata che ha smesso, a un tratto, di funzionare, scoprendo alla fine che non era dedicata e 'libera e incontrollata' fino in fondo. Il potere è la base del sapere, quando il sapere non è conoscenza ma dominio della conoscenza, come strutturalmente accade.

Letture. Antimo Negri (Nietzsche sul Vesuvio) affronta il tema dell'arte non tanto in Nietzsche quanto tra i critici del kantismo.
Con estrema schematicità quelli che Kant definisce i giudizi estetici, concetti che escono dal determinato scientifico e vanno verso l'indeterminato verso “quello che non si può dire”, hanno invece valore conoscitivo e l'arte è conoscenza e lo scienziato, il vero scienziato, colui che indaga la sensazione contro l'intelletto, cioè, che vede le cose come interpretazioni, colui che costruisce le sue teorie sulla lava, è anche artista. L'arte è una forma della scienza, un suo modo di essere, una scienza che allarga i confini della percezione e analizza la percezione delle cose e quindi le cose, senza ridurle alla dimensione scientifica tradizionale di cose in sé, cose vere, cose 'reali'.
Certamente l'arte che aveva in mente Nietzsche, per come lo conosco e letto, non è l'arte tout court, ma solo certa arte poteva avere valore conoscitivo e scientifico, là dove si liberava dallo spirito apollineo di imitazione della realtà, la realtà intesa e percepita, guardata secondo i giudizi sintetici a priori, e si faceva dominare dal dionisiaco (Nascita della tragedia, 1871), allora e solo allora diviene esercizio conoscitivo. Anche se Nietzsche non incontra ragionamenti sulle tecniche artistiche, inevitabilmente, li assume: la tecnica creativa, il modo di creare, si associa, imita, la tecnica percettiva, interpretativa, è la metodologia per costituire l'ipotesi sulla realtà, la cosa in sé, mai raggiungibile, ovviamente.

Letture. Autonomi sempre secondo volume. Ho dato una sbirciata al 1978 nella cronologia dedicata: che anno triste, quasi il contrario e la caricatura di quelli che lo avevano immediatamente preceduto. Anno lugubre, come un viale di pianura, come un'ora prima dell'alba piovosa e senza vento, come la caricatura della notte nella sua libertà che l'ha preceduta. La follia del rapimento Moro e soprattutto della sua uccisione che, comunque, appartengono alla stessa patologia (non c'è un prima e un dopo, una leggerezza e poi un aggravamento), i cortei decimati nella partecipazione e in maniera inversamente proporzionale le parole d'ordine in quelli sempre più forti, determinate, alte, roboanti, militanti e militaresche.
Il '78 fu la caricatura dell'innalzamento, quello vero e autentico, del livello dello scontro politico degli anno precedente e fu, a mio parere, l'ultimo anno della sinistra rivoluzionaria in Italia, almeno in forma autentica e nel '79 si impresse solo il sigillo a una bara già chiusa e si svolse un funerale già consumato. In realtà nel '79, proprio per il famoso 7 aprile, si apriva una nuova fase, completamente diversa, per l'antagonismo residuo, che non poteva fare riferimento, se non vuotamente testimoniale, alla sinistra rivoluzionaria organizzata nelle sue diverse espressioni degli anni '70.

Venerdì, 12 settembre

Letture. Ai margini. Sempre ai margini di Autonomi e del 1978, l'anno che finì il decennio prima che il decennio fosse finito. Le vendite di Lotta Continua giunsero a 150.000 copie giornaliere (nel '76 tiravamo cinquantamila copie!), si formò Democrazia Proletaria e ci fu l'assemblea operaia del 'Lirico', tre eventi diversi tra loro ma che mi parvero uniti da un solo sentimento, quello del patetico e dell'inutile. Lotta Continua da giornale militante era diventato un giornale d'opinione, certamente critica, ma che metteva insieme interessi, esigenze di soggetti diversi tra di loro (l'operaio che era andato all'assemblea del Lirico, il giovane ex indiano metropolitano, l'apprendista punk, l'intellettuale garantista, il professionista democratico che aveva in odio il Partito Comunista Italiano e occhieggiava alla sinistra del Partito Radicale o del PSI, il sindacalista inorridito dal sindacato ma che ci restava, etc. etc., ma veramente pochi di quelli che lo leggevano e distribuivano nel '76) senza nulla scrivere per avviare una ricomposizione o un dibattito su quella. Democrazia Proletaria si accorgeva, con due anni di ritardo, della bufala del governo delle sinistre e quando all'ordine del giorno era ormai una democrazia autoritaria di massa organizzata e coordinata dal PCI e dalla Democrazia Cristiana, con la sole note stonate dei socialisti di Craxi e forse, e anche paradossalmente, dei Missini. E, infine, il Lirico, l'assemblea più inutile della storia del movimento (così almeno mi sembrò), ancora più inutile, se possibile, di quella degli autoconvocati degli anni ottanta.
La ristrutturazione stava uccidendo l'operaio – massa, era chiaro, e ogni sua centralità.

Sabato, 13 settembre

Letture. Autonomi. Cito “I Volsci, aprile '78” per la chiarezza sull'argomento trattato, che era anche allora e anche adesso la mia: “ … l'obiettivo delle BR sembra essere ormai scopertamente divenuto quello di indurre lo Stato a una vera involuzione verso una forma di fascismo moderno … Le avanguardie e i settori avanzati della classe, ormai impossibilitati ad agire sul piano della legalità / semilegalità, si troverebbero di fatto davanti alla scelta della clandestinità, della lotta armata sotto l'egemonia del partito combattente la cui potenza di fuoco ne verrebbe notevolmente accresciuta”.
Il problema vero (e che i Volsci non potevano, per il loro innato 'ottimismo rivoluzionario' individuare) era nel fatto che le BR, paradossalmente, avevano scelto la tattica vincente dal punto di vista dell'impatto sul movimento che stava rifluendo, anzi vincente proprio in ragione del suo riflusso; l'ottimismo dei Volsci nasceva dalla negazione di questo evidente riflusso, come in genere quello di gran parte dell'Autonomia organizzata di quell'anno. Senza tregua, Volsci, Autonomia organizzata, i frammenti del movimento '77, quelli del Lirico, i resti di Lotta Continua non erano in grado, ma nemmeno lontanamente, di costituire un'alternativa valida al 'Partito combattente', nella misura in cui, ogni giorno, perdevano terreno e consensi nel confronto con il Partito Comunista Italiano e il sindacato e soprattutto verso la ristrutturazione produttiva e globale. Quel vuoto politico, ma anche esistenziale, fu riempito per qualche anno dalle organizzazioni combattenti.
Nel 1978, dopo il caso Moro e lo stillicidio quotidiano di azioni combattenti, anche quelle che non facevano diretto riferimento alle organizzazioni 'maggiori' della lotta armata, quel futuro era già scritto: la riduzione degli anni settanta a esperienza di lotta armata che, gradatamente, venne dequalificata in terrorismo, con un certo compiacimento da parte del Partito combattente che sempre più teorizzava un innalzamento del livello dello scontro militare, facendo maggior riferimento alle dinamiche massmediatiche che non a quelle reali.
Dal 1978 i 'combattenti' scoprirono, o meglio, focalizzarono la loro azione politica sull'apparato informativo, soprattutto televisivo, come bersaglio e strumento per veicolare l'organizzazione e il reclutamento, per destare simpatie e consensi. La spettacolarità, più che l'esemplarità politica dell'azione, divenne il fondamento di questa nuova 'tattica rivoluzionaria'. E i 'combattenti', tutti quanti, anche quelli minori, anche quelli che cercavano di legare le loro imprese ai movimenti e ai livelli di coscienza e organizzazione raggiunti in determinate aree geografiche, caddero nella trappola che all'epoca, in qualche appunto perduto, definii la trappola televisiva per la rivoluzione.
Così, inevitabilmente, la sconfitta delle organizzazioni combattenti maggiori (BR, PL e PCC) fu una sconfitta in rappresentazione simbolica di un intero decennio di lotta, una simbologia che si realizzava attraverso il televisivo e il massmediatico. Si era creata, con la massima complicità dei teorici del partito combattente, un'insana quanto semplicistica equazione (credo che Curcio se ne sia reso conto ma molto in ritardo) tra azione che giunge in prima pagina e in apertura dei notiziari televisivi e livello dello scontro reale tra stato e proletari. Così l'insurrezione di Bologna e Roma del '77 aveva trovato il suo corrispettivo simbolico nel rapimento Moro e più tardi nell'assalto alla sede DC di Piazza Nicosia a Roma, così anni e anni di lotte operaie sul salario, reddito e territorio venivano rappresentati in una persistenza dell'azione, dell'agguato e dell'attentato quotidiano, in un susseguirsi di 'campagne'. Alla fine quella tra stato e proletari non era altro che una relazione simbolica, determinata televisivamente, ma nella realtà analitica delle BR non esisteva più.
Una volta caduto in questa trappola televisiva e mediatica, l'eliminazione / suicidio del partito combattente nella prima metà degli anni ottanta fu relativamente facile e naturale, facile la prima (l'incarcerazione, la cattura e spesso l'esecuzione spietata dei suoi militanti) e naturale il secondo (il pentitismo, la delazione e il tradimento), poiché le organizzazioni combattenti non rappresentavano più nulla tranne che sé stesse e la psicologia politica dei suoi militanti.
Tutto, davvero, per il dominio fu semplice oltre che spietato e forse non è neppure il caso di scomodare il temine marxiano di dominio: si trattò solo, alla fine, di una serie di operazioni di polizia, assistite da un'enfatizzazione mediatica. Poté bastare un sillogismo semplice, come semplice e banale era divenuta l'ideologia, la tattica e la strategia del combattenti: BR – PL erano l'antagonismo, erano il peggio degli anni settanta –> le BR – PL erano state sconfitte e in buona parte si erano pentite di loro stesse –> l'antagonismo era stato sconfitto e gli anni settanta avevano rinnegato, per sempre, loro stessi.

Domenica, 14 settembre

Letture. Autonomi, vol.II. Siamo al 1979, al precipizio e a una rivista ('Magazzino') che non conoscevo, come non conoscevo una certa Roberta Tommasini che ha scritto su quello un intervento sull'autonomia del politico, eccessivamente astratto e privo di riferimenti contingenti che non fossero una discutibile sommatoria dei significati del '77.

Lunedì, 15 settembre

Letture. Antimo Negri. Nietzsche: la scienza sul Vesuvio. Si scrive del matrimonio come forma istituzionalizzata, tutto sommato positiva e utile, della passione (che, alla fine, si rivela essere attrazione sessuale formalizzata attraverso la sua durata, persistenza nel tempo). Al contrario l'amore non può essere istituzionalizzato, non può fondare un'istituzione. Il matrimonio è anche visto come istituzione storicamente fondamentale per la costruzione della società (quasi come in Rousseau).
Nulla di rivoluzionario nel pensiero di Nietzsche, anzi, anche perché il matrimonio è pensato al maschile e ben poco al femminile; al femminile il matrimonio è un valore solo quando si presenta al mondo come calore, passionalità, spirito ardente (Nietzsche amava la Carmen di Bizet) e irridente, un 'quasi dionisiaco' che, però, non può esserlo compiutamente. Antimo cerca di ritrovare in Nietzsche una componente femminista, facendo riferimento allo spirito generale della sua opera, ma, in generale, il tentativo è ozioso: perché mai un anarchico non potrebbe essere autoritario su determinate questioni? Alla fine Nietzsche dimostra di avere un'idea della sessualità 'sostanzialmente' tradizionale: non è quello il suo terreno privilegiato di critica alla società e non poteva essere cosi moderno terribilmente moderno come non lo furono Marx, Freud e Lenin in materia.
Quello di Nietzsche è un mondo al maschile, proprio in ragione del fatto che vuole essere un mondo ribelle, in un contesto storico dove il privilegio della ribellione era assolutamente riservato ai maschi; semmai la tanto aborrita, giustamente, da Nietzsche mezza cultura conformista, qualche schiera di liberi pensatori o meglio teorici del 'libero pensiero' potevano accogliere nelle loro file qualche embrionale elemento di femminismo: insomma una comunità tutto al contrario di quella di Nietzsche.
Per come lo conosco e per come lo apprezzo, credo ci siano pochi autori tra quelli che ho letto in cui il problema della donna non occupa quasi spazio. In Nietzsche non solo non c'è femminismo ma c'è una radicale critica al femminile che si trascendentalizza nella categoria, odiosa e asessuata, del femmineo, l'apollineo allo stato chimicamente puro. Paradossalmente la critica al femminile davvero radicale di Nietzsche potrebbe essere associata a qualche teorizzazione femminista contemporanea, ma si tratterebbe di un incontro assolutamente casuale. La simpatia per il personaggio di Carmen, che l'autore della Scienza sul Vesuvio enfatizza, è un'affinità teatrale, dove il personaggio commuove Nietzsche – spettatore per la sua deriva  verso un cinismo innocente quasi dionisiaco, ma non si scrive di una donna o della donna ma di una delle tante rappresentazioni maschili del femminile.

Letture. Autonomi, volume II. I contributi di alcuni autori stranieri sull'autonomia nei loro rispettivi paesi (Germania e Inghilterra) sono stati deludenti: pochissima analisi, poco spessore storico, quasi una cronaca giornalistica illuminata a tratti, quando si accompagna alla manifestazione del movimento reale: le lotte alla Ford inglese del '73, la rivolta contro la pol tax e la coniugazione degli autonomous con il movimento rave, oppure in Germania oltre che le rivolte operaie nel settore automobilistico dei '70 (ben conoscevo quelle grazie al fatto che Lotta Continua era fortemente radicata in alcuni quartieri italiani), il movimento anti – nucleare e soprattutto le occupazioni di spazi, case e interi quartieri tra '86 e '92 (Kreuzberg 'rossa e nera' in cattedra).
Poco altro, però, oltre questo e ne uscirebbe un piccolo opuscolo per scuole per quadri di un partito un po' superficiale nella cura della sua formazione militante.

Mercoledì, 17 settembre

Letture. Ho tirato fuori dalla 'seconda fila' Impero e Moltitudine. Ho sentito il bisogno di rivederli: dieci anni fa non mi avevano affatto convinto. La precedenza ha, però, un estratto di saggi di Locke.

Ai margini. Nietzsche e la comune di Parigi. Mi ero sempre domandato del suo atteggiamento al riguardo; la prima opera (Nascita della tragedia) è contemporanea alla Comune. Ma nulla, assolutamente nulla, neanche un accenno, se non alla coeva guerra franco – prussiana. Una nota, e mantenuta tale, dell'opera di Antimo Negri rivela l'atteggiamento di Nietzsche, tratto da un carteggio, ed è un atteggiamento critico. Scrive Nietzsche all'interlocutore: “Al di là della lotta tra le fazioni, ci ha atterrito questa testa dell'idra internazionale che improvvisamente si è sollevata con tanta mostruosità ad annunciare ben altre lotte future” (21 giugno 1871, lettera a Carl von Gersdorff). Nulla di dionisiaco, dunque, nell'insurrezione parigina, ma neanche di apollineo, solo una radicale insensatezza. Un giudizio molto tradizionale che riduce il campo della critica sociale di Nietzsche al pre - sociale e al pre – politico e in quello si ostina a rimanere, Apollo e Dioniso solo lì si affrontano. Come per il caso delle donne, insomma, è veduta la lotta di classe: un fenomeno che sarebbe meglio tacesse, taceat mulier de muliere.
Riguardo alla problematica principale del capitolo di Antimo Negri è abbastanza chiaro che in Nietzsche non esiste separazione, dualismo non dialettico tra apollineo e dionisiaco, tra rappresentazione e volontà (Schopenhauer) o tra fenomeno e noumeno (Kant), ma Nietzsche, da perfetto materialista quale è, secondo me, non concede a Dioniso il monopolio della verità, della cosa in sé e ad Apollo la sua rappresentazione fenomenica: si tratta di due forze in lotta, l'una non pretende di conoscere la cosa in sé, esattamente come l'altra, differenziandosi solo per i 'materiali' che usano per la conoscenza e per la sua fondazione.
Per Nietzsche neppure il dionisiaco allo stato puro accederebbe alla verità, perché la verità non esiste, perché l'ontologia non esiste, perché non può esistere proprio il dionisiaco allo stato puro. La verità, l'ontologia e il dionisiaco allo stato puro sono impossibilità logiche e gnoseologiche, precisamente come l'apollineo allo stato puro. L'unica verità e ontologia delle cose è la non verità e la non ontologia, ovvero il panta rei eracliteo, l'essenziale dinamicità dell'essere e della conoscenza.
Nietzsche rivoluzionario? Certo che sì, ma non nel senso proposto dalla Comune parigina, Nietzsche percorre altri orizzonti che, casualmente, come per il caso del femminismo, possono incrociarsi con quelli e, seguendo strade diversissime, ricongiungersi a quelle lotte future che Nietzsche preconizza e teme.

Giovedì, 18 settembre

Ai margini. Nietzsche e la comune. Nello stesso periodo (aprile 1871, frammenti postumi) si legge: “ ... scopo dello stato, Apollo, scopo dell'esistenza, Dioniso … ”. Nietzsche si riferisce allo stato in genere, anche a quello della comune rivoluzionaria? Ritengo di sì, anche se la tentazione di mettere in relazione, una vaga relazione, questa sintetica affermazione alla critica di Marx a certe tendenze stataliste sorte tra i comunardi potrebbe farsi strada.

Venerdì, 19 settembre

Letture. Nietzsche sul Vesuvio. Nietzsche rivoluzionario? Certo che sì ma sotto il profilo della critica al mondo accademico controllato dallo stato (sembra di leggere Spinoza) e dall'ideologia positivista, sotto l'aspetto della censura, ironicamente espressa nella Nascita della tragedia, verso il militarismo prussiano. Insomma è stata l'opposizione di un intellettuale svolta sul campo della comunità intellettuale e delle sue strutture. Inutile, quindi, attendersi accenni critici e simpatie verso la Comune di stampo marxiano, secondo i quali proprio chi aveva un apparato teorico arretrato (gli anarchici) avevano adottato la miglior prassi e interpretato meglio il movimento che puntava, in realtà, alla dissoluzione dello stato (nella 'La guerra civile in Francia'). La comune potrebbe essere, per Nietzsche, il trionfo dello spirito hegeliano che rischiarando non rischiara nulla.
Ogni accostamento tra Nietzsche e Marx in ordine alla comune di Parigi è assolutamente forzato e immaginario. Certamente si possono anche addebitare le conclusioni epistolari di Nietzsche su quell'esperienza alle informazioni che gli sono fornite dall'interlocutore; von Gersdorff, infatti, descrive uno stato del terrore che è il prodotto di una chiara fobia anti – giacobina e non di una verità storica: la Comune è, in quella, la riproposizione del comitato di salute pubblica del 1793. Nietzsche però non appare percorso dal desiderio di approfondire, di saperne di più, si accontenta di verità che lui stesso, con riferimento critico al positivismo, avrebbe detto 'comode'.
Sinceramente quando iniziai a legge Nietzsche, da adolescente, sapevo di maneggiare un autore che, se determinato politicamente, era di 'destra'. Ciò nonostante non sospesi la lettura. La componente di incontro tra Nietzsche e la sinistra non si dà sul terreno della 'coscienza politica' (quella che un tempo si definiva così) anzi non si dà nemmeno. Terreni di incrocio nell'ottocento non ne vedo in nessun campo, neppure in quello della lotta alla cultura dominante, nel primo novecento solo qualche scheggia di convergenza; solo i situazionisti, ma non chiaramente, recuperarono alcuni elementi della gnoseologia di Nietzsche e bisogna attendere gli anni sessanta perché il pensiero antagonista scopra Nietzsche.
Questa 'scoperta' avvenne sotto una pessima stella: il tentativo di politicizzare Nietzsche a sinistra esattamente come il nazismo lo politicizzò a destra, per cui, secondo la sinistra, Nietzsche divenne un filosofo 'frainteso'. Nessun fraintendimento, invece, la critica nietzschiana non si muove sul campo della politica, intesa come destra e sinistra, né tanto meno, come qualcuno ipotizza per salvare 'capra e cavoli', nella critica modernissima ai due concetti, ma si svolge su tutt'altro piano.
Il vero piano critico è quello di una gnoseologia integralmente materialista che va oltre Kant, Hegel e il materialismo dialettico. In questo senso Nietzsche è un filosofo rivoluzionario e anche nel senso marxiano, perché alla speculazione unisce la pratica di vita, come teorizzeranno i situazionisti.

Sabato, 20 settembre

Letture. Finito Nietzsche e la scienza sul Vesuvio. Capitolo finale dell'autore sul dio Dioniso, che è strumento di identificazione con l'apeiron di Anassimandro, l'essere oltre gli enti, quindi il noumeno. La radicale critica all'illuminismo, l'esaltazione della tenebra e la ricostituzione della dialettica come recupero dell'indeterminato sul determinato, vittoria definitiva del monismo di Nietzsche, secondo  un'unica costituzione dell'essere e di un dualismo gnoseologico irrisolvibile. Avrei parecchie obiezioni rispetto a queste conclusioni di Antimo Negri.

Letture. Iniziato oggi Locke. Antologia degli scritti politici di John Locke, a cura di Felice Battaglia, edito per il Mulino nel 1962, nella collana Classici della democrazia moderna. D'ora innanzi, per brevità, Antologia di Locke.

Lunedì, 22 settembre

Letture. Prosegue stancamente la lettura  dell'Antologia di Locke nella sua prefazione, datata ma simpatica e chiara. Il vecchio libro si sta sfasciando.

Giovedì, 25 settembre

Letture. Antologia di Locke. Attraverso la critica all'opera di Robert Filmer, teorico dello stato assoluto e della sovranità di derivazione divina, secondo l'assioma Dio → Adamo → monarchia assoluta e la tesi per la quale il potere sovrano trova il suo palinsesto e giustificazione nell'autorità paterna, Locke, negli estratti dei due trattati (two treatises), esprime tutta la sua perplessità  su un potere sovrano che non si fonda, in qualsiasi forma venga espresso e formalizzato, su un consenso comune ma che deriva solo da un atto privato (il potere familiare di Adamo sulla sua progenie).
L'autore introduce alcuni riferimenti all'esperienza rivoluzionaria di Cromwell e Masaniello che, paradossalmente, seguendo le teorie di Filmer, sarebbero dei sovrani assoluti, seppur nella versione usurpante, e dunque perfettamente legali. Viene fuori, quindi, la teoria secondo la quale lo stato assoluto, se concepito alla maniera di Filmer, diventa l'unica forma
possibile di governo legale, ma proprio perché si basa su un atto di violenza e appropriazione, allora, il governo legale è sempre e inevitabilmente illegale e quindi Filmer, secondo Locke, è un rivoluzionario e un indiretto e inconsapevole assertore e propugnatore della tirannide popolare.
Lo stato di natura per Filmer è il diritto di appropriazione allo stato puro, una guerra infinita tra gli individui, al quale Dio avrebbe posto rimedio con l' autorità paterna, l'autorità di Adamo che, secondo lui, sono la stessa cosa. Tutt'altro è, invece, per Locke, che individua nello stato di natura già molti elementi della legislazione positiva, un necessario e spontaneo, anche se non fondato istituzionalmente e formalizzato,  rispetto reciproco tra gli uomini proprio in quanto socialmente uguali (seguendo una citazione di Hooker, scrittore ecclesiastico di poco precedente).

Ai margini. Antologia di Locke. Rousseau, sotto questo profilo, è più vicino a Filmer e ai teorici dell'appropriazione assoluta e primordiale come base del potere e della legge; pare quasi un teorico dell'assolutismo, quando ragiona sullo stato di natura, anche se insieme con Locke ritiene che l'uscita dal diritto naturale nasce dalla volontà razionalmente stabilita di limitarne i difetti e le mancanze. Ma mentre per Locke l'uomo è necessariamente portato al bene (si badi bene necessariamente e non innatamente) proprio perché innatamente portato alla vita sociale, dunque necessario è il bene e innato è il sociale nell'uomo (pare Aristotele e il suo anthropos politikos, l'uomo come animale politico), per Rousseau l'uomo non è così ragionevole da andare necessariamente verso il bene, di ragionare sul bene, e la sua presa di coscienza nasce dal sentimento opposto a quello del bene, cioè dalla paura e dal timore, e non dalla condivisione dei beni e dalla spartizione della gioia come secondo Locke. Per Rousseau il consenso che sta alla base della legge positiva deve essere, necessariamente, totalizzante e assolutista (la volontà generale) proprio perché il superamento dello stato di natura avviene per evitare il male, la paura e la guerra individuale e dunque si fonda su un consenso che deve essere unanime e riguardare la sfera stessa della sopravvivenza e conservazione dell'individuo, chiamata in causa dalla paura dell'estinzione e della perdita di sé: a fronte di una perdita totale Rousseau immagina un'affermazione sociale totale la sua, appunto, 'volontà generale'.
Rousseau è un sociologo materialista e pessimista del sedicesimo secolo, là dove Locke appare essere un sociologo idealista del diciottesimo.

