Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2016)
        
    
    
     
        Bibliografia consultata e consigliata
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          Venerdì, 1 gennaio
          
          Annotazione. Largamente ai margini di Convenzione e materialismo di
          Virno. La morale è discorso e interpretazione, l'etica esempio,
          effettualità e concretezza. La morale non può che venire a posteriori
          in quanto discorso sull'etica, l'etica è a priori della morale. La
          morale non può che venire a posteriori in quanto discorso sull'etica.
          La morale, pur avendo una narrazione universale, è fondamentalmente un
          prodotto soggettivo, con minore o maggiore successo rispetto al
          rappresentato e alla sua oggettività; l'etica è immediatamente
          collettiva e oggettiva. Questo nella configurazione valida per il
          mondo classico e moderno.
          
          Domenica, 3 gennaio
          
          Annotazione. Il quadro etico e politico della trasformazione sociale
          degli anni settanta e ottanta, che ha traghettato verso quella che
          viene definita post – modernità, disegna un cambiamento radicale e
          profondo e quindi una nuova epoca.
          Negri, Virno, Berardi, Foucault e Deleuze in moltissime opere
          descrivono, narrano e registrano questo passaggio. Rimane, almeno per
          me, il problema di quell'ormai antico, ma forse non ancora inattuale,
          concetto di operaio sociale, abbandonato, lasciato lì, dato per
          presupposto ma mai, alla fine, dimostrato e, soprattutto, descritto.
          Dietro quel soggetto, però, potrebbe essere la vita, l'etica e la
          politica di questa nuova epoca.
          Rimane, inoltre, l'assenza di dati statistici, e questo limitatamente
          alla mia analisi, che non per questo deve essere di impedimento
          perché, spero si sia capito, l'analisi dell'operaio sociale va fatta
          dal suo interno, dal di dentro della sua autopercezione, dalla
          singolarità (concetto scoperto da Virno e amato da Negri).
          Le statistiche le recupererò ma servono a poco; in fondo, la
          statistica deve essere di tutt'altro genere.
          L'idea, che si è fatta avanti con prepotenza in Italia negli anni
          novanta, di appartenere a un altro genere di forza lavoro, questa idea
          è la statistica: la statistica è una nuova immagine del lavoro
          subalterno e salariato.
          Quello che negli anni settanta era fantascienza, oggi è realtà, in
          mezzo a questi due estremi è l'esperienza dell'operaio sociale, che è,
          probabilmente, due cose apparentemente opposte: una figura di
          passaggio, provvisoria e transeunte che contiene una tipologia
          epocale.
          
          Giovedì, 7 gennaio
          
          Ai margini dei fatti di capodanno in Colonia. È uno schema storico
          vecchio quasi quanto la civiltà: giunte a un certo livello di sviluppo
          economico, politico e istituzionale, le realtà internazionalmente
          egemoni cercano di rinnovare lo sviluppo esportando all'esterno le
          contraddizioni più brucianti, sotto forma di sottosviluppo. L'impero
          romano e bizantino sono stati esemplari in questo.
          Questo avviene ancora con maggiore precisione scientifica, più attenta
          e consapevole programmazione. Questa attenzione e precisione
          scientifica derivano in parte dall'esperienza storica acquisita e in
          parte dalla tipologia di sviluppo che si intende rinnovare. Per romani
          e bizantini il problema era evitare carestie e crisi agricole,
          attraverso l'uso di potenti strumenti di coercizione extraeconomica
          sulle economie della loro periferia non pacificata; per i
          paesi capitalisticamente egemoni il problema è esportare parte della
          produzione obsoleta dal punto di vista dei paradigmi ecologici e
          tecnici verso le aree non – egemoni, rinunciando anche alla originaria
          nazionalità di quella produzione, quando e dove necessario.
          Questo spostamento permette di ubicare l'antagonismo tra capitale e
          lavoro, incarnato dal conflitto tra operaio massa e fabbrica
          taylorista, al di fuori degli ambiti degli stati nazionali egemoni.
          Questo spostamento permette, inoltre, di coltivare all'interno dei
          confini nazionali nuovi paradigmi ecologici e produttivi e una nuova
          tipologia di sviluppo, permette l'appropriazione di quello che fino a
          pochi decenni fa non era un valore: del tempo di vita, dell'etica,
          dell'intelligenza individuale e collettiva e della comunicazione
          sociale, delegando gran parte del comando della forza lavoro manuale e
          operaia e dell'estrazione del valore tradizionale agli stati nazionali
          'arretrati'.
          Questo spostamento non deve essere pensato come una semplice
          esportazione; il capitalismo  non riproduce l'operaio –
            massa nel sud del mondo così come era stato nel nord del mondo:
          il lavoro di fabbrica non è ora fonte di sviluppo ma sorgente e causa
          di sottosviluppo, non produce, come in Europa e America tra XVIII e
          XIX secolo, modernizzazione ma un suo surrogato, una sua imitazione,
          per il semplice motivo che la natura dell'attuale modernità non è
          quella modernità. 
          Il rapporto di lavoro salariato, costituito sulla legge del
          pluslavoro, non riesce a egemonizzare le economie periferiche (Sud
          America, Africa, paesi arabi, Cina e India) dove, pure, si sviluppa
          pienamente; il fabbrichismo non determina in quei paesi i fenomeni
          politici tipici delle democrazie parlamentari, poiché non si associa a
          elementi che sono stati fondamentali per la formazione di quelle (un
          ceto intellettuale diffuso e anch'esso vicino e limitrofo al lavoro
          dipendente) e il superamento di un'identità sociale basata sulla
          tribalità, la famiglia allargata e la comunità locale (l'immaginario
          tribale, l'immaginario dispotico e l'immaginario collettivista
          asiatico). Il fabbrichismo si presenta ed è nelle aree non – egemoni
          un'appendice del capitalismo internazionale, un salario di
          sopravvivenza senza ricadute sul territorio e senza un allargamento
          della domanda di beni. La fabbrica è una colonia.
          Allo stesso tempo e naturalmente, il modo di produzione di fabbrica
          subisce, esattamente come quello che rimane operante nei paesi
          capitalistici egemoni, la concorrenza del nuovo modo di produrre e
          l'influenza delle sue tipologie. La concorrenza del nuovo modo di
          produrre egemone nei paesi 'sviluppati' si coniuga anche nei paesi
          'arretrati' al fabbrichismo e fa sentire la sua influenza non solo sul
          modo di produzione di fabbrica ma anche sull'intera società,
          coniugando sviluppo e sottosviluppo in forme pittoresche e inusuali,
          per la gioia di qualche letterato.
          Molti potrebbero interpretare questo scenario come il risultato della
          resistenza degli stati nazionali egemoni allo sviluppo, al nuovo modo
          di produrre e di creare valore e alla definitiva
          internazionalizzazione del mercato del lavoro e della produzione; gli
          stati nazionali egemoni continuerebbero, quindi, per affermarsi e
          mantenere la loro identità e ruolo a esportare le loro debolezze e
          criticità verso le aree nazionali deboli e sottosviluppate, verso i
          figli di un dio minore. Esisterebbe un antagonismo tra stato nazionale
          e capitalismo globale, una diversità di vedute, strategie e obiettivi.
          Non è affatto così. Su questo terreno, il terreno della
          redistribuzione dei paradigmi produttivi e tecnologici, il capitalismo
          globale, il biocapitalismo, come amo definirlo, è in maniera assoluta
          legato e coessenziale alle politiche degli stati nazionali. Serve,
          infatti, una concertazione internazionale, istituita secondo le
          vecchie metodiche del mondo diviso in nazioni, per governare e
          programmare la distribuzione di sviluppo e sottosviluppo. 
          Certamente il capitalismo è cambiato e questo cambiamento non è tanto
          recente, come invece ancora molti ritengono, ma affonda le sue radici
          e i suoi elementi di fondo nel welfare state di Roosvelt. Da
          allora i vecchi stati nazione hanno iniziato a essere nuovi  e hanno
            cessato di essere il prodotto remoto dello stato nazionale e
            dinastico della modernità europea.
          Il capitalismo contemporaneo attraversa le nazioni, frantuma
          indiscutibilmente antiche territorialità e omogeneità, divide e separa
          quello che un tempo, in nome della geografia amministrativa, appariva
          inscindibile, e quindi ha costretto e costringe ancora di più oggi la
          nazionalità a rinnovarsi, ma continua a riconoscere nel vecchio stato
          nazionale, evoluto e non evoluto, un interessante strumento
          istituzionale, politico e ideologico.
          Il sottosviluppo può contribuire allo sviluppo solo se si presenta
          come metro stesso dello sviluppo, la cui misura sono ancora gli stati
          nazionali. Il sottosviluppo diviene il rischio di un processo esterno
          allo stato nazionale che può minarne la stabilità, ma anche il timore
          di qualcosa di esterno che possa diventare interno, contaminandone
          l'identità; lo stato nazionale rimane indispensabile misura del
          rischio economico e della mobilità culturale ed etnica. Lo stato
            nazionale rimane un mappa nautica indispensabile alla navigazione,
            poco importa che non sia più aggiornata, importa che rimanga come
            misura per i diversi metri economici, politici e culturali.
          Solo grazie al mantenimento della misura, distesa all'interno dello
          stato nazionale, alla sua formazione, genesi, storia e via
          discorrendo, è possibile costituire la dialettica tra sviluppo e
          sottosviluppo, tra immagine della ricchezza e della povertà, della
          libertà e della tirannia. È una falsa misura? Certamente. Ma è una
          misura ancora in uso e dunque vera. 
          
          Qui è necessario eseguire uno scarto analitico e andare verso
          l'immaginario e l'immaginazione sociale, la soggettività generica che
          rivela questo processo come un processo problematico, quale
          effettivamente è. 
          La corrispondenza tra immaginario e immaginazioni e realtà economica e
          culture tecniche e produttive è un tratto distintivo della nuova
          modernità, la complessità degli immaginari rispecchia la complessità
          delle forze produttive e la loro disaggregazione e aggregazione
          continua.
          Il timore del ritorno all'economia del passato, a un economia della
          privazione e della penuria, insieme con il timore di una progressiva
          perdita delle politiche egualitarie tra i generi, anima questa
          dialettica intellettuale tra sviluppo e sottosviluppo, che se non
          trova una relazione con la nazionalità, la sua costituzione e la sua
          storia, difficilmente potrebbe essere scritta; la nazionalità, le sue
          conquiste storiche sono e rimangono la misura dello sviluppo. La
          nazionalità, però, è animata anche da timori opposti, quelli che
          paventano la fine dell'identità economica e finanziaria delle nazioni
          e la dissoluzione delle economie fondate sul lavoro (fatti
          inequivocabili) che comporterà anche e quindi la fine dell'etica e
          della morale: qui lo stato nazione non è solo misura ma anche metro.
          Si tratta delle declinazione della stessa inadeguatezza analitica:
          sviluppo e sottosviluppo non sono intesi come elementi dello stesso
          processo, ma il processo si qualificherebbe, per entrambi i fronti,
          solo attraverso lo sviluppo.
          Il sottosviluppo, al contrario, ha una funzione vitale per il
          biocapitalismo: senza la povertà, banalmente, non può essere
          ricchezza, senza nazioni povere, modernizzate ma incapaci di modernità
          e nazionalità, non possono essere nazioni ricche, moderne nel senso
          nuovo, vale a dire moderne e capaci di superare la vecchia modernità e
          la nazionalità a quella legata. Paradossalmente, come senza
          sottosviluppo non può esistere sviluppo, così senza nazionalità non è
          immaginabile e programmabile il suo superamento. È il paradosso del
          biocapitalismo o del capitalismo globalizzato, se si preferisce il
          termine.
          Questa è un'antinomia che percorre continuamente, in maniera costante,
          puntuale e tempestiva il mondo contemporaneo; questa antinomia scende
          nell'immaginario, pervadendolo attraverso moltissimi strumenti, media
          e messaggi, con una ridda contraddittoria e disorientante che proprio
          perché tale ha la capacità e di comportarne l'interiorizzazione
          collettiva e singolare, secondo gradienze diverse e quindi secondo
          un'ulteriore dispersione e disorientamento.
          
          La modernizzazione incompiuta, al contrario, nei paesi o nelle aree
          del sottosviluppo, fa il lavoro del sarto: riveste le vecchie
          ideologie e tradizioni culturali e religiose che non hanno, si badi
          bene, una base compiutamente nazionale; cose del passato, tribalismi,
          genealogie, legami dinastici e dispotici assumono l'aspetto del
          moderno e le corrispondenti culture si assumono anche i compiti del
          pensiero moderno. La famosa legge dello sviluppo diseguale che si
          realizzava su  singoli segmenti del processo storico, ora innerva
          l'intero processo.
          Le ideologie religiose, che nella modernità precedente erano state
          costrette a una parte della cultura, in una frazione tendente al
          personale e individuale, perdendo terreno nell'immaginario  e
          nella progettazione sociale, hanno assunto, in quest'ultima modernità,
          l'aspetto viscerale ed esclusivo che possedevano all'origine
          (ebraismo, cristianismo e islam) o se questo gli era estraneo, lo
          hanno importato (induismo e buddismo). Questa visceralità esclusiva ha
          conquistato la ribalta dell'ideologia, la programmazione sociale, un
          disegno ecumenico che, però, si dispone verso la politica
          immediatamente e semplicisticamente, ignorando molte fasi intermedie
          della maturazione ideologica e della progettazione sociale e politica.
          
          Per cogliere un esempio, nel mondo del sottosviluppo l'islam diviene
          un generico  e incompiuto pensiero anticapitalista, quindi
          moderno, unito a un etica dei generi e del lavoro arcaica; non si
          tratta di un ibrido, di una contaminazione insulsa, ma del modo di
          essere del biocapitalismo in alcune aree geografiche, caratterizzate
          da un particolare sostrato storico e culturale. Aspirazioni critiche
          contro il capitalismo e difesa di etiche pre – moderne si fondono.
          Spesso le chiese cristiane percorrono un percorso simile e analogie le
          possiamo reperire in alcune componenti moderne dell'induismo.
          Certamente, quindi, la modernizzazione del sottosviluppo provoca la
          trasformazione delle ideologie religiose in ideologie politiche, in
          modi di essere della politica. La riscoperta della potenza politica
          delle religioni non è affatto un ritorno alla prima epoca moderna e
          alla riforma protestante e cattolica, anche se in parte gli
          assomiglia, ma registra un nuovo campo di azione della politica,
          totalizzante che interessa la vita privata e pubblica, singolare e
          sociale dell'individuo, che coinvolge la vita dell'individuo quasi in
          essenza. È questo uno dei volti e dei portati del biocapitalismo.
          È un processo generale che riguarda lo sviluppo e il sottosviluppo,
          solo per noi molto più evidente, in ragione del nostro eurocentrismo
          culturale, nei paesi dominati dalle economie del sottosviluppo, dove
          le ideologie fondamentaliste, di qualsiasi segno religioso, hanno
          assunto l'aspetto di un nazismo per i popoli delle aree povere e di un
          socialismo senza lotta di classe, nello stesso tempo. Lì, in quelle
          aree, l'odio di classe, negato, viene però sublimato in un odio di una
          parte delle nazioni contro altre nazioni, di alcuni popoli contro
          altri popoli e di alcune culture contro altre culture. I popoli
          poveri, dotati di una vera fede e di una vera morale, quasi imitando
          le fraseologie fasciste e naziste dell'Europa novecentesca, si
          prenderanno riscatto dei popoli ricchi, privi di fede, di morale e di
          principi etici.
          Questo nazismo religiosamente fondato per le nazioni, comunità e aree
          povere, unito al socialismo senza critica sociale è l'opposizione più
          semplice e comoda che i paesi egemoni capitalisticamente potessero
          desiderare, non solo al di fuori, ma anche al loro interno; il
          biocapitalismo domina e governa, informandole di sé, le contraddizioni
          che crea: diviene modo di vivere, diviene anche critica antagonista.
          Il biocapitalismo ha suscitato questa apparente regressione,
          regressione autentica per chi rimane legato all'eurocentrismo
          culturale, perché è la risposta in forma arcaicizzante, adeguata
          all'area e alle popolazioni del sottosviluppo, alla modernissima
          esigenza di controllo dei corpi e delle vite, dei desideri e delle
          pulsioni, della comunicazione e dell'etica.
          Un tempo si sarebbe detta un'opposizione di sua maestà, dove il
          monarca, però, non ha corpo, non ha partito, non ha istituzione, ma è
          un processo economico senza volto, un processo astratto e un monarca
          astratto. L'opposizione di sua maestà inorridisce a questa
          astrattezza, che pare voler competere con il suo riscoperto divino, e
          pretende allora di disegnare volti, partiti e istituzioni per quel
          processo, di personalizzarlo e territorializzarlo, di interpretarlo
          come un complesso di persone e di nazioni malvagie e nemiche.
          Il fondamentalismo pretende di far tornare il mondo indietro, solo
          descrivendolo e descrivendolo come sarebbe potuto essere descritto un
          tempo. Questa descrizione ha successo perché è semplice e rende
          semplici alla comprensione le cose del mondo, nascondendo il conflitto
          reale e necessario, ma inspiegabile secondo i parametri semplici, per
          sostituirlo con uno verosimile e possibile.
          Questa opposizione semplificata entra anche nei territori ricchi,
          nelle nazioni egemoni, in primo luogo come segno del sottosviluppo e
          delle popolazioni in fuga dalle aree di quello, ma anche come segno
          affascinante di una nuova modernità, una modernità ultima che riscopre
          il passato che l'ha preceduta e la vuole unire  a sé,
          rivificandola. Esemplare il percorso della chiesa cattolica da papa
          Giovanni Paolo II in poi, sotto questo profilo, ma anche di movimento
          mistici indigeni e non, di sette cristiane, di comunità buddhiste,
          induiste e via dicendo, dove la visceralità esclusiva è elemento
          fondante, che contraddistingue questi fenomeni, seppur molto
          differenti tra loro.
          Il nazismo per i paesi, le nazioni, le aree, le comunità e le
          popolazioni povere si diffonde come strumento di identità non
          necessariamente nazionale nel sottosviluppo, e come strumento di
          frantumazione e scollamento delle identità nazionali, verso nuove
          forme identitarie, nei paesi egemoni.
          
          Venerdì, 8 gennaio 
          
          Ai margini dei fatti di capodanno in Colonia. Il modo di diffondersi
          di idee, atteggiamenti mentali e comportamenti sociali è molto
          cambiato in questi cinquant'anni: la diffusione ha perduto l'aspetto
          univoco, spesso è policentrica, sempre imita la policentricità pur
          mantenendo una sostanza monocentrica, e sempre si serve autenticamente
          di strumenti policentrici e reticolari. L'elemento decisivo non
          risiede nella sostanza, ma nell'apparenza policentrica, sulla sostanza
          ci sarebbe molto da ragionare e quantomeno bisognerebbe presupporre
          una dialettica e confronto tra quella e l'apparenza.
          Le barriere nazionali, vero ambiente e caposaldo della diffusione
          ideologica, comportamentale e culturale univoca, in questo contesto,
          comunque, contano davvero poco e sono del tutto inadatte anche a
          gestire la dialettica tra apparenza ed essenza della reticolarità. Il
          contesto policentrico e reticolare è il risultato della
          compenetrazione continua tra diverse aree, diverse sotto il profilo
          economico, produttivo e demografico. C'è un rispecchiamento tra
          reticolo e compenetrazione, anche se è, ovviamente, imperfetto.
          I fondamentalismi si diffondono da nazioni a nazioni, da nazioni
          povere verso nazioni ricche ed egemoni, ma, nello stesso tempo,
          originano anche, in maniera indipendente e auto generativa, nelle
          nazioni egemoni,  perché vivono nel medesimo ed essenziale brodo
          di coltura che è l'economia e la socialità progettata dal
          biocapitalismo. Questa è la dialettica culturale del biocapitalismo.
          Nei paesi egemoni il fondamentalismo, al di là delle forme ideologiche
          e dei riferimenti che assume (pensiero liberale, neo – cristianesimo,
          escatologie diverse) sacralizza e rende trascendenti lo stile di vita
          raggiunto, le abitudini acquisite, in quanto divengono la
          realizzazione del senso stesso della storia, lo scopo del cammino
          stesso dell'umanità. È una convinzione di massa, condivisa e un
          sistema di valori antropologici; è un sistema di valori antropologici
          nel senso che su alcuni di quelli, presi singolarmente, tenuti
          separati gli uni dagli altri, si può anche sindacare, discutere e
          introdurre innovazioni e cambiamenti, ma sul complesso generale, sulla
          sua collocazione, peso e ruolo nella vita sociale generale,
          sull'economia generale, sulla stessa idea del mondo non si è disposti
          a nessun compromesso. L'idea secondo la quale l'umanità vive di
          progressivi rischiaramenti, crescita di sé, è parte ineludibile di
          questo sistema di valori. Nel mondo dell'immanenza esiste una
          trascendenza, ed è, per i fondamentalismi ricchi, la
          consapevolezza di sé raggiunta dai paesi economicamente egemoni, che
          rappresenta nel migliore dei modi possibili, nella maniera più
          adeguata possibile, la storia del mondo e dell'uomo.
          I fondamentalismi poveri, per forza di cose, non condividono
          questa teleologia; il mondo dell'immanenza come progressivo
          miglioramento e rischiaramento dell'umano è per quelli bugia e prova
          provata di quanto la menzogna, la falsificazione della realtà abbiano,
          finora, dominato il mondo e di come il mondo sia nemico.
          I fondamentalismi poveri sottolineano il conflitto, quelli
          ricchi la pacificazione. Il conflitto in quelli è una necessità
          immanente per la costruzione di un nuovo piano trascendente; la
          pacificazione, nei fondamentalismi ricchi, sottolinea la
          sintesi, la trascendenza che richiede il conflitto per il motivo
          opposto, la difesa del piano immanente sulla quale si fonda.
          I fondamentalismi poveri sottolineano l'impossibilità di uscire dal
          sottosviluppo e disegnano il sottosviluppo come valore, i
          fondamentalismi ricchi sottolineano la possibilità del superamento
          delle contraddizioni tra sviluppo e sottosviluppo.
          In entrambi i casi, lo sviluppo e il sottosviluppo sono dati come
          momenti inevitabili, stati necessari, e in entrambi i casi non si
          mette in discussione la tipologia dello sviluppo. Vanno radicalmente
          rivisti gli assiomi del marxismo ortodosso e classico, che è stato per
          molti aspetti una forma di fondamentalismo incapace di criticare la
          logica dello sviluppo e che, spesso, ha preso le parti della sintesi e
          della trascendenza, altre volte quelle del conflitto e dell'immanenza.
          Alle volte il pensiero marxista ha ritenuto che solo spingendo il
          piede sull'acceleratore dello sviluppo o altre volte solo facendo leva
          sulle forze e resistenze del sottosviluppo si potesse giungere a una
          sintesi finale e alla realizzazione dei destini dell'umanità.
          Uso la categoria di fondamentalismo come una figura retorica, come una
          semplificazione, un'inadeguatezza ma efficace, verso un'efficacia che
          dovrebbe comportare, al contrario, una terribile complessità.
          Proseguendo in questa semplificazione, lo sviluppo del capitalismo
          globale, anche perché è uno sviluppo biocapitalista, porta con sé la
          crescita di fondamentalismi poveri (quelli che fanno della povertà un
          valore assoluto e una garanzia di etica e moralità) e ricchi (quelli
          che fanno dei relativi livelli di agiatezza economica, di raffinatezza
          intellettuale, una garanzia etica e morale opposta). Questo sviluppo,
          però, porta con sé anche la visione realistica o addirittura
          materialistica della fine dell'immanenza, vale a dire della fine del
          senso della storia e degli scopi dello sviluppo storico. È il cuore e
          l'incubo più profondo, quasi inconscio, del biocapitalismo.
          Questo incubo e cuore può darsi anche nella realtà, manifestarsi al di
          fuori del sogno, come una guerra civile mondiale strisciante o una
          crisi economica costante, come guerra civile e crisi che diventano
          strumenti, forme e abiti dello sviluppo; dal punto di vista classico
          uno sviluppo senza sviluppo.
          