Venerdì, 26 settembre

Letture. Antologia di Locke. Lo stato di natura è una fase essenzialmente positiva per Locke durante la quale gli uomini imparano a commisurare i loro bisogni con quelli altrui e, per certi versi, a collaborare tra di loro e la collaborazione è una sorta di definizione di aree di rispetto reciproco, una sommatoria di spazi individualizzati. Per Locke lo stato di natura non è una chimera, un'invenzione filosofica, un luogo dell'anima e dell'ideale, una perduta utopia ed età dell'oro, ma è esistito ed esiste ancora presso alcuni popoli (allo stato delle sue conoscenze antropologiche presso i nativi americani) ed è quindi uno stato storico sperimentabile e osservabile.
Le relazioni internazionali sono paradigmatiche della possibilità e delle caratteristiche dello stato di natura: le nazioni e i regni si comportano tra di loro precisamente come si comportano gli uomini in stato di natura; queste non sono mai improntate a un bellum omnes contra omnes, ma sono capaci di produrre patti, alleanze e lunghi periodo di pace (sarebbe meglio dire tregua per l'epoca di Locke che non conosceva il diritto internazionale). Anche in assenza di un diritto internazionale, per Locke, il diritto internazionale esiste: è la legge naturale delle relazioni tra gli stati, la legge di natura degli stati.
La lettura si è fatta, così, da noiosa interessante.

Ai margini. Antologia di Locke. Non mi vergogno a confessare che Locke continua a piacermi come mi piaceva da adolescente. Apprezzo e condivido soprattutto la sua descrizione dello stato di natura come periodo positivo della storia umana e periodo già dotato di etica. Lo stato di natura è etico e positivo non perché l'uomo sia buono innatamente, ma perché gli è conveniente esserlo, secondo un calcolo razionale che lo divide da tutti gli altri animali; quindi l'etica si fonda sulla riflessione, sul ragionamento su noi stessi e gli altri, è un'etica della convenienza, e quindi, in fondo, animalesca, ma è un'etica, un modo di comportarsi consapevole di sé stesso, una percezione di sé stessi (Spinoza e anche Kant la pensavano quasi così).
La legge positiva deve essere l'evoluzione della legge naturale, la sua realizzazione completa e il suo perfezionamento. Nessuna bontà innata, l'uomo non è buono di per sé, ma è dotato di un'innata ragionevolezza che lo porta necessariamente al bene.
Sarebbe bello ragionare su quanto la legge positiva, il diritto, la giurisprudenza, nel suo realizzarsi storico, sia entrata, invece, in contraddizione con i semplici assiomi di quella naturale, facendo dell'etica post natura un elemento che si eleva super natura e quindi sopra l'uomo, trasformando l'uomo in qualche cosa che è diverso dall'uomo e quali siano state le cause di questa evoluzione che si presenta quasi come rottura. L'etica si è trasformata in qualcosa di non umano, una caricatura dell'uomo, un mostro, un minotauro, che parla all'uomo ma non alla percezione di sé dell'uomo, proprio perché pretende di entrare e interferire direttamente in quella. Dal momento che, come pensava Locke, l'etica è il prodotto della ragione naturale e innata, anche la ragione naturale si è trasformata in un'altra ragione, in un'altra razionalità e ragionevolezza, in una mostruosità totalitaria, precisamente come oggi si presenta l'etica e la legge positiva (pensiamo ai califfi del levante, ai binladisti, ai bombardieri di Obama, al new deal, al fascismo, al nazismo, al socialismo reale con i loro ospedali, manicomi, carceri, scuole, istituti di cura, moschee, sinagoghe, chiese, istituti di rieducazione, con la loro tecnica e la loro scienza e via discorrendo, che descrivono una cosa molto semplice: il desiderio della legge positiva di controllare tutti gli aspetti della vita sociale, per negarla nella sua essenza, per rinnegare la sua origine che è il lockiano stato di natura).
Allora Locke aveva certamente ragione, sbagliandosi, mentre Rousseau, che sotto un profilo teoretico era nel torto, aveva ragione, il pessimismo di Rousseau era una proiezione sul futuro, un presagio e la sua volontà generale una sorta di concetto 'fantasociologico': Rousseau aveva compreso che la ragione era manipolabile nell'intimo e che, dunque, non avrebbe potuto fondare l'etica. Ancora una volta Rousseau faceva, inconsapevolmente, un ragionamento materialista e storico, Locke rimaneva un idealista.

Letture. Antologia di Locke. Segue la genesi della proprietà in Locke, o meglio secondo Locke.
La proprietà è un prodotto che non è in contraddizione con lo stato di natura, dove il dato iniziale è una proprietà comune e indivisa (Marx lo definì comunismo originario). Come questa proprietà comune e indivisa si privatizza? La proprietà, secondo Locke, è il risultato dell'attività umana svolta sulla natura, sia quando l'uomo ha iniziato a raccogliere i frutti che nascevano spontanei, sia quando ha iniziato a cacciare gli altri animali. Sarebbe, quindi, il prodotto del lavoro dell'uomo che è un elemento naturale, comune, in questa fase primordiale, a tutti gli animali. L'uomo, però, percepisce il valore del suo lavoro, percepisce la sua capacità di trasformare le cose, al contrario degli altri animali, e pur essendo un semplice raccoglitore o cacciatore rivendica il possesso sulle cose che caccia e raccoglie. Nello stato di natura gli altri uomini rispettano, se non spinti da un estremo bisogno, questa primordiale idea di proprietà e la mettono in pratica anche per sé stessi. Sorge, dunque, il reciproco rispetto delle rispettive sfere di influenza, alla base di questo sentimento è l'istituto della proprietà.
L'idea si precisa quando l'uomo, con lo sviluppo dell'agricoltura, inizia a recintare e a fare suoi i terreni. Il fatto che  sottragga al potenziale uso comune, al comunismo originario, l'uso di alcuni terreni non costituisce contraddizione con il primitivo stato di natura, e a ragione, perché anche nel concetto di comunismo originario, è presente l'idea di proprietà, seppur vissuta come fatto collettivo di comune usufrutto. Inoltre, fino a che l'estensione del terreno privatizzato è proporzionale alla capacità del lavoratore, del produttore, la proprietà non entra in contrasto con il diritto naturale che impone il libero accesso a tutti delle risorse nelle rispettive sfere di influenza e in assenza di un bisogno estremo. Quando però, aggiunge Locke, l'estensione del terreno agricolo oltrepassa le capacità di lavoro del proprietario, allora, sotto il profilo del diritto naturale, la proprietà diviene illegittima, destinando la terra a inselvatichirsi e i frutti a marcire.
In questa fase di misura e proporzione tra proprietà e lavoro, l'uomo, pur allontanandosi dallo stato di natura perfetto, dal comunismo originario, non lo rinnega (interessante il parallelismo e analogia tra il lavoro che fonda la proprietà e la contemporanea trasformazione della natura che opera quel lavoro, in base al quale anche la natura perde la sua perfetta naturalità).
Solo quando l'uomo scopre il danaro, impara a oltrepassare la misura del suo lavoro nella determinazione della proprietà e solo allora la proprietà entra in conflitto con lo stato di natura. Questa fuori uscita dall'equilibrio tra lavoro e proprietà si basa sulla convenzione e il consenso intorno all'uso del danaro e il danaro, per Locke, è la vera negazione dello stato di natura e della legge naturale che, invece, non si basa né su convenzioni né su consensi universali ma solo su reciprocità dirette tra gli individui.
Locke fin qui descrive una forma di proprietà primordiale, egalitaria e quasi innata che altri, gli anarchici dell'800 e anche i socialisti pre – marxisti ad esempio, avrebbero derubricato in possesso.

Ai margini. Antologia di Locke. La prima critica alla quale si offre Locke in questa definizione della proprietà primordiale come prodotto e misura del lavoro individuale sta nell'assenza della possibilità del lavoro collettivo, della cooperazione tra gli uomini, come possibilità altrettanto naturale del conformarsi del concetto di proprietà. Molto probabilmente, per certa convenienza, la prima forma di proprietà fu di tipo collettivo: un comune usufrutto dei terreni legato alla sfera di un gruppo coeso e omogeneo di individui. Dopo di ché da questa forma di comunismo originario è ben più facile spiegare lo sviluppo del concetto di proprietà originaria. Nel comunismo originario esiste l'idea del comune usufrutto ma limitata a un gruppo umano, si tratta della comunione delle proprietà potenzialmente individuali riguardante quel gruppo. Marx sottolinea che nel comunismo originario non c'è nulla di comunistico, che si tratta di una rozza estensione del concetto di possesso privato, una sommatoria di più possessi e che, paradossalmente, il comunismo primordiale si trova agli antipodi del comunismo moderno dove il concetto di proprietà o possesso è sostituito dal concetto di uso. Anzi per Marx il passaggio dal possesso alla proprietà di realizza in forme comunitarie, la proprietà nasce come fenomeno collettivo.
La seconda critica può essere mossa intorno al fatto che Locke usa un concetto di proprietà naturale molto diverso da quello reale, non ritenendo che la proprietà primordiale possa riguardare il lavoro e cioè che il lavoro di un uomo e il suo prodotto possano appartenere a un altro uomo. Questa limitazione fa onore a Locke, sotto il profilo etico e utopico, ma nella concretezza rivela il fatto che qui non si discute veramente di proprietà ma di possesso, che con la proprietà ha ben poco vedere; il possesso non è legato neppure all'estensione prodotta dal lavoro, non sancisce neppure il limite e il recinto perché non riesce a giustificarlo. Il possesso, che Locke  confonde con la proprietà primordiale, non è una forma di proprietà e Locke, in questa confusione, compie un'operazione ideologica: il naturale usufrutto e la spontanea trasformazione della natura da parte dell'uomo diventa la base naturale, innata nella nostra specie (innata perché naturalmente portata all'intervento razionale e tecnico sulla natura), del concetto di proprietà che, cioè, diventa un concetto innato e naturale, nella sostanza almeno.

Sabato, 27 settembre

Annotazione. Ho spesso ragionato intorno a questa cosa, più o meno approfonditamente, dello stato di natura, perché mi pare un concetto importante dell'uomo e sull'uomo, in quanto creato, ideato dall'uomo fin dall'antichità classica. Ragionare sul principio dei tempi sociali è una caratteristica dell'uomo da quando vive in società.
Ragionando su questo sono venuto alla conclusione che lo stato di natura non esiste.
1 – è un'impossibilità logica. L'uomo, in quanto tale, distrugge il suo stato naturale, se mai dovesse darsi, come anche Locke argomenta.
2 – lo stato naturale dell'uomo è proprio quello di non esserlo ma di vivere in una continua trasformazione sia nei confronti della natura sia nei confronti di sé stesso.
3 – uno stato in continua evoluzione non è uno stato e la parola può solo essere usata per comodità ma non costituire una categoria.
4 – il ragionamento stesso sullo stato di natura dai greci in poi non è il segno inconfutabile della sua esistenza effettiva, ma semmai il sintomo di un disagio provocato dallo stato sociale generale e storico.
5 – il diritto di natura è stato immediatamente un diritto positivo, anche se non formalizzato in giurisprudenza e istituzioni.
6 – l'uomo è un concetto relazionale, non assoluto, dinamico, non statico costruito sulla base delle relazioni con la natura, relazioni tecniche e di appropriazione, e con gli altri uomini, relazioni sociali.


rivedi settembre

Inizio anno

Sabato, 4 ottobre

Letture. Antologia di Locke. Prosegue la lettura di un interessante e 'ovvio' illuminista del seicento.

Annotazione. Il seicento! Questo secolo incredibile, secolo di Caravaggio e Masaniello, di Luigi XIV e di Oliver Cromwell, di De Witt e Guglielmo d'Orange, è quasi un anticipo della contemporaneità. Tempo fa, quando ero intenzionato a scrivere una storia delle rivoluzioni, il XVII secolo, con la rivolta olandese, le ribellioni catalane e le rivoluzioni napoletana e inglese, avrebbe avuto un ruolo d'eccellenza, direi centrale: il seicento è stato un secolo rivoluzionario nel vero senso della parola, poiché ha 'scoperto' la 'rivoluzione', senza, però, teorizzarla. Il secolo seguente, meno vivace ma molto più conosciuto e ingiustamente emblematico sotto questo punto di vista, ha, però, costruito una teoria del processo rivoluzionario, soprattutto durante la rivoluzione francese e la fase giacobina di quella.
Non casualmente, dopo una visita a Feltrinelli (cinque piani concentrici intorno a un immenso vano scale, un percorso in finzione circolare, dove si pretende di imitare un'alfa e un'omega che non si concretizza), ho comprato una riedizione di Spinoza per la UTET, datata al 1997, con una ponderosa introduzione di Remo Cantoni: si tratta dell'Etica (che ho già letto circa quindici – venti anni fa) e del trattato teologico politico (che non ho mai letto).

Letture. Autonomi volume II, ultime e finali letture. Il contributo di Carlos Prieto del Campo, anno 2007, è influenzato da Impero e Moltitudine e dallo svolgersi del movimento dei movimenti (leggi no global) e vede possibilità e operatività dell'autonomia anche dove non è.
Manca un contributo sull'autonomia in Francia e in genere sui movimenti francesi ma sono illuminanti gli estratti (bozze?) di Micropolitiques di Guattari (1986). Soprattutto il concetto di microfascismo (come lato negativo della molecolarità antagonista) nello scassa – scassa brasiliano dell'83 (riferimento indiretto ai casseurs francesi?) che diventa non una pratica di riappropriazione e di distruzione dei segni del capitale, ma pratica di vita, di negazione di sé (penso agli ultrà da stadio di certe curve sportive), di morte sociale, di dissoluzione di qualsiasi ordine sociale e sistema di convivenza. 
Ancora più interessante il coevo concetto di CMI (capitale mondiale integrato) ben meno impreciso, ideologico e rappresentativo di quello di globalizzazione. Per il resto tutte cose serie ma perfettamente inquadrabili nel concetto marxiano di sussunzione reale o negriano di comunismo del capitale.
Due parole sull'Argentina che viene affrontata nel contributo collettivo. In quello, in realtà, si scrive dell'anomalia argentina che assomiglia a quella italiana e anziché aiutare a generalizzare il fenomeno dell'autonomia a livello teoretico, ne prova, involontariamente, la dipendenza da una combine di fattori: un retroterra capitalistico particolare (arretratezza nella struttura rappresentativa del capitale e della sua soggettività nei due paesi) che produsse, a fronte dell'esplodere di rapporti sociali integralmente sussunti, un ciclo di lotte incredibili, funzionando da brodo di coltura dell'autonomia operaia storicamente intesa (e limitata). Questo approccio analitico non è capace, quindi, di fornire una visione strutturale, generale e 'ontologica' dell'autonomia operaia, limitandosi alla sintassi generata storicamente.

Domenica, 5 ottobre

Letture. Huwey Newton in Autonomi volume II, secondo Reyes. Leader del Black Panther Party dopo il 1970 seppe elaborare una straordinaria teoria rivoluzionaria e controcorrente che definì egli stesso intercomunitarismo, teoria critica rispetto alla tradizione terzo – mondista e militarista delle Pantere Nere. Intercomunitarismo, termine che Newton faticò a individuare e coniare, significava per lui la possibilità di creare, organizzare e coordinare tutte le diverse comunità proletarie e antagoniste, frazionate non solo territorialmente (rigidamente ad di fuori del rispecchiamento di ogni geografia e distrettazione istituzionale e imposta) ma anche secondo comportamenti, codici di lotta e obiettivi specifici di liberazione
Newton teorizzò che le nazioni non esistono più e che con quelle è morto anche l'imperialismo che conosceva e analizzava Lenin e tutta la sinistra marxista. Dal momento che la teoria del BPP era fondata sul concetto di nazione nera e sul principio di autodeterminazione dei popoli di leninista memoria (principio insulso e inutile, per me, fin dai tempi dell'imperialismo ruggente e valido solo nella lotta contro il colonialismo) le Pantere Nere erano rimaste indietro rispetto alle trasformazioni in atto. Il problema non era più l'affermazione rivoluzionaria delle nazionalità oppresse contro l'imperialismo ma quello di costituire un nuovo fronte proletario contro i nuovi orizzonti raggiunti dal dominio del capitale. Il nuovo orizzonte era quello di un indifferenziato dispiegarsi del capitalismo al di sopra delle nazioni e dei singoli stati, di non avere riferimenti
verso nazioni egemoni e forti, che attraverso l'imperialismo governavano nazioni e nazionalità, tranne quello transnazionale verso gli USA .
Il capitalismo moderno è, secondo Huwey, come la coca cola: non ha bisogno delle nazioni, è internazionale, è un dominio privo di specificità storiche e culturali; le multinazionali e le oligarchie finanziarie sono il capitalismo, l'indifferenziato mediatico la sua soggettività.
Huwey pensava davvero a qualcosa di simile al capitalismo mondiale integrato di Guattari, con quindici anni di anticipo e in un contesto politico (il nazionalismo 'rivoluzionario' del BPP) non particolarmente favorevole allo sviluppo e proselitismo della sua teoria.
Dopo le nazioni, conseguentemente e con vera lucidità e coraggio intellettuale, Huwey analizza e critica lo stato. Lo stato, per Newton, non esiste più, è solo una finzione, se per stato s'intende
(secondo la lezione di Lenin) il tradizionale codificatore degli antagonismi di classe; la dialettica che stava alla base dell'istituzione – stato è stata superata dal capitalismo, ormai incapace di dominio dialettico, se non in rappresentazione, ideologia e simbologia.
Il capitalismo reale ha distrutto le nazioni e lo stato e quindi anche il modo di essere tradizionale dell'antagonismo.
Non si tratta per Huwey di attaccare militarmente quello che in realtà esiste solo in finzione, secondo una logica  della negazione che aveva fatto proseliti negli anni sessanta, perché si tratterebbe di cadere in una trappola, in una rappresentazione simbolica del conflitto e non nel conflitto autentico; di fronte al vuoto istituzionale, invece, lasciato dal capitalismo realizzato pienamente, quello che Newton chiama già impero o intercomunitarismo del capitale, è necessario produrre un'affermazione uguale e contraria, che non si misura con il tasso di capacità offensiva tradizionale (attacco, destabilizzazione, distruzione del nemico di classe) ma nuovo (costituzione delle comunità antagoniste → resistenza → nuova affermazione di comunità e socialità), un'offensiva che non ha fini pratici immediati e produttivi, ma i cui fini pratici e gli stati organizzativi che origina non si risolvono in sé stessi, perché non si possono né devono realizzare compiutamente, perché nulla nella società comunista e proletaria sarà compiuto e fermo, precisamente come nel capitalismo.
Si tratta, per Huwey, di un processo continuo, senza fine, che è governato da un desiderio cioè quello di porre fine alla dialettica di classe, alla lotta di classe, planetaria.
Questo è per Newton l'intercomunitarismo rivoluzionario.

Domenica, 12 ottobre

Letture. Autonomi, iniziato il volume III. Notevole il contributo di Virno, datato 1998, sulla potenziale nuova tradizione culturale del pensiero autonomo e materialista. Deleuze, Foucault, Debord, ma anche Herder, ma anche il seicento e il rinascimento e una volta tanto, per fortuna, escluso Nietzsche, anche nell'interesse del suo pensiero e nell'interesse della verità storica. Interessante, quindi, l'idea di Virno che, però, a tratti ho percepito come inutile, un po'  barocca, un po' vana.
Belli i riferimenti storici agli anabattisti, ai sanculotti e alla comune di Parigi, il famoso 18 marzo 1871.
In tema di bandiere rivoluzionarie, tema che Virno affronta, proporrei una bandiera molto semplice, che uscirebbe in un acronimo a mio parere elegante: ozio, piacere e reddito, O.P.R.

Lunedì, 13 ottobre

Letture. Autonomi volume III. Contributi di Piperno, targati 1984 e 1989 ovvero 'Franco Piperno e l'informatica'. Li ho trovati entrambi poco convincenti e anche un po' datati. Ho riscontrato un'esagerazione nel valutare il ruolo della tecnologia, pensato spesso quasi come libero e slegato dall'economia e dalla socialità. Sembra quasi di leggere un manifesto 'sovrastrutturalista', secondo il quale l'avvento di nuove forme di comunicazione determina una nuova socialità ed economia.
È indiscutibile che l'informatica non può essere ridotta a un'oralità e scrittura velocizzate al parossismo e che i tempi della tecnologia informatica non sono tempi percepibili antropologicamente. Questo aspetto tecnico, trattato quasi come 'ontologico' da Piperno, non è l'aspetto fondante dell'informatica, ne è solo un fenomeno.
La grande novità dell'informatica sta nell'essere indipendente, al contrario di oralità e grafia, dal suo supporto, ma questo non significa che l'informatica abbia una sua 'ontologia', un modo di essere.
È vero che oralità e scrittura hanno un modo di essere loro proprio, rispetto al quale la nostra specie non può rimanere indifferente, mentre l'informatica, invece, no: ma non perché il modo di essere dell'informatica si opponga per certi versi a quello umano, come in parte sembrava sostenere Piperno, ma perché il modo di essere dell'informatica ci è, alla fine, del tutto indifferente.
Questo non significa che l'informatica sia un fenomeno 'neutro': esattamente come oralità e scrittura organizza le sue informazioni secondo tecniche mnemoniche, mnenotecniche. La memoria informatica, con la sua incredibile e in crescita esponenziale potenzialità quantitativa, non abolisce la tecnica mnemonica, così come non fece la scrittura con l'oralità, al contrario, proprio per la sua massività, richiede maggiore tecnica mnemonica e, per certi versi, ci riavvicina, sotto questo punto di vista, all'oralità (sempre usando le terminologie di Piperno).
Quello che sfugge in questi due contributi (ma l'opera è prematura e Piperno non poteva conoscere gli orizzonti della telematica) è che l'informatica pone al centro di sé stessa, non l'informazione, ma un sottomultiplo di quella, un'unità informativa indifferente alla nostra percezione; la combinazione di queste unità informative, di questo sottomultipli infinitesimali, è data fin da subito nella forma non dell'informazione ma dell'interpretazione. L'informazione in informatica è immediatamente interpretazione del dato informativo ed è il flusso interpretato delle unità informative di base che non sono altro che ulteriori interpretazioni frammentate, che si ricompongono continuamente in altre interpretazioni.
Il sistema informatico è, cioè, un sistema intrinsecamente aperto, al contrario della scrittura che apre e chiude in un dato punto il ciclo e il flusso informativo.
Ancora una volta, secondo me, il ciclo informatico assomiglia a quello orale più di quanto potrebbe  sembrare in seguito a un approccio tecnico del fenomeno. Se si analizzasse, come ha fatto Piperno con l'informatica, la scrittura, si correrebbe il rischio di separare quella lapidea, quella papiracea e quella cartacea come fase capaci di generare necessariamente prodotti tra loro diversi, saperi tecnici diversi.
Non è la velocità, come per il caso della scrittura, ad aver deciso del sapere informatico ma il fatto di essere un sapere aperto, capace di assemblare segmenti di conoscenza e memoria lontanissimi, sotto il profilo della tecnica grafica, meno, lo ripeto, sotto quello dell'oralità.
La velocità ci è indifferente come scrivere con una biro o una matita, su carta o su cartone, incidere su pietra e pergamena: non è quello l'elemento decisivo della scrittura e nella forma della scrittura.
L'elemento distintivo della scrittura è il testo che è un modello informativo chiuso, capace di aprirsi solo attraverso il riferimento ad altri testi, ad altri sistemi informativi chiusi. L'elemento distintivo dell'informatica è di essere un modello informativo aperto, che è di per sé stesso un riferimento ad altri segmenti informativi senza i quali non esisterebbe, perderebbe senso, e di essere, proprio per questo, interpretazione, subito e immediatamente, davvero in questo caso, fin dal suo supporto oggi ormai virtualizzato, interpretazione delle informazioni di base.
La velocità del movimento delle informazioni informatiche è solo un elemento fenomenologico (certamente utile ma non alla fine indispensabile a questa apertura del sistema) assolutamente indifferente alla nostra percezione, ai nostri sensi. Per esempio non è la velocità in cui ci giungono le mail a stupirci e disorientarci (perché non la percepiamo e neppure abbiamo interesse alcuno a percepirla: sarebbe come se lo scrittore si interrogasse costantemente sulla struttura molecolare di carte e inchiostro) ma il loro numero e l'incredibile varietà di informazioni e di interlocutori che affrontiamo, oppure, non è la velocità del programma di calcolo, ma la facilità con cui quello combina le funzioni di calcolo e via discorrendo.

Martedì, 14 ottobre

Letture. Locke. Il potere esecutivo deve essere stabile temporalmente, il potere legislativo può e deve essere instabile e transitorio e Locke traccia la separazione dei poteri soprattutto sub specie temporis.
La democrazia per Locke è indubitabilmente una democrazia parlamentare e rappresentativa, anzi direi che Locke ne è il teorico.
Di un altra cosa Locke è protagonista teorico in alcuni brani del suo 'Saggio sulla tolleranza' che sto iniziando a scorrere (soffermandomi sulle mie precedenti sottolineature): del 'bene' sociale che si identifica con la proprietà (o meglio il proudhoniano possesso, a mio parere), l'esistenza in vita e la conservazione di sé. Il legislativo e la società politica devono perseguire questo 'bene' per l'uomo, che è un bene dato a priori, senza un'analisi critica e preventiva che lo sostenga come bene. A tratti pare di leggere che il bene è il bene perché è il bene.
Quando nel saggio Locke affronta il tema dell'assoluta libertà di confessione religiosa precisa immediatamente che questa assoluta libertà, giacché investe questioni che non riguardano proprietà, esistenza e conservazione, è assolutamente innocua al corpo sociale.
La perfetta libertà d'opinione, per Locke, è limitata a questioni che Kant avrebbe detto, criticamente, metafisiche, ubicate nell'incondizionato, politicizzando Kant, direi nell'incondizionato sociale.
Dunque un'aperta critica alla proprietà come prodotto di un'appropriazione eticamente riprovevole e in opposizione ai precetti evangelici, che fu teoria molto vicina ai tempi di Locke, adottata da Levellers e Ranthers del decennio rivoluzionario inglese (1640 – 1650), potrebbe non essere compresa nella tolleranza lockiana; qui si sarebbe messo in discussione il 'bene' precisamente come la tirannide, il dispotismo e l'usurpazione avevano fatto in passato.