          Si interseca a questa visione realistica, se non addirittura
          materialistica, la critica all'unità del diritto; l'unitarietà del
          diritto è stata uno dei fondamenti dell'unità e identità degli stati
          nazione. In base a questa idea giuridica, abbastanza recente e vecchia
          di appena tre secoli, uno scenario sociale, per essere tale, doveva
          fondarsi su un'uniformità giuridica, realizzata su base geografica,
          che poteva anche dividere la società ma orizzontalmente e non
          verticalmente.
          L'unitarietà del diritto non era propria del diritto romano, quanto
          meno non era l'elemento centrale in quello; il mondo giuridico romano
          prevedeva che alcune componenti e frazioni delle leggi, delle
          definizioni delle colpe e della statuizione delle pene fossero gestite
          in maniera diversificata a seconda delle aree geografiche, delle
          province, dell'etnia, del lignaggio e dello stato sociale del soggetto
          giuridico. Un Ebreo in Roma viveva secondo un diritto diverso da
          quello ebraico della Palestina e le cose cambiavano ulteriormente in
          funzione del suo stato sociale, se era donato di cittadinanza oppure
          no, se alla sua comunità era riconosciuta una soggettività giuridica
          oppure no, e via dicendo. Gradienze e gradazioni diverse costellavano
          l'applicazione del diritto in Roma imperiale.
          Il cinismo biocapitalista, o meglio il realismo e per certi versi il
          materialismo biocapitalista non colloca l'unitarietà del diritto tra i
          valori irrinunciabili per lo sviluppo; qui si contrappone allo stato –
          nazione. Lo stato nazionale è unitarietà e assimilazione
            nell'unitarietà; la tendenza statuale biocapitalista, il potenziale
            farsi stato del biocapitalismo, non ha fondazione necessaria
            nell'unitarietà dei diritti, anzi volge verso la compresenza e
            frequentazione di diritti singolari e particolari. I
          fondamentalismi opposti, attraverso la guerra civile mondiale
          teatralizzata e realizzata in forme mediatiche, difendono, seguendo
          inclinazioni, metodologie e fascinazioni diverse e spesso opposte, la
          conservazione dell'unitarietà del diritto.
          
          Domenica, 24 gennaio
          
          Annotazione. Negli anni novanta, in Italia, succedono due cose,
          importanti: finisce la prima repubblica (o fa il verso di finire, ma
          poco importa ai fini analitici di questi pensieri) e viene siglato
          l'accordo sul costo del lavoro. Sono importanti per inquadrare
          l'emergenza di una nuova tipologia di relazioni di lavoro, che
          indirizzano lo sviluppo del nuovo soggetto operaio sotto il profilo
          della normativa contrattuale. Le spinte sociali degli anni '70 e '80
          per l'abbandono del lavoro dipendente inteso in senso stretto, normato
          contrattualmente, trovano nei novanta un canale di sbocco naturale e
          integralmente subordinato alle regole del mercato. La fuga dal lavoro
          contrattualmente normato diventa, ora, l'immediata e non normata
          relazione con il mercato del lavoro e delle merci.
          La disgregazione di una ancora piccola parte dello Stato sociale,
          sancita e santificata ideologicamente dalla rivoluzione dei
            magistrati, da tangentopoli e dalla conseguente messa sotto
          accusa mediatica della prima repubblica, si sposò con una politica di
          bassi salari che ha slegato irreversibilmente il principio del reddito
          da quello della retribuzione del lavoro, come era stato già anticipato
          dall'abolizione della scala mobile nel 1984. Il lavoro dipendente
          tradizionale nel settore privato si avvicina alle nuove forme di
          retribuzione e di controllo del lavoro che erano state sperimentate
          nel lavoro esternalizzato dal settore pubblico negli anni ottanta e
          che hanno oggettivamente funzionato da laboratorio contrattuale e nel
          comando d'impresa.
          Il taylorismo perde la sua sponda keynesiana, rappresentata dal
          reddito complessivo slegato parzialmente dalla produttività grazie
          alla fornitura pubblica di servizi sanitari, educativi ed
          assistenziali in regime di quasi gratuità. Non è la domanda, ma
          l'offerta ad essere sostenuta e lo stesso modo di produzione di Taylor
          diviene inadeguato, la produzione di massa viene riformata e rivista.
          Si diffonde il just in time, l'azzeramento del magazzino e
          la flessibilità delle linee di montaggio: la produzione operaia cambia
          volto, insieme con il lavoro operaio di fabbrica. Ma soprattutto
          cambia il modo di stare dei produttori nella società, oltre che nella
          produzione stessa.
          I primi anni novanta, in Italia, ebbero davvero un aspetto
          storicamente rivoluzionario: cambiava una piccola parte della
          costituzione formale, soprattutto nelle forme della rappresentanza
          politica (evidenziata ma non riassunta dal passaggio dal sistema
          proporzionale a quello maggioritario), ma cambiava autenticamente la
          costituzione reale. Si registrava, quasi di un tratto e quindi appunto
          in maniera rivoluzionaria, la trasformazione che si era insinuata nei
          quindici anni precedenti, tra 1975 e 1990.
          
          Sabato, 30 gennaio
          
          Annotazione. Presero corpo in forma nuova, nei novanta, le tendenze
          all'autoimprenditorialità che si erano espresse fin dai secondi
          settanta.
          Sono centrali queste nuove forme: l'autoimprenditorialità (in verità
          parola un poco vuota ma utile in questo caso per distinguerla
          dall'imprenditorialità tradizionale e 'storica') perse la carica
          critica nei confronti del lavoro salariato che l'aveva animata nei due
          decenni precedenti e cessò di legarsi alla soggettività politica
          dell'operaio – massa, quando, invece, questo legame aveva determinato
          l'incredibile combine antagonista, quella sorta di comune di Parigi,
          frazionata istituzionalmente  e  distribuita 
          geograficamente tra Roma, Milano e Bologna, durante le annate 1975 –
          1977. 
          Non furono, dunque, nuove forme marginali, secondarie come lo è il
          prodotto di una sottocultura politica e sociale: il rifiuto del lavoro
          salariato, del lavoro regolato contrattualmente, del lavoro
          dipendente, era stato, infatti, il tratto unificante tra vecchia e
          nuova composizione di classe, o, meglio è scrivere, tra il passato che
          resisteva e il futuro che iniziava a organizzarsi insieme con esso. Il
          rifiuto del lavoro si trasformò, grazie a questa frattura e divorzio,
          necessariamente in sempre più generico elogio all'attività contro il
          lavoro, alla libertà del mercato contro la schiavitù del salario. Il
          lavoro slegato dal comando di fabbrica e da uno dei suoi strumenti, la
          norma contrattuale, non diventava libertà dal lavoro salariato ma solo
          libertà dalla norma contrattuale, dalla coercizione collettivizzata.
          Non accadde, quindi, che accanto alla vecchia classe operaia fordista
          si collocò una nuova classe operaia; accadde, invece, che si trasformò
          generalmente il modo di lavorare, di intendere il lavoro e di essere
          forza lavoro. I vecchi aggettivi validi a circoscrivere l'esperienza
          operaia decaddero fino al punto di rendere difficile la definizione di
          classe operaia. I quadri statistici sull'occupazione non possono
          rilevare questa trasformazione, perché fu il modo stesso di stare
          nell'occupazione, di essere occupati, di avere e subire una condizione
          contrattuale, di stare nel lavoro oppure di essere nella
          disoccupazione e di stare senza una condizione contrattuale normata a
          cambiare radicalmente.
          Non si trattava più di nuovi e vecchi soggetti, di avanguardie e
          retroguardie sociali (e magari politiche) ma di un nuovo contesto
          generale, dentro il quale era ed è ancora oggi inadeguato e
          mistificatorio scrivere di soggetti sociali.
          L'accordo sul costo del lavoro riduceva la variabile operaia, anzi
          l'ha azzerata, mentre la deregolamentazione economica produceva una
          pioggia di appalti ed esternalizzazioni  che favorivano nuove
          mentalità operaie e nuovi soggetti. L'impresa si decentrava e con essa
          la normativa del lavoro si frantumava.
          Molti, legandosi ancora al tradizionale discorso sui soggetti sociali
          e cercando di rivitalizzarlo, hanno sottolineato come il capitalismo
          cognitivo e il lavoro immateriale sono stati centrali in questo
          processo; tutto questo permetteva di individuare e circoscrivere un
          segmento di produzione, dotarlo di un ruolo trainante e
          costituire ideologicamente un nuovo soggetto proletario. A parte il
          fatto che, precisamente come il termine autoimprenditorialità,
          capitale cognitivo e lavoro immateriale sono concetti un poco vuoti,
          che contengono in sé stessi il loro inizio e la loro fine, concetti
          che si autodistruggono, la mia percezione è che tutto l'involucro
          produttivo, ma non solo quello ma l'intera socialità, venne in quel
          decennio coinvolto in una trasformazione profonda.
          Certo è possibile, anzi necessario, continuare a individuare segmenti
          e settori sociali, ma non più in termini di soggetti compresenti e di
          composizione. Se si fosse costretti a ragionare in termini di soggetti
          e composizione sociale si dovrebbe scrivere che i cambiamenti
          intervenuti negli anni novanta (sto scrivendo dell'Italia) hanno
          provocato la costituzione di un unico soggetto proletario, che però
          non è una composizione, perché non è minimamente unitario, e che
          quindi, seppur utile dal punto di vista di un analisi filosofica, è
          pressoché inutilizzabile in quella economica e politica e, dunque,
          alla fine, non è un soggetto sociale ma antropologico.
          Segmenti e segmentazioni ve ne sono state, molto spesso in stridente
          contraddizione con il nuovo concetto del lavoro come attività, tanto
          nel mondo delle fabbrica, più spontaneamente connaturato ad ospitare
          questa contraddizione, quanto in quello della cosiddetta nuova
          economia. 
          
          È comunque innegabile che il modo di produzione di fabbrica, la
          tendenza alla segmentazione e semplificazione delle mansioni, ha in
          parte abbandonato la fabbrica; è, però, altrettanto innegabile che la
          segmentazione, parcellizzazione e semplificazione delle mansioni
          lavorative sono state esportate  e ancora oggi resistono e
          funzionano bene, dal punto di vista del comando d'impresa,
          nell'amministrazione e nei servizi per le / nelle imprese.
          È oggi corretto analizzare il tradizionale lavoro di ufficio (il front
          e back office, la produzione documentale, l'archiviazione,
          l'euristica) nei termini di un lavoro produttivo, svolto quasi in
          termini tayloristici. Il taylorismo è migrato. Questa è certa
          conseguenza, molto specifica, di una condizione generale, secondo la
          quale anche l'informazione aziendale è un prodotto, nel senso di un
          bene, di un valore di scambio e non solo d'uso, anche se, ovviamente,
          il suo valore non è misurabile con la medesima scienza del valore di
          scambio fisico e materiale. Scriverei, però, che tende a quella
          scienza.
          Mentre la scientifica misurazione del valore di scambio abbandona la
          produzione manifatturiera, approda a quella intellettuale,
          coinvolgendo il lavoro subordinato e comandato direttamente, spesso
          precisamente normato dalla contrattualistica su base oraria, dentro le
          strutture amministrative delle aziende. Il taylorismo è entrato nel
          mondo degli impiegati.
          Anche nell'eccezione tayloristica del nuovo modo di lavorare
          impiegatizio si rientra a buon diritto e senza conflitti sistemici nel
          nuovo mondo e scenario sociale: il modo di misurare il lavoro
          comandato direttamente dal capitale attraverso il sistema del comando
          di impresa è cambiato e anche là dove il comando di impresa e
          contrattuale è rimasto rigidamente legato alla concezione della base
          oraria per la retribuzione, all'idea di tempo di lavoro, la sua misura
          non fa riferimento (e non può ovviamente farlo per la natura stessa
          del prodotto nel caso dell'impiegato) alla misura oraria del lavoro
          vivo necessario.
          
          Se esiste l'operaio sociale, questo soggetto indimostrabile, abbiamo
          scoperto la sua prima caratteristica dopo l'indimostrabilità e che
          presuppone l'indimostrabilità, la non unitarietà. L'operaio sociale è
          indimostrabile perché non è unitario e quindi  non si
            presenta come un soggetto.
          In Italia questo nuovo soggetto si è affermato concretamente negli
          anni novanta, rovinando, per la sua stessa natura, tutti gli altri
          soggetti proletari, risucchiandoli, polarizzandoli e spezzettandoli.
          Negli anni novanta, in Italia, l'operaio sociale è uscito da una
          metaforica minorità storica e la sua affermazione è la niente affatto
          lineare conseguenza di uno cambiamento complesso e complessivo, ma
          privo di aspetti unitari e dialettici, dello scenario economico,
          politico e istituzionale.
          Le caratteristiche di cognitività e immaterialità delle risorse e del
          lavoro che sono associate solitamente a questo soggetto vanno
          ridimensionate: la fondazione del soggetto è anche una conseguenza di
          quelle ma non si basa su quelle.
          Se intendiamo inoltre ridurre l'analisi sul soggetto indimostrabile
          verso la costituzione e l'incontro con un soggetto sociologicamente e
          politicamente tendente all'omogeneità, potenzialmente omogeneo, che
          cammina verso una precisa direzione politica e ideologica e verso una
          determinata composizione di classe, quindi, appunto con un soggetto
          sociale, corriamo il rischio di dover fare dell'antropologia, scienza
          affascinante, ma fuori dai nostri scopi iniziali. Questo deragliamento
          potenziale è, comunque, eloquente.
          
          Domenica, 31 gennaio
          
          Annotazione. In Italia, negli anni '90, attraverso le nuove leggi
          elettorali, gli accordi tra governo e confederazioni sindacali e la
          rivoluzione apparente di tangentopoli, non si è affermato solo un
          nuovo quadro politico e ideologico, ma anche un nuovo concetto di
          cittadinanza.
          Se le caratteristiche dell'operaio sociale non disegnano un nuovo
          soggetto sociale e una nuova composizione di classe, ma un generale e
          sociale approccio al mondo, al mercato e al lavoro, allora la sua
          affermazione deve necessariamente accompagnarsi con un cambiamento
          strutturale e, per usare un'aggettivazione storica, epocale.
          Questo non perché, secondo una regola storica abbastanza ovvia, a una
          composizione di classe corrisponde una forma di comando sull'economia
          e di dominio politico, ma perché, senza voler introdurre nessuna
          deroga a questa regola generale e per me incontestabile, banale e, lo
          ripeto, ovvia, le trasformazioni che hanno determinato la comparsa di
          questa nuova composizione di classe, di questo soggetto indimostrabile
          (in Italia negli anni '70, ma negli Stati Uniti possiamo
          tranquillamente retrodatare agli anni cinquanta questa epifania) sono
          state molto più ampie, generali, che nel passato del capitalismo e
          forse della storia dell'umanità. Insomma la mia impressione è che
          questa nuova composizione di classe sfugge all'analitica che,
          tradizionalmente, nel marxismo, conduceva a individuare una
          composizione di classe. Oggi la composizione di classe stessa richiede
          un marxismo oltre il marxismo, una specie di Marx oltre Marx e la
          scelta di quel titolo da parte di Negri, per un suo testo degli anni
          ottanta, fu, secondo una modalità che certamente Negri non aveva
          immaginato, profetica.
          
          L'Italia ha avuto la sua parte di questo cambiamento e l'ha reso, a
          suo modo, visibile; ha rispettato in questo la sua storia particolare,
          la sua particolarità, che appariva dominata da un sostanziale
          immobilismo istituzionale e politico (la costituzione del 1948, il
          regime democristiano prima e poi i governi di pentapartito), lungo
          mezzo secolo. A fondare la costituzione italiana era stato uno
          scenario contraddistinto non solo dalla fine della guerra ma di una
          guerra civile e necessariamente la costituzione italiana ha avuto una
          fondazione e una genesi forte, in quanto testimonianza e
          sanzione del superamento di una guerra intestina ed esterna la cui
          riproposizione doveva essere scongiurata. La costituzione e la
          repubblica italiana, quindi, sono stati i prodotti di una rivoluzione
          politica, della fine del fascismo, della dittatura, dell'affermazione
          del suffragio universale e della distribuzione della rappresentanza in
          maniera rigorosamente democratica, la distribuzione dei seggi secondo
          il sistema  proporzionale.
          Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è stato, dunque,
          morbido e secondo i metri europei apparente, proprio per questa genesi
          della democrazia parlamentare e repubblicana; ma non per questo non è
          stato un passaggio concreto e dalla sua morbidezza e dal sostanziale
          rispetto della struttura costituzionale emersa nel 1948 mantenne
          anche  nei novanta la peculiarità politica del nostro paese, lo
          scombinamento dei concetti di destra e sinistra e la polemica, spesso
          rovesciata ed emersa fin dagli anni ottanta, tra conservatori
          e riformatori.
          Il concetto di cittadinanza, difeso dai costituenti nel 1946, era, dal
          punto di vista del cittadino inteso come soggetto sociale, quello di
          una partecipazione necessaria al mondo del lavoro e alla distribuzione
          del reddito attraverso il lavoro. Il fatto di essere cittadino doveva
          essere garanzia di una relazione protetta con le forze economiche 
          e mediata con il mercato.
          Negli anni novanta, anche se i riferimenti formali a questa concezione
          non furono abrogati, la costituzione reale rese il cittadino in
          diretto rapporto con il mercato, precisamente come il lavoro
          salariato, nelle sue diverse espressioni, andava verso un rapporto
          immediato con l'economia di mercato. 
          La cittadinanza, da valore che precedeva il mercato, è diventata
          valore che lo segue e che da esso è validato in quanto valore.
          L'innegabile senso autoritario del sistema elettorale maggioritario,
          che sposta il momento della definizione delle ipotesi di governo a
          prima del confronto elettorale, è in qualche maniera analogo a questo
          spostamento del valore della cittadinanza, almeno in Italia e tenendo
          conto della storia istituzionale italiana.
          La democrazia rappresentativa, anche in Italia e con qualche decennio
          di ritardo rispetto agli altri paesi egemoni nell'occidente, si è
          fatta tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta un'istituzione
          autoritaria dotata di un consenso di massa.
          Mentre ancora negli anni ottanta la riscoperta del mercato era un
          fenomeno di una piccola minoranza dei soggetti produttivi, di una
          minoranza che, per una relativa libera scelta, abbandonava il mercato
          del lavoro normato contrattualmente, nel decennio seguente divenne un
          fenomeno di massa. Riuscire ad affrontare direttamente il mercato,
          fare impresa, associarsi per mettersi in proprio fu una tendenza già
          presente negli anni ottanta, ma sposata a una serie di finanziamenti
          pubblici, a un welfare, che favoriva la formazione di
          microimprese. Negli anni ottanta, quindi, la mediazione stabilita
          dalla costituzione nel rapporto con il mercato era costitutiva anche
          per l'autoimprenditorialità e si affermava in settori scelti e
          programmati: il settore dei beni culturali, il mondo dell'informatica
          e pochi altri. La mediazione con il mercato si coniugava alla crescita
          di iniziative microimprenditoriali e / o cooperativistiche nei settori
          che presto sarebbero stati detti della produzione cognitiva e
          immateriale (assistenza ai disabili, a problematici psicologici ed
          emotivi, portatori di handicap, oltre ai tradizionali
          settori del lavoro culturale e dell'informazione). Nasceva, quindi, in
          questi anni anche il concetto (non ancora il termine) di  lavoro
          affettivo. 
          La traccia del grande impulso fornito dai movimenti dei due decenni
          appena trascorsi, verso il rifiuto del lavoro salariato e soprattutto
          del lavoro manuale e alto contenuto fisico, era ancora tangibile e
          forte e, in controluce, si potevano ancora vedere quelle vecchie
          aspirazioni ideali e nelle biografie, molto spesso, gli stessi
          protagonisti.
          Negli anni novanta la musica non cambiò, ma cambiarono i suonatori e
          il loro numero e, alla fine, anche il concerto: si suonava la stessa
          melodia, ma in modo completamente diverso.
          Si produsse una nuova mescolanza, dentro la quale i numeri, i rapporti
          numerici tra vecchi e nuovi soggetti produttivi sono ben poco
          indicativi per qualificarne le caratteristiche: il carattere di fondo
          della nuova composizione è, infatti, la compresenza di altre
          composizioni sociali, vecchi e nuove e vecchie in forme nuove.
          
        Rivedi gennaio
          Inizio anno
        
          Giovedì, 11 febbraio
          
          Annotazione. Il soggetto indimostrabile si dimostrò in Italia,
          nell'economia italiana, negli anni novanta, avendo già dato prova di
          sé, limitatamente alla cultura e agli stili di vita, nei due decenni
          precedenti. Uno degli enigmi dell'operaio sociale è proprio questo:
          mentre si affaccia autenticamente al mondo, perde le caratteristiche
          che avevano distinto la sua gestazione, l'elemento distintivo si
          scioglie nell'economia.
          Per dirla in parole povere, negli anni novanta, in Italia, l'operaio
          sociale diviene una figura operaia tra le altre.
          Il lavoro intellettuale era stato uno dei settori preferiti, scelti
          addirittura, dell'attività economica dell'operaio sociale, mentre
          negli anni novanta ampi strati del lavoro manuale sono contagiati
          dalla forma organizzativa che era appartenuta, quasi in regime di
          esclusività, alla nuova forza lavoro sociale: crescono microimprese,
          ditte individuali e prestazioni occasionali d'opera anche nel mondo
          operaio (soprattutto nel nord est) e nell'edilizia. Il lavoro in outsourcing,
          l'appalto e il subappalto si diffondono anche ai margini della
          fabbrica, nell'indotto, e persino dentro i recinti degli stabilimenti.
          Il rifiuto del lavoro manuale e della relazione di lavoro salariato si
          trasforma in un lavoro manuale che non viene erogato attraverso il
          comando diretto sul salario, ma attraverso il comando indiretto della
          'relazione tra imprese'. La mediazione con il mercato, costituita dal
          rapporto di lavoro normato contrattualmente, viene meno e si
          sostituisce una relazione diretta tra lavoratore e mercato. Spesso il
          mercato ha il volto di un'unica e sola offerta di lavoro, ma la
          finzione di una relazione libera è rappresentata.
          In questo passaggio avvengono anche notevoli trasformazioni nei
          settori produttivi dove, tradizionalmente, era impiegata la nuova
          figura: nel lavoro creativo, nella ricerca, nella progettazione e in
          genere nell'outsourcing per gli enti pubblici. In questi
          settori la relazione non cambia ed è già assodata e, come scritto,
          addirittura esportata anche in alcuni segmenti del lavoro manuale ma
          cambia la relazione con l'emolumento o meglio con il valore d'uso del
          lavoro, che perde quasi del tutto l'aspetto di una quota di reddito
          garantito. Politiche al ribasso dei prezzi e attente al minor costo
          divengono egemoni, dove prima non lo erano e lo erano sono in parte o,
          ancora, non definivano completamente il quadro dell'offerta. Il
          liberismo italiano, santificato dall'affermazione della 'seconda
          repubblica', è quello del minor costo e miglior prezzo: imprese
          cooperative, microimprese e prestatori occasionali d'opera devono
          affrontare un nuovo mercato, dove cessano di riprodursi i codici di
          rispetto e le garanzie che vivevano in una certa analogia con quelli
          garantiti per il rapporto di lavoro salariato, il rapporto di lavoro
          normato contrattualmente.
          