Sabato, 18 ottobre

Letture. Antologia di Locke. Diciamo che è abbastanza facile affermare  che l'opera di Locke è storicizzabile.
Numerosissimi sono i riferimenti alla recente storia inglese, soprattutto il periodo rivoluzionario, che è come per Spinoza il riferimento al governo De Witt, ma più preciso e strutturante ideologicamente. Quindi ritroviamo richiami ai discorsi di re Giacomo, quasi ad esempio dell'esposizione dei principi di una monarchia costituzionale o certamente contrapposta alla tirannide in materia di 'diritto pubblico e costituzionale', e nel saggio sulla tolleranza, dove si enuncia il principio dell'assoluta tolleranza e indifferenza dello stato alle cose religiose, improvvisamente compaiono distinguo ed esclusioni, soprattutto verso i papisti (detti anche cattolici o eretici) che tendono a non riconoscere l'autorità pubblica, sia essa espressa dal monarca o dal parlamento, e a costituirsi in partito, in una setta posta sotto la diretta influenza del Papa e quindi di un sovrano straniero. Tale predisposizione dei papisti rende legittimo per il legislatore l'uso di una legislazione repressiva che limiti le loro possibilità di organizzazione e propaganda, perché costoro non tanto creano un partito politico, che sarebbe perfettamente accettabile, ma finiscono per complottare contro la nazione, mettendosi al servizio di potenze straniere (nel caso di Locke la Francia del cattolico Luigi XIV).
Questa caratteristica di porsi al servizio dello straniero lede una delle funzioni vitali dello stato e una delle motivazioni della sua genesi: la difesa della vita e dell'esistenza dei suoi componenti.
A rigor di logica lockiana, giacché il diritto internazionale applica ed è il prodotto dello stato di natura, i papisti sono in contraddizione anche con quella elementare forma di comunità.
Contestualizzabile, inoltre, è il sospetto che, sempre nel saggio, il legislatore deve avere verso le sette protestanti radicali, i cosiddetti 'fanatici' nel testo (un termine che Locke, però, ritiene diffuso, adatto a rappresentare la situazione ma inopportuno e scorretto politicamente), che rifiutano la chiesa anglicana e la sua ortodossia. Questa diffidenza genera sicuramente dal ruolo che ebbero durante la guerra civile e la parentesi rivoluzionaria e repubblicana degli anni quaranta, quando i gruppi di protestanti vicini ai leveller misero spesso in discussione la democrazia rappresentativa a favore di un'altra idea di democrazia, espressa direttamente e in ogni settore della vita sociale, in primo luogo nell'esercito (pensiamo al new model army e agli rounded heads).
Qui, quando pensiero evangelico diviene pensiero politico, Locke ferma l'ambito della tolleranza perché, secondo le grammatiche di quell'epoca, quel pensiero da metafisico e rivolto all'incondizionato si volge al condizionato, al bene, il famoso 'bene sociale', danneggiandolo.
A questo punto la storicità del pensiero di Locke si innalza dal contingente al generale o, meglio, si allaccia al pensiero generale, all'impianto generale del pensiero di Locke in materia, che può essere così sommariamente riassunto: lo stato di natura individua già il bene sociale, lo presagisce (esistenza e proprietà), lo stato positivo organizza quello di natura, evitandone i difetti che riguardano la concreta realizzazione di questi due beni fondamentali ed esistenza in vita e garanzia della proprietà sono i diritti civili fondamentali che il diritto positivo individua e difende e, infine, lo stato, per non essere dispotico e dunque entrare in contraddizione con questi fondamentali diritti, deve generare da un consenso unanime, realizzarsi attraverso un consenso maggioritario e strutture rappresentative della cittadinanza.
È abbastanza facile, fin troppo facile ma corrispondente al vero, asserire che Locke è stato un teorico della democrazia borghese ovvero della forma stato adeguato alla borghesia primordiale, artigiana e mercantile, appena emancipata dal feudalesimo e dallo stato assoluto aristocratico. Locke ne è stato un teorico semplice ed empirico, lineare, come nel suo pensiero filosofico.
Poi necessariamente (e spiegare l'uso di questo avverbio richiederebbe un intero quaderno di appunti) ci si trova di fronte a principi di valore universale (e anche su quest'aggettivo un intero quaderno ma in brevissimo: validi per sempre, quasi uno stato di natura dinamico, però): “ … il magistrato, usando la forza, contraddice a ciò che egli stesso pretende di fare, ossia alla salvezza di tutti … - e ancora, poco più sotto - … se fa del male e distrugge anche uno solo dei suoi  sudditi per la sicurezza degli altri, egli contraddice al suo assunto, che si dice che sia e che dovrebbe essere, appunto, quello di preservare tutti, anche i più umili tra i suoi sudditi …”.
Questo mi ricorda una citazione di Kant riguardo all'uomo come fine e mai come mezzo e la polemica durissima contro l'istituzione del tristemente famoso, lugubre, tribunale del popolo delle Brigate Rosse allo scopo di processare e condannare a morte Aldo Moro, nella quale si affermò, più che giustamente, che in quella pratica non esisteva neppure l'ombra del comunismo, poiché ai comunisti doveva interessare di portare tutti al comunismo, e questo interesse era una necessità etica, umana, necessaria appunto (per tornare a spiegare in parte l'avverbio di prima).

Domenica, 26 ottobre

Letture. Prosegue l'antologia su Locke. Siamo arrivati alla cosiddetta “Lettera sulla tolleranza” nella quale Locke manifesta un'estrema coerenza con quanto già scritto nel saggio, anche se qui limitato al problema del pensiero volto verso l'incondizionato.
Locke propugna l'assoluta libertà di associazione religiosa e nell'associazione religiosa, allorchè l'associazione non pretenda di esprimere competenze che, invece, spettano alla magistratura ('il magistrato' secondo il suo modo di scrivere) civile. Queste competenze non devono essere espresse né all'esterno dell'organizzazione, della 'chiesa', pretendendo così di usufruire della legislazione civile per ottenere consensi, proselitismo e privilegi, perché si tratterebbe di una vittoria e di un aumento fasullo, ottenuto con la forza, che è l'essenza della coercizione legale; parimenti sono ancor più inaccettabili gli atti legali rivolti verso l'interno della chiesa, contro dissidenti o critici, che non possono essere colpiti nei loro diritti fondamentali (esistenza in vita e proprietà) ma, certamente, allontanati dalla comunità dei fedeli ma null'altro oltre quello.
Le competenze giuridiche delle chiese non sono civili e non possono essere civili, poiché cesserebbero ipso facto di essere religiose, vale a dire smetterebbero di muoversi nell'incondizionato.
Quel che Locke sottolinea è l'assoluta, costitutiva, libertà individuale in materia di scelte religiose, senza la quale, alla fine, la scelta non sarebbe religiosa, dettata dalla coscienza, ma dalla coercizione e dalla paura, come accade nella vita sottoposta alla magistratura civile. Con ben più forza che nel saggio, Locke ritiene che l'uomo è assolutamente libero di scegliere il suo credo, perché questo è ininfluente, almeno direttamente, con il bene generale e deve, per Locke, rimanere tale.
L'elemento centrale nel pensiero politico di Locke è proprio in questa necessaria e netta separazione tra vita religiosa e vita politica e civile: la religione, nonostante il personale e sentito cristianesimo dell'autore, deve essere indifferente alla vita pubblica. Si tratta di un'esigenza politica molto forte e, credo, condivisa nell'epoca dell'ascesa della borghesia e dell'economia del libero mercato, dopo che nei decenni precedenti proprio le chiese e l'adesione alle diverse chiese aveva assunto valenze politiche dichiarate.
La lettera sulla tolleranza è la registrazione della fine dell'epoca rivoluzionaria dell'Inghilterra, è la teorizzazione della nuova stabilità, dove incondizionato, metafisica e utopia NON si devono confrontare con condizionato, politica e pragmatica: ho l'impressione di trovarmi di fronte al “la rivoluzione è finita: abbiamo vinto” della borghesia.
Con cinismo storicista si può scrivere che il ruolo di sette radicali e protestanti, almeno in Inghilterra, si era esaurito e che, più in generale, la funzione (che parola consumata!) delle grandi ideologie religiose era finita, funzione espressa attraverso l'ideazione e il sogno utopico o al contrario attraverso la mummificazione delle idee e l'incubo conservatore (pensiamo all'inquisizione cattolica) sulla storia e sulla società.
Con cinismo filosofico scriverei volentieri che la religione, come prodotto del neolitico, come strumento di definizione della socialità e della politicità, declinava il suo ruolo per astrarsi, metastoricizzarsi, uscendo dalle relazioni umane per entrare in quelle etiche, nel palinsesto delle relazioni etiche. Dopo questo esaurimento e declino la religione diventa solo cosa metafisica, problema filosofico e la filosofia stessa si riduce a essere tecnica di validazione e registrazione del pensiero etico e del pensiero scientifico. Il neolitico culturale, in Inghilterra, nel XVII secolo, muore. Locke, nella lettera sulla tolleranza, forse perché opera circoscritta, registra involontariamente, anzi rivendica e pretende questa morte.
Tutta l'opera generale di Locke è il funerale della religione e della metafisica tradizionali, è l'esaltazione dell'etica come prodotto di una metafisica che non si fonda sull'incondizionato, non si genera in quello, ma si rivolge al condizionato. Nulla è incondizionato in Locke tranne il fatto di essere condizionato, il condizionato, il contingente e l'empirico divengono, così, indiscutibili, il condizionato diventa indiscutibile e incondizionato, diventa metafisico.
Giusto per storicizzare ancora di più Locke con suoi brani dal sapore davvero contingente ma, comunque, notevoli per lo spirito più che tagliente, direi, acuminato: “ … né un pagano in America, né un cristiano dissidente in Europa può essere privato, in base a qualsiasi diritto,  dei suoi beni terreni per opera del partito predominante nella chiesa di stato; né i diritti civili devono essere mutati o violati col pretesto della religione, sia nell'uno, sia nell'altro paese ...”.
Poco sopra Locke affermava il niente affatto scontato principio che solo quando i riti ostacolano e vanno contro i diritti civili (facendo riferimento ai sacrifici umani) vanno condannati dal magistrato ma solo per quello, non certo va coinvolto nella condanna l'eventuale errore di pensiero che comporta tali pratiche.
Esistono, dunque, dei limiti alla libertà religiosa che subentrano quando questa, appunto, lede la libertà politica, quando le chiese si oppongono ai diritti fondamentali degli individui.
Sul fatto che per Locke e per la sua epoca la morte della religione come ideologia politica non equivalga alla morte della religione in generale, e cioè debba condurre all'ateismo, ma sia la sublimazione della religione nell'etica, o meglio dell'istinto religioso in istinto etico, valga per buona questa lapidaria frase scritta in proposito dei limiti della libertà in materia religiosa: “ … non vanno assolutamente tollerati quelli che negano l'esistenza di Dio. Le promesse, i patti, i giuramenti che rappresentano i vincoli della società umana non hanno alcuna presa su un ateo. L'ignorare Dio, sia pure nel solo pensiero, distrugge tutto ...”.
Dunque sono i nuovi orizzonti di Dio in Locke e i nuovi nemici dell'etica in questa frase, quasi profetica, profetica da un punto di vista filosofico, e direi sono anche un buon commiato, buono perché esauriente, dalla sua lettura.

Lunedì, 27 ottobre

Ai margini. Locke Antologia. Quello da Locke non è stato un commiato doloroso, anche se l'opera dell'Inglese, proprio per la sua banalità e chiarezza, mi affascina. Era proprio la banalità che ha reso a tratti la lettura faticosa, la banalità non significa sempre semplicità e questo è il caso di Locke. La banalità spesso nasconde e costringe a leggere in mezzo alle righe. In Locke alberga la semplicità borghese, la semplificazione dell'immagine del mondo che la nascente e dirompente classe imprenditoriale portò con sé, pretendeva da sé, facendo quella parte della sua vittoria che comportava la sconfitta di un mondo socialmente, economicamente e giuridicamente complesso, complesso nel senso di non – lineare, della continua introduzione di rotture e soluzioni di continuità nelle relazioni sociali, un mondo, scritto in una parola, disomogeneo.
L'economia di mercato del XVII secolo era, invece, omogeneità, indifferenziazione e, quindi, uguaglianza nelle relazioni sociali (tutte questi attributi in prospettiva, ovviamente), tutto questo, appunto, in mezzo alle righe, come lo si trova dentro la banalità di Locke. La banalità in Locke a volte, però, si fa complessa soprattutto quando mette in conto la specificità della politica concreta e contingente e quindi dei residui ancora vitali della società precedente; mentre diventa disarmante quando appiattisce la religione sull'etica e quando, in altre opere, riduce la metafisica alla scienza delle 'inconfutabili' relazioni di causa ed effetto.
In quei posti la banalità assume caratteri totalizzanti, disegnando una razionalità nuova che è costruita su un'unica possibile dimensione della conoscenza che è ancor oggi la grande utopia del capitalismo.
Poche anticipazioni e profezie, quindi, in Locke, solo registrazioni e prese di coscienza, e dunque la genesi di un'opera estremamente storicizzabile che per la sua 'piattezza' proietta un piano valido universalmente e dunque, in fondo, un'utopia: l'utopia borghese.

rivedi ottobre

Inizio anno

Sabato, 1 novembre

Iniziata la lettura dell'opera di Spinoza attraverso il testo Etica e Trattato teologico – politico edito per la UTET nel 1997 con un'introduzione di Remo Cantoni che è, praticamente, un'opera nell'opera. L'introduzione contiene una biografia ragionata del filosofo e una rassegna ben commentata della sua sua produzione intellettuale.
In quell'introduzione è sempre presente il fantasma di Locke, soprattutto per quello che riguarda la concezione spinoziana dello stato di natura e delle motivazioni del passaggio allo stato positivo (che è nei fatti descritto come evento necessario e quindi naturale) ma, paradossalmente, Cantoni presenta riferimenti a Hobbes e Rousseau e non a Locke. Forse perché l'eudaimonismo lockiano è effettivamente agli antipodi, per struttura, di quello spinoziano.

Domenica, 2 novembre

Letture. Etica di Spinoza per la UTET (1997). Se l'impressione generale nella lettura di Locke è stata dominata dal concetto di banalità, si badi bene banalità per me non è sinonimo di superficialità, come prevedevo Spinoza è tutt'altro. È tutt'altro non perché il suo pensiero sia complesso (l'Etica si presenta come un testo organizzato in maniera semplice, secondo, appunto, un esposizione per definizioni, proposizioni, corollari che è della geometria), ma perché profondo.
Ho sempre considerato e continuo a considerare (malgrado quella dell'Etica sia una rilettura) Spinoza tanto difficile quanto affascinante e coinvolgente.
Il significato di questo coinvolgimento non è solo emotivo o intellettuale ma 'razionale': per come Spinoza organizza il suo pensiero, o meglio per l'organizzazione del suo pensiero, noi ci troviamo a costituire uno degli infiniti elementi, modi di essere (per usare la sua terminologia) del suo sistema.
Sistema, è assolutamente necessario usare questa parola che, al contrario, sarebbe stata forzata nella descrizione del pensiero di Locke. Spinoza ha edificato un sistema analitico, conoscitivo e ontologico nel quale il lettore è costretto a riconoscersi (non importa se criticamente o no) perché ne entra a far parte integrante.
Leggere Spinoza non significa, come nel caso della lettura di Locke, annotare degli episodi analitici anche notevoli, ma essere portati all'analisi, essere guidati verso il ragionamento e sentirsi parte di una totalità che deve essere interpretata e che richiede l'interpretazione anche di noi stessi.
L'approccio sistemico di Spinoza è ben diverso, anche, da quello cartesiano (che da un certo punto di vista è stato l'inventore del pensiero sistematico moderno) nel quale il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto si affrontano con pari dignità filosofica e sono dati a priori separati; in Spinoza, invece, queste due cose, se separate tra di loro, perdono qualsiasi senso e rischiano di ridursi al nulla che, per Baruch, è l'assurdo, l'inesistente, per definizione e antonomasia.

Giovedì, 6 novembre

Letture. Etica, libro I, di Dio.
Proprio per la difficoltà della lettura, difficoltà intrinseca ed estrinseca (poiché avviene in tempi frazionati, in modi differenti, in luoghi instabili, spesso in movimento e disturbata da tutti questi attributi) sto immaginando qualcosa che potrebbe assomigliare a un commentario, costruito sulle chiose a matita che rapide scrivo sul treno, sulla panchina e al bar. Lo scopo di questo 'commentario in movimento' potrebbe essere quello di spiegarmi, quasi didascalicamente, il pensiero di Spinoza rispettando i punti del suo enunciato, vale a dire lo svolgimento della sua scrittura. L'obiettivo finale, assolutamente ambizioso e quasi sicuramente irrealizzabile a causa delle difficoltà che incontro nella scrittura di questo autore, sarebbe quello di renderlo intellegibile anche alla ragione di un bambino.
Il compito più arduo in un progetto simile sta nell'evitare facili semplificazioni (facili perché Spinoza può essere semplificato e banalizzato), mantenendo la natura diaristica, per me irrinunciabile, di questo commentario. Infine, lo ribadisco, il compito è arduo per il semplicissimo fatto che Spinoza non è filosofo facile da interpretare e soprattutto, una volta interpretato, descrivere.
La forma diaristica è irrinunciabile perché necessaria; non posso permettermi altro che un diario, un quaderno di appunti, per via dei tempi ristretti che la vita mi concede, dunque per necessità oggettiva e determinata dall'esterno e per non abdicare al divertimento, al movimento, al continuo cambiamento di scenari che la scrittura di questo diario mi procura e, quindi, per necessità soggettiva e determinata dall'interno (sto esercitandomi con la terminologia, traslata liberamente, di Spinoza). La lettura di Spinoza mi sta procurando i primi effetti, un po' come quella di Agostino cinque mesi fa perché, alla fine, Spinoza e Agostino sono parenti, imparentati non tanto dal canonico e accademico richiamo al platonismo, ma dal fatto che il loro sistema si costituisce su un'esperienza intellettuale che non distingue oggettivo e soggettivo nell'ambito dell'ontologia e alla fine anche in quello della conoscenza.
E partiamo, dunque, dal primo libro dell'Etica e da dio: dio è tutto, dio è ogni cosa secondo una linearità disarmante perché, in realtà, complessa. Dio è semplicità e infinita complessità, Dio è la natura e le sue leggi e la natura è Dio in base e in quanto è nelle sue leggi, norme. Queste leggi e norme in quanto divine, in quanto sono Dio esse stesse, non possono essere altro che tali, perché essendo Dio, che è la totalità assoluta, sono le leggi del tutto, sono la totalità delle regole che non ammette alterità, alternativa, poiché sarebbe come dire, se si concedesse alternativa a quelle, che Dio non è tutto, che esiste un altro tutto il che, per dirla con Spinoza, è assurdo.
Può esistere, infatti, una sola realtà, un solo mondo e un solo Dio, infinito ed eterno, affinché si possano considerare leggi universali nella natura.