          Domenica, 14 febbraio
          
          Annotazione. Non si è trattato solo di un fenomeno quantitativo, di
          spostamento di manodopera da una relazione di lavoro a un'altra
          relazione di lavoro (sull'ampiezza di questo spostamento andrebbero
          viste le statistiche di CENSIS e ISTAT) ma qualitativo. È cambiata
          insieme con la quantità del lavoro la sua qualità.
          Le logiche tayloriste migrano nel lavoro d'ufficio, favorite dalla job
            automation e dall'incipiente uso della telematica, ma
          soprattutto  il taylorismo, come strumento complessivo, come
          mentalità, atti a coordinare la produzione cede il passo a nuovi
          strumenti e mentalità. In queste nuove forme diventa centrale il
          coordinamento territoriale tra i diversi segmenti produttivi, che fa
          il paio, si sposa perfettamente, con la dimensione mondializzata della
          produzione. Negli anni novanta, localismo, distrettualismo si sposano
          con l'orizzonte globalizzato del mercato ma, si badi bene, non lo
          recepiscono e non lo fanno proprio: negli anni novanta, in Italia, si
          è verificata una reazione non una partecipazione, si è vista una
          passività non il protagonismo.
          La definitiva fine della centralità della fabbrica, la fabbrica intesa
          come recinto architettonico e produttivo, ha imposto e indotto uno
          sguardo verso tutto quello che stava nelle immediate vicinanze della
          fabbrica, uno sguardo verso il territorio, verso il territorio come
          risorsa produttiva. Per certi versi la fabbrica si allargava nel
          territorio e spesso questo ha significato il suo spostamento, la sua
          migrazione, nel lavoro a domicilio per centinaia di microimprese
          artigianali, altre volte interi segmenti della di produzione venivano
          concessi in appalto a aziende più contenute nel numero di occupati.
          Il comando di fabbrica lasciava posto al comando sul territorio, alla
          capacità di formare le professionalità, nuove imprese, nell'area che
          circondava la fabbrica.
          La produzione stessa si separava nelle forme secondo linee
          gerarchiche: si introduceva la robotica nella fabbrica dimagrita,
          mentre in altri settori sopravvivevano forme produttive ancora legate
          alla linea di montaggio e in altre ancora si sperimentavano tecnologie
          innovative. Non fu un modello univoco, anche se largamente egemone e
          qualche volta il cosiddetto indotto superò per innovazione il
          concentramento produttivo primario.
          La territorializzazione del comando di impresa ha reso l'impatto con
          il mercato del lavoro da parte dei soggetti operai, per certi versi,
          immediato, sul modello già elaborato per i servizi e il lavoro
          sull'informazione, per il nuovo lavoro intellettuale, negli
          anni '70 e '80. Una volta tanto i figli avevano maggiore esperienza
          dei padri ed erano aperti a un cinismo e opportunismo che i padri
          avevano sempre cercato di evitare. Negli anni novanta si trovarono a
          confronto non solo due composizioni di classe, questa volta non
          mediato da complicità ideologiche (l'operaio massa con l'operaio
          sociale) ma due generazioni proletarie. Lo scontro che embrionalmente
          si era dato nel biennio '75 – '77, spesso enfatizzato dalla
          mistificazione ideologica, dalla rappresentazione della classe operaia
          portata avanti dall'allora partito comunista italiano, ora si rivela
          nella sua crudezza, per cosi dire in tutta la sua naturalità, anche se
          con significative differenze. Nel campo della produzione dei beni
          materiali, dei prodotti di manifattura, si riutilizzava,
          costringendola a nuovi codici di impresa, la vecchia impresa
          artigianale e la sua mentalità, insomma quella che, seguendo Bologna,
          potrebbe essere detto il lavoro autonomo di seconda generazione.
          L'antica mitologia del 'farsi da sé' si arricchiva dell'idea di
          partecipare a una progettazione complessiva e a un comando razionale
          sul lavoro della propria area, di contribuire all'esaltazione della
          sua specificità e delle sue professionalità.
          Per inciso, la crescita della Lega tra i nuovi artigiani del nord e
          anche tra i vecchi settori operai è stata il segno di questa illusione
          di governare localmente la mondializzazione dell'economia e questa
          illusione è stata in gran parte alla base dell'analisi di classe,
          finalizzata esclusivamente alla propaganda elettorale, della Lega
          Nord. La Lega Nord ha avuto la capacità, tra fine anni ottanta e anni
          novanta, di usare politicamente le nuove condizioni di
          rappresentazione del lavoro di fabbrica e della nuova manifattura
          diffusa sul territorio nel settentrione italiano. Era questo uno
          schema ideologico secondo il quale il coordinamento locale della
          produzione avrebbe permesso di affrontare i mercati internazionali,
          reiventando attraverso di quello la matrice stessa del territorio,
          della regione, la sua identità, da proiettarsi poi, ma solo poi, sul
          passato localista, medioevale, comunale e anti imperiale del nord
          d'Italia: i comuni lombardi e la retorica su quel medioevo, come la
          storicità dell'enclave produttive del nord.
          Varrebbe la pena di articolare meglio questa analisi, un giorno,
          chissà quale? Però.
          Indirettamente, con infinite mediazioni analitiche e senza mettere in
          stretta relazione processi tra loro molto diversi, per natura e
          struttura, l'emergere della Lega Nord, la crisi dell'immagine
          ufficializzata del movimento operaio storico, la ridenominazione del
          PCI, il nuovo sistema elettorale e tangentopoli hanno segnato, sotto
          il profilo della politica istituzionale, questa radicale
          trasformazione del mondo del lavoro. La novità della Lega è
          maggiormente adiacente al mondo della produzione dei beni materiali, è
          il prodotto di un frammento del processo, che ha determinato, nella
          sua complessità, il cambiamento istituzionale generale ma è
          rappresentativa della trasformazione in corso, è quella che meglio la
          rappresenta.
          Si badi, comunque, bene, secondo la mia percezione, in Italia nel
          decennio dei novanta, si dà un cambiamento radicale che, però, non
          riesce ancora a porre una nuova relazione operaia con il lavoro come
          polare e tocca, forse più, il lavoro manifatturiero che non quello
          immateriale. L'impressione è addirittura che, nel quadro di un
          capitalismo quasi regressivo, volto al passato e agli esempi di un
          mercato prekeynesiano e per certi versi protocapitalista, non
          resuscitabile concretamente ma perseguibile come modello ideale, un
          capitalismo volto maggiormente verso un'ideologia che non verso una
          concretezza, il lavoro manuale e il comando su quello abbiano
          funzionato come strumento per massificare modi di vivere il lavoro
          minoritari, di nicchia e repertorio, fino a quel momento, del nuovo
            lavoro intellettuale.
          
          Sabato, 20 febbraio
          
          Annotazione. Gli anni novanta, senza ridipingere il quadro, hanno
          cambiato la cornice, hanno inquadrato il lavoro, pur rispettando in
          larga misura le normative esistenti, in una nuova prospettiva. La
          vecchia contrattualistica e le novità contrattuali atipiche rimanevano
          tali, rimanevano il vecchio e il nuovo, che convivono ignorandosi e,
          apparentemente, non influenzandosi reciprocamente.
          Il rapporto con il lavoro divenne manifestamente non univoco e la
          complessità, prima embrionale, poi occultata durante i due decenni
          precedenti, si manifestò. Il lavoro salariato divenne un riferimento
          per una molteplicità contrattuale che ne era esclusa e che cercava sul
          mercato di costituire i suoi parametri.
          
          Domenica, 21 febbraio
          
          Annotazione. Alla mia percezione e secondo la persistente 'anomalia
          italiana', gli anni novanta sono stati il periodo di autentico
          passaggio tra la vecchia composizione di classe e la nuova e tra la
          vecchia costituzione di capitale e la nuova. Per quanto fin qui
          scritto, però, non si è determinato un razionale e scientificamente
          descrivibile approdo a una nuova complessità, ma semmai l'incontro con
          qualcosa che, mettendo in discussione il concetto stesso di
            composizione di classe e quello relativo di costituzione di capitale,
          trova nella complessità, nell'asincronicità, nei contrasti e nelle
          compresenze contraddittorie il suo senso.
          Qui bisognerebbe saper distinguere quanto di queste antinomie,
          asincronicità nello sviluppo, dipendano dalla specificità italiana
          (dall'anomalia, appunto) e quanto, invece, partecipino alla linea di
          sviluppo naturale del capitalismo, al passaggio dal
          capitalismo fordista e neolitico al biocapitalismo postindustriale e
          informativo. Il passaggio da un soggetto e dalla generazione della
          soggettività perfettamente dimostrabili a un soggetto e relativa
          generazione soggettiva indimostrabili impone, infatti, di usare
          l'aggettivo naturale, quando è riferito a questo sviluppo,
          chiuso tra virgolette.
          In ogni caso quello che nel paese capitalistico egemone par
            excellence, gli Stati Uniti d'America si è realizzato tra il
          1945 e il 1965 (anno più, anno meno), in Italia si è espresso
          compiutamente mezzo secolo dopo e solo al prezzo di una mezza e
          semiseria, ma concreta, 'rivoluzione' istituzionale e costituzionale.
          Questo compimento storico non va inteso come meccanica realizzazione,
          soddisfazione quasi, di una tendenza ineluttabile, non come una
          tendenza naturale, perché non è possibile comprenderlo e decifrarlo
          secondo questi parametri. Di naturale, nel senso tradizionale,
          storico, del termine è rimasto poco nella storia: oggi la storia,
          rispetto ai canoni illuministi e romantici, è ben poco storica. In
          Italia la storia ha cessato di essere storica dagli anni novanta.
          
          Mercoledì, 24 febbraio
          
          Annotazione. Se i critici del cubismo potevano ironizzare sui problemi
          di vista di Braque e Picasso, i detrattori dell'arte astratta erano
          costretti ad ammettere che lì non si vedeva nulla, che non c'era nulla
          di visibile. La realtà, nei primi, si scomponeva e le sue forme si
          riassemblavano; nei secondi la realtà rimaneva come energia di fondo,
          come il problema della tela e della sua fisicità e per certi versi il
          problema della creazione artistica si mostrava in quintessenza. 
          
          Annotazione. Alla fine degli anni sessanta, il Partito Comunista
          Americano considerò la rivoluzione impossibile. Non so come sia giunto
          a questa conclusione e che importanza storica abbia avuto, né se si
          trattò di una coerente e consapevole rinuncia alla teleologia, oppure
          di una rivisitazione strategica. Ma la rinuncia a un tratto
          fondamentale della realizzazione del fine della politica e della
          storia, che prevedeva la rivoluzione come necessaria, non può non
          essere messa in relazione con la trasformazione subita dalla società
          americana. Se non ho inteso male, i comunisti americani ritenevano
          ormai impossibile costruire l'unità tra i diversi soggetti proletari,
          unità considerata indispensabile a ogni ipotesi rivoluzionaria e alla
          costituzione di un nuovo dominio. Io intenderei, ora, questa oggettiva
          impossibilità come occasione per nuove possibilità politiche e
          storiche, di una nuova opportunità, di un nuovo piano per la
          teleologia: non è sicuramente, infatti, in questione, ormai, la
          costituzione di un nuovo dominio unitario, ma proprio tutto l'opposto
          è in questione e, usando un brutto termine, all'ordine del giorno. È
          all'ordine del giorno, oggi, la fondazione di domini, poteri e potenze
          disperse.
          
          Venerdì, 27 febbraio
          
          Annotazione. L'idea di domini e poteri, alla fine il concetto
          riassuntivo dei due termini potrebbe essere quello di potenze, è
          analiticamente debole, sotto molti punti di vista.
          È debole perché contraddittoria implicitamente: domini e poteri
          dispersi difficilmente, nell'esperienza storica concreta, hanno
          abdicato alla costituzione centralizzata, hanno rinunciato alla
          tendenza a costituirsi secondo dinamiche centrifughe anziché
          centripete. Li definisco poteri e domini solo perché non trovo altri
          vocaboli, anche se il problema non è solo terminologico o linguistico.
          Un potere implica sempre una giurisdizione, l'espressione di un
          diritto che sono la sua potenza, e quindi la potenza, che pure non
          nasce intendendosi immediatamente come centripeta, richiede
          un'omologazione e quindi una naturale tendenza al centripeto. Un
          potere, nel migliore dei casi, (sto pensando ai comuni medioevali,
          alle repubbliche autonomiste del tardo impero romano e anche a certe
          giurisdizioni feudali) è l'affermazione e la pratica di alcuni
          diritti, regole e norme e anche se non si iscrive necessariamente in
          un territorio (il caso dei comuni medioevali è emblematico in tal
          senso) deve possedere una territorialità. Nel migliore dei casi,
          quindi, il potere e la relativa potenza ha una territorialità e non ha
          un territorio; in epoca contemporanea la rete telematica offre
          l'infrastruttura per una territorialità analoga a quella costituita in
          assenza di un territorio.
          È debole anche sotto il profilo ideologico, nel senso che la
          policentricità possa essere, in quanto tale, garanzia di democrazia e
          controllo democratico e di sovversione del dominio economico. Il 
          policentrico e disperso oltre che essere paradigma per
          l'infrastruttura telematica, che comunque non è modello neutro  e
          tanto meno spontaneo e generato in maniera socialmente ermafrodita, è
          paradigma economico del biocapitalismo. Il biocapitalismo è una forma
          di potere economico costituita dalla sua stessa dispersione. Un
          discorso sul potere incentrato sulla necessità della dispersione dei
          poteri rischia di scambiare per suo il paradigma biocapitalista, per
          rovesciarlo semplicemente di segno, un po' infantilmente. Spesso Negri
          e Hardt corrono questo rischio tanto in Impero, quanto, soprattutto,
          in Moltitudine. La critica al nuovo dominio del capitale deve
          certamente seguirne il corso, ma chi si compiace di descrivere un
          corso parallelo, anche se critico, rischia di non cogliere i punti di
          rottura che sorgono tra il nuovo dominio e il nuovo sfruttamento,
          rischia di non vedere chiaramente le nuove forme di sfruttamento e,
          alla fine, può facilmente trovarsi a immaginare un corso inverso, un
          naturale biocomunismo che scorre già dentro il biocapitalismo. Il
          solco tra alienazione e liberazione non è, invece, mai stato ampio
          come in questo periodo storico, poiché si scava non solo dentro il
          lavoro e le relazioni di lavoro, non solo dentro la vita e le
          relazioni di vita, ma anche dentro la creatività, l'emotività e
          l'affettività degli individui.
          Lo scontro tocca lo stesso concetto di convivenza e di comunità: lo
          scontro non è neanche etico, è antropologico. Teoricamente lo scontro
          si dovrebbe ubicare su un terreno di radicalità e opposizione estrema,
          tanto forte e tanto viscerale da non essere rappresentabile da nessuna
          ideologia politica, perché lo scontro si porrebbe al di fuori dei
          parametri dell'ideologia.
          Questo ha già introdotto nella vita sociale, ma anche nel contesto
          internazionale, uno stato latente, imprendibile di guerra
          civile, che registra in forma quasi onirica, imprendibile e
          intoccabile appunto, e certamente mistificata dal pensiero liberista e
          dall'opposizione di sua maestà al liberismo.
          La guerra civile latente, comunque, prefigura, in maniera primordiale
            e barbara, questa potenziale dispersione di poteri e di domini,
          e nella primordialità, utilizzando strumenti assolutamente inadeguati
          allo scopo, ricerca confusamente una nuova territorializzazione e non
          una nuova territorialità.
          Quando il Partito Comunista Americano denunciò l'impossibilità della
          rivoluzione ha fatto opera di disvelamento, forse senza nessuna
          consapevolezza: ha svelato un problema, per nasconderlo. L'abbandono
          della tattica e della strategia rivoluzionaria leninista hanno
          comportato l'abbandono dell'idea stessa di comunismo e questo non è
          accaduto solo al partito americano ma, dal mio punto di vista
          inevitabilmente, a tutti partiti comunisti che parteciparono alla
          terza internazionale. La constatazione dell'impossibilità del successo
          della pratica rivoluzionaria leninista ha facilmente, quasi
          automaticamente, comportato la conclusione dell'impossibilità del
          comunismo. L'impossibilità di costituire una nuova unità sociale e
          politica, un organismo giuridico, in una parola lo Stato comunista, ha
          portato con sé l'abbandono dell'idea stessa di comunismo.
          Il comunismo è stato considerato, nella tradizione marxiana, come il
          naturale e necessario risultato dello sviluppo storico, come la meta,
          la causa ad un tempo formale e finale (per dirla con Aristotele) della
          storia. Secondo questo schema, che ha avuto notevole successo,
          l'ontologia e la gnoseologia, la realtà e la conoscenza della realtà,
          l'oggettività sociale e la soggettività sociale crescevano insieme, si
          condizionavano l'un l'altra e interagivano, dando corpo a una visione
          completa, organica, perfetta in sé, alla fine scolastica, e certamente
          scientista. L'attualità mette radicalmente alla prova questa visione
          e, nei fatti, la confuta del tutto.
          Il biocapitalismo realizza, in verità, molti tratti dell'utopia
          comunista, e in parte pare dare ragione a Marx, opponendosi a Marx,
          rendendo possibile, in forma onirica e imprendibile, la felicità
          sociale che Marx aveva immaginato come scopo della storia. Il
          biocapitalismo ribalta il comunismo non nel suo contrario ma nella sua
          opposizione mistificata, nell'assoluta mistificazione, mercificazione
          e reificazione dei valori immaginati da Marx e dal marxismo per il
          comunismo. Il biocapitalismo costruisce nuove comunità e nuove forme
          comunicative e intellettuali, precisamente come il comunismo avrebbe
          dovuto in Marx, ma non sono le comunità e le forme comunicative a
          costituirsi, a trovare in sé stesse gli strumenti e le materie per la
          costruzione, ma è il biocapitalismo a fornire materie e strumenti.
          Queste materie e questi strumenti non appaiono estranei alla comunità
          e alla sua vita, fanno, anzi, parte della sua vita, sono impliciti
          alla sua costituzione; non si tratta, quindi, davvero in un delirio
          anacronistico, di andare a ricercare, seguendo ancora Lenin o il
          progetto rivoluzionario classico, una coercizione esterna sulle
          comunità e sulle vite degli individui, andare a cercare una neutralità
          e naturalità sulla quale si esercita violenza e alienazione, ma la
          violenza e l'alienazione dentro la fondazione della comunità e la vita
          degli individui. Il paradigma logistico, tecnico, produttivo e
          creativo del biocapitalismo non è neutro, disposto alla felicità,
          scientificamente determinato e oggettivo ma sottoposto a un dominio
          estraneo che lo vampirizza: la logistica, la tecnica, la produzione e
          la creatività, nel biocapitalismo, nascono come prodotti, sono
          prodotti, sono merci e non sono neutri. Per scrivere ancora più
          radicalmente: la stessa umanità, la stessa etica non sono neutre ma
          sono innervate, in maniera molecolare, di una genetica economica e
          sociale. L'economia è umanità ed etica nel biocapitalismo e questo ha
          comportato una radicale trasformazione non solo dell'etica e
          dell'umanità ma anche dell'economia: non esiste economia politica
            che possa rappresentare compiutamente l'economia del capitalismo
            dell'attualità.
          Negri e Hardt, a mio parere dimenticando completamente il pensiero di
          Marx, ritengono che sia possibile limitarsi ad eliminare l'involucro
          economico che costringerebbe il general intellect,
          vampirizzandolo. Il biocapitalismo, o meglio nel loro caso è meglio
          scrivere di capitalismo globalizzato, sarebbe una sorta di prelievo
          feudale sul flusso produttivo (per flusso produttivo intendo davvero
          tutta la produttività sociale), il vampiro che succhia le risorse e le
          energie per reinvestirle in altro controllo e altra vampirizzazione.
          Il capitalismo si sarebbe ridotto a essere controllo sul ciclo
          produttivo, ma il ciclo produttivo, in sé, è già indipendente ed
          estraneo al capitalismo. È il concetto di general intellect
          come potenza neutra, astorica, posta al di fuori dei rapporti storici,
          che è discutibile.
          C'è un elemento vero nell'analisi sviluppata in Impero e Moltitudine:
          l'alta costituzione raggiunta dal capitale deve concedere la
          preminenza agli elementi progettuali, ideativi e comunicativi nel
          lavoro vivo e comporta la trasformazione del concetto di prodotto, di
          bene, verso di qualcosa di immateriale e di comune, quasi naturalmente
          comune per la sua caratteristica intrinseca di essere comunicabile,
          pensabile e fruibile immaterialmente. Negri e Hardt sottolineano una
          conquista del capitalismo contemporaneo, un passo verso le comunità
          che ha compiuto, un passo verso la sconvolgente novità di una
            comunità come prodotto economico. Ed hanno ancora ragione
          quando sembrano pensare che questo è quasi il comunismo di Marx.
          Sbagliano, invece, quando ritengono scontato e naturale che questo
          strumento perché neutrale e oggettivo, non sia un prodotto ma un
          valore in sé, quando ritengono che il general intellect 
          sia un valore in sé e non un prodotto. 
          Ma è vero proprio il contrario: il comunismo nell'epoca del general
            intellect orientato al biocapitalismo è il contro natura
          filosofico, la negazione dell'etico e dell'umano. Il comunismo si
          presenta come la negazione della comunità, della comunicazione e,
          oggettivamente, lo è. La competizione, infatti, non si svolge sul
          terreno del lavoro, ma di tutta la vita che si svolge intorno al
          lavoro e soprattutto quella che viene sussunta al lavoro, secondo una
          sussunzione del tutto nuova, che non riguarda un tempo di vita
          misurato a ore, in una giornata lavorativa anche intesa come giornata
          lavorativa sociale, ma la vita come prodotto da sussumere al
            lavoro. La vita cessa di essere un valore in sé, misurabile a
          ore ma esterno ed estraneo alla produzione, ma è un valore interno
          alla produzione, un prodotto in produzione. Non ci può essere nessuna
          spontaneità e naturalezza nel passaggio dal biocapitalismo al
          comunismo: si deve presupporre la rottura rivoluzionaria della
          macchina produttiva, per costruirne una nuova e una nuova neutralità,
          scientificità e un nuovo sostrato comunitario. Questa rottura riguarda
          l'individuo come appartenente e produttore di comunità, riguarda il
          momento nel quale alcuni individui smettono di produrre per la vecchia
          comunità e decidono per la nuova. Questa rottura è determinata da
          esigenze materiali, bisogni materiali che si distendono su tutta la
          vita, su tutta la biologia e quindi su tutti gli aspetti della
          comunità.
          Dobbiamo essere felici di questa libertà dal fine necessario e
          naturale della storia, perché ci aiuta a capire bene come il comunismo
          sia un prodotto artificiale, volontario e possibile solo oggi e quindi
          posto tra le necessità dell'oggi senza che siano necessarie. Il
          comunismo è oggi umano, troppo umano.
          In qualsiasi ragionamento sul comunismo prossimo venturo, con
          comunismo prossimo venturo intendo la rifondazione assolutamente
          necessaria e radicale del pensiero e della pratica comunista, in
          quanto pratica rivoluzionaria, necessariamente rivoluzionaria, perché
          la neutralità del biocapitalismo si ferma alla sua critica, dovremo
          avere ben presenti due semplici assiomi, in apparenza contraddittori.
          1) Il riformismo, in un quadro privo di spazio economico e concettuale
          per le riforme, in un quadro privo di economia politica, è sempre
          rivoluzionario 2) Il potere non reprime, recupera e questo è il suo
          principale lavoro.
          Il primo assioma possiamo farlo derivare da Rosa Luxembourg, il
          secondo dal pensiero situazionista. Il riformismo è determinato dal
          fatto che nel biocapitalismo è in gioco la macchina sociale nella
          interezza, il funzionamento e non un suo improvviso riposizionamento
          sotto un'altra logica e coercizione / controllo; cambiando il modo di vedere e fare le cose 
          introduciamo una rottura che non è percepibile come rivoluzionaria, ma
          al massimo  come utopia riformista, l'utopia riformista, che non
          richiede riposizionamenti complessivi e immediati sa di doversi
          confrontare con un continuo tentativo di recupero, riassemblamento,
          ridefinizione. La lotta rivoluzionaria diviene un processo
          instancabile di prodotti e nuovi prodotti, assemblaggi e nuovi
          assemblaggi.
          Rimangono, comunque, questi, due schematismi, contrapposti, questa
          contrapposizione, però, genera la complessità intellettuale
          indispensabile a comprendere il sistema contemporaneo e la libertà
          necessaria per ricostruire un pensiero rivoluzionario sulla storia e
          la società. Ci troveremo, probabilmente, a elogiare più spesso la
          tradizione anarchica che non quella socialista o comunista, secondo i
          paradossi della storia che la rendono libera, interessante e
          terribilmente umana, anzi meglio dire antropologica.
          