Venerdì, 7 novembre

Letture. Etica. Spinoza. Nel primo libro, attraverso l'innovativo concetto di Dio (ma non del tutto nuovo alla storia della filosofia, alcune anticipazioni, ma molto meno curate, profonde e più semplicisticamente determinate si trovano nel pensiero rinascimentale, in Cusano, se non ricordo male, in Bruno e in genere nella 'moda' panteistica del XV e XVI secolo), Spinoza espone con chiarezza il principio fondativo della natura, la struttura logica fondamentale dell'universo (è giustificato l'uso di questo termine 'moderno'). La natura non ha morale, la fisica non ha morale, ma solo leggi. La perfezione della natura sta nella sua stessa esistenza, poiché l'esistenza si identifica con l'essenza e l'essenza si identifica con l'esistenza, non, ovviamente, in maniera automatica, quando è nuda e manifesta esistenza, quando costituisce una particolare affezione o modo di essere della natura, ma in quanto sistema di regole e leggi che costituiscono l'essere e che fanno parte, quindi, di Dio e sono concretamente Dio.
Proprio perché perfetti la natura e Dio non hanno scopi, fini e obiettivi perché questi sarebbero un esterno, un limite non solo a Dio, non solo alla natura ma a quello che Spinoza chiama letteralmente il 'tutto' e dunque distruggerebbero la totalità dell'universo e ci addentrerebbero in un ragionamento assurdo, superstizioso e in quella che Spinoza chiama 'ignoranza'.
Dunque veniamo agli elementi didascalici di questa lettura difficile, ne vale la pena.
Dio è ciò che è assolutamente esistente, insieme con una definizione di ciò che è finito e degli attributi di Dio che sono infiniti ma tutti contraddistinti da due qualità: l'eternità e l'infinito nello spazio. Un prologo questo davvero scolastico.
Dio e la sostanza divina sono quello che può essere pensato solo come esistente; sotto l'aspetto dell'intelletto la sostanza non può che essere esistente. Il pensiero e l'intelletto si trovano quasi alla base dell'essenza delle cose ma non perché le cose esistono in quanto esistono pensiero e intelletto che ce le spiegano e rivelano (come pensava, invece, Berkeley e in parte penserà Kant)) ma perché l'intelletto segue il processo ontologico, facendo parte di quello. Potrebbe anche non esistere l'intelletto ma la sostanza rimarrebbe un'essenza intellegibile, natura sui.
La sostanza divina è infinita ed eterna per genere e attributi e non conosce negazioni di sé, perché va pensata come esistente e solo come tale può essere concepita. Infinito ed eterno sono attributi fondamentali della sostanza divina che non può essere il prodotto di una causa, evidentemente (giacché è necessariamente eterna e infinita) ed è invece causa sui.
Quindi la sostanza divina e insieme con quella la natura sono ingenerate, eterne e senza limiti (infinite) e come tali non possono che essere uniche, sole e il tutto, non possono che essere la totalità, anche se, precisa Spinoza, a livello operativo, concretamente, per usare un termine moderno 'fenomenologicamente', si presentano e sono anche molteplici e pluriformi, determinate nello spazio e nel tempo; a livello logico la pluralità della sostanza (ovverosia usando la terminologia spinoziana 'l'essere infinito ed eterno considerato secondo il suo intelletto' che, in questo caso, è davvero chiara e intuitiva) è impossibile, un assurdo e un controsenso o, per meglio scrivere, un non – senso proprio perché presupporrebbe l'esistenza della negazione di sé, richiedendo la presenza nello spazio e nel tempo di qualcosa che sia al di sopra del concetto di infinito e di eterno e cioè di spazio e di tempo.
La sostanza spinoziana, pur potendo essere considerata come un'estrema convinzione ontologica, è davvero un portato intellettuale per definizione, per costituzione: è ciò che non può essere immaginato diversamente da come è, da come si presenta alla mente, appunto come l'essere infinito ed eterno considerato secondo il suo intelletto. La sostanza quindi non è semplice esistenza ma essenza dell'esistenza che in lei e solo in lei coincidono.
La sostanza è poi indivisibile quando è pensata come sostanza e cioè per quello che è in essenza e tutti gli attributi della sostanza, le sue qualità, sono indivisibili, eterni ed infiniti.
Cartesio è sull'altro fronte, a questo punto, e Spinoza scrive chiaramente che quelle che Descartes considerava sostanze, essenze dell'esistenza anche per il suo sistema (Spinoza è debitore verso Cartesio per la forma del concetto di sostanza), la sostanza che pensa, res cogitans e la sostanza materiale, res extensa, non sono affatto sostanze ma forse solo attributi o ancora più facilmente appena modi di essere della sostanza.
La divisibilità della sostanza corporea, che si manifesta nel modo di essere corporeo della sostanza,  è prodotto dell'immaginazione e non dell'intelletto; l'immaginazione, l'intelletto finito che non si sforza di proiettarsi sull'intelletto infinito, si limita a cogliere i modi di essere, gli aspetti finiti della sostanza. L'intelletto infinito, l'intelletto che percepisce l'esistenza di Dio, considera la necessità di Dio e delle leggi della natura, cioè comprende l'essenza della sostanza divina.
Infine, sotto il profilo 'teologico' Spinoza individua le quattro fondamentali nozioni di Dio: 1) causa efficiente, 2) causa di sé, 3) causa prima e 4) causa libera.
Tra le quattro la prima è la meno coerente con l'intero impianto, la meno forte, anche se è chiaro che ci troviamo di fronte a un effecit ut interno all'essere e all'essenza, a un attributo interno a quella.
Andrebbe aperta una parentesi infinita intorno a questa causa che non è causa, all'idea di Dio come libera e necessaria, e del suo rapporto storico, trasferito sul terreno della teoretica, con la moneta, le sue qualità, i suoi attributi e modi di essere, quasi come, leggendo Locke, ho percepito la relazione tra la sua giurisprudenza e teoria del diritto con l'economia di mercato, relazione quella dell'inglese, per forza di cose, più stringente e lineare.
Due parole sul concetto di intelletto in Spinoza, che è, spesso, almeno per me, poco chiaro. Quando Spinoza fa riferimento all'intelletto descrive tre cose diverse: l'intelletto divino e infinito, quello umano e finito e una terza figura, modo di essere intellettuale, profondamente etica e gnoseologica, che è l'intelletto umano quando considera il mondo come eterno e infinito, considerandolo sotto l'immaginazione del divino.
Sono tre elementi diversi. Il primo non è affatto un intelletto umano che si è liberato dai limiti del tempo, della storia e dello spazio e che ragiona come il nostro ma in modi diversi; l'intelletto divino non ragiona, non parte da una proposizione per farne seguire un'altra ma è la serie infinita e compresente di tutte le proposizioni necessarie, è la legge della natura. L'intelletto divino non compie sforzi, non tende a qualcosa, non è una potenza che va verso l'atto ma è atto allo stato puro, realizzazione del pensiero senza realizzazione. Il secondo non è altro che uno degli infiniti modi di essere della sostanza, della realtà quando viene pensata dall'uomo. Il terzo è l'intelletto finito e dunque un modo di essere del pensiero, che, però, concepisce – intuisce, con tutte le necessarie conseguenze, l'infinito e l'eternità e prova a considerare tutte le cose secondo questi attributi.
La sostanza divina è quella parte della realtà che non può non essere concepita, che è indispensabile al nostro concetto e questa è, secondo il modo di dire spinoziano, la natura naturans, mentre ciò che non è indispensabile per concepire o intuire (direi intuire, il traduttore di Spinoza spesso usa ‘considerare’ come ‘intuire’ a mio parere) l’essenza e la sostanza e che immediatamente cade sotto il dominio dell’intelletto finito e umano, è ciò che Spinoza definisce natura naturata. La natura naturata, seppur necessaria ed essenziale come la natura naturans dalla quale deriva, è, però costituita da componenti non indeterminati e infiniti, da modi di essere della natura naturans. I modi di essere poiché finiti e limitati nel tempo, dipendono sempre dall’esistenza di qualcos’altro, da una o più cause delle quali sono l’effetto, e, infatti, possono essere concepiti solo per mezzo di altri modi di essere e di relazioni di causa ed effetto.
Dio è libero, la natura è libera, è causa libera ma libera in una maniera diversa da quella comunemente da noi considerata, precisamente secondo la differenza che esiste tra intelletto umano e intelletto divino. La libertà di Dio è nell’essere la totalità necessaria, nel non aver nessuna costrizione, ma non è la libertà di produrre e operare senza leggi e regole perché significherebbe che se Dio è libero di creare le leggi e le regole non è in sé perfetto, non comprende l’ordine in sé ma lo deve creare e, quindi, non è Dio. Dio quindi non può fare ciò che vuole perché non ha una volontà nel senso umano del termine e l’immaginazione in Dio di una tale libertà scrive Spinoza va considerata “ … come un grave ostacolo alla scienza”.
La scienza, invece, è proprio la necessità dello studio dell’ordine divino e la necessità divina esclude la sua libera volontà. Dio, pur essendo libero e avendo una volontà, non è libero e volitivo secondo il nostro comune sentire e intuire libertà e volontà.
Nell’appendice di questo stupefacente primo libro dell’etica è contenuta quasi un’estrema sintesi del concetto di Dio che vale la pena trascrivere: “ … che egli esiste necessariamente; che è unico; che è ed agisce per la sola necessità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose; ... che tutte le cose sono in Dio e dipendono da lui in modo tale che non possono né essere né essere concepite senza di lui; e, infine, che tutte le cose sono state predeterminate da Dio, non già dalla sua libera volontà o dal suo assoluto beneplacito, ma dalla assoluta natura di Dio, cioè dalla sua infinita potenza …”.
Sempre nell’appendice uno stupefacente ragionamento sul ‘pregiudizio dei fini’, ovvero dell’idea che esista una causa finale, uno scopo e un’utilità per l’uomo nella natura, quasi che sia stata prodotta per lui.
Questo pregiudizio ha dominato filosofia e religione per secoli ma la scoperta della matematica ha rivelato che le cose hanno un’essenza e qualità del tutto indifferenti e libere da fini particolari. In tal modo il pregiudizio dei fini è entrato in crisi. Grazie alla matematica si è intuito che la teoria finalistica, teleologica, capovolge la verità delle cose: ciò che è intrinsecamente perfetto e conchiuso in leggi matematiche (la natura) viene sussunto e diviene il prodotto dell’imperfezione.
La natura, così avvilita, depotenziata e ridotta dalla nostra analisi finalistica a oggetto imperfetto che vive per fini a lei esterni ed estranei e solo in quelli realizzerebbe la sua perfezione, postula la necessità di un essere trascendente e superiore che la organizza e crea, che viene anch’esso chiamato Dio. In tal maniera Dio e la natura si separano, uno assume il ruolo del soggetto, l’altro quello dell’oggetto. L’uno diviene il creatore, l’esecutore, il demiurgo estraneo alla natura, l’altro la materia agita, eseguita, creata ed estranea a Dio.
Spinoza, acutamente, osserva che questo approccio teorico riduce Dio a esecutore dentro la natura (che gli è estranea e diversa, quindi un primo limite) di un fine, un obiettivo che gli è altrettanto estraneo (quindi un secondo limite) e giunge, di conseguenza, a negare la perfezione di Dio insieme con quella della natura.
Si conclude così con la critica al finalismo (pensiamo allo stoicismo, all’aristotelismo e a buona parte della scolastica medioevale) la prima parte, davvero per me difficile da comprendere e difficile da spiegare, del primo libro dell’Etica.
Infine, per usare comode ma efficaci etichette, mi sento di scrivere che Spinoza è a tutti gli effetti un ateo non dichiarato, poiché è un ateo inconsapevole, perché il suo Dio, che è davvero Dio per Baruch, non prevede Dio, neanche per errore.

Domenica, 9 novembre

Letture. Vol.III. Autonomi. Si tratta di 'domande senza punto interrogativo', autori Belpoliti, Chiodi e Cortelessa. Non ne conosco uno, neppur indirettamente, per sentito dire e ammetto ogni ignoranza implicita ed esplicita. La loro discussione, tavola rotonda quasi, poteva essere interessante se priva di tecnicismi da intellettuali, professionisti del pensiero, e di continue citazioni e rimandi che non aiutano a comprenderla in maniera chiara, nitida e lineare.
Sarà duro: perché con gli intellettuali o con chi veste quell'abito (spesso c'è poca differenza tra le due cose) è necessario essere duri e schematici, anche perché l'intellettuale non ha mai avuto e meno che meno oggi una professionalità. Bisogna essere chiari e schematici, dunque, e sanamente rozzi.
I tre parlano del '77 attraverso e dopo il '77 e fanno bene, hanno ragione più profondamente di quanto non credano. Il movimento '77  è stato già il dopo '77 nel suo attuarsi, è stato le letture e le forme artistiche che lo hanno seguito. Il movimento non ha concepito un prima, un mentre e un dopo di sé. Ha poco senso, però, costruire un'analisi sul dopo '77 che non tenga conto di questa qualità del movimento, perché altrimenti si rischia di scrivere di sociologia, filosofia della storia o di qualche altra disciplina, di configurare un discorso accademico e di fare accademia che è proprio tutto il contrario dell'intellettualità di massa rivisitata criticamente durante il 1977.
Secondo quella non esisteva / esiste  antequam, dum, donec e postquam, non esiste la storia e la teoria rivoluzionaria non si riduceva / riduce al no future del punk, perché investe il passato, soprattutto la tradizione comunista e anche anarchica, e il presente, cioè il movimento stesso, che non è né comunista, né anticomunista, non è in quelle categorie e si dispone, si ubica, al di fuori di categorie precisate storicamente.
Se dopo il '68 era litania rituale, quasi nauseante, scrivere e dire “facciamo come nel '68”, dopo il '77 quest'appello non avrebbe avuto senso alcuno, sarebbe stato l'appello di un perfetto idiota, non pazzo, ma idiota, sarebbe stato come trattare il movimento irriducibile all'organizzazione politica come un'organizzazione politica e quindi non fare come nel '77, proprio quando ci si proponeva di fare come nel '77.
Il movimento agì una critica radicale a ogni analisi storicista oggettiva, portata sulle cose esterne, e interpretazione storicista soggettiva, condotta su sé stesso. Il movimento sapeva di essere il prodotto dello sviluppo del capitale, di un determinato livello di quello sviluppo, e dell'antagonismo che si sviluppava contro quello sviluppo, quindi di essere un prodotto storicamente determinato, perfettamente comprensibile secondo i metri della razionalità illuminista, marxisticamente determinata, ma non era affatto intenzionato a tenere conto di questa realtà di fatto, di questa storia, di questo vincolo intellettuale e filosofico. Il movimento sapeva che il conflitto (e anche quel conflitto) generava e avrebbe generato sviluppo, ma non era interessato a conoscersi e analizzarsi secondo le categorie del conflitto e dello sviluppo.
Quindi il '77 non è stato il movimento di idioti che avrebbero voluto, come per alcuni è accaduto nei primi anni ottanta, ritestimoniarsi, ripresentarsi uguali a sé stessi, senza più essere uguali, ma è stato un movimento di pazzi, isterici, nevrotici, psicotici, euforici all'eccesso e depressi fino alla melanconia psichiatrica che non volevano nessuna testimonianza, nessun ricordo e nessuna progettazione e proiezione del passato sul futuro, del conflitto passato sul futuro conflitto, in una parola è stato un movimento radicalmente proletario che, proprio per questo, non voleva più essere proletario, espressione della forza – lavoro in quanto forza – lavoro, ma della forza – lavoro che negava la forza – lavoro, della classe operaia che negava se stessa.
Per riprendere una visione storicista, il movimento aveva la chiara consapevolezza, consapevolezza di massa e non elitaria, che il capitalismo era giunto a un livello di maturità tale da mettere in discussione la storia come scienza di descrizione dello sviluppo e che quella 'scienza' non aveva più fondamento alcuno e si era trasformata in uno strumento terapeutico, in un tranquillante intellettuale, che era incaricato di nascondere la definitiva estinzione delle tradizionali forme dello sviluppo che proprio la storia aveva il compito di descrivere. Ora la storia, quindi, riproduceva, rappresentava, rivelandosi pienamente ideologia e insieme con quella anche Marx, anche il primo Marx, si manifestava come un ingenuo, spiritoso e bizzarro storicista.
Tutto questo significava / significa, per dirla attraverso la citazione di Sofri contenuta nel contributo, “vivere nel terremoto”, ma non solo: essere nel terremoto, essere il terremoto, il prodotto e la causa stessa di un'instabilità perenne.
Non credo che questo stato dinamico sia biologicamente insostenibile, come ritiene, in un'altra citazione comparsa nel contributo, Umberto Eco, credo, anzi, che il movimento ritenesse biologicamente insostenibile la normale vita dentro il mercato, spesa anche a scrivere e teorizzare o inventare teorie di biologia sostenibile.
Il '77 ha ucciso la storia e ha governato la filosofia, certamente è stato dannunziano per alcuni aspetti storici, e anche diciannovista, per altri aspetti di quell'amalgama di categorie, ma non in quanto ha schiacciato la storia sulla filosofia (fingendo il contrario) e non in quanto ha sussunto la politica all'economia (anche qui fingendo il contrario) come fecero invece e davvero Dannunzio e il 'fascismo', ma perché ha trasformato la filosofia, distruggendo la storia, l'idea stessa di storia, in qualcosa di diverso da sé, in nuovo prodotto, risultato di una nuova tecnologia produttiva, di un nuovo modo di concepire il sapere dove, ma solo casualmente, quasi come ecceitas era anche la storia … forse.
Nel contributo si fa riferimento al concetto, davvero infelice, di 'reduce' del '77. Il movimento non ha avuto reduci, nel senso classico del termine, perché non c'è stata guerra, anche qui nel senso classico del termine, precisamente come non li ha avuti la comune di Parigi; la categoria del reduce, sconfitto nella militanza, non appartiene al '77, è un'altra cosa da quello e potrebbe ancora andare bene per il '68, ma già anche per quello con molte discriminanti.
Militanza →  organizzazione → ideologia →  rivoluzione sono categorie che non appartengono al movimento, se non casualmente, come accidenti, come relitti di una storia recente ma respinta, sono tecniche e professionalità dell'antagonismo che non facevano / fanno parte del 1977.
Introdurre, inoltre, il concetto di reduce è scrivere 'da destra' e secondo il concetto di 'destra' individuato dal movimento, tra l'altro attualissimo, per il quale essere ipso facto di 'destra' era immaginare una guerra là dove la guerra era senza esserci; là dove, invece, si rifiutava l'idea della guerra per vincerla veramente, secondo il concetto, anche questo attualissimo, di 'sinistra' espresso dal movimento '77. Chi sbandierava il conflitto, chi lo cercava a ogni costo, chi voleva la guerra, in realtà non desiderava la vera battaglia, non cercava l'autentico scontro ed era a 'destra'. Quelli sono i reduci (e ce ne sono), che sono stati nel '77 ma non lo hanno né fatto, né iniziato né finito, pensando in termini di inizio, sviluppo ed esito.
La critica al contributo in Autonomi è perfettamente eseguita, completata, dal contributo stesso, quando si riferisce, secondo un desiderio analitico giusto e appropriato, alla complessità, operatività e polimorfismo degli slogan e scritte murarie (pitture murarie le avrei più volentieri definite). Questa complessità la si ritrova trasferita nella posteriore e anche attuale attenzione istituzionale verso i centri storici, alle nuove location post – moderne, in generale agli spazi pubblici attrezzati e arredati. Qui il polimorfismo del '77 avrebbe influenzato quasi direttamente la sinistra istituzionale nelle sue espressioni migliori di governo locale.
Le amministrazioni di 'sinistra' non hanno realizzato un trasfert,  un assorbimento pacifico, o  una mistificazione di contenuto per i più maligni: si è trattato del preciso opposto, di negazione, censura radicale ed oblio, si è trattato di un autentico stupro intellettuale. Non c'è nulla di sinistra, dopo il '77, nella sinistra, neppure nella più 'avanzata' e sostenibile urbanistica.
Tra il citato movimento del 'riprendiamoci la città' (slogan che tra le altre cose precede il '77 di almeno quattro anni) e la valorizzazione dei centri storici c'è lo stesso rapporto che esiste tra un negozio e la pietra che spacca la vetrina del negozio: un rapporto antagonista, perché il '77 era / è la critica alla mummificazione archeologica del tessuto urbano, non in quanto avesse in odio mummie e archeologi, ma la mummificazione del corpo sociale dentro quell'archeologia e tecnica che era / è di conservazione sociale.
Quando, infine, uno dei tre interlocutori ha associato le esperienze conservative nei centri storici al situazionismo, che è stato forse la schietta, poiché non meditata e inconsapevole, autentica ispirazione 'politica' del movimento preso nel suo insieme, ha realizzato un errore prospettico illuminante: la riterritorializzazione del capitale, la rivalorizzazione del contesto urbano, in ogni sua parte, moderna, contemporanea e medioevale sotto l'aspetto della merce, della sua distribuzione e del suo dominio che è autenticamente la rappresentazione fisica, architettonica, della sussunzione reale del territorio all'economia di mercato, viene il qualche modo imparentata con la libertà deterritorializzante di quella forma di antagonismo, ancora una volta della pietra e della vetrina.
Probabilmente ho frainteso Belpoliti, Chiodi e Cortelessa, ma se c'è stato fraintendimento è stato per me piacevole, energico e appagante.

Sabato, 15 novembre

Ai margini. L'etica di Spinoza, seconda parte sulla natura della mente. Le difficoltà non me le nascondevo, facendo bene. Dove Spinoza affronta l'intelletto, il pensiero, le idee, la loro origine, fonte e adeguatezza si ha l'impressione di entrare nel cuore del suo sistema che è un sistema 'intellettuale'. Spinoza pone la percezione delle cose esterne al centro della definizione dell'essere ma, nello stesso tempo, la comunicazione con Dio è garanzia della correttezza del procedimento gnoseologico, della sua coerenza. Dio è per Baruch, infatti, la natura in quanto 'cosa', regolata da leggi e quindi anche intelletto, mente delle cose, al quale la mente umana può 'partecipare' (uso un termine inadeguato e aristotelico ma per me efficace) per uscire dell'ambito passivo della percezione, anche ragionata e razionale, e raggiungere quello della comprensione, (cum + capio) del 'prendere insieme con', partecipare appunto.
In una parola il secondo libro richiede il primo e in una frase la conoscenza richiede Dio e, sotto alcuni punti di vista, è Dio; a questo livello della comprensione intelletto e natura coincidono perfettamente per una sorta di crescita parallela e sincrona, di 'coalescenza' ontologica e gnoseologico. Giunti a quel livello intellettuale, la realtà e il pensiero non hanno ragioni per dividersi.
Certo che se mi ero proposto di leggere Spinoza in modo tale da renderlo comprensibile anche a un bambino, l'obiettivo proposto non era ambizioso ma arrogante e, soprattutto, sbagliato, disteso su una falsa via, inadeguato per usare aggettivi spinoziani. Per di più Baruch è avarissimo di esemplificazioni poiché profondamente convinto della semplicità e linearità del suo procedere conoscitivo.
L'elemento immediatamente intuibile e dunque enunciabile è quello di una stretta e indissolubile relazione tra le cose e il pensiero, poiché seguono necessariamente lo stesso percorso e per di più le cose non sarebbero senza intelletto come l'intelletto senza le cose.
L'intelletto per comprendere sé medesimo deve pensarsi come cosa e la cosa per essere compresa deve essere veduta come processo intellettuale. Al contrario che in Berkeley e con più forza che in Kant, la 'cosa' esiste in sé, come essenza indipendente dall'intelletto ma è un prodotto intellettuale.
Quindi intelletto e cosa, per dirla con Cartesio, res cogitans e res extensa, si dividono e uniscono continuamente, non appartengono alla stessa 'idea formale' ma partecipano al medesimo processo, alla stessa essenza.

Annotazione (breve). Matteo Renzi, preso come esempio di un intero modo di essere intellettuale e non come Matteo Renzi in quanto tale, secondo i metri adottati da Spinoza, ragiona? Possiede idee adeguate o solo necessarie? Adeguatezza e necessità sono imparentate? Lo sapremo nella prossima puntata o episodio (dipende dal taglio narrativo).

Mercoledì, 19 novembre

Lettura. Etica, parte II. Sulla natura della mente. Dopo la natura di Dio che non ha natura perché è la natura e che non è dimostrabile perché è fonte di dimostrazione, compare il problema della mente che rimane un altro problema divino, sotto il profilo della sua articolazione dentro il mondo delle cose e degli individui. Questo approccio teologico – razionalista affonda il primo passo di Spinoza dentro l'etica, in quanto campo della 'materialità', del modo di essere e delle affezioni, delle cause e degli effetti. In parole povere l'etica è un componente della fisica, non in quanto appartiene a quella disciplina ma perché del modo fisico, 'scientifico', di considerare la natura (e quindi Dio e le sue leggi) è parte integrante anche la 'fisica delle idee', dell'intelletto, delle volizioni e delle percezioni.
La mente non si sottrae al determinismo naturale e alle sue leggi, la mente è, si potrebbe scrivere con termine moderno – contemporaneo e dunque impropriamente usato, scientificamente determinata.
La trattazione di Spinoza, letta con il sangue, va descritta con non so quale sostanza, ma certamente non facilmente reperibile sul mercato delle idee, ed è, quindi, di difficile enunciazione; a tratti ho pensato di abbandonare l'impresa ma l'abbandono non avrebbe coinvolto la lettura.
Il passaggio dal discorso su Dio a quello intorno alla sua articolazione può essere ben riassunto attraverso Spinoza stesso che, nella definizione I della seconda parte scrive, con emblematica chiarezza e semplicità (semplice nella condizione del suo impianto dimostrativo): “Per corpo intendo un modo che esprime, in una maniera certa e determinata, l'essenza di Dio in quanto considerata come cosa estesa”. Notare i termini 'certa e determinata' che implicano, necessariamente, l'intervento della ragione nella definizione della cosa.
Di qui le due sostanze di Cartesio, cogitans ed extensa,  si riducono a essere due attributi infiniti di Dio che agiscono nel mondo e quindi le cose come modi di essere dell'estensione e contemporaneamente del pensiero, con Spinoza “ … la potenza di pensare di Dio è uguale alla sua potenza attuale di agire” (corollario della proposizione VII) e ancora poco sotto “ … la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima sostanza compresa ora sotto l'uno e l'altro attributo ...”.

Giovedì, 20 novembre

Sempre letture e sempre Spinoza e sempre seconda parte dell'Etica. Non appartenendo in maniera completa né all'attributo della cosa estesa e neppure a quella pensante, ma essendo una mescolanza dei diversi modi di essere dell'uno e dell'altra, l'uomo non è una sostanza e quindi l'esistenza dell'uomo non è una necessità di natura. L'uomo non è necessario e quindi l'essenza dell'uomo è solo un complesso di modificazioni dell'essenza divina, un incontro (mescolanza appunto) tra quelle.
Ma noi possiamo comprendere e concepire l'uomo solo in ragione dell'essenza divina, cioè in ragione del fatto che consideriamo l'uomo sub specie divinitatis. Quindi la mente umana, che non è necessaria, che non è un prodotto necessario della natura (la natura esisterebbe anche senza l'uomo, mentre l'uomo non esisterebbe senza la natura), è certamente finita e determinata da altro ma è anche “ … una parte della mente infinita di Dio” (corollario della proposizione XI).
Inevitabile, quindi, il passaggio a un'analisi della fisica, vale a dire della 'corporeità' per come si manifesta alla e nella mente umana, e il suo manifestarsi ed essere sono la medesima cosa. Sotto l'analisi della mente “tutti i corpi … concordano nell'implicare il concetto di un solo e medesimo attributo”, che altro non è che quello che, cartesianamente, sarebbe stato detto 'cosa estesa'.
La cosa estesa, però, non è una sostanza e, conseguentemente, la fisica dei corpi è indifferente alla sostanza, non comporta la sostanza poiché, secondo il lemma I della proposizione XIII: “ … I corpi si distinguono l'uno dall'altro in ragione del moto e della quiete, della velocità e della lentezza, e non in ragione della sostanza”.
I corpi, che vanno intesi come entità o definizioni semplici della cosa estesa, formano gruppi più complessi che Spinoza chiama individui, mentre i corpi, per Spinoza, sono entità semplici, basilari, che non si differenziano tra loro in ragione della loro composizione ma del loro essere nello spazio e del loro comportamento in quello. Scrive Spinoza nella dimostrazione del lemma II, proposizione XIII: “I corpi, infatti, non si differenziano in ragione della sostanza ...”. Dunque dobbiamo intenderli come elementi semplici, che Baruch non accosta ad altri concetti (atomi democritei o semi anassagorici e via discorrendo) come mi sarei sinceramente aspettato.
Ciò che assume una fisionomia è, invece, l'insieme dei corpi: l'individuo. L'individuo è un composto dei corpi semplici.
L'individuo è indipendente dalla cinetica elementare che governa i corpi, si presenta come 'massa corporea', come elemento precisato (fluido, solido, gassoso) che possiede reazioni fisiche diverse dai suoi costituenti di base (i corpi).
La natura può essere concepita anche come insieme di individui, un insieme infinito che varia infinitamente in ogni sua parte ma che rimane immutabile nella sua totalità, nel suo 'tutto'; è questo un altro modo di descrivere la natura come un grande organismo.
Il corpo umano è una composizione di numerosissimi individui fisici, ma ovviamente non di tutti, perché altrimenti sarebbe infinito e illimitato, e si manifesta come una sostanza precisata e individuabile, senza, ovviamente, coincidere con la sostanza della natura e di Dio che sono tutt'altre cose. La molteplicità dei corpi semplici e degli individui che compongono il corpo umano ha, però, una grandissima importanza nella definizione della mente umana poiché, secondo Spinoza, essendo disposta a percepire i moltissimi modi di essere del corpo e a formare idee su ognuno di quelli “... l'idea dell'essere formale della mente umana non è semplice ma composta da moltissime idee” (proposizione XV).

Venerdì, 21 novembre

Letture. Etica. Seconda parte. Sulla natura della mente umana. La mente si configura come il risultato dell'incontro con le cose esterne, come prodotto della percezione e della comprensione (direi acquisizione) di quelle. La mente umana, in questo stato 'primordiale' è certamente passiva, anche se rimane pur sempre una parte dell'infinito intelletto di Dio: ma sono le cose che incontriamo a determinare questo primo funzionamento e operatività. La mente, quindi, registra la cosa esterna, sotto i suoi modi di essere, precisamente come, a questo primo livello della conoscenza del mondo, è un complesso, una mescolanza, dei modi di essere del pensiero, sorti dal contatto percettivo con i modi di essere delle cose; ancora, dunque, si conferma quella che ho chiamato coalescenza gnoseologica – ontologica in Spinoza.
In questo stato / fase la mente umana non comprende ancora le cose nella loro completa verità, sub specie aeternitatis, ma nel loro essere concreto nel mondo, sotto l'aspetto del tempo e della durata, sotto l'aspetto, quindi, della loro esistenza e non della loro essenza.
La memoria e l'immaginazione sono il risultato di questa prima fase della percezione e della comprensione della realtà. La memoria è l'associazione delle idee con una o più affezioni, percezioni; qui le idee si richiamano l'una con l'altra attraverso il contesto nel quale sono state generate, rimettendo in lista le cose percepite e trasformate in idee e concetti. Quindi la mente conosce sé stessa solo attraverso le affezioni delle cose esterne, che vivono nella durata e così ragiona su sé stessa nella finitezza della durata.
Si tratta di un momento conoscitivo vero, perché a quello corrispondono gli oggetti, ma inadeguato, poiché gli oggetti sono considerati e compresi solo parzialmente. Da qui nasce l'errore e il falso che non è una privazione della pienezza delle idee, un loro deragliamento dalla logica, ma dalla loro non aderenza all'essenza delle cose, che non si trova, in verità, nelle cose singole. L'essenza non è nelle cose, ma al di fuori delle cose anche se le cose non potrebbero essere, essere percepite ed essere considerate senza l'essenza. L'errore nasce dal ricercare l'essenza delle cose in loro stesse, in quanto semplici modi di essere dell'essenza, mentre le cose possiedono solo l'esistenza nel tempo e nello spazio. Ciò nonostante anche le idee errate hanno una loro logica, una stringenza causale e una loro adeguatezza. Detto in modo comune 'anche chi sbaglia ragiona' e anche l'errore ha una sua dignità intellettuale, poiché alla sua base è, comunque, la necessità di rappresentare il mondo. Quindi la memoria e l'immaginazione non sono completamente fallaci, anzi, sono necessarie al perfezionamento della ragione.
Spinoza è chiarissimo in proposito nella proposizione XXXV dove scrive “La falsità consiste nella privazione che inerisce a idee inadeguate, ossia mutilate e confuse” per aggiungere nella proposizione seguente che “Le idee inadeguate e confuse si svolgono con la stessa necessità delle idee adeguate, ossia chiare e distinte”.
Non in antitesi con le idee inadeguate, con percezione e immaginazione, ma a loro completamento sono quelle che Spinoza denomina 'nozioni comuni', che sono idee rappresentative della realtà contenenti valore universale, indipendente dal contenuto delle singole cose. Geometria e matematica, a mio parere e a questo punto della lettura, forniscono il paradigma per questo genere di 'nozioni' che così sono descritte nella proposizione XXXVIII: “Ciò che è comune a tutte le cose, e ciò che è ugualmente nella parte e nel tutto non può che essere concepito che adeguatamente”.
L'uomo che considera per nozioni non cerca l'essenza nelle cose, ma solo la loro esistenza, poiché le cose non hanno essenza loro propria.
I famosi universali aristotelici e scolastici che generalizzando gli aspetti delle cose, delle singolarità,  pretendevano di individuarne l'essenza, vale a dire i concetti di umanità, caninità, equinità e via dicendo, non hanno alcun valore conoscitivo e non vanno confusi con le nozioni comuni. Sono solo, invece, il prodotto della soggettività, dell'approccio parziale, mutilato e inadeguato, della mente alla realtà esterna, poiché ognuno avrà la sua particolare idea, impressione di cane e di caninità e delle caratteristiche del cane, che nulla di autentico e di commisurabile potrà affermare del cane. Questa è quella che Spinoza chiama 'opinione' o conoscenza del primo genere o livello.
Le nozioni comuni appartengono a quella di secondo genere e, infine, la 'scienza intuitiva' appartiene alla più alta forma di conoscenza.
Le nozioni comuni, quelle che io associo al momento alla verità matematica, sono indimostrabili giacché la verità è norma di sé stessa, non può esistere una verità che dimostra sé stessa, la verità è necessaria ed esplica i rapporti necessari tra le cose.
Questo determina l'assenza di libertà nelle cose e nel pensiero sulle cose: “Nella mente non vi è alcuna volontà assoluta e libera, ma la mente è determinata a volere questo o quello, da una causa che è anch'essa determinata da altra ...” (proposizione XLVIII). E in verità è arbitrario distinguere tra intelletto e volontà che sono la medesima cosa, diversi modi di essere, finiti e limitati e dunque determinati, del pensiero e, per tornare sul tema, il pensiero non può essere libero nel suo svolgersi.
Questo è un aspetto del determinismo di Spinoza che molte critiche, soprattutto, tra i pensatori del novecento ha subito. Ma l'idea è, per Spinoza, affermazione della cosa dentro l'intelletto o anche affermazione della cosa pensata, cioè dell'idea, dentro l'intelletto e come tale non può essere libera proprio perché affermativa e adeguata alla verità delle cose che sono sempre determinate da altre, elementi causati.
La categoria della necessità è inscindibile da quella di adeguatezza e adeguatezza e necessità dalla caratteristica dell'affermazione. Per Spinoza la relazione causale determina e governa l'operatività della mente umana non solo al livello adeguato, al livello valido da un punto di vista conoscitivo, ma in ogni suo aspetto. Interessante l'esempio dell'attività onirica che è paradigmatica, per Spinoza, dell'assenza di libertà nell'operare dell'intelletto e del suo carattere esclusivamente affermativo poiché l'uomo non può “mentre sogna [di] sospendere il giudizio sulle cose che sogna e [di] potere non sognare quello che sogna di vedere” (scolio della proposizione XLIX), come nel sogno la necessità del giudizio sulle cose è inesorabile, quasi un'attività meccanica ineludibile.
Questa potenza meccanica del pensiero, la sua necessità e determinazione che si sposa in maniera perfetta con la sua adeguatezza conoscitiva comporta delle conseguenze etiche fondamentali. L'etica  è un prodotto razionale, per eccellenza, che può essere istituito grazie alla consapevolezza del meccanismo operativo della nostra mente. Con l'etica l'uomo si concilia con la sua essenza ideale e anche con l'essenza delle cose.
In primo luogo la coscienza dell'assenza di libertà operativa dell'intelletto elimina il non – senso di un intelletto che si allontana dalla realtà delle cose e dunque da sé stesso. Quando l'intelletto e la volontà si pensano liberi perdono di vista la loro caratteristica affermativa e proclamano, alla fine, l'assurdo per definizione, la negazione dell'idea e della volontà, il “non ente” (come lo chiama il traduttore e Spinoza). La coscienza dell'assenza di libertà diventa fonte di suprema serenità, una sorta di epicurea atarassia. Per dirla con Spinoza: “Essa ci insegna che noi agiamo per solo volere di Dio e quanto più siamo partecipi alla natura divina tanto più compiamo azioni perfette e tanto meglio comprendiamo Dio”.
In secondo luogo ci conduce alla tradizionale apatia stoica e all'accettazione delle leggi divine e della potenza della natura e di tutte le cose che non dipendono da noi e che non sono in nostro potere, poiché abbiamo imparato a individuarle e identificarle come tali.
In terzo luogo, proprio per questo, la felicità umana si fonda sulla comprensione razionale della natura e dell'universo e non sul perseguimento dell'utilità spicciola, la rincorsa di quello che in altri passi Spinoza chiama 'contingente', che, per  sua definizione, è quello che non esiste, anche se viene creduto esistente, e che ci conduce a coltivare sentimenti negativi, a coltivare l'odio e il disprezzo.
Infine, a conclusione di questo difficilissimo ma amabilissimo secondo libro dell'Etica, Spinoza afferma che, conseguentemente, il governo politico degli uomini deve fondarsi su questi tre basilari intuizioni etiche.
Dunque Dio fonda la fisica, la fisica fonda la mente e la mente 'fisicamente determinata' fonda l'etica e la ricerca della felicità. Anche qui come il Dio di Spinoza non è Dio, l'etica di Spinoza, essendo un prodotto 'divino' è in realtà istituita materialisticamente.
Credo possa bastare (almeno per me) l'esegesi 'larga' di questa seconda parte dell'Etica.

Domenica, 23 novembre

Ai margini di numerosi contributi contenuti nel terzo volume sugli Autonomi che partono, in gran parte, dalla fotografia sugli anni '70 e, in particolar modo, da una foto.
La fotografia interpreta il movimento, usando alcuni momenti di quello e spezzando il suo discorso: dagli occhi delle ragazze di Tano D'Amico alla famigerata immagine dei ragazzi con pistola e passamontagna in un giorno del maggio 1977 a Milano, quando fu ucciso un carabiniere, Custrà.
La fotografia interrompe la narrazione complessa, isolando alcuni momenti e, inevitabilmente, la interpreta; può darne o cercarne di darne un'interpretazione positiva o negativa, questo poco importa, l'elemento di fondo è che ha isolato un istante e ne ha fatto un'astrazione che si è divisa da quella.
Ben poco importa, lo ripeto, che il fotografo abbia cercato di enfatizzare questo o quello, ma è decisivo, al contrario di quanto affermano Eco e Lazzarato nei contributi (seppur con sensibilità diversissime), l'uso del media, il contesto in cui quell'istante separato e astratto viene inserito. Il contesto non è procurato dall'artista, dal giornalista, dal redattore di cronaca o dal fotografo ma da altro e cioè dalla tendenza politica della testata che lo ospiterà, dall'individuazione dell'adeguatezza politica dell'evento (fotogramma, descrizione, commento, dichiarazione) e da un ragionamento sul tempo storico, insomma da una strategia di potere che investe i media e le personalità concrete (interessi, ambizioni, opinioni politiche, finanziamenti che riguardano chi li amministra).
Esiste, però, il fatto inconfutabile che dagli anni cinquanta del secolo scorso in poi sono entrati a far parte del processo produttivo dell'informazione l'isolamento e l'astrazione di parti della narrazione dei fenomeni, mentre prima la foto, l'evento, la dichiarazione e lo slogan non erano il prodotto di un intervento sulla narrazione ma venivano costruiti preliminarmente (penso alle foto di repertorio, alle foto segnaletiche, alla descrizione formalizzata degli eventi etc. etc.), costituendo la narrazione. Nazismo, socialismo reale e fascismo sono stati promotori e maestri di questa costruzione della narrazione che il mondo massificato del welfare e alla maniera del welfare ha reso impossibile.
Il welfare e il seguente warfare (l'attualità denominata genericamente) propongono un nuovo fluire del potere, fluire elastico, struttura senza struttura, articolata senza articolazioni, che non pretende di narrare ma di essere narrato, che non pretende di formare e poi sorvegliare i comportamenti dall'alto; la nuova forma di potere pretende di insediarsi 'nel basso' e di governare dal basso e non sorveglia e descrive la gente (il corpo sociale) ma ne è una rappresentazione che non interviene sul corpo sociale con coercizione e interpretazione narrativa, ma la descrive, lasciandola libera di narrarsi senza essere sottoposta a nessuna sorveglianza.
Oggi la tecnica dell'isolamento, della separazione e dell'astrazione dell'istante narrativo diventa fonte di produzione dei simboli e dell'ideologia, mentre prima, prima dei '50, era il simbolo e l'ideologia a creare la narrazione in forma massificata, quando si trattava delle società industriali 'classiche', fondate sulla produzione di beni materiali, e in forma elitaria, aulica, minoritaria nelle società pre – industriali.
Il nuovo potere della seconda metà del secolo scorso e di questo scorcio di nuovo secolo non ha bisogno di ideologia e simboli forniti dall'esterno, anche se 'naturalizzati' con il corpo sociale, per legittimarsi, ma della naturalità del corpo sociale che è la sua stessa legge, la sua naturalità. Separare l'istante è la qualità, o meglio, una delle qualità distintive della nostra specie; il nuovo capitalismo ne ha fatto una sua componente 'biologica', che rende possibile la coincidenza tra umano e capitalista: il capitalismo è il modo di essere dell'uomo.
Sarebbe necessaria, allora, la proposizione di un nuovo umanesimo, un umanesimo 'comunista', un'idea chiusa in appunti di molti anni fa che, purtroppo, ho perso e che partivano, non casualmente, dai manoscritti economico – filosofici del 1844, i quaderni parigini di Marx.
Ci sarebbe, inoltre, da affrontare un argomento lunghissimo, partendo dalle riflessioni di Eco, Lazzarato e D'Amico su alcune foto, ma preferisco fermarmi qui, non essendo per nulla avvezzo allo strutturalismo e limitandomi a quello che si può tirare fuori in fretta e in furia e sempre in movimento.

Lunedì, 24 novembre

Annotazione. Sento bisogno di una pausa di riflessione mentre, comunque, come da abitudine ormai consolidata, proseguo nella revisione / rivisitazione degli appunti di storia romana e bizantina, con calma quasi imposta da una procedura spontanea. Dunque basta politica e basta filosofia, almeno per qualche giorno: sento la necessità di 'rideterminarmi'. Ho idea di abbandonare qualsiasi filtro stilistico e il linguaggio ricercato (se mai sia riuscito a raggiungerlo) nella stesura di questo diario in  movimento. Filtri e stili non fanno che nascondere, 'mistificare' altri filtri, falsificare le vere censure che, spesso, sono alla base della scrittura: più è ricercata, più è prodotto di una censura preventiva. È come se quello che scrive avvertisse sé e l'eventuale e ipotetico lettore dell'opera di questa macchina censoria.
Diminuire lo stile, usare vocaboli inadeguati, qualche volta volgarità, NON significa eliminare la censura ma terminare di nasconderla, cessare di operare una censura di secondo livello. Non è che questo sia un gran progetto, anzi è proprio un progetto banale, ma in questo particolarmente non facile momento della mia vita ho necessità di semplificare almeno questo aspetto.
Stasera rivedrò Basilio II e sarà come essere altrove, mentre con Spinoza oppure Negri oppure Nietzsche non mi è possibile farlo.

Annotazione. Per tornare a un'altra annotazione di qualche giorno fa intorno a Spinoza e Renzi direi che non amerei un'esegesi del sistema dell'olandese attraverso gli attributi intellettuali del magmatico fiorentino; temo verrebbe fuori un sistema teologico molto veloce e rapido, adeguato a Dio senza aver inteso Dio, e, questo è sicuro, il significato di adeguato sarebbe svuotato dalla 'divinità' spinoziana, diventerebbe una cosa molto articolata senza essere complessa e profonda, una faccenda molto ma mooolto superficiale: il piccolo Dio del P.D., insomma (un ex Dio democristiano).

Annotazione. Basilio II e gli appunti su Bisanzio o Roma sono la mia fantascienza. Ho sempre inteso la storia come il regno delle possibilità non delle necessità; la storia è il luogo del possibile, dell'ipotetico: una narrazione storica priva di ipotesi e di dubbi è un romanzo, è letteratura, è realismo. La storia non è realista. Scrivere di storia dovrebbe essere critica al realismo, apertura verso tutte le realtà, diverse realtà, che si sono attualizzate nel tempo storico; scrivere di storia dovrebbe portare a scoprire che le realtà divengono tali, cioè attuate e descritte come realtà, fenomeni storici, quando le si riduce a essere 'cose' prive di un discorso ipotetico. La bellezza della storia non sta solo nel fatto che ci costringe a confrontarci con altre 'realtà' (immaginari, culture, rapporti di produzione, forze produttive, tensioni morali, fini etici, credenze religiose, variabili psicologiche, carismi personali, formazioni e tradizioni culturali, conoscenze tecniche e scientifiche, capacità di movimento e spostamento, senso del territorio e della geografia) ma nello scoprire che gli elementi che compongono le realtà storiche, il criticabilissimo concetto di epoca, NON hanno avuto la stessa mescolanza, lo stesso equilibrio, nella composizione 'chimico – fisica' del fenomeno storico, lo stesso parallelismo e le medesime proporzioni. Il peso, la gravità dell'ideologia religiosa nella società aristocratica è tutt'altra cosa dalla gravità esercitata su quella feudale o sopra quella dispotica. Le classi sociali, per me preesistenti al sorgere del capitalismo, hanno avuto gravità, aspetti e connotazioni differenti fin dall'epoca della società classica, basata su rapporti di produzione servili, e sono state compresenti e immanenti ad altre determinazioni sociali (collegi artigianali, corporazioni, caste mercantili e caste feudali) spesso intrecciandosi e attraversando quelle.
Faccio sempre più fatica, inoltre, a riconoscere gli elementi strutturali da quelli sovrastrutturali, distinzione cara al marxismo, la fase della distribuzione da quella della produzione dell'essere, la rappresentazione dalla realizzazione.
Gli schemi liberali, marxisti, positivisti si dimostrano al contempo inadeguati e tutti adeguati: non è però il caso di costruire un'impostazione metaideologica nell'analisi che produrrebbe solo schemi arricchiti e realtà storiche arricchite, ma di oltrepassare gli schemi, di essere nella storia, essere in tutti gli accidenti, contingenze, essenzialità, senza scegliere tra queste categorie in maniera assoluta. Bisogna valutare solo la composizione, la chimica e fisica, mettendo in discussione anche la chimica e la fisica, che è una forma di rappresentazione adeguata ma pur sempre forma di rappresentazione. La storia deve, invece, liberarsi dalla rappresentazione o essere quantomeno critica alla rappresentazione e il discorso storico una scienza critica della rappresentazioni storiche.
Se si riesce (e io certamente no) a fare questo si raggiunge un valore etico per gli studi storiografici che non è quello della magistra vitae ma della beata conoscenza. Tutto questo può accadere al livello nel quale la storia si scioglie, cessa di essere rappresentazione e inizia a essere racconto, memoria e consapevolezza.
La più chiara critica alla scienza, e sotto un profilo scientifico, potrebbe giungere proprio dalla disciplina meno scientifica, dalla storia, dal racconto delle gesta degli uomini e del loro essere nel mondo. Sì decisamente una beata conoscenza è più adeguata alla nostra felicità che non una maestra di vita, l'apprendimento è migliore dell'insegnamento, è, per definizione (ad prehendere), più ricco: la storia apprende non insegna.

Giovedì, 27 novembre

Annotazioni. Sempre sulla storia. Passano dentro la storia anche la cultura materiale e le tecniche fino al punto che si può pensare che è la disciplina transdisciplinare per eccellenza. É vero e non è assolutamente vero. La storia è, in primo luogo, la narrazione degli accadimenti secondo l'ordine cronologico; questo è il suo scheletro e la sua impalcatura come in matematica lo sono i numeri e le le loro relazioni e in fisica la materia e l'energia. Negli appunti di storia romana e bizantina ho messo al centro accadimenti e narrazione quasi in polemica inconsapevole contro visioni della storia che pretendono di liberarla da questi elementi. Se non si fa questo non si scrive di storia ma di qualcos'altro (storiografia, analisi e critica storica, discipline utilissime alla storia, ma che non sono la storia). La specificità storica è proprio quella di occuparsi degli accadimenti, della loro narrazione e della loro successione temporale.
Ho, però, usato il termine occuparsi e non descrivere. La storia si occupa di eventi e cronologia ma non li riduce in una descrizione, anche se prende in carico il problema della loro narrazione. La narrazione, che è componente essenziale, senza di quella non si darebbe storia, e comprende l'elemento temporale che lega gli accadimenti, non si risolve in sé.
Mi spiego meglio: al primissimo livello del lavoro storico sono gli accadimenti e l'elemento temporale che li collega. Gli accadimenti sono di due tipi: i documenti che li attestano (trattati pubblici, leggi, atti notarili etc. etc.) e i documenti che li descrivono (le fonti, i resoconti cronachistici, gli storici contemporanei e posteriori etc, etc.). L'accadimento è, all'inizio e anche dopo il trattamento storico, uno o un complesso di documenti. In base agli accadimenti sappiamo che in quel particolare giorno, mese e anno accadde qualcosa (qualsiasi cosa). Al di fuori dell'accadimento e della sua collocazione temporale non esiste la storia o meglio non esiste il suo interesse. La collocazione temporale di un evento è determinata, anche quella, da documenti ufficiali e non che la stabiliscono.
La storia al suo primissimo livello, nel suo scheletro, è il risultato di due informazioni (evento e data) inevitabili al suo sostegno. Questo scheletro, però, non è indiscutibilmente determinato, poiché gli accadimenti, fin dal loro sorgere, venire alla storia, nascono come documenti, come interpretazioni. Il documento sia che utilizzi osservazioni dirette (una cronaca contemporanea ai fatti ad esempio) o resoconti altrui è inevitabilmente interprete dei fatti, anzi i fatti, gli accadimenti, esistono solo attraverso di quella. Nel campo del secondo elemento, il tempo, grazie a datazioni certe, concordi e univoche possiamo certamente legare due accadimenti in un prima e in un poi e concepirli con correttezza sotto il profilo della sequenza temporale. La sequenza temporale ci impone di collocare gli accadimenti nel flusso temporale. Spesso, però, anche le informazioni intorno alla cronologia degli eventi sono imprecise e falsificate (soprattutto per la storia antica, medioevale e moderna) e quindi anche le informazioni cronologiche dipendono da interpretazioni manifestamente volontarie (nelle falsificazioni) o involontarie (nelle imprecisioni). L'epoca contemporanea ben lontana da allontanare il problema della verità intorno a date e durate dei fenomeni propone un nuova problematica: l'inizio e la fine di un evento è messo direttamente in relazione con la sua interpretazione. Un esempio semplicissimo e banalissimo: per un giacobino la rivoluzione francese è iniziata nell'agosto del 1792 e terminata in termidoro del '94, non così penserà la sua durata un termidoriano e meno che meno uno storico di parte aristocratica. La scelta delle date entra, in epoca contemporanea, nell'interpretazione degli eventi. A fronte di sistemi di datazioni più certi aumenta l'incertezza sulla loro applicazione e sull'oggettività della loro applicazione. Rimane sempre, anche se rara poiché percepita come rozza e ormai inadeguata, la falsificazione.
Lo scheletro della storia, accadimenti e successione temporale, è insicuro ma proprio perché insicuro assolutamente valido per occuparsi della narrazione storica. L'impianto tradizionale della narrazione storica è utilissimo a occuparsi di storia, proprio in ragione dei suoi limiti poiché aiuta a immaginare la storia come scienza, con il medesimo spirito critico che dovrebbe animare lo scienziato intorno ai suoi dati; anzi, proprio questo spirito critico potrebbe essere rinforzato dagli studi storici eseguiti in maniera 'scientifica' (sempre scritta tra virgolette questa parola, virgolette che non mi sento di spiegare), vale a dire con una narrazione consapevole di essere narrazione di narrazione. La consapevolezza di essere narrazione di narrazione ha portato, spesso, la storia a diventare descrizione dei meccanismi narrativi, della sua natura o delle sue leggi che è altra cosa, altra 'scienza', qualcosa che pretende di giudicare i fenomeni, dando un senso e un'utilità allo scheletro senza descriverlo, finendo per descrivere la descrizione, trovare un senso alla descrizione.
Lo scheletro serve, dunque, non a essere riempito di muscoli che lo muovono in questa o quella direzione trasformandolo in quello che non è storia ma ideologia, quindi rappresentazione allo stato puro. Certamente la storia è rappresentazione, per definizione, per genetica, ma una rappresentazione che non deve acquisire un senso, un significato; la storia deve essere la veritiera rappresentazione dell'impossibilità della verità, chi ama la verità nella storia è stato sorpassato in epoca moderna, meglio surclassato, già dallo storicismo e la storia come verità è rimasta repertorio del neolitico e del pensiero antico che, ricercando verità nelle cose degli uomini, aveva il buongusto di accontentarsi di una verità semplice (pensiamo al de bello gallico alle res gestae o a Tacito). Alla fine si era messa in scrittura una scienza orale.
La storia deve essere una veritiera narrazione che, però, deve considerare con disincanto il significato di 'veritiero', come adeguato, comprensibile, ma non vicino al vero. La metodologia della veritiera narrazione e dunque dell'impossibilità della narrazione vera, della verità, non si deve tradurre in una cinica affermazione di una via verso la verità necessaria, riconosciuta come menzogna, ma percepita come verità. Qui il nazismo e il fascismo, perfettamente consapevoli dell'assenza di verità nella storia, hanno reinventato l'oggettività nella loro aggressione veritiera dei fenomeni storici, con più sottigliezza hanno continuato a farlo le società democratiche di massa del secondo dopoguerra.
Per uscire dalla trappola della equivocità di 'veritiero', basterà solo essere coscienti e soprattutto far presente (perché chi scrive di storia, comunque, narra, rappresenta e presenta) che la verità alla quale si fa riferimento nel testo è solo metodologica.
Qui, brevissimamente, un recupero di beata conoscenza, anzi meglio di conoscenza beata, che può produrre la storia ed essere la storia: una metodologia / metodo conoscitivo che coinvolge il modo di analizzare gli accadimenti umani, il rifiuto del senso per quelli e la negazione della verità in quelli. Autentica verità è assenza di verità, autentico senso, significato è l'assenza di ogni senso, significato e obiettivo.
Se giungesse a questo la storia diverrebbe, quasi per una regressione ontogenetica, antropologia e cioè discorso sull'uomo e discorso dell'uomo, antropologia affrontata come scienza e antropologia vissuta e in questa antropologia il 'caso', o meglio il caso dell'uomo, sarebbe oggetto e soggetto di studio. Ancora una volta mi viene da annotare la necessità di un 'nuovo umanesimo', necessità, meglio scrivere felicità per un 'nuovo umanesimo'.
Sulla storia come scheletro senza muscoli tornerò poi, perché quelle ossa van ben descritte. Ma chissà quando.