          Sabato, 28 febbraio
          
          Annotazione. Per scriverla in uno slogan, per definire questa
          contraddittoria tensione verso una meta storica che non è un traguardo
          ineluttabile e necessario ma solo possibile, potenziale e non
          esaustivo, e per descrivere la tensione che percorre, drammatica, lo
          stato di cose presenti basta questa semplice proposizione: il
          biocapitalismo è il posto dove non avere un posto e un'identità è
          necessario, il comunismo il posto dove non avere un posto è scelta. Si
          assomigliano, certamente, ma si negano.
        
        Rivedi febbraio
          Inizio anno
          
          Mercoledì, 16 marzo
          
          Annotazione. [Il soggetto indimostrabile] Nel primo decennio di questo
          secolo, l'Italia ha conosciuto, percepito chiaramente, il manifestarsi
          della nuova forma del lavoro. Il consolidarsi dei contratti atipici,
          anche a livello giurisprudenziale, oppure dell'uso di quelli tipici ma
          a tempo determinato, gli orari flessibili, si sono accompagnati a una
          nuova dimensione del lavoro, quasi una nuova razionalità del lavoro.
          In alcuni settori la giornata lavorativa si è allungata e ha
          investito, massicciamente nel commercio, in maniera meno massificata
          nei settori dell'informatica e della telematica, in maniera sporadica
          ma significativa nella manifattura, i giorni festivi. In generale la
          giornata lavorativa ha subito un allungamento di fatto, effettivo,
          dettato dalla contrattualità concreta presente nelle imprese, per
          tutti i settori lavorativi, nessuno escluso. Il nuovo lavoro ha
          iniziato a presentarsi come un lavoro privo di pause collettive,
          dominato dalla necessità di produrre servizi, beni intellettuali e
          materiali sette giorni su sette. Per dirla con linguaggio dotto e
          marxisticamente dotto, la giornata lavorativa sociale non
            riconosce più riposi collettivi.
          Questo nuovo paradigma dell'orario è perfettamente rispondente al
          nuovo carattere del lavoro, in quanto il lavoro intellettuale ha
          acquisito componenti affettive, emotive, investendo il mondo degli
          affetti e delle emozioni. Tenderei, però, contrariamente a molta
          letteratura, a limitare drasticamente il peso del lavoro affettivo in
          quanto tale dentro la composizione di questo nuovo soggetto
          indimostrabile, dentro la vita dell'operaio sociale o di qualsiasi suo
          sinonimo. Il lavoro affettivo (il lavoro di assistenza ospedaliera, il
          lavoro sul disagio giovanile o sugli anziani, il lavoro a domicilio
          sulle patologie geriatriche) indica una tendenza economica di fondo e
          ci costringe a porre l'accento su componenti affettive ed emotive che,
          però, non investono solo quello ma l'intero mondo del lavoro: il
          commesso nel commercio non vende solo prodotti materiali, ma vende un
            suo prodotto aggiunto, certezza, educazione, simpatia,
          disponibilità, reperibilità, producendolo attraverso l'uso del suo
          normale e tradizionale orario di lavoro ma anche attraverso il suo
          modo di stare sul lavoro. Disponibilità, cortesia, reperibilità e
          molte altre componenti affettive ed emotive fanno oggi parte delle
          mansioni del commesso di negozio e sono indissolubilmente legate alla
          sua reperibilità il sabato, la domenica, la Pasqua e il Natale. Questo
          tipo di mansionario affettivo ed emotivo lo ritroviamo anche
          nell'offerta di servizi informatici e telematici.
          In generale, e per tutti i comparti produttivi, il bene in
            vendita è anche la continuità del servizio e della produzione,
            l'adattabilità veloce alle situazioni e spesso la capacità di ideare
            nuovi scenari.
          
          Venerdì, 18 marzo
          
          Annotazione. [Il soggetto indimostrabile. Servilismo e etica del
          lavoro] L'enfatizzazione del peso dei lavori affettivi, immateriali e
          cognitivi descrive, in maniera quantitativa, un salto qualitativo che,
          nei paesi capitalisticamente egemoni, ha veramente cambiato l'aspetto
          del lavoro. Tutti i lavori hanno acquisito una componente affettiva ed
          emotiva, un investimento che prima costituiva un valore aggiuntivo
          esterno all'attività lavorativa.
          La componente affettiva ed emotiva spesa sul lavoro costituiva un
          punto sulla tabella ideale della sua valorizzazione; l'attaccamento al
          lavoro, spesso legato e confuso con l'attaccamento all'azienda, era un
          fattore extralavorativo, era il risultato di una disposizione
            spontanea del lavoratore o di una pressione, esercitata
          dall'esterno dei meccanismi dell'attività lavorativa, che veniva
          esercitata sul lavoratore. L'attaccamento al lavoro non faceva
            parte del lavoro.
          Oggi, invece, l'attaccamento al lavoro fa parte del lavoro e della sua
          natura, ed è addirittura fuorviante definirlo con il termine
          attaccamento, come se si esercitasse su un elemento estraneo, esterno.
          Se ancora negli anni novanta, in Italia, il coinvolgimento della
          manodopera nella produzione era ottenuto attraverso strumenti
          aziendali come le ideologie e i metodi di gestione del personale, ora
          è il lavoro in quanto tale a disporlo.
          Quello che un tempo era il risultato di una coercizione extraeconomica
          diventa, quindi, parte integrante del contratto e del mansionario; la
          coercizione extraeconomica, quindi, fa parte dell'economia. A livello
          formale, non esiste job description che eviti le tematiche
          dell'adattabilità, della capacità comunicativa e via dicendo. Sono
          spesso frasi vuote che, però, registrano una pienezza, una nuova
          pienezza del lavoro che si esprime anche su un terreno che un tempo
          era lasciato al vuoto e all'indefinito, in una parola, alla vita
          privata del prestatore d'opera.
          Il cosiddetto servilismo, analogamente, era un involucro esterno, un
          atteggiamento, una corazza, un elemento accidentale, un surplus
          necessario solo in particolari occasioni e situazioni lavorative;
          all'alba del nuovo millennio il servilismo è diventato un componente
          fondamentale del lavoro, anche in Italia. Il modo di essere nella
          produzione nipponico, il toyotismo, è stato esportato anche in Italia.
          È cambiato dunque ciò che si produce e ciò che produce profitto,
          ricchezza e di converso reddito operaio ma, soprattutto, è cambiato
          radicalmente il modo di produrre in generale, è cambiato il lavoro e
          non solo il suo oggetto e anche là dove l'oggetto della produzione è
          rimasto materiale e la produzione è rimasta industriale, il lavoro si
          è trasformato. È chiaro che il cambiamento dell'oggetto influenza il
          lavoro che lo produce, meno chiaro è come, anche nei lavori materiali
          tradizionali, si sia affermata la disposizione tipica del lavoro
          affettivo, cognitivo ed emotivo.
          Come il termine attaccamento al lavoro o anche il concetto di etica
          del lavoro si avvicinano alla nuova disposizione verso il lavoro ma
          non la risolvono, così la parola servilismo, che viene spontaneo
          usare, rappresenta sicuramente il nuovo atteggiamento del lavoratore
          subordinato ma non lo spiega.
          L'etica lavorista e il servilismo attuali hanno tutt'altra causa:
          hanno origine dentro il lavoro e sono imposti (se è giusto usare
          ancora questo verbo in proposito) dalla naturalezza del mercato.
          Servilismo ed etica del lavoro sono oggi valori produttivi e non
          valori lavorativi ergo non sono più servilismo ed etica, ma
          altre cose e andrebbero indicati con altri nomi.
          
          Domenica, 20 marzo
          
          Annotazione. [Soggetto indimostrabile. Sinistra e destra]. Servono,
          dunque, nuove parole per descrivere la forma attuale del capitalismo,
          serve un nuovo dizionario e una nuova enciclopedia. Non è affatto
          escluso che la crisi di termini e concetti come quelli di sinistra e
          destra sia da riferire a questa necessità.
          L'inadeguatezza del termine sinistra nasce da molti requisiti. 
          Prima di tutto un requisito istituzionale e cioè l'indebolirsi della
          democrazia parlamentare nella quale aveva un forte senso la
          collocazione dei deputati nei banchi, come segno di un mandato
          inequivocabile e indeferibile. La crisi del sistema rappresentativo
          nei paesi egemoni capitalisticamente, nei paesi occidentali, ha
          colpito maggiormente quelle forze che pretendevano di organizzare il
          popolo e di difenderne gli interessi e che costruivano su questo la
          loro identità. L'idea di popolo si è disciolta in mille rivoli e in
          mille rivoli si è disciolto il parlamentarismo corrispondente.
          Subito dopo viene un'inadeguatezza ontologica del concetto di
          sinistra, determinata dalla trasformazione delle relazioni sociali
          sulle quali si fondava la tradizione operaia, la sua ideologia e la
          sua prospettiva. Oggi, dichiararsi di sinistra, continuando a far
          riferimento a quella rispettabile tradizione, è un po' come se si
          volesse essere quaccheri per costruire un fronte repubblicano e anti
          monarchico. Si rischia davvero di essere i quaccheri
          dell'anticapitalismo. Il primo decennio di questo secolo ha introdotto
          con prepotenza in Italia la crisi del termine sinistra, come di tutto
          quello che stava dietro a quel termine. Quello che ancora nel decennio
          precedente appariva, e oggettivamente ancora era,  il prodotto di
          una polemica ideologica, di propaganda, di una rinnovata
          contrapposizione tra destra e sinistra, dopo il duemila e, a mio
          parere, in modo conclamato dopo il 2008 e la crisi, altrettanto
          conclamata, dell'indipendenza del nostro Stato nazionale (pensiamo
          all'avventura di Monti) insieme con quella di molti altri, è diventato
          realtà. Sinistra, intesa come forza popolare nazionale, con una
          stabile presenza nei banchi riservati nel parlamento nazionale, è
          diventata il risultato di una lontananza dalla realtà, di
          un'incapacità a descriverla e perfino di darne una coerente
          rappresentazione ideologica. La sinistra ha perduto definitivamente la
          capacità di avere un progetto sociale complessivo e ha sempre più
          spesso preso a identificare il progetto sociale complessivo con quello
          che non confliggeva direttamente gli interessi della tradizione
          operaia. La sinistra ha fatto del tradizionalismo la sua ragione
          ideologica.
          Il soggetto di riferimento del pensiero di sinistra, il soggetto
          operaio, il lavoratore subordinato, il salariato normato e non, è
          talmente cambiato da mettere in discussione la parola stessa sinistra,
          applicata a tutti, senza distinzioni di correnti, tanto quelli che
          hanno instaurato o cercato di instaurare una relazione diretta e
          orizzontale con i soggetti proletari, quanto quelli che hanno fatto
          della mediazione, della selezione, della verticalizzazione il loro
          modo di approcciarli. Il sindacalismo più coerente ha avuto la stessa
          fortuna, sotto il profilo della conservazione di un concetto credibile
          di sinistra, del sindacalismo più arrendevole, perché entrambi hanno
          continuato a far riferimento non a un soggetto indimostrabile ma a un
          soggetto inesistente ma dimostrato.
          
          Mercoledì, 23 marzo
          
          Annotazione. [Europei ancora uno sforzo] I fatti di Bruxelles mi
          costringono a occuparmi, anche se solo per qualche centinaio di
          parole, dell'attualità politica, cosa per la quale non mi sento, in
          tutta semplicità, preparato.
          Gli attentati del nuovo genere (anche se non è un genere del tutto
          nuovo, per esempio se guardiamo alla recente storia italiana)
          disorientano, ovviamente; sono fatti per disorientare. Disorienta
          maggiormente la reazione agli attentati e sembra che si prefigga
          anch'essa disorientamento.
          L'obiettivo pare essere il medesimo: introdurre un'ulteriore
          militarizzazione della vita sociale, la definitiva eliminazione del
          garantismo e della residua vitalità delle democrazie rappresentative.
          L'islamisti radicali e politicamente rivoluzionari si propongono,
          consapevolmente, l'abbattimento delle democrazie occidentali; questo è
          il loro obiettivo ideologico, questo è l'obiettivo dell'opposizione di
          sua maestà al biocapitalismo. Il fronte estesissimo, più di quanto
          appaia esteso e più di quanto si pensi esso stesso esteso, degli anti
          islamisti occidentali, si propone la stessa cosa.
          Gli islamisti politici e rivoluzionari rivendicano la loro differenza
          per omologare, gli anti – islamisti la stessa cosa. Al centro di
          queste due  ideologie e immaginari contrapposti è la stessa cosa:
          la rappresentazione di una grande guerra civile tra popoli che, come
          ogni guerra civile, richiede la fine delle libertà politiche e, come
          altra guerra convenzionale, la militarizzazione della società.
          Quando gli europeisti, anche quelli di sinistra, anzi impietosamente
          ancor più quelli di sinistra perché gli europeisti di destra sono
          orientati al ripristino delle frontiere nazionali, individuano il
          nuovo collante europeo nella difesa comune, nella frontiera esterna
          comune e nella polizia comune, indicano in questi nuovi strumenti il
          valore sul quale rifondare l'Europa: l'unità europea si salverà perché
          costretta a rispondere al terrorismo internazionale. Ovviamente
          l'Europa, come nazione democratica, è già morta.
          Quando gli europeisti, e anche qui quelli di sinistra impietosamente
          più degli altri, auspicano la necessità di mantenere Schengen per
          tenere aperte le frontiere all'economia e soprattutto per abbattere le
          frontiere che difendono ancora alcune enclave garantiste al suo
          interno, progettando come necessaria e irrinunciabile un'omologazione
          autoritaria di tutti gli Stati dell'unione, trasformano la salvezza
          europea nella salvezza dell'ordine europeo. Ovviamente l'Europa, come
          nazione democratica, è già morta.
          Quando gli europeisti europei, nessuno escluso, destra, sinistra,
          centro, alto e basso, tacciono rigorosamente della dittatura che è
          stata organizzata in Ungheria non rimane che augurare: “Europei!
          Ancora uno sforzo! Ancora pochi passi al vostro sesto Reich!”. Non
          rimane che constatare che costoro saranno europei per moneta, polizia,
          esercito e multinazionali e che io non sono quel tipo di europeo; ho
          smesso di essere italiano e mi è costato qualcosa, non mi costa
          davvero nulla smettere di essere quell'europeo.
          
          Annotazione. [L'Europa e l'islamismo politico] Il terrorismo islamico
          è terrorismo politico, nel quale il premoderno assume la veste della
          modernità in tempi accelerati. Che sia la confessione religiosa a
          essere decisiva nella scelta del terrorismo islamico è indubitabile,
          proprio perché assume altri significati e lavora per un altro da
          sé.  Quindi l'islam non è decisivo ma il ruolo che ha assunto
          l'islam è decisivo. Il fatto che l'islam sia uno dei fattori decisivi
          nel ruolo che ha assunto presso i terroristi l'uso della forza è
          altrettanto indubitabile, per  la sua tendenza a teorizzare il
          proselitismo attraverso lo scontro armato, ma è altrettanto
          indubitabile che in particolari situazioni storiche è stato il
          marxismo, sempre in medioriente, a fornire armi alle teorie
          terroriste.
          L'islam è una componente, un elemento culturale, un'occasione, magari
          più facile da utilizzare in questa particolare fase storica, tra molte
          altre.  La situazione economica europea, la destrutturazione
          dello Stato sociale e di diritto, la crisi dell'identità nazionale e
          l'apparizione di nuovi regionalismi e di un nuovo peso del localismo
          hanno aperto praterie a ogni genere di improvvisazione ideologica e
          fascinazione negli immaginari (e sul versante potenzialmente
          progressivo, nuovo, di queste praterie bisognerebbe aprire una vera
          analisi politica). La crisi europea, per crisi intendo la discussioni
          dei fondamenti stessi della modernità europea, si è coniugata e in
          parte è stata provocata dalla situazione internazionale, soprattutto
          la fine dei blocchi e del vecchio ordine internazionale (USA / URSS –
          Capitalismo privatistico / Capitalismo di Stato / Economie miste –
          Democrazie rappresentative / Socialismo reale / Democrazie
          'particolari'). La fine dei blocchi ha terminato regolamenti e assiomi
          di sviluppo e anche questo ha avuto effetti all'interno dei singoli
          stati, tra i popoli e le popolazioni, contribuendo a generare
          ulteriori fantasie e le praterie dell'immaginazione. Nel contesto
          internazionale, la prateria è un'unica corrente indifferente alle
          forme istituzionali, totalitaria in campo economico, governata da un
          pensiero unico, dentro la quale può prendere corpo, per usare una
          metafora italiana, una strategia della tensione, mondiale nella sua
          espressione geografica, biopolitica nell'intensità spesa sulle vite e
          sui corpi.
          La morte che prefigura per le sue crisi, è la morte per sterminio, la
          morte di massa, unita alla contemporanea e necessaria negazione della
          morte come evento degno dell'umano, la morte come non senso assoluto,
          fine della merce umana, termine della sua utilità.
          Tutte queste cose insieme sono nel terrorismo politico islamico e
          nella guerra al terrorismo politico islamico: le contraddizioni reali,
          le praterie aperte dalla destrutturazione di Stato nazionale, Stato
          sociale e Stato di diritto, della precedente socialità capitalistica e
          del precedente ordine imperialistico e le contraddizioni recitate
          attraverso la distruzione delle vite e dei corpi in quantità
          industriale e industrializzata.
          
          Annotazione. [Dall'imperialismo al bioimperialismo] Il mondo è andato
          avanti senza avere la possibilità di vedere questo avanzamento.
          Qualcuno ha fatto di tutto per chiudergli gli occhi e il passato,
          così, si presenta come una novità improvvisa, come una luce
          abbacinante e irrecuperabile, la storia si presenta in forme
          mitologiche. In altre parole il capitalismo industriale e neolitico ha
          superato sé stesso ma non si è annullato e la fine del capitalismo è
          rimasta capitalistica: il capitalismo non sa spiegare il mondo e non
          gli rimane che dominarlo.
          Il nuovo dominio capitalista si esprime in maniera molecolare, forse
          ancora di più, socialmente atomica o subatomica, sulle componenti che
          secondo Marx avrebbero, invece, dovuto fondare la società dopo la fine
          non solo del capitalismo storico ma anche del socialismo. Il
          capitalismo odierno non è più un capitalismo storico, è metastorico.
          L'imperialismo non è più un azione sull'economia politica dei paesi
          non ancora capitalistici ma un'azione sulle etnie, l'etica e la
          socialità dei paesi capitalisticamente non egemoni. L'imperialismo è
          bioimperialismo.
          Si dirà; che c'entra l'operaio sociale con tutto questo? Madonna! Se
          c'entra, ne è il nucleo, è il nucleo di tutta questa questione che è
          politica e filosofica non certo sociologica, se fosse sociologica non
          c'entrerebbe affatto. C'entra perché al capitalismo metastorico si
          dovrà contrapporre il comunismo metastorico, uno scontro tra sistemi
          non susseguenti o conseguenti ma compresenti. L'operaio sociale è
          stata la prima forma di questa socialità possibile e volontaria.
          