Venerdì, 28 novembre

Annotazioni. Esiste, quindi, una fase (una seconda fase) del ragionamento sulla storia secondo il quale l'unica cosa vera è la sua struttura (il suo scheletro), anche quella vulnerabile ad alcune falsificazioni, mentre tutto il resto, la narrazione, è inevitabilmente bugia. Questa è la fase che in parte è condivisa da Marx: la storia come falsificazione e prodotto ideologico degli interessi contrapposti delle classi. Questa di Marx è stata un'ottima premessa verso un rinnovamento degli studi storici.

Domenica, 30 novembre

Annotazione e letture. Autonomi. Intellettuali oggi? Di Antonio Negri. È quasi fatale, per me, che proprio attraverso l'ultimo contributo offerto / ripreso dal terzo volume di autonomi, mi sia imbattuto in questo articolo di Negri sul cui contenuto nutro il più completo accordo. Non ho mai nutrito molta simpatia per Negri che ho sempre considerato, appunto, un intellettuale nella mia accezione, vale a dire dispregiativa per definizione. E proprio scrivendo di sé, cioè di essere un intellettuale, ne critica la figura, l'immagine e il ruolo storico in maniera più che condivisibile. Già Castellano, in un contributo precedente (Hopefullmonsters, estratto da un numero di Metropoli del 1981), aveva stigmatizzato la riduzione del lavoro intellettuale a lavoro produttivo nel senso capitalistico del termine, dunque al lavoro operaio e comandato e quindi introduceva e confermava i concetti di produzione, beni e lavoro immateriale.
L'analisi di Negri è, invece, complessiva: travalica l'immagine 'di partenza' dell'intellettuale organico (con riferimenti a Gramsci e Althusser) che si percepiva depositario dell'universalità e della trascendenza di ciò che era, del suo ruolo e delle verità a queste cose connesse; passa, allora, all'intellettuale critico (Sartre e forse anche il primo Foucault) che ha rinunciato alla trascendenza ma teneva stretta l'universalità per giungere, infine, al secondo Foucault e in parte a Deleuze e cioè all'intellettuale 'specifico o di situazione'.
Incredibilmente Negri, e in maniera più che giusta, pone il problema della verità e soprattutto della verità nella storia, che è il mio problema. Per Foucault la verità è una questione di potere, il risultato di uno scontro, conflitto di verità. Sono d'accordo, completamente, è un buon presupposto, ereditato dal miglior marxismo, o meglio dal miglior Marx, quello più giovane che non può che essere che amato. Negri, con intelligenza, rivela la presenza del pensiero di Deleuze come spinta verso il superamento anche di questa visione 'marxiana estrema – foucaultiana': la visione della verità storica è il prodotto 'biologico' del potere e dei poteri, l'azione della verità si sposta sul terreno dell'antropologia e torna al suo principio fondante, quindi, in un ritroso che qualche giorno fa ho anch'io cercato di descrivere in questo diario in movimento.
Seguendo ancora il ragionamento di Negri si deve dire finita, sepolta definitivamente, quella che definisce la 'verità platonica' e il ruolo platonico del sapere come superamento dell'umano, mistificato, ovviamente, superamento dell'umano che si sublima nell'idea di trascendenza, riducendo il repertorio dell'umano a meri contingenza, accidente e casualità. Paradossalmente la contingenza nel pensiero platonico e in tutta la filosofia dualista diviene esistenza piena e quindi essenza senza che, però, si abbia il coraggio intellettuale di costituire la categoria relativa. Nel pensiero platonico l'essere è contingenza e contemporaneamente rinnega la contingenza, in una circolo intellettuale (ed emotivo) infinito e non risolvibile.
Una volta tanto e finalmente mi trovo pienamente d'accordo con il signor Negri, come se avessimo avuto lo stesso pensiero e cioè la stessa vita e le stesse emozioni, per dirla con Spinoza lo stesso corpo in atto nella mente.

rivedi novembre

Inizio anno

Lunedì, 1 dicembre

Annotazioni. Su 'veicoli non autorizzati', come premessa per il sito.
Qui di seguito nient'altro che poesie, o quelle che si dicono o potrebbero dire poesie perché solitamente vengono detti tali certi esercizi di penna. Belle, brutte, che mi piacciono o non mi piacciono fa poca differenza. Sono stato indeciso sull'opportunità della loro 'pubblicazione', poi ho pensato che fossero un pezzo di storia impropria, soggettiva quasi dei documenti, anzi dei documenti a pieno titolo. Forse avrei preferito cestinare tutto, forse sarebbe stato meglio poi, ma perché no? Che male fanno? Sono solo un pezzo di storia impropria e tutta la storia è impropria.

Giovedì, 4 dicembre

Letture. Etica di Spinoza. Terzo libro. Sulla natura degli affetti. Mi sono fatto coraggio e ho ripreso la lettura, come al solito, trovandola subito difficile e complicata, inoltre, da una distinzione che il curatore / traduttore  ha introdotto tra affetto (affectus) e passione (passio) che fatico a contestualizzare nel testo.
Affetto avrebbe un'accezione passiva (stato d'animo, sentimento), passione attiva ma non mi ci ritrovo, anzi a tratti ne darei un'interpretazione opposta. Vale, però, la pena di riportare l'incipit della prefazione spinoziana a questo terzo libro che è semplicemente notevole. Scrive Spinoza: “La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura”. É utile, inoltre, non tralasciare la chiarezza della definizione I secondo la quale: “Chiamo causa adeguata quella causa il cui effetto può essere percepito in modo chiaro e distinto per mezzo di essa stessa”.

Lunedì, 8 dicembre

Letture. L'Etica. Terza parte. Commentario schematico. Con una strabiliante procedura, in diverse proposizioni, Spinoza mette a punto una sorta di chimica delle passioni o meglio degli stati d'animo. Val la pena di partire da quello che viene esposto per poi costruire una gerarchia schematica relativa a questo interessantissimo passaggio del pensiero dell'olandese, che anticipa vedute psicanalitiche moderne (vi ho trovato delle prolessi di Freud e credo che questo sia diventato un luogo comune tra i lettori e gli interpreti di Spinoza). Innanzitutto Spinoza introduce una premessa conoscitiva, quasi metodologica, nella dimostrazione della proposizione III: “La prima cosa che costituisce l'essenza della mente non è altro che l'idea del corpo esistente in atto”. La presenza del corpo presuppone la mente e viceversa secondo una relazione naturale e oggettiva; per dirla in altre parole all'anima corrisponde il corpo e il corpo è presente nell'anima per una presenza inscindibile. Ogni teoria volta a separare queste due elementi trasformandoli in sostanze distinte (Cartesio) è respinta o meglio neppure presa in considerazione. La pietra angolare della 'chimica emotiva' spinoziana è la compenetrazione della mente e del corpo in unità.
Nella proposizione VI leggiamo “Ogni cosa, per quanto sia in essa, si sforza di perseverare nel suo essere” e in quella immediatamente seguente “Lo sforzo con cui ogni cosa cerca di perseverare nel suo essere non è altro che l'essenza attuale della cosa stessa”; poco più oltre (proposizione IX): “La mente … si sforza di perseverare nel suo essere per una certa durata indefinita, ed è consapevole di questo suo sforzo”.
Si introduce, così, lo stato d'animo fondamentale della mente, il desiderio, che è il modo di essere della mente di fronte al corpo e quello che potrebbe essere avvicinato all'istinto di conservazione della modernità: “Quando questo sforzo si riferisce alla sola Mente si chiama Volontà; quando invece si riferisce contemporaneamente alla mente e al corpo si chiama Appetito il quale dunque non è altro che l'essenza dell'uomo … Fra Appetito e Desiderio non vi è poi alcuna differenza se non che il desiderio si riferisce per lo più agli uomini, in quanto sono consci del loro appetito … : il desiderio è l'appetito unito alla coscienza di sé” (Scolio della proposizione IX).
Da questo stato d'animo fondamentale, costitutivo della mente, anche perché Spinoza evita ogni distinzione tra mente razionale ed emotiva (basti sottolineare la labile discriminazione tra Volontà e Desiderio) derivano necessariamente e naturalmente tutti gli altri stati d'animo e per primi la Letizia e la Tristezza (la prima nei due modi di essere di Eccitazione e Elarità, la seconda di Dolore e Malinconia). Letizia e Tristezza dipendono dalla possibilità del Desiderio di realizzarsi, o, meglio, aumentarsi e diminuirsi, secondo un'intensità che è proporzionale alle potenzialità di azione del corpo e di converso alle potenzialità di ragionamento della mente che si sviluppano parallelamente, in perfetta sincronia.
Leggiamo, quindi, la proposizione XI dove questi concetti sono definiti: “Di tutto ciò che aumenta o diminuisce, favorisce o impedisce la potenza di agire del nostro corpo, l'idea stessa aumenta o diminuisce, favorisce o impedisce la potenza di pensare della nostra mente”; nello scolio della proposizione scrive ancora: “ … intenderò per Letizia la passione per cui la mente passa a una maggiore perfezione. Per Tristezza, invece, la passione per la quale essa passa a minor perfezione ...”.
Il legame con il corpo di questi affetti primari si specifica nell'Ilarità ed Eccitazione (in ordine alla Letizia) e nel Dolore e la Malinconia (riguardo alla Tristezza) che si distinguono tra loro per il numero delle parti del corpo che sono coinvolte dall'affetto (poche nell'Eccitazione e nel Dolore, molte nella Malinconia e Ilarità). In ogni caso governa, sovradetermina, il mondo degli affetti primari la pulsione fondamentale, l'appetito / desiderio, che è naturalmente portato verso la Letizia a causa della necessità di conservarsi: “La mente – scrive Spinoza nella proposizione XII – si sforza di immaginare ciò che aumenta o favorisce la potenza del corpo”.
I sentimenti primari (Letizia, Tristezza e Desiderio) sono indipendenti da cause esterne, o meglio dall'idea di una causa esterna, e non si manifestano quali prodotti di una causa efficiente e precisata, di uno strumento / occasione di aumento o diminuzione ma sono il modo di essere della mente e del corpo nella natura. Quando si legano a una causa precisa e individuata allora si trasformano in due affetti contrapposti “... l'Amore non è altro che Letizia accompagnata dall'idea di una causa esterna ...” (scolio della proposizione XIII), così come l'Odio è Tristezza accompagnata dall'idea di una causa esterna.
Dal momento che gli affetti, tanto quelli positivi quanto quelli negativi, posseggono tutti lo sforzo verso la perseveranza di essere, non esiste una contrapposizione netta tra di loro, ma possono tranquillamente coesistere, emergendo attraverso processi associativi che vanno, secondo me, riferiti, anticipandola, alla psicanalisi freudiana e anche a molto pensiero rinascimentale. In ogni caso la 'chimica emotiva' di Spinoza è una chimica complessa. Quasi a sintetizzare questo approccio propongo la proposizione XV: “Qualunque cosa può essere, per accidente, causa di Letizia, Tristezza o Desiderio”.
Il termine 'accidente' non implica una casualità 'generica', ma una casualità, un caso, inseriti in un contesto causale che sempre domina i processi naturali e dunque anche quelli emotivi e intellettuali; questo è ben notato nella proposizione XVI secondo la quale gli 'accidenti' sono da intendersi cause efficienti non manifeste, inconsapevoli, ma non per questo meno valide e stringenti (“Ameremo o odieremo una cosa solo per il fatto di immaginare che essa abbia qualcosa di simile a un oggetto … benché ciò in cui la cosa è simile all'oggetto non sia la causa efficiente di questi affetti”). Ancora meglio questa specie di scoperta dell'inconscio (il termine mi appare forzato e fuori luogo, anche se appropriato) per gli stati d'animo che sorgono 'spontaneamente' in seguito a una idiosincrasia automatica, per i quali la causa è ancora meno nota e che sono esposti nello scolio della proposizione XV: “Da questo capiamo come ci possa accadere di amare e di odiare certe cose senza alcuna causa a noi nota, ma solo (come dicono) per Antipatia e Simpatia. E bisogna riportare a queste anche quegli oggetti che ci procurano Letizia o Tristezza solo perché hanno qualcosa di simile agli oggetti che di solito ci fanno provare questi affetti”.
Dopo la coesistenza si manifesta la compresenza degli stati d'animo opposti, quella che Spinoza chiama fluttuazione emotiva, un dubbio emotivo intorno al segno degli oggetti che si differenzia dal dubbio razionale solo per la sua intensità: il medesimo oggetto, causa ed episodio, possono provocare simultaneamente sentimenti opposti. Associazione, coesistenza e compresenza degli oggetti e dei loro affetti denuncia l'assenza di temporalità nelle cause degli stati d'animo, che vivono al di fuori del tempo, si ripetono uguali in epoche diverse e, addirittura, si proiettano sul futuro. Lo stato d'animo è, per sua natura, indipendente dal tempo, appartenendo all'essenza della mente che percepisce il corpo in atto: “L'uomo dall'immagine di una cosa passata o futura è impressionato … come dall'immagine di una cosa presente” (proposizione XVIII); questa relazione con il tempo degli affetti che viene trasformato da quelli in un 'tempo assoluto', un'eternità al di fuori del temporale, in  maniera davvero quasi freudiana, viene meglio esplicitata nella proposizione VIII dove leggiamo: “Lo sforzo con cui ogni cosa cerca di perseverare nel proprio essere non implica un tempo finito ma indefinito”.
Il tempo non è un fattore determinante nella genesi degli affetti ma interviene nella ulteriore specificazione e articolazione della loro chimica. Dalla Letizia deriva la Speranza, che è un dubbio emotivo proiettato sul futuro, o la Sicurezza, che è una certezza di Letizia immaginata nel futuro, e, infine, la Gioia, come Letizia sperata e immaginata nel passato che si realizza nel presente; dalla Tristezza genera il Timore, dubbio di Tristezza proiettato sul futuro, la Disperazione, certezza di Tristezza immaginata nel futuro, e infine il Rimorso, che è Tristezza temuta e immaginata nel passato che si realizza nel presente. A questo punto viene proprio il desiderio di tracciare uno schema grafico, una tabella relativa a questa 'chimica emotiva'.

           


DESIDERIO / APPETITO


LETIZIA      
(Eccitazione, Ilarità)



TRISTEZZA
(Dolore, Malinconia)


AMORE 


ODIO
SPERANZA
(Letizia proiettata sul futuro)
SICUREZZA
(Letizia certa)
GIOIA
(Letizia realizzata
TIMORE
(Tristezza proiettata sul futuro)
DISPERAZIONE
(Tristezza certa)
RIMORSO
(Tristezza realizzata)

Mercoledì, 10 dicembre

Letture. Etica terza parte. Spinoza. Giusto per scaldare la penna, due parole sul passaggio dagli stati d'animo fondamentali, quasi autoreferenziali, (Letizia, Tristezza, Amore, Odio, Desiderio) e quelli 'indiretti' che paiono condotti dalla logica dell'immedesimazione (anche qui davvero modernissimo Spinoza) che vanno dalla Commiserazione (un transfert dell'amore su altri, a favore degli altri), all'Indignazione (l'esatto opposto), passando per la Simpatia (Favor), l'Invidia, la Superbia (sopravvalutazione delirante dell'importanza della propria Letizia presso gli altri) al suo contrario (parallela sottovalutazione) che Spinoza non etichetta. Non ultima la Gelosia, che è una Letizia che ha perso la sua causa per via di un intervento altrui e che si è tramutata in uno stato d'animo opposto, negativo.
Annota Spinoza che gran parte degli stati d'animo che io ho posto nella categoria degli 'indiretti' sono spessissimo contraddistinti dalla fluttuazione emotiva, cioè sono ambivalenti tra i derivati della Letizia e della Tristezza e che gli stati d'animo in genere sono modi di essere del Desiderio / Appetito.
Per il caso della Benevolenza, infatti, leggiamo: “Questa volontà o appetito di fare del bene, che nasce dal fatto che la cosa che vorremmo beneficare ci fa pena, si chiama Benevolenza, la quale non è altro che un desiderio nato dalla commiserazione” (scolio della proposizione XXVII).
In altri casi gli affetti sono i prodotti di un cambiamento della loro causa esterna, o meglio della natura della loro causa esterna, come per la Serenità e il suo contrario, il Pentimento, che non sono altro che Amore e Odio che hanno rispettivamente perduto l'idea esterna della loro causa per acquisirne una interiore. I sentimenti, inoltre, possono essere composti, autentiche mescolanze di altri sentimenti, come nel caso della Gelosia che è: “... Odio verso la cosa amata unito all'Invidia ...” (scolio della proposizione XXXV).
La chimica dei sentimenti elementari si arricchisce, dunque, di reazioni indirette e di mescolanze, passando da stati d'animo fondati esclusivamente dalla percezione di sé a sentimenti sviluppati nella percezione di sé in mezzo agli altri. In questo campo si va oltre la semplice immedesimazione, giungendo a cogliere altri processi 'chimici', soprattutto quelli della trasformazione e trasmutazione degli stati d'animo. Al termine del terzo libro una sorta di glossario ragionato e gerarchico degli affetti che cercherò di commentare a suo tempo e al quale ho appena dato un'occhiata.

Venerdì, 12 dicembre

Lo avevo posto in 'prima fila' e finalmente l'ho ripreso in mano; si tratta di Impero di Antonio Negri e Michael Hardt, edito per la Rizzoli nel 2002. Curiosamente l'opera è collocata nella 'Collana storica' dell'editore, quasi a volerne prendere le distanze attraverso una scelta disciplinare 'neutra' (mia personalissima impressione). Le sintetiche presentazioni della sovraccoperta (citazioni dal New York Times, il Time, The Observer …) lo presentano come una sorta di bestseller pronto al facile uso intellettuale, quasi un riassunto di un'epoca nuova nella sua massima genericità: clamoroso è “La bibbia del nuovo movimento” dell'Espresso. L'editore, insomma, fa di tutto per 'svuotare' ciò che vende al fine di venderlo (non avevo fatto caso nella prima lettura a questa veste editoriale).
Si tratta per me di una lettura che avevo quasi completato dieci anni fa e che non mi aveva entusiasmato: avevo trovato il testo scontato, ripetitivo, topico e addirittura banale. Ho deciso, comunque, di rileggerlo anche perché dieci anni fa ero conquistato dalla passione per l'informatica, per le reti e dagli aspetti tecnici del mio lavoro e temo che gran parte dei luoghi comuni avvertiti allora originassero da questo tecnicismo imperante allora in me. In generale ricordo che l'opera mi era apparsa ben più semplice di moltissime altre produzioni di Negri, priva di un linguaggio troppo ricercato, da iniziati, e questo mi aveva favorevolmente stupito e contemporaneamente contrariato. Si tratta, comunque, di una lettura ben più facile, almeno per me, dell'Etica spinoziana, poiché i concetti che i due autori maneggiano sono concetti con i quali mi pare di avere una maggiore dimestichezza. Mi sono già spinto, infatti, nella lettura della prima parte, quella che introduce il concetto di 'impero' (come superamento dell'imperialismo), dell'assetto biopolitico della produzione e della completa astrazione e smaterializzazione del 'lavoro operaio'.
La genesi dell'Impero comporta dal punto di vista fenomenologico la perdita di un centro, attraverso la determinazione di un potere privo di nodi forti, come fu, in parte (e sottolineo in parte) l'impero romano, un potere diffuso dove la guerra è un'operazione di polizia, volta a difendere i valori etici assodati, la guerra, secondo la 'storiografia imperiale', non si presenta come tale. Notevole il parallelismo tra monachesimo militante tardo romano e medioevale e attuali organizzazioni non governative, notevole, calzante e da manuale, entrambi destinati a creare i presupposti propagandistici per la prevista operazione bellica imperiale.
L'Impero si presenta, oltre che come struttura sovranazionale, come potere dell'etica realizzata, tutela degli 'universali' e della vera umanità. L'Impero è umanesimo realizzato, che prevede un tipo umano percepito come eterno, inalienabile e vero e che pretende, quindi, di possedere la verità sull'uomo. Per certi versi trovo riecheggiata la scuola di Francoforte, come se avesse previsto con molto anticipo questa sussunzione reale nell'accezione marxiana, estesa, però, al livello culturale, emotivo, emozionale e antropologico (o meglio etnico) che gli autori, facendo riferimento al pensiero di Deleuze, chiamano 'potere biopolitico'. Si ribadisce quello che Deleuze e Negri stesso da almeno tre decenni scrivevano e cioè che la produzione dell'essere si ubica ormai anche al di fuori della produzione materiale dell'essere, nella creazione e controllo dell'immateriale. Anzi (appunto mio) proprio perché è in larga parte immateriale, la produzione è anche controllo o, meglio, autocontrollo: la percezione di sé perde la sua autonomia.
I richiami a Machiavelli e Spinoza, seppur interessanti, sono meno appropriati che non quelli a Marcuse, Althusser, Deleuze, Guattari e Foucault. Ancora una volta emerge il problema, però, (una specie di ricorrente fantasma per me) della storia e del senso della storia per il quale il rinvio alla teleologia spinoziana (che credo, al contrario, Spinoza non avrebbe sospettato in sé) cerca di essere risolutivo. Ho molti dubbi in proposito, tanto riguardo al fine (la teleologia) quanto al mezzo (Spinoza). L'idea che viene espressa della storia come complesso di res gestae, però, è davvero importante: la storia è una serie di eventi, possibilità e linee che cambiano serie, decise di volta in volta, dove il passato cambia di continuo valore e posizione rispetto al presente e dove è importantissima quella che chiamerei la 'firma' di chi scrive e fa la storia (da approfondire, in realtà, già questa è una proposizione di approfondimento, una nuova e rivoluzionaria intrinsecamente, nel suo specifico, idea di storia e di narrazione).

Sabato, 13 dicembre

Ai margini. Impero di Negri / Hardt. [La crisi e l'impero]. Sul fatto che lo sviluppo dell'Impero è uno sviluppo nella crisi economica non credo possano esserci dubbi. La data topica è, a mio parere, quella della crisi petrolifera del 1974; in quell'evenienza il capitalismo percepì con chiarezza il limite al suo sviluppo, che si accompagnava sicuramente alla critica operaia e giovanile, la critica antagonista, dispiegatasi alla fine degli anni sessanta. La crisi delle socialdemocrazie e dei partiti comunisti rese palese l'impossibilità delle politiche keynesiane che erano solite progettare lo sviluppo dall'interno del sistema e si erano appoggiate alle forze 'storiche' della classe operaia (PCI, PCF, SPD, Labour, Sinistra dei Democratici e grandi Federations sindacali in USA) per imporre al capitale la sua 'intelligenza collettiva'. La crisi petrolifera del '74 costituì la facies 'esterna' di questa impossibilità progettuale.
Siamo, per reinterpretare la terminologia di Negri e Hardt, nel tardo imperialismo, nella crisi dell'imperialismo e in una situazione che prelude e impone (cause ed effetti si intersecano come intelligentemente annotano i due autori) lo 'slittamento' (lo definirei così perché tra ciò che viene chiamato Impero e l'imperialismo non è rottura traumatica) verso l'Impero. La prima obsolescenza dell'impianto imperialista si rivelò nel taylorismo e nel fordismo applicati alla produzione industriale, che in U.S.A. avevano già dato segni di inadeguatezza alla fine degli anni cinquanta e che incubava, secondo me, fin da subito dopo il 1945 e si manifestò attraverso una 'alterità culturale',  una 'nuova democrazia di massa' che non aveva più nella produzione e nel consumo di beni materiali il nucleo dei suoi interessi e della sua struttura. L'immaginario culturale, sottoculturale e ancora di più controculturale americano (dal cinema, alla televisione, alla musica commercializzata e non, alla poesia, alla pittura e al romanzo) è investito, a partire dagli anni quaranta, non dal mondo della produzione ma da quello che le sta intorno e dietro (pensiamo al beatnik americano e alla gang giovanili). Anticipazioni, ma minoritarie, di questo sentimento nell'Europa di fine anni '50 con Debord e l'internazionale situazionista, con la swinging London inglese e anche qui la cultura delle gang giovanili. La fine degli anni sessanta, la rivolta operaia di quegli anni, estese e rese evidente e aperta anche al comune sentire europeo questa 'obsolescenza' della produzione materiale.
Nel modo di produzione si introdussero ovunque negli anni settanta nuove disposizioni delle forze produttive (penso alle “isole di montaggio” dove si cercava di recuperare una dimensione professionalizzata del lavoro operaio) che trasformarono il lavoro operaio in attività di controllo e supervisione sul processo produttivo, mentre gli schemi fordisti e tayloristi furono esportati nel modo di produzione dei servizi e della logistica, nel mondo della riproduzione del capitale. Il grandioso tentativo, decisamente riuscito, della seconda metà degli anni '70 e di tutti gli anni ottanta fu volto a slegare l'immagine del lavoro (operaio e intellettuale) dal rapporto di lavoro salariato e di 'elevarlo' ad attività creativa, coinvolgente e apparentemente libera, in diretta relazione con il mercato (pensiamo alla deindustrializzazione, al crollo delle garanzie e dei diritti sindacali, al 'movimento' di autoimprenditorialità).
Questo, brevemente, sull'obsolescenza 'interna' che rompeva bruscamente con la tradizione keynesiana relativa alla progettualità dello sviluppo capitalista: lo stato si ritira dalla società produttiva e assume il ruolo di controllore, 'guardiasigilli' contabile, dello sviluppo economico secondo le geografie di sua competenza. La pianificazione perde senso. La crisi petrolifera sul lato 'esterno' prefigurò il limite 'naturale' (in quanto imposto dalla natura) per lo sviluppo, il muro, la parete oltre la quale non era possibile andare. Non casualmente il modello produttivo che avanza dagli anni ottanta è un modulo a 'bassa energia'; le reti telematiche, le reti di computer non solo consumano poco ma evitano spostamenti di manodopera, spesso di merci, decimano il magazzino e lo stoccaggio (penso al just in time produttivo) e riducono i consumi di energia 'materiale'; fondamentali, sotto questo punto di vista, sono stati lo sviluppo della telefonia che rende il concetto di ufficio e luogo di lavoro mobile sul territorio, eliminando rigidità negli spostamenti, coercizioni allo spostamento e, ovviamente, la diffusione del telelavoro, non tanto come lavoro domestico svolto verso l'esterno, quanto come strumento per raggiungere da una sede di lavoro altre sedi di lavoro ubicate in altre città, nazioni e continenti. Questo ha contribuito a una ridefinizione del concetto di spazio e tempo di lavoro davvero rivoluzionaria: come il dominio anche il modo di produrre sta perdendo centri e nodi nevralgici. L'attacco alla produzione materiale, all'operaio di Taylor, si affianca, trovando un'ulteriore motivazione, alla necessità di evitare il limite esterno.
Non starò qui ad argomentare quanto illusoria, quasi esclusivamente propagandistica, sia stata la suddivisione internazionale in blocchi. A mio parere il sistema capitalista sovietico è sempre stato, fin dai tempi di Lenin, un sistema integrato in quello generale; rimaneva, però, il problema di rapporti di produzione fortemente diversificati tra i due 'blocchi ideologici'. La crisi economica strutturale imponeva la soluzione di questa dicotomia. L'esperienza politica di Gorbaciov e il conseguente crollo del muro furono la tomba dell'imperialismo tradizionale: nazioni e 'sovranazioni' dovevano venir meno e sono venute meno, se non nella forma in gran parte (e sottolineo il 'gran parte') della loro realtà storica.
Questo non significò omologazione dei rapporti di produzione, anzi, comportò e comporta un'estrema libertà in quelli, il recupero di vecchie forme di relazione sociale e produttiva associate a nuove, una libertà in cui il lavoro salariato è il paradigma ma non più la regola formale. Prima i rapporti di produzione funzionavano anche come mezzo di riconoscimento dei singoli 'capitalismi nazionali', dopo i rapporti di produzione nazionali finiscono quasi nell'ambito della rappresentazione ideologica e della propaganda commerciale (emblematico il caso del made in Italy). L'omologazione a un unico paradigma determina una concorrenza internazionale aperta tra le diverse forme dei rapporti di produzione che scompaiono per presentarsi moltiplicate in una miriade di nuove forme non egemoni e determina anche, questo secondo i paradigmi dell'economia classica, crisi, continua crisi di crescita e sviluppo, poiché lo sviluppo si dà nel conflitto aperto, e non più mediato dagli stati nazionali, sul mercato 'globalizzato' o meglio internazionalmente integrato (per riprendere la terminologia di Deleuze) dei soggetti interessati. I soggetti si affacciano direttamente sul mercato sia quando lavorano sia quando non lavorano, sempre e continuamente, senza sosta: il mercato è la loro forma di vita. La pianificazione e la progettualità distruggerebbero questa forma di vita; la pianificazione e la progettazione si riducono a strumenti per governare segmenti, eventi, situazioni di mercato ma rinunciano ad avere uno spettro di azione generale, limitandosi a essere usate in particolari aree o tempi, ma il quadro generale è governato da un solo dato di fatto: la flessibilità costitutiva e ontogenetica del capitalismo. È come se il capitalismo alla 'fine' della sua storia proponesse il mercantilismo delle sue origini.
La crisi non deriva dalla saturazione del mercato, (che è comunque un dato ormai presente, una barriera chiara e visibile, il limite determinato e non più solo immaginato) perché il capitalismo imperiale (come quello classico) sa inventare nuovi livelli, nuove fenomenologie mercantili ma proprio perché si è giunti in vista chiara del limite solo la crisi economica può essere il suo modello di sviluppo,  il motore dello sviluppo è divenuto la riproduzione nella penuria e non nell'abbondanza. Tantissimi argomenti quindi: lavoro come attività, mercato come libertà, conflitto e crisi, crisi come segno di libertà, impoverimento come liberazione, localismo come internazionalizzazione integrata, nuovi nazionalismi come internazionalismi, penuria come fonte della ricchezza e viceversa, e via discorrendo.

Il fatto che questo è un mondo dove le cose si susseguono con terribile velocità, come annotano gli autori, non è, secondo me, una novità assoluta: la percezione della loro velocità deriva dalla 'apparente' continua contraddittorietà degli avvenimenti, che produce, secondo una legge emotiva abbastanza semplice, disorientamento, perdita di senso e moltiplica gli effetti dell'innegabile velocità. Potremmo invece scrivere che la velocità perde direzione, la sua corsa è in avanti, in dietro e ai lati; non è forse casuale che il modello di lettura dei sistemi informatici e la immediatezza che costituisce la produzione informatica (intesa come elaborazione di informazioni) sia casuale, non preordinata. Non esiste, ovviamente, una relazione diretta tra struttura dell'operatività informatica e struttura dell'economia capitalista integrata o globalizzata, una relazione di 'basso livello', di livello sostanziale 'ontologico', ma una chiara 'simpatia': l'immediatezza domina e monopolizza le risposte di entrambi i sistemi (pensiamo al just in time produttivo e alla diretta televisiva e telematica).
Il disorientamento è inevitabile: un numero altissimo di stimoli sensoriali, percettivi, emotivi e intellettuali in un tempo brevissimo, per certi versi 'oltre – umano', quasi non – costruito per l'uomo e, forse, non lo è davvero più.
L'Impero di Negri e Hardt ha in mente una nuova antropologia, un nuovo tipo d'uomo che non ha più nulla a che vedere con l'uomo neolitico (arcaico, medio e avanzato). Quel tipo umano era governato dalle relazioni fisiche con le cose e da un ragionamento sul tempo nel quale le cose si susseguivano, era governato dalle mani, come pensava Anassagora, e ragionava con le mani: il suo pensiero era un prodotto manuale e seguiva i ritmi della manualità. Il nuovo tipo umano ignora le mani come fonti di conoscenza, come elemento distintivo della propria specie e privilegia gli occhi, la percezione visiva e l'udito, la percezione uditiva, tornando, in realtà, a una fase pre – antropologica, forse neo - animalesca. Da un punto di vista economico e sociologico il nuovo tipo umano non è più il veloce produttore operaio e il rapido consumatore di merci del 'capitalismo apicale', ma un complesso indistricabile di produzione e consumo materiale e immateriale, che si legano immediatamente, nello stesso tempo, nello stesso ambito lavorativo. Quella che era la caratteristica del lavoro femminile domestico (logistica, organizzazione, produzione di servizi, produzione e manutenzione di beni, creazione e conservazione degli stati d'animo propri e altrui, controllo di sé stessi e controllo dell'essere altrui) tolta la riproduzione della manodopera (procreazione) si è diffusa sul lavoro sociale, o meglio si è diffusa sul lavoro facendone  una cosa integralmente sociale: il lavoro ha esteso i suoi ambiti fino al punto di perdere i connotati classici del lavoro (fosse esso servile, coloniale, mezzadrile o salariato) per divenire un'attività apparentemente libera e globalizzante e slegata da un particolare oggetto.
Direi che la lettura della prima parte di Impero è stata particolarmente evocativa, producendo una pulsione all'analisi che avevo perduto: idee frammentarie e frammentate nel tempo e nella geografia della mente si sono ricomposte.

Martedì, 16 dicembre

Letture. Etica. Parte terza. Prosegue l'elencazione dei sentimenti 'indiretti'. Spinoza stesso ammette che il loro elenco ragionato ha il compito di descrivere la modalità generale della loro formazione e che spesso i nomi usati popolarmente per identificare gli affetti sono sbagliati ma non ritiene sia il caso di emendarli singolarmente. Senza procedere, quindi, in un elenco pedante mi limito a cogliere i tratti distintivi (alla mia lettura) del complesso sentimentale di Spinoza.
Le mescolanze e gli stati d'animo indiretti sono infiniti come i modi di essere del pensiero e del corpo, come le loro cause adeguate o inadeguate. Per di più Spinoza denuncia in un passo notevole che il loro numero si moltiplica esponenzialmente insieme con il numero degli individui e che spesso sono caratterizzati da una precisa situazione sociale. Sulla 'sociogenetica' degli affetti, o meglio di alcuni aspetti di quelli, è chiarissimo quando scrive (proposizione LV, nello scolio): “Appare chiaro che gli uomini sono per natura inclini all'odio e all'invidia, cui contribuisce l'educazione stessa. I genitori infatti sono soliti incitare i figli alla virtù con il solo stimolo dell'onore  e dell'invidia”. Gli affetti, quindi, non sono 'chimicamente puri', anche se Desiderio, Letizia e Tristezza rimangono la sorgente univoca di ogni altro stato d'animo: “Ci sono tante specie di affetti, Letizia, Tristezza e Desiderio, e per conseguenza ogni affetto composto da questi … quante sono le specie di oggetti dei quali siamo affetti” (proposizione LVI). Oltre che essere moltissimi gli stati d'animo sono anche diversi tra loro, ovverosia ogni individuo identifica, sotto lo stesso nome, un affetto diverso. L'affetto non è diverso sotto l'aspetto formale, ma lo è in sé poiché ogni individuo, ogni mente ha un modo suo proprio di percepire gli affetti: l'Odio, ad esempio, rimane sempre una tristezza legata all'idea di una causa esterna per tutte le menti, ma varia la percezione dell'Odio in ciascuna mente. Scrive Spinoza nella proposizione LVII “Qualsiasi affetto di ciascun individuo differisce da quello di un altro, quanto l'essenza dell'uno differisce dall'essenza dell'altro” e nella dimostrazione relativa esplicita che “Tutti gli affetti si riferiscono al Desiderio … Ma il Desiderio è la natura stessa, o essenza di ciascuno, quindi il Desiderio di ciascun individuo differisce dal Desiderio di un altro quanto la natura, o essenza dell'uno differisce da quella dell'altro”. Quindi Spinoza ha una concezione non tanto soggettivistica quanto personalizzata del mondo degli stati d'animo e anche del Desiderio, nel senso che ogni individuo fa storia a sé e la fa proprio perché ogni Desiderio è diverso da un altro, ogni esistenza differisce da un'altra.
L'elemento fondamentale degli affetti, il Desiderio, è quindi individuale, non riconducibile all'universale e al piano astratto. Universali e astratte sono le leggi che regolano la formazione degli affetti e le categorie in cui li dividono e separano gli uni dagli altri, specifici invece fino allo zoologico (Spinoza fa riferimento anche all'Appetito animale) e antropologico per il loro realizzarsi nel corpo e nella mente.
Spinoza, inoltre, individua un discrimine importantissimo tra gli affetti. Oltre che tra sentimenti 'primari' e sentimenti 'indiretti', mescolanze, egli pone una divisione tra stati d'animo passivi, subiti, e attivi, creati. I primi dipendono da cause esterne  e possono essere prodotti tanto dalla Letizia quanto dalla Tristezza, diminuire o accrescere la potenza della mente; i secondi possono essere solo prodotti dalla Letizia, essere solo positivi, e accrescere la potenza della mente NON perché la producono ma perché ne sono i protagonisti, sono essi stessi un consapevole accrescimento della mente. In questi la mente diviene protagonista di sé stessa.
Questi affetti introducono una coscienza razionale della mente volta su sé stessa, attraverso quelli la mente non solo percepisce sé, ma ragiona su di sé. Spinoza usa il termine 'azione' per descrivere questo genere di sentimenti, “ … oltre alla Letizia e al Desiderio, che sono passioni, vi sono altri affetti di Letizia e di Desiderio che si riferiscono a noi in quanto agiamo” (Proposizione LVIII) e naturalmente, appunto, (proposizione LIX) “Fra tutti gli affetti che si riferiscono alla mente in quanto agisce non ve n'è alcuno che non si riferisca alla Letizia o al Desiderio”.
Si tratta di un altro aspetto dei sentimenti positivi che è formato dalla capacità della mente di intendere sé stessa mentre produce una Letizia ben più profonda di quella che è il risultato di un affetto 'non scelto', 'non voluto', e che viene già anticipata nella proposizione LIII e dal suo scolio; anche se la capacità della mente in questi brani è solo speculativa, contemplativa delle potenzialità di agire: “Quando la Mente considera sé stessa e la sua potenza di agire, si allieta … Quando … accade che la mente possa considerare sé stessa si suppone che, per ciò stesso, … che sia … affetta da Letizia e da una Letizia tanto più grande quanto più distintamente essa può immaginare sé stessa e la sua potenza di agire”.
Rimando a domani, o a un altro giorno, il commento di una fase della mente strettamente connessa a quella della mente che agisce, che comporta stati d'animo ma quasi concetti razionali interni alla mente come Fermezza, Generosità e gran parte dei loro 'derivati' (Temperanza, Sobrietà, Modestia e  Clemenza) e che chiude, quasi, la parte dimostrativa di questa frazione dell'Etica. Questi 'quasi concetti' mi hanno particolarmente interessato perché, in maniera involontaria ma stringente, affrontano le problematiche di una pessima coltura della Gioia e della Letizia che mi ha toccato personalmente, segnatamente, ma non so se sarò puntuale e appropriato nei riferimenti, il problema dell'alcol e il 'problema' della 'politica rivoluzionaria'. Spinoza, che dilemma! Avrei smesso cento volte di leggerlo e subito dopo non avrei voluto che il suo libro finisse. Rimando e vado a lavare i piatti.

Venerdì, 19 dicembre

(19 numero primo che amo). Ai margini dell'Etica. Parte Terza. Partiamo dalle definizioni di Spinoza, semplici e accattivanti e che meritano di introdurre i problemi, da lì, come a scuola, il loro 'svolgimento'. Andiamo alla mente che si considera come capace di agire e ai suoi portati, quindi alla proposizione LIX, scolio: “Tutti gli affetti che derivano dalla mente in quanto intende, io li riduco alla Forza d'animo che distinguo in Fermezza e Generosità. Inoltre per Fermezza intendo il Desiderio in base al quale ognuno si sforza di conservare il proprio essere in base al solo dettame della ragione. Per Generosità intendo, invece, lo sforzo di giovare agli altri uomini in base al solo dettame della ragione (…). Quindi la Temperanza, la Sobrietà, la Presenza di spirito nei pericoli, ecc. sono specie della Fermezza, invece la Modestia, la Clemenza ecc. sono specie della Generosità”. Quando, poco più indietro, Spinoza scrive degli "affetti derivati” (quelli che io ho detto 'indiretti') nella proposizione LVI (“Ci sono tante specie di affetti, Letizia, Tristezza e Desiderio e per conseguenza ogni affetto composto da questi sono fluttuazioni dell'animo, o gli affetti derivati … quante sono le specie di oggetti dai quali siamo affetti”) precisa nello Scolio che “Tra le specie di affetti che derivano si segnalano l'Ingordigia, l'Ubriachezza, la Libidine, l'Avarizia e l'Ambizione le quali non sono che aspetti dell'Amore o del Desiderio i quali esplicano la natura di questi due affetti attraverso gli oggetti ai quali si riferiscono. Infatti per Ingordigia, Ubriachezza, Libidine, Avarizia e Ambizione non intendiamo altro che l'Amore o il Desiderio smodati del mangiare, del bere, del coire, della ricchezza e della gloria. Inoltre questi affetti, in quanto tali li distinguiamo dagli altri solo per l'oggetto al quale si riferiscono, non hanno contrari [sottolineatura mia]. Infatti la Temperanza, la Sobrietà, la Castità non sono affetti o passioni, bensì indicano la potenza della mente che modera tali affetti”.
Non so quanto appropriate siano le mie scelte per entrare nel merito di due affetti così diversi: l'amore smodato per il bere (che, certamente, inoppugnabilmente è compreso nella definizione) e un altro 'sentimento', la coscienza di classe, sul quale spesso mi sono interrogato.
Innanzitutto è utile introdurre un'affermazione fondamentale che Spinoza fa in chiusura della terza parte dell'Etica, al termine di una seconda e ragionata elencazione degli stati d'animo: egli scrive che tutti i sentimenti fin qui descritti sono 'passivi', il prodotto di stimoli esterni, ed equiparabili a idee confuse e inadeguate, entrando, tra le altre cose, in contraddizione con quanto affermato sulla Fermezza e la Generosità e i loro derivati. Restando in tema, una seconda contraddizione presente nella proposizione appena citata la individuo nel fatto che Fermezza e Generosità, seppur trattate tra gli affetti, se ne pongono fuori. Non si tratta di stati d'animo ma di 'disposizioni' dell'animo rispetto agli affetti 'passivi'. Su qualche interessante precisazione intorno alla natura dei sentimenti 'primari' che è contenuta nell'elenco di definizione in calce al terzo libro, tornerò, se avrò modo di ricordarmene.

[La Letizia e l'alcol]. L'Amore per il bere nasce da un sentimento positivo, la Letizia, in presenza dell'idea di una causa esterna precisa (le sostanze alcoliche) e dunque è a tutti gli effetti una forma, un modo di essere dell'Amore, un modo di coltivare e curare la Letizia. Questa forma d'amore non è positiva in sé, come tutti gli affetti non sono positivi o negativi in sé, secondo Spinoza: dona Letizia, cioè un aumento della percezione della mente e del corpo, ma, facendo riferimento a una causa esterna, produce un accrescimento confuso e inadeguato. Tutti coloro che hanno abusato o semplicemente usato sostanze psicotrope sanno che queste provocano piacere, qualcosa di simile all'eccitazione generale (a uno degli aspetti della Letizia spinoziana) ma che questo stato di Letizia è strettamente legato alla presenza di una causa esterna, nel nostro caso la sostanza alcolica, e quando questa viene meno anche la Letizia svanisce e, quindi, all'accrescimento segue la diminuzione che altro non è che la Tristezza. C'è, inoltre, da tenere in conto il fatto che Spinoza per gli affetti non parla solo di cause esterne, ma di idea della loro causa esterna e quindi la causa è persistente, continua sia nell'accrescimento quanto nella diminuzione. Giacché tra Letizia e Tristezza il Desiderio preferisce la Letizia, allora, si è inevitabilmente portati a bere nuovamente, precisamente come l'innamorato cerca nuovamente l'incontro con l'amata. Sotto questo profilo l'ubriachezza è un problema, un affetto, che riguarda chiunque beva, anche il bevitore occasionale, anche se è solo la forma degli affetti immaginata da Spinoza, come idee di una causa oltre ché risultato di una causa, a farmi collocare l'ubriachezza in questo contesto e non Spinoza stesso nel concreto svolgimento della sua analisi. Giustamente Spinoza non riesce a trovare un sentimento contrario all'ubriachezza perché bisognerebbe individuare un Odio, una Tristezza opposta. L'astemio o il sobrio non odiano il bere e non provano Tristezza nel bere, intesa come diminuzione della Letizia, ma solo indifferenza e semmai Timore verso il bere, quasi paura di Tristezza espressa sul futuro, e si trovano nella stessa condizione di spirito, rispetto all'alcol, di chi è indifferente verso una cosa amata da un altro. Il bevitore assiduo, al contrario, è colui che, affetto da ubriachezza, eleva la cosa amata a ragione di vita e perde la misura, 'smodato' lo dice Spinoza.
Da dove nasce questo 'Amore ossessivo'? Allontanandomi dalla lettera di Spinoza, io dico che ciò avviene perché si ama l'amore della cosa amata, una Letizia che è indipendente dall'oggetto ma che è prodotto dell'incontro con l'oggetto. Si ama non più l'alcol o l'ubriachezza, come nel 'normale' bevitore, ma l'idea stessa di ubriachezza, la persistenza di quello stato d'animo. Il Desiderio assume questa Letizia indipendente dall'oggetto come Letizia generale e come tale trasforma l'Appetito / Desiderio in qualcosa d'altro e cambia l'essenza stessa dell'individuo, che è la forma del suo Desiderio.
Detto con altre parole, il bevitore assiduo trova nell'uso dell'alcol un elemento di sé, un fattore di riconoscimento di sé presso gli altri e davanti a sé stesso e anche un mezzo di distinzione: il suo Desiderio è governato da una paradossale indifferenza verso un oggetto preciso e questo lo identifica nei confronti degli altri. Sulla proiezione sociale di un simile atteggiamento sarebbe lunghissimo ragionare, ma basti dire che si diversifica enormemente da individuo a individuo.
L'elemento generale è la anoggettualità del Desiderio dell'alcolista ed è indubitabile: addirittura, spesso, l'alcolista odia l'alcol, gli ripugna, ma continua a bere.
Molto spesso si giustifica lo sforzo dell'alcolista al fine di liberarsi dall'alcol con una motivazione sanitaria: le sostanze alcoliche sono tossiche e danneggiano la salute. È indiscutibile, ma questa è una motivazione debole, che può essere adatta a indurre alla sobrietà il bevitore occasionale, non certo quello assiduo, poiché quello assiduo ha trasformato il suo Desiderio e la sua Letizia, il concetto stesso di piacere e felicità e insieme con quelli qualsiasi piacere a quello associato, in qualcosa di completamente diverso dalla salute fisica: la salute fisica gli è indifferente, esattamente come all'astemio è indifferente il vino.
Il piacere e la conservazione di sé (“perseveranza di sé” avrebbe scritto Spinoza) escludono qualsiasi Letizia che non sia quella causata dall'amore dell'alcol. L'intero Desiderio organizza sé stesso in relazione al raggiungimento di questa Letizia, precisamente come l'Amore per una donna, cessando di essere Amore della sua causa concreta, oggettuale, ma Amore dell'Amore della sua causa, provoca una continua ricerca di quella, anche se inutile e vana. L'alcol pone il suo amante nella medesima condizione: non ricambia il suo amante, lo abbandona quando svanisce alla tristezza e alla diminuzione di sé. E se un Amore per una cosa si può trasformare in Odio e guarire il Desiderio, l'Amore di un Amore non può trasformarsi in Odio, perché sarebbe come negare la Letizia, negare il Desiderio. Quindi un uomo può giungere ad odiare la donna amata, ma non ad odiare l'amore per lei, esattamente come il bevitore può giungere a disprezzare l'alcol ma non l'amore per quello. Come per l'innamorato in modo 'smodato' per il bevitore in modo 'smodato' non c'è cura attraverso un sentimento, un affetto contrario. Spesso si riesce, solamente, a sostituire un Amore con un altro, con una sostanza simile (pensiamo al nomadismo tra alcolismo e tossicodipendenze e viceversa).
Se si continua a percorrere la via dei sentimenti o 'affetti passivi' (per dirla con Spinoza) per combattere questo genere di affetti passivi perseveranti, o se ci si appella semplicemente a considerazioni sanitarie si è destinati al fallimento: il Desiderio è talmente trasformato da non riconoscere nulla di valido per sé al di fuori di quello che è diventato e tutti i piaceri e le azioni sono dominate dalla presenza di questa trasformazione. Sotto il profilo della politica sentimentale esistente (definizione mia), che è quella degli affetti passivi, non è possibile negare questo genere di Desiderio e Letizia, sostituendola con un'altra (Libidine, Ingordigia o simili), perché quasi sempre l'ingordigia è già associata all'ubriachezza e la libidine all'uso di alcol: spesso l'ingordigia viene usata per aiutare l'assunzione di alcolici e la libidine sollecitata con il bere. Ogni Letizia è stata obliterata dalla nuova politica sentimentale dettata dall'uso assiduo di alcolici. Non è, infatti, un caso se quando smette di bere il bevitore assiduo cambia radicalmente la sua dieta o la sua disposizione verso la sessualità,  a parte il fatto che l'intossicazione da alcol comporta spesso disturbi anche in questi due campi, ma questo è fenomeno estremo e che rimanda alla sfera del fisiologico e non degli stati d'animo.
L'unica soluzione sarebbe quella di negare l'esistenza della cosa amata, come potrebbe essere quella dell'allontanamento o della morte della amata per l'innamorato. Questo è possibile ma non significa la morte dell'Amore quanto semmai la determinazione dell'inesistenza del suo oggetto che non è, però, risolutiva per due motivi: 1) l'Amore dell'Amore è già in verità privo di oggetto e si finirebbe, negando un oggetto con grande sforzo di immaginazione, per scegliere un oggetto simile (quindi il nomadismo), precisamente come il malato d'Amore 2) al contrario di un uomo o di una donna amata, l'alcol NON può scomparire, continuando a esistere a ogni angolo di strada e la lotta dell'immaginazione dovrebbe comportare uno sforzo immane.
Il problema è che, come veduto, il Desiderio è 'cambiato', il nostro modo di essere è cambiato in ragione della perseveranza e del raggiungimento di questa Letizia alcolica. Su tutt'altro piano, dunque, essa va combattuta: sul terreno della rieducazione del Desiderio che può essere ottenuta solo grazie a sentimenti 'attivi', indipendenti da cause esterne. Ci sono diversi metodi per ottenere questo obiettivo ma lo scopo è uno solo: usare non nuovi stati d'animo ma nuove disposizioni d'animo e lo scopo ha un solo fine nella rinascita del Desiderio verso un'altra Letizia. Qui entra in gioco la Fermezza descritta nella proposizione LIX delle terza parte dell'Etica che non è, come vedremo, un'antagonista diretta dell'alcolismo ma un nuovo modo di essere della mente.
Gli strumenti che derivano dagli 'affetti negativi'  (la negazione dell'alcol, intesa come astinenza imposta, il 'trattenersi') o da valutazioni razionali (la sua tossicità) possono servire solo a mantenere la sobrietà ma non a smettere di bere; per smettere di bere è necessaria una nuova disposizione dell'animo, anche momentanea (spesso momentanea), ma che prema per riprodursi (dopo di ché funzionerà anche l'uso degli affetti negativi): la Fermezza considerata come Forza d'animo. La fermezza è “ Il Desiderio in base al quale ognuno si sforza di conservare il proprio essere in base al solo dettame della ragione” che nasce certamente da una valutazione o serie di valutazioni razionali (la tossicità dell'alcol, il ragionamento e la coscienza della destrutturazione / reindirizzamento del proprio desiderio, l'obliterazione della propria identità) ma è anche il sentimento attivo (nel senso spinoziano del 'che agisce e fa agire') che dispone la mente verso quelle valutazioni, interiorizzandole, ponendole dentro il Desiderio a nuovo principio di Desiderio e Letizia.
La Fermezza non si porta dietro, infatti, solo la Sobrietà ma anche la Temperanza, la Modestia e la Clemenza, doti che spesso un alcolista non apprezza; in generale la Fermezza importa un complesso emotivo che viaggia verso l'Amore di sé, la soddisfazione di sé e dunque una Letizia che non è instabile e legata a una evanescente causa esterna.