          Venerdì, 25 marzo
          
          Annotazione. [Magmatica sul biocapitalismo] Lo strano avanzamento
          della storia non deve essere un alibi. La crisi della teleologia
          sociale non deve affatto assolverci dall'intervento politico nel
          mondo.
          Tutto è diventato irrimediabilmente incomprensibile e come tale
          ingovernabile. Il desiderio di progettare e organizzare certamente si
          attenua di fronte all'incomprensibile e le nuove forme del lavoro
          offrono una compensazione per questa perdita di teleologia sociale
          positivista.
          Pensiamo al nostro soggetto, giustamente e sempre più giustamente
          postulato come indimostrabile. La sua posizione è incomprensibile ai
          vecchi metri dell'analisi di classe, esso stesso li fugge
          consapevolmente, qualche volta li rifiuta apertamente: non lo
          descrivono, non lo rappresentano e non lo comprendono.
          Questo mondo rimane dominato da uomini, la novità dell'epoca è che chi
          lo domina ha dichiarato una guerra contro la sua stessa specie cioè
          contro quella che un tempo i vecchi capitalisti industriali, almeno
          nell'ideologia, chiamavano lo scopo del mondo.
          Paradossalmente proprio quando l'umanità viene presentata come valore
          assoluto, come valore indipendente dai suoi stessi scopi, come un
          processo senza alcun scopo se non in sé stesso, lo scopo non è
          l'umanità e mai nella storia lo è stato meno. Quando l'umanità
          sostituisce il divino, ma non per conformare un nuovo repertorio del
          divino ma per prendersi in eredità e incarnare la divinità del passato
          e della tradizione, quando l'umanità diventa teologia, allora
          l'umanità è finita; l'umanità stessa diventa un soggetto
          indimostrabile. La cultura che segue la modernità, la cultura
          contemporanea, è la comprensione assoluta, teologica, della realtà,
          che non comprende nulla; è, quindi, una cultura totalizzante, estesa a
          interpretare ogni manifestazione dell'umanità, attentissima
          scientificamente a non farsi sfuggire una singola molecola per
          rappresentarla, usarla e costituirla solo in funzione del suo
          controllo e della sua produzione e messa in produzione.
          L'operaio sociale è stato il primo risultato di questa messa in
          produzione complessiva dell'umanità, dove anche la morte perde
          significato biologico e diviene una merce, un valore da rappresentare
          e adatto a rappresentare altri valori.
          L'affermazione di pratiche istituzionali che isolano e nascondono la
          morte e le malattie, oltre che coniugarsi perfettamente con
          l'abbandono al suo destino della spesa e dello Stato sociale, ha
          permesso il formarsi di un contesto favorevole alla fine del biologico
          come momento indipendente della vita sociale, anzi ha provocato e
          organizzato la fine del biologico e il suo dissolvimento nella
          produzione economica.
          L'operaio sociale è un agente economico non solo nella storia, come
          accadeva per le figure sociali precedenti, ma nella biologia. Anche
          l'ecologismo e l'ambientalismo, in questo contesto, sembrano quasi
          un'articolazione dell'eugenetica e lungi dal proporre una nuova
          biologia e una nuova antropologia puntano a un dominio della biologia
          e dell'antropologia, a una loro continua correzione verso la
          perfezione divina e la rettitudine teologica. 
          La teologia si è fatta carne, anima, mente, affetto e immaginazione.
          L'assenza di comprensibilità e di scopi sociali, che non siano
          l'immanente diventato trascendente, per essere più chiari il presente
          che è diventato eterno, determina, però, la necessità di una radicale
          valorizzazione dell'indipendenza dal presente. Non è un lavoro svolto
          verso il futuro e non è un lavoro svolto contro il presente, sarà,
          invece, un lavoro nel presente eterno per un'indipendenza eterna: una
          nuova dimostrazione di sé del soggetto indimostrabile, una nuova
          comprensione del mondo e una nuova rappresentazione sul mondo. Al
          centro di quella deve essere la vita come eccezionale fattore
          sovversivo della vita intesa come eccezionale fattore repressivo: la
          ricostituzione dell'umanità senza unità teologiche.
          Nessun uomo vero e nessuna umanità autentica in questa prospettiva: in
            questa prospettiva gli aggettivi vero e autentico in riferimento
            alla natura umana e alla società saranno per sempre banditi.
          Noi abbiamo bisogno di un uomo divino ma senza teologia.
          Stiamo, giorno dopo giorno, constatando la bestialità dell'attuale
          divinità umana: la pulsione immediata verso la morte, dove la vita si
          dimostra indipendente dalla produzione, cioè indipendente da sé
          stessa, dove si manifestano irriducibilità alla produzione emerge
          immediata la condanna etica, antropologica e la negazione
          dell'umanità, un problema verso la specie, una fonte di non
          appartenenza alla specie. L'uso della forza militare, un tempo
          limitata ai confronti tra Stati nazionali, oggi è diventata diffuso
          dentro i singoli Stati, da parte degli stessi Stati contro i suoi
          cittadini o di altri Stati egemoni economicamente contro i cittadini
          di altri Stati. Il fatto che in tutte le guerre dal 1936 in qua siano
          i civili i principali obiettivi e combattere al fronte sia quasi un
          privilegio in tempo di guerra è paradigma di questa guerra contro la
          specie per ottenerne il miglioramento. Per questi episodi troveremo
          certamente innumerevoli precedenti storici ma non troveremo un'epoca
          in cui l'umanità è pensata come un ostaggio di sé stessa per la sua
          redenzione.
          La produzione, paradosso questo di una società che pretende di
          realizzare e non di produrre, è diventato uno schematismo più
          importante dell'economia, come se il prodotto avesse conquistato sé
          stesso e in nome di questa conquista dicesse: “Ecco io non sono più un
          prodotto, ma un'idea pura, non sono più produzione ma ideazione”. Il
          trascendente si fa carne, si fa vita, si fa uomo, biocapitalismo nel
          senso corretto dell'etimo.
          Precisamente come si coniuga con la destrutturazione dello Stato
          sociale e dello Stato di diritto, con l'economia della penuria e con
          le democrazie autoritarie di massa, il biocapitalismo si sposa con il
          progressivo impoverimento dei popoli che hanno vissuto nel capitalismo
          egemone, quindi che hanno sperimentato abbondanza di merci, diritto e
          assistenza pubblici. L'impoverimento dei proletari nella prima parte
          del mondo non comporta affatto un arricchimento per quelli dell'altra
          parte: non c'è la benché minima compensazione o riflusso di risorse.
          Il privilegio diviene un privilegio minore, un privilegio più povero,
          ma rimane privilegio e anzi, impoverendosi, si sente più facilmente
          minacciato e tende ad assumere patologie isteriche, ansiose e
          angoscianti, patologie poliziesche e militari. L'impoverimento è
          davvero globale, riguarda tutti, e si accompagna ovunque alla perdita
          di significato della socialità, che è come dire, in altre parole, la
          perdita di senso dell'esistenza.
          Accade in generale, ma in particolar modo nelle realtà
          capitalisticamente egemoni, che l'esistenza diviene fatto
          assolutamente individuale che assume socialità, e quindi senso
          biologico, solo sussumendosi agli schematismi della produzione. Negli
          stati che non hanno conosciuto la modernità questo provoca un trauma
          nell'immaginario, uno choc e il ritorno al passato, al vissuto delle
          generazioni precedenti, si propone come una fuga disperata verso un
          improbabile futuro.
          Il senso biologico della nostra specie è la vita in comune, la
          cooperazione e la partecipazione; l'essere parte viene restituito dal
          biocapitalismo come partecipazione a una biologia individualizzata che
          è la negazione della nostra biologia, della nostra specie, anche se si
          presenta come sua esaltazione. Il biocapitalismo, al contrario del
          capitalismo industriale e manifatturiero, non semplifica, anzi mette
          in produzione la complessità, e per certi versi riprende i canoni
          delle società premoderne e precapitaliste, ma la interpreta in maniera
          semplice: la rivela come fatto complesso, come effettivamente è, ma la
          semplifica nell'articolazione delle interpretazioni scientifiche che
          si svolgono, anche rispettando una certa onestà intellettuale, sui
          molteplici livelli dell'umano. Le diverse e raffinatissime e
          altrettanto utili discipline scientifiche della contemporaneità
          adottano un metro unico, concorrono a costituire un metro unico, una
          indimostrabile e aprioristica teologia dell'umano.
          Il biocapitalismo si avvicina all'uomo, è terribilmente umano, troppo
          umano, e ha rotto ogni teleologia sociale, ogni futuro, perché il telos
          e il futuro sono già nel presente; il biocapitalismo pretende di
          chiudere la storia e di realizzare l'uomo. È riuscito ad appropriarsi
          di tutto il repertorio dell'umano: ha ereditato l'appropriazione del
          tempo di lavoro da tutte le società precedenti, nella forma
          perfezionata dal capitalismo manifatturiero, l'appropriazione della
          produzione intellettuale dal suo immediato precedente, il capitalismo
          sociale e keynesiano, e ha sfondato le porte dell'emotività,
          dell'immaginario, dell'affettività e della morte. Ora tutto l'umano è
          rinchiuso nel capitale.
          Le lotte degli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, i
          movimenti degli anni novanta, la lotta e contestazione contro il
          capitale finanziario nel primo decennio di questo millennio, sono
          percorsi inversi. Moltissime cose, in questi percorsi, ricordano il
          socialismo premarxista, l'utopia, l'anarchismo ottocentesco e molte
          battaglie degli albori del capitalismo intorno ai diritti e alle cose
          da stabilirsi come comuni. Il marxismo è in crisi, nella misura in cui
          alla crisi della scienza economica capitalista corrisponde la crisi
          della scienza economica operaia: due realismi antitetici sono
          scomparsi e dobbiamo delineare un nuovo e solo realismo, poiché sarà
          solo di parte. Ma non un realismo antitetico, un altro realismo, un
          realismo rivoluzionario, invece, mentre il realismo storico è
          monopolio del trascendente biocapitalista.
          
          Sabato, 26 marzo
          
          Annotazione. [Il sogno della ragione e l'operaio sociale] Sembra di
          essere all'opposto del mito illuminista secondo il quale durante il
          sonno della ragione si risvegliano i peggiori incubi; oggi, invece, è
          la ragione, la comprensione scientificamente articolata ma
          semplificata, non solo a generare incubi ma essere incubo essa stessa.
          La ragione affronta la complessità solo in funzione del suo controllo,
          della sua sistemazione in un unico metro. Quindi quest'incubo non è
          affatto un sogno semplice e facilmente decriptabile, ma complesso
          nella sua cifratura. La ragione socializzata del biocapitalismo
          organizza una serie interminabile di trinceramenti, ciascuno semplice,
          contro la critica, riposizionandosi continuamente e spostandosi di
          continuo.
          Quando, come oggi, il processo sociale è un processo umano,
          inevitabilmente deve divenire bersaglio critico non solo l'uso della
          ragione ma la ragione stessa, la definizione stessa, l'idea stessa di
          razionale.
          Cosa c'entra l'operaio sociale in tutto questo?
          C'entra, c'entra perché non può che essere un soggetto storico e
          sociale, ma che esce dalla categoria sociologica di soggetto a
          impugnare questa critica e impugna questa critica proprio perché esce
          dalla categoria sociologica di soggetto e ha interesse per questo
          verso una critica radicale.
          
          Domenica, 27 marzo
          
          Annotazione. [Biocapitalismo e Stati nazionali, Bozze analitiche] Il
          capitalismo contemporaneo tende a conformare uno scenario dominato
          dalla stratificazione delle divisioni di classe su base
          internazionale. Il rischio di un simile scenario sta proprio nella
          diversità di partenza nella costruzione e partecipazione allo
          scenario. La stragrande maggioranza dell'umanità, i 4/5 per lo
          meno,  ha conosciuto il capitalismo industriale, quando lo ha
          conosciuto, come espressione dell'imperialismo nei primi tre quarti
          del novecento, quindi come presenza esterna e non ha conseguentemente
          sperimentato la modernità in tutta la sua ampiezza, complessità e nel
          suo equilibrio, nell'equilibrio tra le parti che la componevano
          (economia, politica, cultura e filosofia), cioè come stato storico
          equilibrato e stabile. Il capitalismo è stato per la maggioranza
          dell'umanità un'aggressione esterna che ha rotto i precedenti
          equilibri interni.
          La decadenza dell'imperialismo e la sua sostituzione con il
          biocapitalismo, ha fatto in modo che il dominio capitalistico
          surcodificasse queste differenze, per certi versi le interiorizzasse.
          La divisione di classe interna ai paesi capitalisticamente egemoni si
          proietta sullo scenario internazionale, riproducendosi in quello. La
          divisione del lavoro internazionale non decide più della collocazione
          sociale e dei livelli di reddito dei popoli, come durante il
          taylorismo,  la divisione del lavoro passa trasversalmente i
          diversi paesi, ma è la divisione di classe a massificarsi nei rapporti
          tra gli stati nazionali. Certamente nei paesi non egemoni ma
          egemonizzati dal capitalismo, la costituzione di capitale solitamente
          è più bassa e i modi di produzione fanno spesso riferimento
          all'industria e alla manifattura, cioè al passato 'materiale' del
          capitalismo, l'elemento decisivo, però, nella divisione è il livello
          del reddito, dei servizi e delle strutture sociali.
          Gli Stati nazionali hanno il compito di codificare questa divisione
          internazionale di classe, senza, spesso, poter fare a meno di
          registrarne l'asimmetria, l'ingiustizia e l'arbitrarietà. Già nel
          passato, in epoca imperialista, in realtà, i popoli e le popolazioni
          dei paesi egemonizzati rivendicavano, attraverso la nazionalità, i
          loro diritti sociali essenziali, ritenendo sinceramente che la
          soluzione dei loro problemi potesse passare attraverso l'acquisizione
          di potere e potenza dello Stato nazionale di loro riferimento;
          pensiamo al 'diritto di autodeterminazione dei popoli' teorizzato
          dalla terza internazionale o al movimento dei paesi non allineati
          degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo.
          Questo sostrato di fondo, questo 'nazionalismo' ereditario permane,
          nei paesi non egemoni, ma si unisce con qualcosa di completamente
          nuovo che rende lo scenario internazionale ancora di più leggibile
          secondo lo schema, valido alla fine dell'ottocento  per la classe
          operaia europea, di una lega che difende gli interessi di una
          'aristocrazia operaia', la lega dei paesi egemoni, contro gli
          interessi dei proletari comuni, la lega dei paesi egemonizzati.
          Ovunque, in verità, e questo è un sentimento comune dell'epoca
          biocapitalistica, che attraversa ogni regione, un fatto globale, come
          si ama dire oggi, sorgono identità geografiche nuove, nuovi legami sul
          territorio, che spesso coincidono ma altre volte si contrappongono
          alla geografia nazionale.
          L'emergere di nuovi nazionalismi, quindi di nuove definizioni
          geografiche e appartenenze, si coniuga anche con l'emergere di nuove
          forme di appartenenza e di identità che aggirano e ignorano il
          concetto tradizionale di nazione. Ai due estremi e in rivalità, e
          paradossalmente limitrofi geograficamente, incontriamo, per esempio,
          il federalismo inclusivo dei movimenti guerriglieri del Kurdistan, o
          il cosmopolitismo islamico rivoluzionario del califfato sunnita
          dell'ISIS, ma paradossi simili attraversano l'Europa, da Podemos e
          Siriza, dal Front National alla Nuova destra tedesca di Alternativa
          per la Germania, dall'autonomismo scozzese al leghismo italiano.
          La mia impressione è che, oggi, gli Stati nazionali continuano a
          svolgere il compito di rappresentare la stratificazione sociale
          mondiale solo a livello ideologico, ma il vuoto di questa
          rappresentazione diviene ogni momento più chiaro e viene riempito da
          identità più forti e più radicate, che non fanno riferimento alla
          modernità ma, in gran parte, alla premodernità. Gli Stati nazionali
          dei paesi egemonizzati capitalisticamente non sono fonte di
          equilibrio, precisamente come non è stata equilibrata la loro
          modernità.
          Il biocapitalismo, affidando agli Stati nazionali il compito di
          amministrare la stratificazione sociale mondiale, è perfettamente
          consapevole della storica inadeguatezza dello strumento e che oggi
          questa è diventata esplosiva, contemporaneamente il governo delle
          nuove forme identitarie è problematico, fino al punto di generare
          scenari di guerra civile internazionale, senza la sponda di una
          struttura giuridico – politica sul territorio calibrata sul modello
          dello Stato nazionale.
          La stratificazione, la divisione, con il declino degli Stati nazionali
          provocato dalle nuove identità, territorialismi e geografie, si è
          trasformato da prodotto di una mistificazione ideologica (il
          nazionalismo delle nazioni povere), a un'ideologia che non dice nulla
          di falso. In un'ideologia che è realtà.
          La crisi dell'ideologia è causata dal suo trionfo definitivo: non può
          esistere altra ideologia che quella che rappresenta i meccanismi di
          dominio della realtà, e può essere unica e univoca, perché la realtà è
          dominio.
          
        Rivedi marzo
          Inizio anno
          
          Martedì, 19 aprile
          
          Annotazione. [La Santa Alleanza semovente]La guerra civile mondiale,
          lo stato di guerra non dichiarato che contraddistingue la guerra
          civile ma che si estende al contesto internazionale, la guerra non
          convenzionale, sono fatti nuovi, più o meno ultime novità. Queste
          ultime novità  sono certamente il prodotto delle nuove tecnologie
          belliche, le tecniche nucleari, che rendono impossibile l'esercizio
          della guerra tradizionale come guerra tradizionale, cioè come scontro
          risolutivo, e fanno in modo che anche lo scontro tradizionale non
          possa essere risolutivo e definitivo perché costretto a rimandare a
          qualcos'altro, a un altro scontro inapplicabile e inattuabile. 
          La guerra nucleare ha reso meno attraente, sotto il profilo
          dell'agibilità politica, la guerra tra Stati, l'antica guerra
          imperialista.
          Ma le ultime novità, quelle che portano a uno scenario molto simile a
          una guerra civile mondiale, sono anche il prodotto del fatto che la
          guerra, oggi, ha acquisito un altro senso e significato
          indipendentemente dal rischio della catastrofe nucleare, un
          significato che ha origini non tecniche ma squisitamente politiche.
          L'antica guerra imperialista ha perduto la sua adeguatezza perché
          manca la sua causa: non esiste più l'antico imperialismo. Per usare
          una metafora geologica, il mondo imperialista prevedeva una tettonica
          a zolle e lo scontro / frizione tra i continenti; il mondo post
          imperialista prevede una sola zolla, nella quale passano direttamente
          le discontinuità. Gli Stati nazionali, riuniti in blocchi e
          coalizioni, agganciavano il mondo e il mercato mondiale formando
          precise aree di interesse e di rapporti di produzione, una zolla
          appunto, contrapposte ad altre precise  aree e rapporti. Oggi le
          tensioni attraversano gli Stati e i vecchi blocchi, li percorrono
          dall'interno, e la zolla presenta delle fratture non individue, delle
          fratture e non delle separazioni e rotture, incapaci di produrre una
          singolarità internazionale. Queste fratture non separanti, invece,
          sono capaci di mettere in relazione e connettere realtà diverse, aree
          urbane europee con aree urbane indiane, aree agricole americane con
          aree agricole inglesi, aree urbane americane con aree agricole
          italiane, e intersecano, non unendole ma anzi attraverso la
          frattura,  livelli economici e sociali lontani, buttati lì come
          segmenti. L'area del Brunello della campagna senese si interseca con
          il marchio di distribuzione alimentare californiano e il marchio
          californiano con la fabbrica messicana che produce tappi e bottiglie;
          il quartiere di Delhi sperimenta le stesse forme di distribuzione
          commerciale della periferia londinese, il quartiere ad alta
          disoccupazione di Liverpool diventa un appendice della periferia di
          Damasco, i quartieri residenziali del Cairo confinano con i centri
          direzionali di Parigi. Queste fratture non separanti unificano secondo
          molteplici livelli i diversi distretti geografici tradizionali che
          tendono a divenire solo nomi capaci di identificare la direzione e i
          poli del segmento, privi di qualificazione economica intrinseca. La
          geopolitica è stata rivoluzionata non solo nelle forme enunciative ma
          anche nella struttura. All'interno delle stesse vecchie e tradizionali
          aree geografiche omogenee gli elementi caratterizzanti tendono a
          scomparire; pensiamo alle aree urbane dell'occidente dove, sempre più
          spesso, la diversificazione tra centro e periferia, costruita
          tradizionalmente su base geografica, che era una differenza visibile
          sul territorio, nella topografia stessa, si mitiga per dare luogo a
          molti centri e molte periferie che attraversano e rompono i vecchi
          concetti geografici di centro e periferia.
          Questa nuova geopolitica distrugge le specificità locali, per
          costruirne delle altre che, apparentemente, esaltano la tradizione per
          riscriverla radicalmente. Il localismo attuale si costituisce
          sull'esaltazione del genius mundi operante sul luogo e non
          certo sul genius loci, per usare categorie classiche e
          paganeggianti.
          Anche per questi motivi, l'aspetto del conflitto internazionale
          contemporaneo è quello della guerra civile, della guerra intestina,
          che spacca e attraversa i vecchi nomi geografici e le vecchie
          nazionalità; questa guerra intestina passa oltre la geografia
          tradizionale e scende in una nuova geografia, fatta di segmenti
          geografici. La guerra internazionale è sempre più la manifestazione di
          contrasti tra interessi che a volte coincidono ancora con quelli
          nazionali, con il vecchio nome del distretto, ma che non si fondano su
          quel distretto.
          La forma della guerra civile, della guerra intestina, occulta la
          ragione unitaria dei conflitti, la loro razionalità, ma rivela, in
          verità, le caratteristiche di questa nuova razionalità. I conflitti
          generano ancora da esigenze imperialiste che, però, si presentano in
          forma polverizzata. L'imperialismo unico americano degli anni ottanta
          e novanta, che ha rappresentato la forma di trapasso dall'imperialismo
          multipolare all'imperialismo polverizzato, è rimasto il modello di
          riferimento; il modello di riferimento attuale è un imperialismo
          unipolare ma proprio per il fatto di avere questo riferimento
          unipolare, l'imperialismo è profondamente cambiato e per certi versi è
          abbastanza forzato dirlo ancora imperialismo.
          Vi ricordate la Santa Alleanza, quel gruppo di monarchie che nella
          prima metà del XIX secolo garantiva la Restaurazione post napoleonica?
          Questa dell'attualità è qualcosa di simile alla Santa Alleanza a
          componenti variabili e transitorie sorta allo scopo di garantire il
          rapporto di produzione essenziale, mondializzato e unificato, è il
          nuovo imperialismo che non è più imperialismo, che non è una nazione
          che opprime e sovradetermina altre nazioni ma è una ragione economica
          superiore, imperiale (secondo Negri e Hardt), che sussume ogni altra
          realtà politica internazionale.
          Questa Santa Alleanza semovente è a sua volta sussunta alla
          razionalità, al lessico e al linguaggio del capitalismo internazionale
          ma, precisamente come le alleanze tradizionali, lascia liberi alcuni
          campi, alcuni settori di interesse marginale o privi di qualsiasi
          interesse, che un tempo avrebbero provocato conflitti nazionali
          secondari, mentre oggi portano con sé guerre civili, guerre per bande,
          lotte armate nelle periferie del mondo non capitalisticamente egemone,
          a causa di quelli che nel diritto penale sarebbero detti futili
          motivi. I casi del Ruanda, quelli del Burundi, non vanno considerati
          come elementi di atroce colore locale, di cronaca locale, ma al
          contrario come il segnale di un generale imbarbarimento dei rapporti
          internazionali, che  di pari passo seguono l'imbarbarimento
          provocato dall'uso di un solo linguaggio, di un unico lessico e di una
          razionalità unica distesi da un dominio economico unico mondializzato.
          La guerra, così, perduta la sua convenzionalità, tende ad assumere i
          due caratteri, apparentemente contrapposti ma in realtà complementari,
          della guerra a bassa intensità, alta tecnologia e professionalizzata,
          gestita direttamente dalla Santa Alleanza semovente e biocapitalista,
          e della guerra ad alta intensità umana, bassa qualità, dequalificata
          tecnicamente e di massa che si sviluppa ai margini dei processi
          bellici principali e controllati.
          
          Mercoledì, 20 aprile
          
          Annotazione. [L'ultimo imperialismo] Panama e Grenada, l'attacco
          all'Iraq durante la prima guerra del golfo, l'appoggio alla guerriglia
          afgana avevano coronato l'illusione di poter ereditare le dinamiche e
          metodologie imperialiste sotto l'ombrello di un solo blocco, di una
          sola dimensione geografica.
          In centro America la politica delle cannoniere, in Iraq il rituale
          contrasto con un alleato scontento per l'esiguità della sua
          ricompensa, in Afganistan il colpo risolutivo a un avversario morente.
          Gli ottanta e i novanta furono i decenni dell'imperialismo a una
          dimensione, che si muoveva ancora secondo gli stilemi di un mondo
          bipolare. Gli Stati Uniti d'America erano una supernazione, garante
          della stabilità di tutte le altre nazioni.
          Questa impostazione generava fastidi, insofferenze ma soprattutto era
          inadeguata agli scopi del capitalismo multinazionale. L'attacco alle
          torri gemelle del 2001 ha reso manifesta alla storia questa
          insofferenza diffusa, ma anche la sua natura che si rivelava,
          tragicamente, nuova.
          Il terrorismo internazionale diventava una forma di guerra a pieno
          titolo e proprio in quanto terrorismo internazionale. 
          Il terrorismo diventava forma di guerra in quanto capace di produrre
          effetti mediatici, emotivi, eclatanti, propri degli episodi della
          guerra di massa convenzionale, e in quanto guerra, strumento
          per colpire, in maniera il più possibile devastante, il nemico. Gli
          Stati Uniti d'America sono stati colpiti, nel 2001, non perché erano
          uno Stato imperialista, ma perché erano uno Stato che pretendeva di
          riassumere in sé i caratteri globali dell'imperialismo; il nuovo
          imperialismo, il capitalismo globalizzato, il biocapitalismo hanno
          costituito un processo spontaneo e parallelo al vecchio imperialismo,
          capace di rivelarne i difetti e le brecce, dentro le quali,
          teatralmente e in un teatro non aperto a tutti, un teatro non pubblico
          ma chiuso e riservato, hanno agito alcuni nuovi strumenti bellici. Qui
          il dominio post fordista ha posto, cinicamente, gli Stati Uniti
          d'America di fronte alle nuove responsabilità e ai nuovi rischi che la
          posizione di interprete monopolistico delle esigenze del dominio
          capitalistico globalizzato comportava, con un chiaro invito, per lo
          spettatore accorto e invitato a quel teatro, a declinarlo. Il nuovo
          capitalismo internazionale ha dimostrato tutto il suo disinteresse a
          legarsi a un solo mastino, a uno Stato nazionale, seppur potente.
          L'attentato del 2001 ha simbologie fortissime e precise: gli
          attentatori sono sauditi, quando l'Arabia Saudita è il miglior alleato
          dell'imperialismo unipolare in medio oriente; sono suicidi e martiri,
          facendo riferimento alla specificità religiosa dell'area e a un nuovo
          modo di combattere prossimo venturo e a una cultura della morte
          diametralmente opposta e completamente disconfermante l'ideologia
          della salute imperiale americane, della vita e della pienezza della
          vita nei consumi, nel divertimento e nella riproduzione del capitale
          che caratterizza il modello americano; gli strumenti di morte sono due
          aerei da trasporto civile e l'obiettivo è un centro direzionale, un
          nodo della nuova produzione del capitalismo immateriale e finanziario,
          posto al centro della più importante metropoli statunitense. L' 11
          settembre è il simbolo di una falla, che viene messa in
          rappresentazione con tutta la sua sconvolgente ampiezza.
          È anche un altro simbolo, in realtà il repertorio simbolico che
          costituisce l'11 settembre è quasi infinito, il simbolo
          dell'inadeguatezza dell'imperialismo unipolare incarnato dagli USA.
          Mentre il biocapitalismo palesava pienamente la sua vocazione
          cosmopolita, la sua capacità di usare tutte le contraddizioni distese
          sullo scenario internazionale, il mastino del capitalismo
          internazionale, l'imperialismo americano, subiva un 'complotto',
          spontaneo e involontario come i processi spontanei e involontari
          dell'economia, che ha coinvolto settori dell'intelligence
          medesima statunitense, ha usufruito dell'indifferenza di altri
          servizi  di paesi alleati ed è stato portato a compimento da
          gruppi ideologici che individuavano nella presenza americana in Arabia
          Saudita un atto blasfemo.
          É stata probabile la concorrenza di molti fattori tipici della
          politica estera tradizionale nell'attentato del 2001 e nei suoi
          dintorni, e quindi nulla di assolutamente nuovo, ma l'attentato e
          soprattutto i suoi dintorni sono stati il sintomo (oltre che il
          simbolo largamente voluto) di una nuova forma della politica estera
          nella quale gli interessi economici mondializzati si organizzavano o
          cercavano già di organizzarsi: il capitalismo internazionale
          contemporaneo si organizza politicamente al di fuori degli Stati
          nazione e del relativo paradigma dell'imperialismo. L'imperialismo è
          ancora oggi una chiave di lettura valida dello scenario
          internazionale, ma solo a patto di ridurre la sua sfera analitica a
          procedure secondarie, a tecniche ed esecuzioni, non alla sostanza del
          dominio economico internazionale che preferisce altre strade.
          L'imperialismo, negli anni novanta, è diventato ingombrante anche
          perché, cercando di coniugarsi con il capitalismo globalizzato gli
          rendeva un pessimo servizio, esponendolo politicamente, rendendo
          facilmente visibile la sua strategia e semplificandola eccessivamente;
          in tal maniera cresceva ed è cresciuta la corrispondente critica di
          massa al biocapitalismo globale, nonostante Negri e Hardt neghino
          l'esistenza e la possibilità stessa dell'esistenza di cicli di lotta
          internazionali, nella seconda metà dei novanta è difficile non pensare
          a qualcosa di simile per quello che è accaduto nel sud e nel centro
          America, negli Stati Uniti e anche in Europa. È stato, in realtà, il
          cosiddetto e infelicemente detto movimento no global a
          firmare l'atto di morte dell'imperialismo, che non fu applicato però
          da una penna rivoluzionaria, anzi, ancora una volta e come al solito,
          da un nuovo e inedito riformismo del capitale.
          
          Venerdì, 23 aprile
          
          Annotazione. [L'impero e l'imperialismo] La fine dell'imperialismo non
          ha coinciso con la fine del dominio capitalista sul mondo. Negri ha
          scelto, per la nuova fase del governo del capitale sul mondo, il
          termine di impero. L'impero negriano è reticolare, non ha un
          nucleo centrale, è formato da nodi e non ha, alla fine, una
          costituzione politica e istituzionale. Negri e Hardt ritengono che
          l'impero stia cercando di assumere una definizione istituzionale,
          grazie alla quale sarà possibile contrapporre al complesso imperiale
          un complesso repubblicano e quindi mettere in moto una nuova
          dialettica. In tutta  sincerità la penso in maniera opposta e i
          fatti stessi pare la pensino così.
          L'impero non ha alcun interesse a darsi un'istituzionalità
          riconosciuta e soprattutto riconoscibile e non sta facendo nulla per
          formalizzarla. La categoria di impero, anche se affascinante
          e spesso utile, è sbagliata: spiega troppo, cercando di essere
          esaustiva, ma non spiega quasi nulla. Il pregio principale del
          concetto introdotto da Negri e Hardt sta nell'avere chiaramente
          individuato la fine dell'imperialismo e il delinearsi di una nuova
          epoca nello sviluppo del capitale e di averne descritto alcuni
          elementi, ma, paradossalmente, non il più importante. Devo annotare
          che gli autori hanno mancato di coraggio nel trarre le conseguenze
          della loro stessa analisi e si sono fatti dominare, in fondo, da un
          ottimismo illuministico nei confronti della forza e potenza storica
          del diritto. La fine / rovina del capitalismo impone di tirare una
          conseguenza drastica, invece: la fine delle regole e del diritto
          internazionale, alle quali anche l'imperialismo faceva riferimento,
          anzi che permettevano all'imperialismo di manifestarsi come
          oggettività e legalità. Oggettività e legalità c'entrano poco con
          l'impero che non è affatto il prodotto di una repubblica tradita nel
          seicento, che riposa insonne lungo tutta la storia del capitalismo;
          quella repubblica se mai è esistita è sepolta, morta e non potrà
          essere la repubblica del domani che sconfigge l'impero insidiandone le
          istituzioni. I rapporti tra Stati fanno, invece, riferimento ai
          rapporti tra individui e a un mistificato e reinventato stato di
          natura antropologico internazionale, nel quale, inoltre, questi
          individui sono scissi e privi di identità e, anzi, la mutevolezza e le
          continue scissioni sostituiscono la struttura tradizionale
          dell'identità nazionale.
          
          Venerdì, 29 aprile
          
          Annotazione. Il capitalismo post moderno e la sua costituzione
          internazionale, costituzione reale e pragmatica, hanno la capacità di
          imporre e coordinare una stratificazione sociale planetaria. Questo
          non era mai accaduto prima, anche se era stato già anticipato da
          alcune e limitate esperienze storiche tutte di epoca moderna,
          soprattutto nel nazismo e, in misura minore, nel fascismo. Segmenti,
          continenti, tendenzialmente (l'uso di questo avverbio è davvero
          obbligatorio) aristocratici, secondo la categoria marxista di un
          aristocrazia operaia dotata di reddito, diritti civili, diritti
          politici, diritti sociali, apparente controllo del lavoro e
          realizzazione sul lavoro, e segmenti, continenti tendenziamente
          devalorizzati, dequalificati, poveri di diritti e di reddito, senza
          nessun rapporto con il lavoro che non sia precario e di assoluta
          subalternità, secondo la categoria marxista degli  operai comuni.
          In questo scenario che si congiunge e affianca con molto altri scenari
          e altri paradigmi, con livelli diversi che corrono paralleli ma anche
          in maniera stridente e contrapposta, il proletariato di una parte del
          mondo ha cessato di pensare sé stesso come proletariato e,
          addirittura, i poveri di quella parte del mondo stanno imparando a non
          avere coscienza della loro povertà, mentre il proletariato e i poveri
          dell'altra parte del mondo stanno consolidando una visione
          pauperistica di sé e del proprio riscatto, un'ottica premoderna. 
          Questa capacità del capitalismo contemporaneo di controllare e
          coordinare gli elementi sociali a livello internazionale ha certamente
          reso archeologica ogni residua ipotesi leninista, il partito
          rivoluzionario, anche nel mondo proletario dominato dalla penuria, ma
          anche messo ineluttabilmente in discussione il neomarxismo della
          seconda metà del XX secolo, secondo il quale la 'maggioranza',
          l'organizzazione di massa, diffusa e diversificata si sarebbero fatte
          carico della trasformazione rivoluzionaria della società.
          Paradossalmente, però, oggi è più attuale l'archeologia di Lenin che
          non il rinnovamento di Krahl, Negri e Bologna, come se, nel XIX
          secolo, il calvinismo fosse ritornato a essere più cogente
          dell'illuminismo.
          La stratificazione sociale planetaria, inoltre, oltre che essere nuova
          di per sé, deriva da un carattere inedito anche per le strutture
          stesse del capitalismo: non sono il lavoro, l'intensità del lavoro, la
          produttiva del lavoro e le quote di lavoro  necessario a
          conformare la gerarchia, se non nella finzione ideologica, nella
          narrazione come si usa dire; la gerarchia sociale planetaria nasce da
          una distribuzione ineguale del reddito, organizzata e strutturata in
          maniera arbitraria sotto il profilo dell'economia classica, ma
          perfettamente legittima sotto il comando della nuova economia
          liberista, nella quale economia e politica e pensiero politico si
          compenetrano in maniera indistricabile. Incontriamo, dunque, una
          doppia novità e forse esponenziale.
          In secondo, ma non certo ultimo luogo (i luoghi, i punti tematici di
          questo processi potrebbero essere enunciati per serie infinite), è la
          scomparsa di circuiti di comunicazione delle esperienze di lotta e
          opposizione. Abbiamo assistito alla dissoluzione dei partiti politici
          tradizionali del movimento operaio, all'incapacità dei proletari di
          riconoscersi come soggetti e di elaborare soggettività, fortissima
          questa impotenza nei paesi egemoni capitalisticamente, oppure, nei
          paesi non egemoni, nei segmenti poveri e devalorizzati, verifichiamo
          la capacità di sentirsi soggetti unitari ma l'incapacità di elaborare
          una soggettività adeguata che, alla fine, trasforma questo soggetto
          unitario in un composto premoderno e pauperistico.
          Nell'epoca delle reti telematiche, in quella che sarebbe potuta essere
          l'epoca del villaggio globale, come si diceva un tempo, con
          un termine che ne centrava involontariamente le potenzialità
          progressive, viviamo il paradosso del fatto che lo scambio di
          esperienze critiche e antagoniste, almeno in apparenza, si è
          assottigliato fino a dissolversi.
          E allora potrebbe essere necessario ragionare ancora sul soggetto
          indimostrabile, non solo per capire il faticoso occidente ma trovare
          segmenti e unioni possibili tra la periferia di Delhi e quella di
          Milano, che magari passano per alcuni rioni del Cairo.
          
        
        Rivedi aprile
          Inizio anno
          
          Venerdì, 6 maggio
          
          Annotazione. [Lavoro intellettuale e lavoro manuale] Trovo che si è
          troppo enfatizzato, in moltissima letteratura, sebbene con ovvie
          diversità nelle sfumature, il ruolo e l'importanza del lavoro
          cognitivo e creativo e della produzione immateriale, intellettuale,
          non fisica e digitale. Solo alcuni nomi che ho incontrato in
          quest'enfasi: l'ultimo Negri, Berardi e Virno.
          Io rivedrei volentieri, invece, l'assunto secondo il quale la
          produzione immateriale è il fattore caratterizzante, da un punto di
          vista strutturale, dell'attuale produzione capitalistica, e insieme
          con quello l'assunto secondo il quale non è più possibile oggi
          scrivere di strutturale e sovrastrutturale. Contesto, in questo
          ambito, la perdita di senso che viene spesso denunciata del concetto
          di valore orario e di lavoro necessario, che, al contrario, proprio
          per le trasformazioni occorse sono concetti che vanno ben tenuti a
          mente.
          La perdita di senso dei concetti di orario e lavoro necessario si è
          verificata solo nella misura in cui, e limitatamente ai paesi
          capitalisticamente egemoni, il lavoro cognitivo ha acquisito, in
          alcuni segmenti produttivi e negli stilemi sociali consolidati, un
          ruolo predominante nella distribuzione del reddito, nella maniera di manifestare
            il lavoro al lavoro, contribuendo a conservare la sua facies di
          reddito da lavoro. In questo senso e in questa misura, il lavoro
          cognitivo appare veramente come la forma prevalente e decisiva del
          lavoro umano dell'attualità.
          Sono, però, convinto del fatto che la grande trasformazione del
          capitalismo, il passaggio dal fordismo al post fordismo, si basa sul
          terreno della produzione materiale, sul terreno della produzione
          dell'essere, in una parola nel lavoro materiale, del vecchio e
          filosoficamente sotterrato, lavoro operaio. La rivolta del lavoro
          materiale e le molteplici risposte a questa rivolta hanno determinato
          la radicale trasformazione della sostanza della produzione materiale,
          fino al punto che l'apparenza del processo si è presentata come
          sostanza. La parola chiave, negli anni settanta – novanta del secolo
          scorso, è stata: riduzione ai minimi termini del lavoro vivo,
          immediato, necessario alla produzione del valore di scambio e alla
          generazione del profitto. La riduzione ai minimi termini del lavoro
          vivo, immediato e necessario ha permesso una moltiplicazione della
          quantità del lavoro superfluo, del surplus, del plusvalore.
          Questo ha provocato una liberazione di energie e risorse produttive
          dal lavoro materiale verso altre destinazioni, consentendo di
          costituire il volume di massa del lavoro intellettuale e cognitivo che
          sicuramente si svolge attraverso i paradigmi descritti da Negri e da
          Virno. Ha anche, però, causato nella produzione materiale degli
          elementi che ritroviamo, solo dopo, nel lavoro cognitivo: in realtà,
          il paradigma del lavoro post moderno nasce nel lavoro manuale, nel
          lavoro vivo e immediato, ed è stato esportato in quello intellettuale
          e cognitivo. 
          Il just in time, l'eliminazione del magazzino e la
          flessibilità produttiva schiacciata per intero sulla domanda hanno
          determinato nella manifattura industriale l'adesione ai meccanismi del
          mercato, là dove si era abituati a produrre progettando il mercato.
          Questo processo non ha toccato solo la manifattura ma tutti settori
          produttivi e anche segmenti del lavoro materiale come l'edilizia,
          l'industria alberghiera e la grande distribuzione commerciale.
          Le metodiche tipiche di quello che Marx chiamava 'lavoro
          improduttivo', contrassegnate dal servilismo verso la clientela, verso
          il mercato, hanno invaso anche il lavoro produttivo, inteso tanto come
          impresa, quanto come dipendente.
          La grande produzione di massa richiedeva un governo del mercato da
          parte delle imprese; le imprese utilizzavano una rigidità produttiva
          che imponeva un'analoga conformazione del mercato. Alla rigidità delle
          imprese verso il mercato corrispondeva una rigidità dei lavoratori nei
          confronti delle imprese. Come gli operai di fabbrica erano una
          variabile indipendente della produzione, così la produzione
          capitalistica tendeva a essere una variabile indipendente dal mercato,
          costituendolo in larga misura. La miniaturizzazione dei tempi del
          lavoro necessario, oltre che liberare enormi quote di lavoro, ha anche
          liberato enormi quote di profitto che si è riversato, in forme
          diverse, sul mercato; il mercato ha assunto, così, centralità nella
          determinazione dei profitti e indipendenza dai valori costruiti nella
          produzione. In questo contesto la variabile indipendente è diventata
          il mercato, mentre lavoro e impresa, accomunate sotto questo aspetto,
          al medesimo destino, sono diventate esclusivamente sottoposte
          all'eterodirezione del mercato.
          
          Domenica, 8 maggio
          
          Annotazione. [Dieci punti] Ogni tanto conviene puntualizzare e questo
          sarà il caso di una breve, imprecisa e squisitamente assertoria
          puntualizzazione.
          
          Punto uno. La borghesia, come classe, descritta secondo gli stilemi
          marxisti, non esiste più. Non esiste più neppure se considerata
          semplicemente come formazione sociale, come ceto, come strato di
          proprietari dei mezzi di produzione industriale.
          
          Punto due. Il capitalismo sopravvive senza borghesia, cioè senza la
          sua classe di riferimento; è un capitalismo, quello contemporaneo,
          senza borghesia, ma è anche un capitalismo oltre il capitalismo, per
          parafrasare la più che indovinata figura retorica di Negri nel suo
          'Marx oltre Marx'. L'adeguatezza di questa figura retorica indica una
          corrispondenza interessante: al superamento del pensiero di Marx
          corrisponde il superamento del capitalismo, come al carattere
          profetico dell'opera di Marx nei Grundisse corrisponde il carattere
          profetico dell'attualità del capitalismo. Blade runner senza
          necessità di replicanti è tra noi e blade runner è la
          profezia del capitalismo.
          Il capitalismo non ha più una proprietà individuale, ma una proprietà
          assolutamente e rigorosamente anonima, astratta e collettiva, e ha
          superato uno dei suoi elementi fondanti, la proprietà
          individualizzata, personalizzata, dei mezzi di produzione. Il
          capitalismo è oggi socialista. Il capitalismo è oggi un socialismo
          governato dagli amministratori delegati, dai gestori dei pacchetti
          azionari, dalle quote sociali, da un'intelligenza collettiva che è
          essa stessa, socialisticamente, un sistema sociale che astrae i
          rapporti sociali e li rappresenta.
          
          Punto tre. Il capitale, slegato da una classe di individui, è
          diventato anche nei suoi modi di governare, anche nella sua forma
          politica, un fatto astratto. Il capitale non si genera più attraverso
          l'asimmetria del rapporto di lavoro salariato, che, in qualche modo,
          lo personalizzava, ma nel reinvestimento delle enormi risorse
          finanziarie ottenute attraverso la miniaturizzazione del lavoro vivo,
          immediato e necessario; il capitale è diventato immediatamente denaro,
          l'astratto per definizione.
          
          Punto quattro. Il capitale che va oltre il capitale rimanendo
          capitale, non genera dunque più lavoro salariato e non percorre il
          valore del lavoro orario come valore che fonda la prestazione di
          lavoro. Rimanendo capitale, però, impone la subordinazione del lavoro
          vivo usando altri metri e misure: il tempo di lavoro è sussunto
          attraverso altre metriche, poiché il tempo di lavoro diventa tempo di
          vita comandata non attraverso la mediazione della produzione oraria,
          ma direttamente attraverso la finzione della paga oraria che NON paga
          il lavoro necessario, ma la vita stessa dell'individuo. È
          biocapitalismo, è potere sugli individui e sulle vite, in quanto
          produzione di stili di vita e di individualità.
          
          Punto cinque. Il capitale va oltre il capitale ma il proletariato non
          è andato oltre il proletariato. Il proletariato rimane proletariato
          poiché è costretto, per vivere, a vendere la propria vita non sotto
          forma di lavoro produttivo ma sotto la forma, ben più generale, di
          vita comandata.
          
          Punto sei. L'economia non descrive il capitale e il suo sviluppo, ma
          descrive piuttosto il dominio del capitale. L'economia non è più il
          campo del confronto tra capitale e lavoro, ma è esterno a questo
          confronto. L'economia è diventata il quadro del dominio del capitale
          sul mondo, sulle società, sulle popolazioni e sulla vita. In tal
          contesto l'economia ha cessato di essere scienza autonoma dal sistema
          sociale, sebbene la sua indipendenza sia stata relativa e mai
          assoluta, ed è divenuta l'involucro che permette al sistema sociale di
          riprodursi e non in quanto sistema economico ma in quanto, appunto,
          sistema di dominio sociale. Si verifica oggi il paradosso di una
          società planetaria nella quale l'economia, il danaro e la finanza sono
          il nucleo, il perno adatto a basare tutti i valori, mentre l'economia,
          il danaro e la finanza non hanno un nucleo, un perno e una fondazione.
          L'economia, quindi, non è neanche più scienza del dominio, ma solo
          tecnica di esecuzione diretta del dominio.
          
          Punto sette. La dequalificazione della politica. La politica non
          amministra più la sovranità popolare e si riduce a essere una tecnica
          dell'amministrazione delle risorse che il capitalismo destina, in
          luoghi non politici ma 'economici', alle infrastrutture economiche e
          sociali. La tecnica dell'amministrazione del pubblico, inoltre, è
          diventata anche tecnica dell'amministrazione di sé medesima.
          L'economia è il vero discorso politico e la sovranità popolare,
          equiparata non senza un certo machiavellismo alla sovranità nazionale,
          scompare.
          La dequalificazione della politica ha comportato la drastica (e
          facilmente verificabile) riduzione della professionalità del ceto
          politico, l'abbandono definitivo di ogni interfacciamento e rapporto
          di filiazione della politica con l'ideologia e la filosofia. La
          politica, nata come scienza dell'amministrazione nel XVII secolo, è
          diventata una tecnica per una scienza che non è politica, l'economia.
          L'economia è a sua volta una tecnica comunicativa e ideologica per il
          dominio sociale. Lo scadimento verso il basso delle facoltà
          intellettuali coinvolti in entrambe le discipline è inevitabile.
          
          Punto otto. La riduzione della politica a scienza amministrativa, che
          è poi il suo ruolo genetico e storico (tolta la parentesi della
          modernità matura o adulta), comporta e sottintende la crisi
          generalizzata della democrazia parlamentare e rappresentativa. Le
          forme di organizzazione del consenso non passano più attraverso
          discorsi o narrazioni fondati filosoficamente, politicamente o in
          maniera ideologica, attraverso una struttura di elaborazione e
          analisi; i partiti politici della modernità, parallelamente a questo
          le cerimonie democratiche, i momenti elettorali, comportano sempre
          meno progetti politici contrapposti e sempre più tecniche
          comunicative, psicologiche e sociologiche adeguate a governare risorse
          economiche che sono sempre ineluttabilmente date, determinate e
          altrove, insindacabilmente, stabilite. Non si tratta per i partiti, i
          comitati e 'le ideologie' politiche contemporanee di progettare lo
          sviluppo ma di organizzare la società istituzionale in funzione dello
          sviluppo che si dà completamente al di fuori di quella. Il politico è
          oggi un amministratore di basso profilo, infimo profilo, perché
          gestisce una quota parte ridicola delle risorse economiche, che è la
          quota parte destinata al pubblico dal biocapitalismo.
          