[Se un bevitore assiduo può o non può continuare a bere occasionalmente]. In ragione della Fermezza e della Sobrietà può, anzi dovrebbe, altrimenti quali Fermezza e Sobrietà sarebbero? E infatti un atteggiamento assolutamente e drasticamente censorio verso l'uso degli alcolici diminuirebbe proprio la componente attiva della Sobrietà, la Sobrietà come scelta. La Sobrietà deve essere una scelta e NON una disciplina. Contemporaneamente noi bevitori assidui abbiamo conosciuto, prima della Letizia che procura la Fermezza che è un fenomeno interiore, un sentimento di crescita e aumento della nostra mente e del nostro corpo indipendente da cause esterne (la mancanza di alcol, che è una non – esistenza, non è una causa della Fermezza ma semmai un suo effetto), prima di questa abbiamo conosciuto una Letizia ben diversa con un oggetto preciso (l'Amore per il bere o meglio l'Amore per l'Amore del bere). Nel nostro caso essa ha plasmato e conquistato il nostro Desiderio e ha colonizzato sentimenti e vita. Abbiamo conosciuto una forma di Amore che altri non hanno conosciuto e questo ha costituito la nostra 'unicità' davanti al mondo, poiché coltivare un Amore, come ho dimostrato spinozianamente (credo), privo di oggetto reale e pieno solo di sé stesso non è sentimento comune a tutti gli uomini e solitamente contraddistingue l'arte, la filosofia e coloro che la fanno e praticano.
Di fronte a un etilista cronico e acuto (le più esposte a questo particolar stato d'animo sono le donne) ci si dice: “O non ha capito nulla della vita o ha capito troppo”. C'è un fondo di verità dietro allo stupidità di questo topos che non tocca solo l'etilista acuto ma anche il bevitore assiduo. Noi abbiamo perseguito, attraverso l'alcol, una Letizia e con quella una conoscenza che difficilmente si può scordare e anche la Fermezza non ci può evitare quell'Amore dell'Amore perduto, la nostalgia per quell'Amore così puro, così disinteressato. Purezza e disinteresse sono certamente un tratto costitutivo dell'affetto verso il bere che è indipendente da qualsiasi obiettivo pratico, e che semmai fa di quello occasione per il perpetuarsi di quell'amore. Come non si può dimenticare quell'Amore per la sua durezza e le sue menzogne, però, cioè per la sua Tristezza e, questo, è un bene. Un bevitore assiduo rimane sempre un bevitore assiduo anche quando non beve da anni perché ha provato quella Letizia pura e disinteressata: il suo Desiderio ha subito un danno e, come tutte le ferite, una cicatrice visibile e palpabile.
Allora mi ridomando un bevitore assiduo può bere occasionalmente o no? Forse questa potrebbe essere la sua vera prova e forse questa prova andrebbe affrontata, cioè quella di diventare un bevitore occasionale; contemporaneamente bisognerebbe chiedersi chi sia un 'bevitore occasionale', e se esista davvero la figura del 'bevitore occasionale'. Spesso noi bevitori assidui abbiamo avuto esperienza di bevitori occasionali che, in verità, erano bevitori assidui mistificati, non nel senso che da una certa misura in su principiavano a bere di nascosto, ma nel senso che dissimulavano con tutte le loro forze la Letizia alcolica, fingevano di non aspirarne mentre facevano solo di tutto per non esserne coinvolti e questa non è un gran genere di libertà e di potenza della mente (per parafrasare Spinoza).
L'unica cosa che mi sento di scrivere in proposito è che un alcolista ha avuto dei valori, delle emozioni niente affatto banali, è stato un uomo / donna unico/a, che alcolista, anzi ubriacone, è bello di una Letizia, sobrio è bello di un'altra Letizia. Per chiudere direi che alcolista è bello, ma alcolista che non beve è quasi perfetto e così ogni alcolista si senta libero di scegliere tra la bellezza o quasi perfezione, se continuare a bere (rimani bello) rischiando di temere per tutta la vita la fine di quella Letizia e il prevalere della Tristezza, o non bere mai più nella completa libertà che deriva dalla Fermezza e dunque da una perfezione lieta e quasi sfiorata.
Coscienza di classe? Impossibile descriverla adesso ci sono troppe mescolanze (“Commiserazione unità a Generosità”?) e Spinoza troppo stretto, Marx troppo largo e io troppo confuso. Ne riparleremo con più calma.

Sabato, 20 dicembre

Letture. Etica. Terza parte. Siamo giunti alle definizioni finali degli 'affetti'. Non interessa l'elenco o riassunto che comprende alcune contraddittorie definizioni. Fondamentale è invece l'ulteriore definizione di Letizia e Tristezza, come PASSAGGI (nell'aumento e nella diminuzione) in relazione alla perfezione che NON È UN CONCETTO ASSOLUTO, ma interno al Desiderio e agli stati d'animo. Perfezione è un concetto relazionale: “Dico passaggio. Infatti la Letizia non è la perfezione stessa. Se infatti l'uomo nascesse con la perfezione alla quale perviene, ne sarebbe in possesso senza la Letizia … la Tristezza consiste nel passaggio a una minor perfezione, ma non nella minor perfezione stessa, poiché l'uomo non può rattristarsi nella misura in cui partecipa di una certa perfezione …”. Difficilissimo interpretare il concetto di perfezione, quindi, che esiste ma non rientra direttamente negli affetti, ha un valore relazionale, di punto di riferimento.
Poco più oltre, nella prefazione della parte quarta, che tratta della schiavitù umana e delle forze degli affetti, Spinoza afferma che l'idea di perfezione è una 'convenzione', un modello ideale, non una realtà, come il bene e il male, quasi una concezione relativistica.
Nella definizione I leggiamo “Per buono intenderò ciò che sappiamo con certezza esserci utile” e naturalmente cattivo è ciò che ci “impedisce di possedere un bene” (definizione II). In generale si manifesta pienamente il carattere 'passivo' degli affetti, che sono prodotti di idee confuse e inadeguate, anche se “il Desiderio è l'essenza stessa dell'uomo” (definizione I delle Definizione degli affetti in calce alla terza parte). L'ambivalenza ed equivocità nella valutazione e valorizzazione degli affetti è in Spinoza altissima e verrebbe da scrivere che gli stati d'animo sono costitutivamente ambivalenti, al contempo fondanti e accidentali, attivi e passivi, adeguati e inadeguati. La stessa idea di perfezione che chiama in causa gli affetti 'primari' è un'idea confusa e inadeguata, un luogo comune, come chiarissimamente esposto nella prefazione della parte quarta.

Lunedì, 22 dicembre

Ai margini. Etica. Tra terza e quarta parte. Sono fondamentali due concetti. 1) Il bene e il male sia che siano fondati razionalmente (volti sotto il dettame della ragione) oppure no, sono affetti in competizione con tutti gli altri e non è affatto 'naturale' e inevitabile che prevalgano. Gli affetti concorrenti si presentano anche quelli come idee più o meno adeguate e con una loro forza di persuasione. 2) Fino a questo punto della trattazione (ma è necessario attendere la quinta parte dell'Etica, quella dedicata alla potenza della ragione, per argomentare meglio) i principi etici non sono legati ad alcun modello sociale (proprietà ma anche conservazione biologica di sé) come, al contrario, lo sono in Locke e Rousseau, ma sono il prodotto della semplice e necessaria conservazione di sé del Desiderio. È l'essenza umana a essere posta al centro dell'indagine che è indipendente nel suo motore dalle contingenze, dalle cause, e, contemporaneamente, è da quelle influenzata e personalizzata secondo quella che definirei ecceitas sentimentale.
Come notazione generale mi sento di scrivere e ripetere un'ovvietà e cioè che Spinoza si presenta come un pensatore profondamente materialista, a una 'dimensione', per il quale le contraddizioni dell'essere, che sono infinite, si risolvono nell'essere e non in altro.
Il sentimento tra i sentimenti, l'idea del bene costruita razionalmente, viene anticipata già nella quarta parte dell'Etica, come idea razionale che sorge dalla necessità di collaborare degli uomini: l'essenza dell'uomo sta proprio nel riconoscersi come soggetto di collaborazione. Spinoza è chiarissimo in proposito quando scrive: “Tutti i nostri sforzi intrapresi seguendo la ragione si riducono al comprendere; e la Mente, in quanto si serve della ragione, giudica che sia utile solo ciò che conduce alla comprensione” (Proposizione XXVI). E qui dunque individuiamo la definizione della mente che ragiona e ottiene la felicità che è comprensione. Più avanti, nella Proposizione XXXV, leggiamo: “Solo nella misura in cui gli uomini vivono sotto la guida della ragione, concordano sempre e necessariamente per natura”. Questa concordanza o concordia nascono dal fatto che gli uomini, ragionando o meglio comportandosi 'secondo i dettami della ragione', sono naturalmente portati a riconoscersi l'uno nell'altro, a 'specchiarsi' vicendevolmente, e infatti Spinoza scrive nel corollario I della precedente Proposizione: “In natura non c'è cosa singola che sia più utile all'uomo dell'uomo che vive sotto la guida della ragione. Infatti la cosa più utile per l'uomo è quella che concorda con la sua natura e cioè l'uomo stesso ...”. Per questo corollario si potrebbe addirittura scrivere di naturale identificazione tra gli uomini, al punto che Spinoza, poco oltre, cita un detto popolare: “ … L'uomo è un Dio per l'uomo ...” (nello Scolio). Sempre nello scolio l'olandese definisce il fondamento di questa razionalità etica scrivendo: “I Satirici … deridano le cose umane, i Teologi le detestino e i Malinconici disprezzino pure gli uomini e ammirino gli animali; essi tuttavia sperimenteranno che gli uomini possono procurarsi molto più facilmente ciò di cui hanno bisogno con il reciproco aiuto e che non possono evitare i pericoli che incombono se non con l'unione delle forze ...”. L'uomo, quindi, guidato dalla ragione in ottemperanza con il suo desiderio e non entrando in contrasto con quello è naturalmente portato alla cooperazione, non in quanto è costretto a quello dal perseguimento di obiettivi immediati ma perché molto più facilmente li può ottenere, non in quanto spinto dalla cruda conservazione di sé, ma in quanto la conservazione di sé si realizza nell'identificazione di sé come uomo. Spero di aver inteso e spiegato bene.

Martedì, 23 dicembre

Letture. Etica. Parte quarta. Seppur la ragione sia il fondamento dell'etica, l'etica non può fare leva e consolidarsi solo sulla razionalità ma è costretta a utilizzare gli affetti, in forma organizzata, attraverso lo stato. Qui Spinoza introduce il concetto di moralità (nel suo latino pietas) del quale è garante e origine stessa lo stato. In natura ogni uomo persegue quello che ritiene il suo bene che è il suo utile immediato, che può essere in antitesi con quello altrui; anche il bene razionale viene scambiato e passa in questo mercato affettivo per un bene tra gli altri: lo stato, assumendo il bene razionale, lo impone, costituendo la Moralità e Onestà, attraverso la punizione e il castigo e dunque facendo leva su un affetto, il timore. La morale spinoziana è molto lontana da quella di Kant, l'etica si fonda sulla ragione ma non ha valore universale, non è un sé per sé, ma ha valore solo in relazione all'uomo e alla sua felicità; tanto è vero che viene applicata, trasformandosi in precetto morale, attraverso l'uso della forza e della coercizione in modo da farne l'affetto più potente giacché, secondo la geometrica dimostrazione del filosofo: “ … la conoscenza vera del bene e del male, in quanto vera, non può ostacolare alcun affetto, ma solo in quanto è considerata come un affetto” (Proposizione XIV) e conseguentemente nello Scolio II della Proposizione XXXVII “ … la società potrà consolidarsi a patto che essa rivendichi a sé il diritto che ciascuno ha di vendicarsi e di giudicare del bene e del male e abbia il potere di prescrivere un comune sistema di vita, di stabilire leggi e di tutelarle non appellandosi alla ragione, che non può vincere gli affetti, ma con le minacce”.

Giovedì, 25 dicembre

Nel pomeriggio, uggioso, di questo natale mi è capitato tra le mani 'Ricordi di un bevitore: l'incontro fatale con John Barleycorn' di Jack London, edito nel 1995 per la Demetra nella collana Acquarelli. Questo libro ha una storia particolare: lo regalai a mio padre insieme con altri libri (due o tre opere di Simenon, una su un gerarca fascista, Bottai, e altre ancora) ma temo non fece in tempo a leggerlo, malgrado amasse London (Zanna bianca, Il tallone di ferro). Quando morì svuotai l'armadietto della stanza d'ospedale e quei libri mi tornarono in mano; per anni li ho tenuti in disparte, poi, con il tempo, si sono mescolati con gli altri.
Ricordi di un bevitore è la storia di un bevitore assiduo, non un etilista (London traccia una netta distinzione tra i due concetti) che, seppur democratico convinto, non sarebbe favorevole al voto femminile, ma, chiamato a votare sulla questione nello stato di California, vota a favore dell'estensione del suffragio alla donne per un solo motivo: solo le donne (le mogli, le figlie maltrattate e abbandonate dai mariti e padri bevitori) hanno ogni interesse affinché la vendita libera di alcolici sia bandita. La facilità con la quale ci si può procurare l'alcol è la principale ragione, secondo London, del suo successo. John Barleycorn non è un buon amico, è dannoso, rovina la salute ma è terribilmente facile da incontrare.
Gli etilisti non frequentano John per ragionare meglio, ma per smettere di ragionare, scrive London, per ridursi all'incoscienza ma questi sono un'esigua minoranza del club di Barleycorn, una minoranza che barcolla, traballa e si addormenta priva di sogni; gli etilisti sarebbero persone in difficoltà anche senza John Barleycorn. Ben più vasto è il gruppo dei bevitori assidui che frequentano John senza ubriacarsi ma mantenendo uno stato per il quale 'il corpo è sano ma la mente è ebbra'' e che vogliono (e vedono aumentate) le loro capacità di analisi e comunicazione attraverso la frequentazione di John. John è cattivo al gusto, cattivo per lo stomaco e dannoso per la mente; John al neofita non si presenta bene ma ha una grande arma: John è conviviale e aiuta a stabilire relazioni sociali e intellettuali ed è, inoltre, legittimato socialmente.
Il fatto che John ci conduca alla morte, concedendoci, però, un'eccitazione spesso invidiabile, è ininfluente per i suoi amici: John, infatti, ha saputo convincerli che la vita senza di lui non abbia senso, anzi che non ha senso in genere.
London è semplicemente geniale. La serie di passaggi che conducono a essere un bevitore assiduo offre uno spaccato ineguagliabile di vita del bracciantato agricolo, dell'operaio senza qualifica e della manodopera migrante dell'America di fine ottocento. Una bella lettura natalizia.

Venerdì, 26 dicembre

Letture. Ricordi di un bevitore. Jack London. Dribblando le continue richieste di commensalità altamente smemorata di mia madre, sono andato avanti nella facile lettura dei 'Ricordi di un bevitore'. Magistrale è la descrizione del passaggio dalla fase 'passiva', nella quale la convivialità alcolica viene supportata in funzione del riconoscimento di sé da parte degli altri e dall'adesione a uno stile di vita alternativo (nel caso di London: la vita come avventura e la fuga dalla monotonia quotidiana) a quella 'attiva'. L'uso del bere diviene autonomo, personale, libera scelta, sempre conviviale ma in una convivialità della quale ci si rende protagonisti (diveniamo noi a introdurre e proporre John Barleycorn e siamo noi a scegliere di iniziare la bevuta); questa trasformazione riguarda anche uno degli elementi del vivere associato: la valutazione del danaro. John svaluta il valore del danaro, riducendolo a strumento per consolidare solo la sua amicizia. Da questi due momenti si è maturi nell'alcool e si è diventati adulti sotto questo punto di vista.
Mentre prima si veniva riconosciuti e accettati e ci veniva offerto da bere e noi ricambiavamo, ora si è noi a riconoscere e accettare e siamo a noi a offrire da bere: si è preso, per usare una metafora in tema, il boccale in mano, trasformandoci da trascinati in trascinatori. Si obietterà che questo scenario è adeguato solo a rappresentare situazione ad altissima concentrazione etilica, come generalmente sono quelle dei paesi anglo – sassoni e anch'io, fino a qualche tempo fa, avrei sottoscritto questa critica. In verità non è affatto così.
La generalizzata facilità dell'acquisizione degli alcolici annulla molti luoghi comuni geografici: nei paesi latini il primo approccio all'alcol è un approccio didascalico, educativo, quasi didattico e in questo differisce leggermente da quello anglo – sassone che pone al centro il riconoscimento di sé'. Quello latino contiene anche il riconoscimento di sé ma anche qualcosa di altro, una componente rituale, quasi religiosa e filosofica, certamente legata a molti relitti della cultura e socialità contadina. C'è un gruppo di bevitori, tenuto insieme e identificato dalla frequentazione di un locale, da un modo omogeneo e condiviso di stare nel paese o nel quartiere, e da un'assonanza di vedute intorno alla vita (non necessariamente solidarietà politica, quella, solitamente, è accidentale); il gruppo pone, in maniera informale ma precisa, una procedura di accesso e solitamente gli alcolici che vengono condivisi sono quasi sempre a media gradazione: questo fa parte dell'iniziazione, del modo stesso di essere conviviale del gruppo (che spesso si 'riunisce' anche per mangiare insieme) e anche della tradizione etilica latina.
Quando London sottolinea l'atteggiamento verso il danaro, individua un elemento non secondario: i bevitori assidui (anglo - sassoni e non) hanno un ottimo rapporto con il danaro nella misura in cui non ne valutano l'importanza (e questo è un fattore liberatorio, un secondo effetto secondario e fascino secondario di John Barleycorn) se non per la necessità di usarne per bere. Solitamente i bevitori sobri e gli astemi non vengono giudicati dai bevitori assidui  come temperanti ma come avari.
Poco cambia sotto il profilo della convivialità: il sobrio è poco comunicativo, non si associa alla grande avventura esistenziale del bevitore e ha ben poco da dire alla vita, a sé e agli altri: è uno a cui piace la monotonia e anzi la monotonomia (la regola della monotonia). Anche nei paesi latini, attraverso la tradizionale rete dei locali pubblici, si forma una meno mutevole e più strutturata, che nei paesi anglo – sassoni, comunità di bevitori assidui.
Fin qui spiegato come si diventa bevitori e alcolisti, perché lo si diventa è per me davvero arcano: la comunità alcolica accoglie nel suo indifferenziato motivazioni diversissime sulle quali neppure durante le più serie e severe bevute collettive ci si interroga. Come è arcano il motivo per il quale il bevitore assiduo oltre che fare di tutto per ritrovarsi al bar quotidianamente (la chiusura settimanale è quasi un lutto) prosegua solitariamente (chi prima, chi dopo) questa convivialità alcolica anche tra le mura domestiche. Va annotato che esiste un buon numero di casi nei quali, con gradualità, il consumo solitario diviene preminente rispetto a quello collettivo che viene limitato ad alcune occasioni (il sabato, le feste laiche, le feste comandate); in quelle occasioni il bevitore 'solitario' ricorda la sua relazione con l'alcol, la rinforza, ridonandole ciclicamente senso (la comunità, lo sperpero di danaro, il disprezzo verso il danaro).
Nel bevitore solitario rimane costitutivo, anzi ancora più rinforzato, l'elemento del disprezzo contro il danaro. Ci sarebbe da aprire un capitolo analitico sulla critica etilica al danaro e sull'atteggiamento del bevitore assiduo nei riguardi del lavoro, ma sarebbe un'analisi lunga, articolata, per certi versi organica alla quale non mi sento preparato e attrezzato.

Sabato, 27 dicembre

Letture. Etica. Parte quarta. Sono giunto alla fine di questa parte dell'opera e ad averne una visione complessiva anche grazie a una esposizione riassuntiva che ne dà Spinoza medesimo, rendendosi conto della complessità nello sviluppo del suo pensiero.
La vera potenza della ragione assomiglia all'autocompiacimento svolto in maniera razionale, cioè “è la ragione stessa che l'uomo considera in modo chiaro e distinto” (Dimostrazione della Proposizione LII) e quindi l'autocompiacimento di quel genere è un affetto estremamente intenso. Quindi la potenza della ragione produce un sentimento, un affetto ma lo dispone su un piano diverso.
La fondazione della morale, cioè dell'etica ridotta e applicata alla società, è un'operazione strumentale sugli affetti (umiltà, pentimento e rispetto) che è addirittura indipendente dalla loro natura (positiva o negativa) e guarda esclusivamente al risultato sociale. La formazione dei concetti di bene e di male sotto il profilo morale è indipendente dal bene  e dal male sotto il profilo degli affetti. Il bene e il male, la morale, si muovono su piani diversi: dalla considerazione dell'utile immediato a quello mediato socialmente fino a un piano in cui il bene e il male, considerati sotto il dettame della ragione, non esistono, o meglio il bene è la vita nella potenza della ragione, mentre il male è solo il prodotto di “una conoscenza inadeguata” (Proposizione LXIV). Alla fine il male, nel senso tradizionale,  come oggetto di conoscenza non esiste in quanto è solo oggetto di un'idea inadeguata. Se analizzato in maniera tradizionale il pensiero di Spinoza intorno allo stato di natura, la legge naturale,  e la legge positiva è quasi hobbesiano e in netto contrasto con Locke e Rousseau. Lo stato di natura è uno stato privo di legge e governato dagli affetti primari di ciascun individuo e proprio qui è il punto: per Spinoza lo stato di natura, nel senso di Locke o di Rousseau, non può esistere, per usare la sua fraseologia “è un assurdo”. La natura umana è spontaneamente razionale, anche quando è dominata dai sentimenti che non sono altro che idee più o meno distinte e adeguate; la componente razionale innerva gli istinti per Spinoza. Il diritto naturale non esiste se non come, ma forse neanche, embrione, nucleo chimico di quello positivo; in verità non ha senso, se si segue il pensiero di Spinoza, distinguere tra i due. A mio parere il diritto naturale, una spontaneità generante valori morali, non esiste per Spinoza e questa spontaneità generante è la ragione che individua nella collaborazione pacifica tra gli individui l'essenza stessa della nostra specie e proprio nella ragione, nella felicità che dona la potenza della ragione è la gratificazione affettiva che induce a cooperare.

               

rivedi dicembre

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Bibliografia consultata e consigliata:

Antologia degli scritti politici di John Locke / a cura di Felice Battaglia. - Bologna : Il mulino (I classici della democrazia)

Apocalisse di Giovanni / introduzione Andrea Tagliapietra ; traduzione di Massimo Bontempelli. - Milano : Feltrinelli, 1992

Gli autonomi : le storie, le lotte, le teorie / a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti. - Roma : Derive e approdi, 2007

Il caso tessile : ciclo produttivo e forza lavoro, Lanerossi 1963-1974 / Enrico Marchesini, Attilio Masiero ; introduzione di Guido Romagnoli. - Milano : Mazzotta, 1974 (Nuova informazione, 19)

La civiltà egizia / Alan Gardiner. - Torino : Einaudi, 1971 (Saggi, 483)

Il contratto sociale / Jean-Jacques Rousseau ; traduzione di Maria Garin ; introduzione di Tito Magri. - Roma ; Bari : Laterza, 1997 (Economica Laterza, 106)

Etica e trattato teologico - politico / Baruch Spinoza ; a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani. - Novara : UTET ; De Agostini, 2013

Impero : il nuovo ordine della globalizzazione / Michael Hardt, Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2002. - 4. ed. (Collana storica Rizzoli)

Nietzsche: la scienza sul Vesuvio / Antimo Negri. - Roma ; Bari : Laterza, 1994

Ricordi di un bevitore : l'incontro fatale con John Barleycorn / di Jack London ; traduzione e presentazione di Paolo Cassella. - Bussolengo (VR) : Demetra, 1995. - 2. ed. (Acquarelli ; 35)

La vera religione = De vera religione / Aurelio Agostino = Aureli Agostini ; [introduzione, traduzione e note di Marco Vannini]. - Milano : Mursia, 1987 (GUM, 86)

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