          Punto nove. Il riemergere, rivisitati, dall'antichità e premodernità
          di rapporti di produzione, mentalità e cultura produttive e relazioni
          sociali pre – capitalistici: rapporti servili e di colonato, nella
          relazione di lavoro, rapporti di uso e usufrutto, nella relazione con
          le merci e con il possesso individuale, di condivisione asimmetriche
          con le tecnologie. Tutti istituti che l'antichità classica ha ben
          conosciuto.
          
          Punto dieci. Stabilisce la fine della puntualizzazione. 
          
          Venerdì, 20 maggio
          
          Annotazione. [L'impresa dispersa nel post fordismo]. È stato nella
          produzione di beni materiali che si è verificato il trapasso da
          moderno a post moderno e non altrove. Il lavoro intellettuale non
          aveva autonomia per deciderlo e fondarlo, ma solo per definirlo
          compiutamente; è stata la produzione dell'essere a decidere e fondare
          la produzione delle idee su scala industriale, dopo è apparso che
          fosse stata la produzione di idee a sovradeterminare quella
          dell'essere, ma solo è un ribaltamento abbagliante e affascinante. Il
          toyotismo degli anni ottanta è stato esemplare di questo per ciò che
          riguarda la grande industria, ma, in generale, erano emersi modelli di
          produzione flessibile in tutti i comparti produttivi fin dal decennio
          precedente. Questi modelli, indubbiamente, hanno messo in crisi non
          solo la classe operaia ma anche la struttura dell'impresa
          capitalistica tradizionale, che era basata su una rigida gerarchia del
          lavoro e un comando di impresa disposto per livelli verticali. Da
          allora il comando sul lavoro operaio ha iniziato a esprimersi
          attraverso strumenti orizzontali, livelli di controllo disposti
          orizzontalmente; questo ha comportato l'esportazione della gerarchia e
          del comando di fabbrica al di fuori della grande azienda
          manifatturiera e la sua ricaduta e riversamento su imprese limitrofe.
          Le imprese limitrofe smettevano di fare riferimento all'organizzazione
          del lavoro di fabbrica e recuperavano molti elementi
          dell'organizzazione del lavoro artigianale, del mestiere e della
          professionalità. La gerarchia su questo lavoro distribuito si fondava
          sull'acquisizione di una particolare competenza da parte delle imprese
          nei riguardi di un altrettanto particolare settore del ciclo
          produttivo; il ciclo produttivo era disseminato al di fuori della
          fabbrica e sempre più  spesso la tipologia di queste imprese era
          quella di una piccola o micro impresa specializzata in una particolare
          lavorazione. 
          
          Sabato, 21 maggio
          
          Annotazione. [Lavoro manuale nel post fordismo] Spesso, ancora, una
          particolare lavorazione non veniva assolta usando un'alta costituzione
          di capitale, un'alta tecnologia, ma (e questo comportava la
          'professionalità' o quantomeno una sua componente) la quota di
          intervento diretto, immediato del lavoro vivo era determinante. Il
          capitale, esportando la sua gerarchia di comando sul ciclo produttivo,
          decideva, quindi, che per alcuni segmenti produttivi il lavoro
          manuale, il lavoro fisico e spesso la manualità restavano nucleari e
          fondamentali.
          Emblematico può essere il caso dell'edilizia dove, già negli anni
          settanta, la tendenza a compiere le opere attraverso trust
          di imprese individuate e divise per compiti e competenze si è fatta
          avanti. Queste imprese non condividevano affatto il medesimo livello
          tecnologico, anzi potevano lavorare insieme proprio perché non lo
          condividevano.
          Quello che intendo affermare è che già nella produzione industriale
          del tardo capitalismo manifatturiero (in una parola il periodo 1950 –
          1970) si è verificata la tendenza a rendere il lavoro nuovamente
          'professionalizzato', anche in un contesto di assoluta
          dequalificazione del lavoro e della riduzione drastica del lavoro
          necessario; questa tendenza è stata sperimentata nel lavoro produttivo
          di beni materiali, nella produzione dell'essere.
          Con la fine del taylorismo e con l'emergere del mercato come
          'variabile indipendente' verso lavoro e capitale, l'importanza della
          logistica è aumentata esponenzialmente. La logistica corrisponde e
          deve rispondere alle mutevoli esigenze del mercato e poiché il mercato
          viaggia in tempo 'quasi reale' anche la logistica deve viaggiare in
          tempo 'quasi reale'. Questo viaggio verso il just in time è
          il risultato di una digitalizzazione telematica delle comunicazioni
          interaziendale e intraziendali, e in genere delle comunicazioni
          'pubbliche', dell'abbandono della voce fisica e di quella
          telefonicamente trasportata, dei tempi geografici nella
          comunicazione,  e quindi dell'uso delle nuove tecnologie e della
          cognitività della logistica; contemporaneamente il ciclo produttivo di
          fine ottocento, pur avendo a disposizione quelle tecnologie, non
          avrebbe saputo che farsene e le avrebbe relegate al ruolo di piacevole
          e divertente curiosità ed è il ciclo produttivo di fine novecento che
          scopre digitale e telematica, per certi versi lo inventa dove non è
          ancora stato inventato.
          Il lavoro manuale non viene eliminato dalla digitalizzazione in
          maniera assoluta, inoltre. Sempre restando nella logistica, proprio
          l'eliminazione dello stoccaggio delle merci e del magazzino richiede
          molto più lavoro manuale, flessibile e dilatato negli orari e
          continuamente reperibile: i trasportatori, i movimentatori di merci e
          i magazzinieri. Nei grandi centri di logistica, la robotica ha
          sicuramente ridotto il lavoro necessario legato al lavoro tradizionale
          del magazziniere, ma al contempo la velocità che introduce e richiede
          il 'tempo reale' impone un uso più intenso, maggiore e distribuito
          capillarmente di lavoratori manuali.
          La logistica è un  secondo esempio, dopo l'edilizia, delle
          trasformazioni profonde occorse nel lavoro  manuale e fisico. Il
          lavoro vivo necessario immediatamente alla produzione di merci,
          liberato dalla produzione di fabbrica e diventato superfluo in quella,
          è migrato verso altre forme di lavoro manuale; questa tipologia di
          lavoro (lavoro svolto nella distribuzione e circolazione delle merci)
          esaminato sotto un'analisi marxista classica potrebbe essere detto
          'lavoro improduttivo', ma è, invece, proprio nel contesto della
          miniaturizzazione del lavoro necessario e dell'autonomizzazione del
          mercato dalla diretta dipendenza dall'apparato produttivo di beni
          materiali, lavoro recuperato alle esigenze della produzione e dunque
          lavoro produttivo che non partecipa direttamente alla produzione.
          In generale il lavoro manuale per primo, prima anche di quello
          intellettuale, si è trasformato in una forma di lavoro che richiede
          forte autonomia, mobilità sul territorio, spostamenti e pendolarismo
          (edilizia e logistica ne potrebbero essere i modelli) e in un'attività
          nella quale la forma dell'impegno artigianale, presa sotto l'aspetto
          della flessibilità, adattabilità e completezza del controllo sul
          segmento produttivo assegnato è preminente e, per certi versi,
          riscoperta dal passato medioevale e protocapitalistico. Mancano
          assolutamente, in questo recupero del passato, gli elementi di
          stabilità, riconoscibilità e identificazione sociale che il lavoro
          artigianale offriva.
          Il soggetto indimostrabile non è affatto un lavoratore cognitivo o
          esclusivamente cognitivo e, credo, il lavoro cognitivo è debitore
          delle trasformazioni avvenute nel lavoro fisico e manuale della
          seconda metà del novecento per i presupposti del suo inquadramento
          'definitivo' nello sviluppo capitalistico.
          Non si tratta di fare questioni di lana caprina sul peso del lavoro
          manuale e intellettuale nell'odierna costituzione del capitale, ma di
          affrontare la questione della natura del lavoro cognitivo nella sua
          integrazione nel capitalismo: controcorrente sono convinto del fatto
          che il lavoro cognitivo entra nella produzione non come lavoro
          cognitivo ma secondo le forme già sviluppate per il lavoro manuale. La
          conseguenza è che il lavoro cognitivo ha perduto la sua
          individuazione, la sua autonomia progettuale, la sua etica e
          ontologia: è diventato qualcosa di diverso. Per dirla grossa e con
          parole grosse: la ragione non è più la ragione.
          
          Domenica, 22 maggio
          
          Annotazione. [La linea di montaggio è inutile] Nella stessa fabbrica
          era venuta fuori la consapevolezza che la linea di montaggio,
          piuttosto che rispondere ad autentiche esigenze produttive,
          corrispondesse a un'esigenza disciplinare. Negli settanta era
          abbastanza diffusa l'idea, soprattutto tra gli operai italiani, che si
          potesse amministrare e organizzare il lavoro in maniera completamente
          diversa, senza per questo mettere in discussione i fondamenti del
          capitalismo, senza che fosse necessario un riferimento rivoluzionario
          in politica.
          Quando si sottolinea il fatto che automazione, robotizzazione e
          digitalizzazione dell'industria sono la risposta del capitale al
          rifiuto del lavoro operaio, si dimentica che l'atteggiamento operaio
          denunciava il taylorismo come inutile anche sotto l'aspetto dello
            sviluppo capitalistico.
          Per quanto non li conosca approfonditamente, negli Stati Uniti, i
          movimenti sociali avevano fatto proprio questo orizzonte già dagli
          anni cinquanta, abbandonando da quel periodo, nella concretezza,
          l'idea della centralità della forma industriale classica nello
          sviluppo del capitalismo contemporaneo. La rivoluzione economica e
          sociale teorizzata e praticata negli anni sessanta e settanta poteva,
          quindi, non comportare necessariamente, come per un legame
          indissolubile, la rivoluzione politica e poteva essere realizzata
          senza quella.
          Probabilmente, la forma industriale come asse centrale dello sviluppo
          (per forma industriale intendo la manifattura meccanica) ha iniziato a
          perdere centralità fin dal new deal e questa perdita è stata
          registrata, teoricamente, dal pensiero economico di Keynes.
          L'interesse essenziale dell'economista inglese e anche la pratica del
          new deal sono più rivolte al mercato che non ai processi produttivi.
          Sicura ipocrisia e sicura ideologia questa, mascheramento dei termini
          del reale e mistificazione, anche questo è certo, ma la possibilità
          percorsa di ridurre al mercato il problema dello sviluppo è eloquente;
          per certi versi si prefigurò la nuova costituzione del capitalismo a
          venire. 
          
        
        Rivedi maggio
          Inizio anno
          
        
        Mercoledì, 1
            giugno
          
          Annotazione. [Il cominciamento del post moderno durante la maturità
          del capitalismo industriale] Il capitalismo ha iniziato a camminare
          nella post modernità negli anni trenta del secolo scorso e negli Stati
          Uniti d'America. Keynes registrava una fuga in avanti del capitale
          rispetto alle previsioni di Marx, fuga che si segnalava con la prima,
          in verità forse in gran parte apparente, crisi di stagnazione da
          sovrapproduzione del capitalismo. Probabilmente, invece, la crisi del
          1929 fu ancora una crisi della crescita, ma quella crescita iniziava a
          richiedere linee di sviluppo non strettamente connesse con le regole
          dell'economia classica; in realtà nel capitalismo la crescita è
          un'ontologia, una metafisica: il capitalismo non può non crescere.
          Quella fuga in avanti del capitalismo fu percepita anche in Europa: la
          prima guerra mondiale ha esemplificato la novità essenziale che il
          capitalismo proponeva nelle regole dell'economia. L'imperialismo
          diventava fatto planetario, gli Stati nazione dovevano farsi carico di
          questi nuovi orizzonti dello sviluppo economico e contemporaneamente
          rendersi interpreti del fatto che la mobilitazione delle risorse umane
          diveniva una mobilitazione di massa, una mobilitazione socialmente
          massificata e massificante. Tutta la società nazionale venne
          coinvolta, in una maniera o nell'altra,  nella Grande guerra e
          nel relativo sforzo organizzativo, logistico, militare ed economico.
          Il capitalismo industriale iniziava a richiedere e conformare
          esigenze, bisogni e desideri di massa, una società di massa, ideologie
          di massa e culture di massa: tutto questo, tra anni dieci e anni
          trenta del novecento, imponeva il declino e l'accantonamento del
          liberalismo e anche del liberismo.
          L'espressione 'società di massa' non è assolutamente adeguata a
          descrivere il risultato di questa trasformazione, anzi è fuorviante e
          per moltissimi aspetti bugiarda: tutte le società storiche sono state,
          in qualche misura, società di massa. La massa, come entità
          riconducibile a una omologazione culturale, politica e sociale, ben
          lontana dalla 'folla' classica, dalla turba indistinta della
          letteratura classica, è certamente un'invenzione del XX secolo.
          Durante la prima guerra mondiale l'omologazione diventa più
          stringente, rispetto a quella del periodo precedente, perché si
          sviluppa in ambiti solitamente esclusi da quella. La società si
          disciplina in funzione della guerra, il corpo sociale viene pensato,
          vissuto e immaginato come uno strumento bellico, la guerra stessa
          richiede la mobilitazione di eserciti di massa, la propaganda bellica
          fece leva sui sentimenti e gli stati d'animo degli individui,
          costituendo per la prima volta un immaginario pubblico e collettivo,
          gli strumenti della propaganda bellica furono strumenti di massa.
          Tutti questi elementi (alcuni dei quali comparvero qualche decennio
          prima del conflitto e durante quello ottennero piena realizzazione)
          contribuirono a costruire un assolutamente nuovo concetto di massa, di
          popolo e di nazione.
          La fuga in avanti del capitalismo verso la formazione di un fenomeno
          sociale profondo e omologato profondamente è etichettata con il
          termine 'formazione della società di massa'. Mentre oltreoceano, però,
          fu l'economia, che si avvicinava a essere, anche per gli aspetti
          produttivi, un'economia di massa, a governare il fenomeno, in Europa
          fu invece la politica, il caso della Grande guerra è emblematico, a
          introdurlo. In America i nuovi bisogni si realizzavano, magari ancora
          in modo incompiuto, in Europa si presagivano, provocando alcune
          anticipazioni catastrofiche sotto il profilo politico ed etico.
          Fascismo e nazismo sono stati il modo di costruire la 'società di
          massa' in Europa, uno dei modi per tenere dietro a questa fuga in
          avanti delle regole dell'economia che si vede realizzarsi altrove
          (negli Stati Uniti) e incombere qui. Fascismo e nazismo, come annotava
          con incredibile lucidità Antonio Gramsci, furono la maniera di
          costruire psicologie di massa prima che si esprimessero storicamente.
          La difficoltà di inquadrare i tempi nuovi del capitalismo (produzione
          di massa di beni di consumo, sovradeterminazione della produzione sul
          mercato) uniti agli effetti delle politiche imperialiste fecero in
          modo che il potere politico e le strutture del potere politico
          anticipassero le esigenze, le suscitassero, per inquadrarle
          preventivamente, quasi cercando di determinarle a priori. Per
          prevenire e incanalare l'esplosione del carattere di massa della
          produzione e della socialità si organizzò una politica di massa.
          L'intento era quello di rompere il legame possibile tra il nuovo
          sviluppo capitalistico e le organizzazioni operaie, l'intento era
          quello di evitare una rivoluzione bolscevica europea e che il
          bolscevismo assumesse il carattere di una nuova società di massa.
          Sarebbe, però, un discorso molto lungo. 
          
          Giovedì, 2 giugno
          
          Annotazione. [Due giugno]. Una repubblica retta in forma parlamentare
          è un'istituzione talmente naturale che non andrebbe neppure
          commemorata. È la base di ogni istituto democratico e la sola
          possibilità del suo allargamento e perfezionamento, perchè comporta
          l'idea che la democrazia è un fine e non solo un mezzo. Una
          costituzione monarchica retta in forma parlamentare porta con sè il
          segno stesso della legittimità della diseguaglianza e della potenziale
          fine della democrazia e nasconde l'idea che la democrazia è solo un
          mezzo e non un fine.
          
          [Il cominciamento del post moderno durante la maturità del capitalismo
          industriale] Personalmente ho sempre percepito la Grande guerra come
          uno spartiacque tra la prima fase del capitalismo (e della modernità)
          e la seconda fase, durante la quale liberalismo, positivismo e i
          presupposti illuministici dei due secoli precedenti venivano messi in
          discussione sempre più radicalmente.
          Le 'società di massa' e dell'informazione generalizzata si forgiarono,
          in buona parte, in quei cinque anni, sebbene sia innegabile che il
          processo era in gestazione da qualche decennio e sia altrettanto fuor
          di dubbio che non si attuò compiutamente solo durante e con la guerra.
          Un sentimento diffuso socialmente e politicamente provocato entrò a
          far parte dell'immaginario collettivo, quello della paura. Questo
          sentimento ha ancor oggi notevole fortuna, anzi nella contemporaneità,
          che dagli anni novanta può dirsi una terza fase del capitalismo (e
          della modernità) si è  selezionato, è stato reso specifico, si è
          diviso in specie, ordini e categorie. La paura è diventata oggetto di
          scienza e di manipolazione tecnologica.
          Il soggetto indimostrabile lo è anche perché, anche se fosse un
          soggetto, una categoria sociale e politica interessata e capace di
          dimostrarsi, non lo farebbe comunque, e non lo farebbe in ragione del
          timore di farlo. Il soggetto indimostrabile sa che offrirebbe un
          regalo inutile e pericoloso, un regalo che dovrebbe temere di
          consegnare alla visibilità.
          Certamente, però, la chimica dei sentimenti si è fatta più complessa
          nel passaggio dal secondo al terzo capitalismo, anzi il suo
          complicarsi è stato uno degli elementi che lo distinguono.
          
          Sabato, 4 giugno
          
          Annotazione [Festival dell'economia di Trento] Si sta svolgendo, in
          Trento, l'annuale Festival dell'economia. Si è presentato con una
          veste univoca: l'economia come scienza dell'amministrazione, cioè a
          dire come branca della politica. In verità è tutto il contrario: è la
          politica a costituire una branca dell'economia, che cerca di fornire a
          quella una narrazione, un senso e un tempo si sarebbe detto una
          'rappresentazione ideologica'.
          L'economia è tutto, il fondamento del mondo attuale, lo spiega per
          come esso è, spiega le sue leggi ma non spiega assolutamente nulla del
          mondo e delle leggi. Il mondo e le sue leggi sono presentati come dei
          dati di fatto, ontologie, non come complessi di dati e di
          interpretazioni, o meglio di dati interpretati che si fanno dati
          nell'interpretazione. L'economia stessa si presenta come un datto di
          fatto, un'ontologia, una trascendenza e una metafisica. Le leggi
          economiche scompaiono per far posto ad asserzioni, ad assiomi
          indiscutibili per loro stessa definizione, e quindi metafisici e
          trascendenti.
          Quando, come nel caso dell'industria automobilistica americana, il
          lavoro necessario si è ridotto, negli ultimi trentacinque anni, dei ¾
          e questo ha determinato un incredibile ed esponenziale accrescimento
          dei profitti senza la tradizionale ricaduta sul reddito sociale, le
          leggi dell'economia non riguardano più il lavoro, il lavoro inteso
          come fatto sociale, ma sempre più il lavoro come fatto meccanico; le
          leggi dell'economia descrivono sempre meno il lavoro umano.
          Conseguentemente cessano di essere leggi, ma asserzioni su una
          potenziale ricaduta di questi profitti in altri settori. E questo non
          è più argomento di leggi economiche, ma di leggi politiche. L'economia
          è direttamente politica, quando le grandi multinazionali investono i
          loro profitti in biotecnologie piuttosto che in telematica, a Seattle
          piuttosto che a Napoli.
          Le relazioni tra economia e politica sono completamente diverse,
          quando la produzione del valore, dei beni materiali e dell'essere
          cessa di essere un fatto sociale e socialmente remunerativo e
          identificante ed è in massima parte realizzata senza la necessità di
          lavoro umano.
          Contemporaneamente non è più il lavoro e il tempo di lavoro produttivo
          a decidere del tempo in generale. La ricaduta del capitale sulla
          produzione di idee, sentimenti, stati d'animo, servizi alle persone è
          inevitabile e naturale, ma presuppone una colonizzazione del tempo
          della vita e delle energie vitali che non ha nulla a che vedere con
          l'economia e che si può e si deve chiamare politica.
          Estremizzando, lo scenario economico è quello di una riduzione a merce
          non della vita che si spende in tempo di lavoro, ma della vita tout
          cour, non della vita in quanto capace di determinare tempo di lavoro,
          ma della vita in quanto tale.
          Poiché sono in vena di pensieri estremi, ritengo fortemente probabile
          che gli scenari di annualità non troppo lontane nel futuro del
          Festival dell'economia siano un nuovo rapporto di produzione di tipo
          servile, generalizzato e reso, ovviamente, irriconoscibile alla storia
          e presentato, altrettanto ovviamente, come problema amministrativo.
          
          Domenica, 5 giugno
          
          Annotazione [Festival dell'economia di Trento] Per via della presenza
          di esponenti del governo, del mondo sindacale e del sistema bancario,
          senza una rilevante partecipazione di economisti (e sul termine e la
          scienza economica ci sarebbe molto da  scrivere) il Festival di
          Trento ha involontariamente (?) descritto l'economia in quanto tecnica
          dell'amministrazione sociale.
          Il problema economico di fondo, che può certamente essere ancora
          analizzato con i criteri della 'scienza' economica classica, non è un
          problema economico, ma un problema dell'economia. La produzione
          generale di beni industriali, agricoli, alimentari e le tecniche per
          la loro distribuzione, commercializzazione e conservazione, la
          produzione generale dell'essere, è sufficiente a nutrire, coprire,
          vestire, curare e abitare l'intera popolazione del pianeta con un
          considerevole margine di eccesso. Questa potenza produttiva non ha
          bisogno della sottrazione di lavoro vivo agli altri settori sociali in
          quantità eccezionali e non avrebbe problemi a realizzarsi utilizzando
          solo una piccola e certamente minoritaria quota delle risorse umane
          disponibili. Questa potenza produttiva crea tassi di profitto
          inimmaginabili due secoli fa. Questa potenza produttiva libera dalla
          produzione dell'essere energie che volgono solo in minima parte alla
          produzione di idee, di servizi e di comunità. Questa potenza
          produttiva, infatti, non è nata per creare quello che realmente
          produce ma per creare quello che concretamente produce: non è nata per
          creare beni materiali in quanto beni materiali, ma per creare beni
          materiali il cui valore non risiede nel bene. Questa potenza
          produttiva non è nata per creare quello che produce ma per creare un
          valore diverso da quello contenuto nel prodotto. I profitti
          tesaurizzati non contribuiscono con ricadute sociali a produrre spesa
          sociale: gli Stati, dovendo affrontare la persistenza apparente delle
          leggi classiche dell'economia, che rimangono solo nel loro campo di
          attività ancora valide, non riescono minimamente a tenere dietro a
          questo sviluppo capitalistico e ai problemi sociali che comporta.
          L'economia degli Stati deve confrontarsi con la crisi del reddito da
          lavoro, con la scomparsa epocale dei ceti medi e con l'inversione
          pauperistica nei rapporti sociali e di produzione; l'economia degli
          Stati si impoverisce nella stessa misura in cui si impoverisce il
          reddito da lavoro. Quella tra la potenza produttiva e la ricchezza
          sociale è una divaricazione palpabile, che propone un contrasto e una
          contrapposizione rivoluzionari, almeno se analizzato il processo in
          maniera classica.
          Se a questa analisi, che volutamente mantengo stretta al settore della
          produzione dell'essere, per evitare implicazioni analitiche comunque
          prima o poi necessarie, aggiungessi la produzione di sapere,
          cognizioni, organizzazione, logistica e di tutta l'incredibile
          infrastruttura e struttura immateriale, il quadro del profitto, della
          formazione del valore e dei rapporti sociali uscirebbe ancora più
          polarizzato.
          Qualcuno ritiene che il grande capitalismo globalizzato e
          globalizzante saprà regolare il suo sviluppo, abbracciando i paradigmi
          ecologisti, sociali, energetici e comunitari che sono venuti fuori nel
          secolo scorso; solo quando c'è business, annoto invece, e non in
          maniera sistemica questo potrà accadere (e per fortuna, continuo ad
          annotare, perché quando cerca di farsi sistema in ciascuno di questi
          campi, il biocapitalismo inventa il suo sistema ecologico, energetico
          e via dicendo, inventa la sua scienza). Altri pensano che sarà il
          mercato a produrre la regolazione, seguendo una doppia follia
          bugiarda, perché il mercato non esiste più e quando esisteva non ha
          mai regolato nulla.
          Il desiderio del capitalismo contemporaneo usa il mercato, ma non ha
          nulla a che fare con il mercato, usa soprattutto la finanza ma non ha
          nulla a che fare con il capitalismo finanziario di solo mezzo secolo
          fa. È  un desiderio semplice ma molto forte, molto più forte del
          desiderio sessuale o del desiderio di ricchezza sproporzionata, è il
          desiderio di potere; è il piacere di comandare i corpi e le menti di
          centinaia di milioni di individui, è il piacere di creare associazione
          e organizzazione, di fondare il distretto industriale globale. Il
          profitto e l'accumulazione sproporzionata e insensata sotto il punto
          di vista del profitto stesso di capitali sono lo strumento fortissimo
          di questo fortissimo desiderio.
          Allora ritorna il problema centrale e ancor più letteralmente vitale
          (etimologicamente) del soggetto che può distruggere, che abbia
          interesse a distruggere, non la divaricazione e il divario, che non è
          opera realizzabile, ma la sorgente dello spazio di divaricazione. 
          
          Mercoledì, 15 giugno
          
          Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. Trovo
          il testo di Bifo, L'anima al lavoro, troppo spesso schematico nello
          sviluppo dei suoi assunti, come interessante negli assunti. È un'opera
          da scomporre e analizzare punto a punto, per concedere a quella
          maggiore respiro, che non le ha lasciato l'autore. Nulla da
          aggiungere, però, a questo passo che vale quasi come un programma,
          un'idea programmatica.
          “La società non ha bisogno di più lavoro, di più posti di lavoro, di
          più competizione. Al contrario. Abbiamo bisogno di un enorme taglio
          del tempo di lavoro, una enorme liberazione della vita dalla fabbrica
          sociale, per poter ricostruire il tessuto della relazione sociale.
          Eliminare il legame tra lavoro e reddito libererà un'enorme quantità
          di energia per finalità sociali che non possono più fare parte
          dell'economia e dovrebbero tornare a essere forma di vita. Dato che la
          domanda si riduce e le fabbriche chiudono, la gente soffre di mancanza
          di danaro e non può comprare cose necessarie per la vita (…). Il
          doppio legame della sovrapproduzione non si può risolvere con mezzi
          economici, ma solo con un salto antropologico, l'abbandono della
          cornice economica che consiste nello scambio di lavoro e salario (…).
          L'idea che il reddito debba essere il premio di una prestazione è un
          dogma di cui dobbiamo assolutamente liberarci. Ogni essere umano ha il
          diritto di ricevere la quantità di danaro che è necessaria per la
          sopravvivenza. E il lavoro non ha nulla a che fare con questo. Il
          salario non è una cosa naturale della sfera sociale (…). Fino a quando
          la maggioranza dell'umanità non sarà libera dal nesso tra reddito e
          lavoro, la miseria e la guerra saranno la regola della relazione
          sociale” (pp. 276 - 277)
          
          Giovedì, 16 giugno
          
          Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. Sempre
          su quella sorta di “che fare” compresa in quella che è una specie di
          postfazione scritta nel gennaio di quest'anno.
          Bifo annota, con chiarezza molto sintetica, che “il nostro compito
          sarà di creare zone sociali di resistenza umana, intese come zone di
          contagio terapeutico. Il capitalismo non è destinato a scomparire dal
          panorama del mondo, ma perderà il suo ruolo di paradigma onnipervasivo
          di semiotizzazione,, diventerà uno dei tanti modi dell'organizzazione
          sociale. Il comunismo non sarà mai il principio di una nuova
          totalizzazione, ma uno dei tanti modi possibili di autonomizzazione
          della regola capitalisica” (p.  280). Al di là del fatto che
          l'aggettivo umano che viene associato al sostantivo resistenza è vago
          e metafisico, presupporrebbe una dote, una qualità originaria la cui
          esistenza tutto il resto del libro contesta, è interessantissima
          questa idea della politica come di una terapia. La migliore tradizione
          illuminista è evocata, quella che permette, cioè, anche una critica
          all'illuminismo, ed è certamente questa la via da percorrere. Oggi, la
          critica all'economia conduce a una nuova critica alla ragione, a ogni
          prodotto ideale che pretenda di presentarsi come razionale.
          L'impossibilità oggettiva, però, della conservazione dell'egemonia del
          paradigma capitalistico, non comporta affatto che questa egemonia
          scompaia naturalmente. È certamente vero, e questo è un terribile
          paradosso della nostra epoca,  che se l'economia fosse
          razionalità, fosse autonomia della ragione, fosse scienza (ma non lo è
          più, se mai lo è stata), l'involucro economico è politico. Non sarà
          mai detto dal capitale: “Scusate, signori, scusate l'ingombro, un po'
          di spazio, invece, anche per voi!”. Bisognerà farlo percepire
          l'ingombro e la necessità della terapia, solitamente i malati non
          accettano la malattia e anzi la rifiutano: questo credono sia la loro
          cura della malattia. Il capitalismo contemporaneo, al contrario di
          quello classico, sa di dover convivere con la decrescita, anzi la
          decrescita è la forma della crescita economica della contemporaneità,
          il suo nuovo sviluppo e le vecchie regole, le vecchie crescite e il
          vecchio sviluppo non funzionano più. Funzionano come politica, come
          rappresentazione, perché anche il capitalismo ha la sua terapia sul
          mondo: la penuria in una società circondata, addirittura assediata, da
          abbondanza, la penuria in balia dell'abbondanza, la penuria delimitata
          e contaminata da infiniti segni di ricchezza e abbondanza
          condivisibile. Il capitalismo prescrive il sintomo e la malattia. Il
          capitalismo è disastro alimentare, tipico delle economie della
          penuria,  che si unisce con il disastro ecologico, tipico
          dell'economia dell'abbondanza, termine di una socialità corporea e
          fisica e riedizione di una socialità virtuale, incorporea e
          atomizzata, diminuzione dei consumi di massa con crescita esponenziale
          dei consumi di nicchia, di aree di consumi privilegiati e riservati,
          distruzione, nelle classi dirigenti economiche, delle selezioni
          meritocratiche con la cooptazione di lignaggi tecnocratici,
          generalizzazione della depersonalizzazione della proprietà con
          contemporanea invenzione di elementi dinastici in quella. Questo
          paradigma ha necessità di conservare egemonia per conservarsi e di
          ghettizzare ogni altro modello. È fuori di dubbio che la lotta di
          classe e il comunismo assumeranno caratteri diversi da quelli storici
          e che il comunismo non sarà il prodotto della lotta di classe, non
          avrà in quella il suo asse genetico; ma senza contrapposizione e le
          energie che la contrapposizione produce tra chi ha bisogno della
          finzione del lavoro per vivere e chi organizza questa finzione, la
          decrescita sarà davvero eterna e la stagnazione infinita.
          Proprio perché è vero che le regole dell'economia non sono più capaci
          di descrivere la situazione, allora è anche vero che non sono capaci
          di governare la situazione e di darle razionalità, non sono più gli
          strumenti del dominio economico, se non in rappresentazione. E qui
          potrebbe avere ragione Bifo, quando pensa a mondi sociali
          paralleli.  Esiste però un'altra economia che non pensa affatto a
          sé come rappresentazione parziale, ma complessiva; esistono interessi
          economici che hanno bisogno di controllare egemonicamente la società
          secondo un comportamento paradossale: usare le relazioni umane, farne
          un valore politico, una merce che non è merce ma che è dominio e
          distruggere, in realtà, il signicato e la parola stessa di merce,
          sostituendola con il controllo sull'uso. Il possesso viene sostituito
          dall'uso condiviso e controllato. Il bisogno scompare per far posto a
          qualcosa che viene accomunato al desiderio. Questa nuova forma di
          egemonia si fonda come un processo democratico, la condivisione del
          dominio dentro le relazioni umane. Se salta la condivisione salta il
          meccanismo stesso del dominio: la terapia è necessariamente un atto di
          forza, allora, una contestazione, c'è da rompere una condivisione
          obbligata. 
          
          Venerdì, 17 giugno
          
          Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. È una
          tesi interessante e descrive la realtà delle cose quella che vede
          questo atto terapeutico (secondo la terminologia scelta da Bifo) non
          come il prodotto di una volontà, di una razionalità, di una scelta
          deliberata, ma il risultato della perdita di egemonia del modello
          capitalistico. Bisogna, però, tenersi lontani da qualsiasi
          determinismo, che, sotto banco, si proponga. La tesi descrive la
          realtà delle cose, lo scenario, ma non è necessariamente vera e dunque
          praticabile. Il “Signori si accomodino” presuppone anche e sempre una
          domanda, un'azione e un comportamento proattivo (come si diceva un
          tempo); richiede un “possiamo accomodarci?”. Richiede, quindi, la
          nascita di un concetto di spazio e di luogo condivisi che, al
          contrario, oggi manca e quando si costituisce rimanda a un
          razionalismo che, in concreto, nega la condivisione autentica, pur
          esaltandola. Lo spazio va invece costruito perché non esiste
          condivisione, se non nella forma adatta alla dominazione. 
          
          [Bifo e le pantere grige] Il testo di Bifo affronta anche il tema
          della vecchiaia, quando affronta il problema, socialmente sviluppato,
          della depressione. La depressione è una reazione senile all'evidenza
          della nostra imperfezione, dei nostri limiti e della nostra finitezza;
          la depressione dipende, usando altre parole, dal non – essere Dio
          dell'uomo. Prima era l'ansia e il panico, nella gioventù, la rincorsa
          alla complessità e alla velocità, poi arriva l'amara constatazione
          dell'inutilità di questa rincorsa. Il testo lega, in maniera stretta,
          complessità e velocità dello sviluppo sociale e tecnico con la
          depressione che non è solo un fatto sociale, una sindrome collettiva
          tipica del capitalismo contemporaneo, ma una sindrome economico –
          finanziaria. In questo contesto, a fronte dell'inadeguatezza del
          lavoro vivo, dell'umano, contro il lavoro morto, l'automatizzato,
          inadeguatezza esaltata dal capitalismo della post modernità, la
          senilità finisce per essere una condizione sociale ed economica
          generalizzata, epocale.
          
          [Pantere grige] Non stabilirei un collegamento così forte, quasi
          meccanico, tra depressione e vecchiaia, anzi, tolte le innegabili
          contingenze sociali e politiche che rendono la vecchiaia un disvalore
          assoluto (in una parola la crisi dello Stato assistenziale), questa
          immagine ha il pregio di storicizzare il fenomeno, ma il difetto dello
          storicismo. Al contrario il superamento del capitalismo industriale
          apre degli spazi concettuali adatti a ribaltare, e in maniera
          abbastanza radicale, questo collegamento tra vecchiaia e depressione.
          La vecchiaia è stata un radicale disvalore nella società di fabbrica:
          il corpo, usato e disciplinato nel lavoro e attraverso il lavoro senza
          quasi la partecipazione dell'elemento mentale e intellettuale, quando
          invecchia diventava un parassita, un anti produttivo e un oggetto di
          assistenza, cura e mantenimento e quindi un anti economico allo stato
          chimicamente puro. Il corpo inabile al lavoro è, nel capitalismo di
          fabbrica, il non valore per antonomasia. La società precedente il
          capitalismo, contadina e artigianale, esaltando e usando il connubio
          tra mente e corpo, assegnava all'esperienza lavorativa un grande
          valore. Il corpo del vecchio continuava a valere ed essere usato sul
          lavoro fino alla morte; il corpo del vecchio era custode di una
          suprema (esistenzialmente) professionalità.
          Oggi la vecchiaia può acquisire un valore aggiunto, slegato dal lavoro
          e fondato sull'esperienzialità. L'esperienza esperibile nel solo
          volgere di una generazione umana di realtà informative molteplici, di
          diversissimi livelli informativi e comunicativi e del loro incessante
          intersecarsi, determinano un sedimento, il sedimento può a volte
          trasformarsi in abitudine, in attrezzo, in strumento e infine in
          modello utile e duttile per affrontare, prevedere e sviluppare
          situazioni, per affrontare, tornando alla terminologia di Bifo, una
          terapia. La 'terapia' è la capacità di segnare punti fermi, abitudini
          e di comprendere, con un certo distacco, che sono necessari anche se
          non veri, e che  quanto essi funzionano e sono desiderabili,
          tanto più sono veri. Questa è un'altra componente della vecchiaia: non
          la senilità, non la nostalgia, ma l'astuzia dell'abitudine e del
          continuo rinnovamento dell'abitudine: il cuore rivoluzionario del
          partito delle Pantere Grige. 
          
          Domenica, 19 giugno
          
          Annotazione.  [La politica del profitto] La vecchiaia assume un
          ruolo diverso, soprattutto se diviene il modello di una vita slegata
          dalla produzione di valore, e se il valore non è solo quello che viene
          prodotto ma anche quello che viene comunicato. Questo modello può
          avere una validità generale, quando sarà effettivamente registrato il
          crollo del lavoro necessario nell'industria e nell'agricoltura, del
          lavoro necessario a produrre l'essere, e insieme con questo crollo
          sarà evidenziata l'elevazione esponenziale dei profitti. La produzione
          dell'essere, il lavoro del corpo, saranno caratterizzati da una
          sproporzione economicamente e antropologicamente insostenibile.
          I profitti, inoltre, sproporzionati, lo sono ancora di più se posti di
          fronte alla miniaturizzazione del lavoro necessario: sono un fine a sé
          stesso, un grandissimo ingombro in una sala da pranzo senza invitati.
          Il capitalismo fa oggi l'elogio della produttività del lavoro, e cioè
          fa con questo l'elogio al lavoro superfluo. Il capitalismo fa oggi
          l'elogio dell'aumento generalizzato dell'orario di lavoro, facendo
          questo compie l'elogio del lavoro inutile economicamente e della
          superfluità economica.  
          La crisi del lavoro necessario, inoltre, non compete solo alla
          produzione manifatturiera o all'industria primaria, ma riguarda anche
          la produzione intellettuale, il lavoro creativo e persino il lavoro
          gestionale e commerciale. Pensiamo alla digitalizzazione e automazione
          degli archivi e degli strumenti gestionali: il back office tende ad
          assottigliarsi e il front office (l'esecutivo, il direttivo e il
          commerciale) tendono a gestire ed essere anche il back office.
          Pensiamo la sig. Marchionne che fa vanto di giornate lavorative di
          sedici ore. Dovrebbe nasconderle, perché sono sicuro sintomo di
          incapacità. Invece che vantarsi delle ore spese, della loro intensità,
          della loro produttiva e importanza (pericolosissima criticità
          quest'ultima), il sig. Marchionne passerebbe per un individuo di
          maggior intelligenza se sapesse riconoscere il fatto che gli piace
          farlo, che gli piace sentirsi così, indispensabile, decisionale e
          importante nel suo tempo di lavoro, ma che la stragrande maggioranza
          di quello non serve a nulla. Sarebbe, in effetti, più utile che tutto
          quel lavoro superfluo, insieme a quello di milioni di altri, venisse
          usato nella salute pubblica, nella pubblica igiene, nelle reti di
          comunicazione sociale, nel raffinamento delle loro infrastrutture e
          delle loro tecnologie, nella progettazione di nodi, nuovi nodi e nuovi
          scenari sociali. Allora quei profitti sottratti al lavoro necessario
          diventerebbero qualcosa di valido per la narrazione della storia
          umana.
          Perché il profitto non si redistribuisce? Perché non viene meno,
          poiché i tempi sarebbero belli e maturi, la scusa pubblica per
          quell'ingombro? Il profitto è politico, il profitto è oggi la
          principale forma ideologica, comunicativa, emotiva e sociale del
          potere. Il potere oggi non sa immaginarsi senza il profitto.
          Marchionne non sgombrerà pentito e convinto dalle armi della ragione,
          ma sgombrerà costretto da una forza, da una potenza capace di essere
          potente, attraente e desiderabile quanto il profitto. Il profitto,
          seppur inadeguato sotto il profilo dell'economia tradizionale alla sua
          riproduzione, è, invece adeguato, sotto quello della nuova economia, a
          una funzione politica generale, a essere grammatica del potere e della
          condivisione del potere.
          
          Domenica, 29 giugno
            
          Annotazione. [Del declino della politica nella sua
          espressione rappresentativa]. Il voto inglese sulla cosiddetta brexit
          è la sommatoria di molte contingenze, coincidenze e concorrenze
          storiche da avere valore generale, da essere esemplificativo di un
          processo generale. Meglio scrivere esemplificativo di un processo
          generale al quale concorrono molti processi particolari e che riesce a
          riassumerli tutti. Il voto inglese è paradigmatico (è proprio il caso
          di usare questo abusato aggettivo) per il voto in sé e il risultato,
          il modo con il quale si è giunti al referendum e le reazioni dopo lo
          scrutinio. Il voto inglese è fatto testimoniale di almeno tre cose: la
          riduzione assoluta della politica, la diminuzione della democrazia
          elettorale e, molto più in là, la fine, ormai chiara ed evidente, di
          un modello socio - politico fondato sul lavoro.
          Direi che non c'è davvero poco in quel voto (come in molte altre prove
          europee degli ultimi quindici anni) che è l'effetto di un intreccio
          incredibile di elementi spesso sotterranei che si sono manifestati,
          nella spettacolarizzazione della politica, improvvisamente, ma, in
          questo specifico caso, lo spettacolo della politica ha coinciso più
          che in altri casi con la sua sostanza: lo stupore mediatico
          corrisponde allo stupore reale.
          Il referendum non è nato da un'iniziativa popolare, ma
          dall'interpretazione dei sentimenti potenziali del popolo di fronte
          allo spettacolo televisivo e mediatico offerto intorno alla società
          multietnica europea: immigrazione, terrorismo, delinquenza diffusa.
          Facendo riferimento a questa miniera sentimentale, la classe dirigente
          politica inglese si proponeva di risolvere una contraddizione sorta,
          all'interno del partito conservatore, sulla candidatura del futuro
          premier, Cameron. La destra del partito conservatore, sventolando la
          bandiera dell'ostilità all'Unione Europea, e convincendo del rischio
          del drenaggio di consensi a favore della estrema destra, domandò a
          Cameron, per confermare la sua candidatura, una consultazione
          referendaria sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione. Cameron
          accettò questa pregiudiziale verifica europeista alla sua rielezione.
          Si è arrivati, quindi, al voto e vince il fronte del leave.
          Si scopre che nessuno è pronto al risultato; non lo sono i
          sondaggisti, non è pronta la borsa, non sono attrezzati gli
          unionisti  e ancora meno i secessionisti. Nessuno è pronto e
          conseguentemente tutti si spaventano, come dei bambini che abbiamo
          dato fuoco al pagliaio di papà: l'accendino è il corpo elettorale
          inglese e il pagliaio una serie non indifferente di trattati
          internazionali e accordi commerciali. Dilettantismo? Innegabile.
          Dilettanti? No. Professionisti, invece, perché questi sono gli
          orizzonti del nuovo politico professionale: amministrare il consenso,
          essendone amministrati. Il consenso, infatti, non è più l'elemento
          strutturale della democrazia, non perché non si ricerchi più il
          consenso ma perché il consenso che si ricerca non è più un consenso
          politico, ovvero fondato sulla politica e il ragionamento politico e,
          conseguentemente, proprio perché non si rincorre un consenso politico,
          ma un consenso sentimentale, l'elemento politico del referendum verrà
          disatteso: l'Inghilterra non uscirà dall'Europa precisamente come la
          Scozia non uscirà dal Regno Unito. Il referendum inglese avrà delle
          conseguenze sicure, ma non quelle per le quali la gente è stata
          chiamata al voto.
          La politica perde qualsiasi dimensione strategica (che viene elaborata
          al di fuori della politica) per occuparsi di questioni tattiche: la
          politica è ridotta a tattica del consenso e a tattica della gestione
          economica delle istituzioni pubbliche. La battaglia sulla brexit,
          spettacolarizzata come battaglia strategica è nata su una questione
          tattica (la forza della leadership di Cameron dentro il suo partito) e
          conseguentemente e naturalmente è rimasta una questione tattica, priva
          di respiro, che non sia, appunto, un respiro spettacolare e
          passionale. Suonano davvero patetici, ridicoli e soprattutto idioti, i
          rimpianti verso la politica di un tempo e gli uomini politici di un
          tempo, verso la loro statura, ampiezza di vedute, coraggio e
          profondità; come se tutto si spiegasse con le biografie e i dati
          personali: si tratta, al contrario. di anagrafe politica.
          La spettacolarizzazione della politica non è il dono della politica ai
          media, l'offerta della politica alle telecamere e ai social network è
          la riduzione della politica a spettacolo. Le leggi dello spettacolo
          non si sono affatto adattate a quelle della politica ma è stata la
          politica a fare sue le leggi dello spettacolo. Il sistema politico
          americano, coronato dal suo sistema bipartitico, ha trovato una
          naturale convergenza nella politica - spettacolo fin dagli anni trenta
          del novecento e ne ha, secondo la sua tradizione, conformato alcuni
          canoni: contrapposizioni uno a uno, sistemi ideologici binari, sistemi
          elettorali maggioritari, alternative nette ma tattiche e recitate e
          mai strategiche. La democrazia rappresentativa tende a essere
          un'istituzione basata su istituti plebiscitari o tendenze
          plebiscitarie e ad allontanarsi il più possibile dal principio della
          rappresentanza per assumere quello della rappresentazione
          dell'elettorato e dei suoi desideri. In Italia questo sistema, nato
          nell'America del new deal, si è affermato, con gradualità, a
          partire dagli anni ottanta, con qualche timida anticipazione nel
          decennio precedente.
          L'obiettivo finale è quello di una forma di democrazia  che usa
          il consenso come l'applauso a teatro  o il gradimento in
          televisione, una democrazia che costruisce il consenso attraverso lo
          spettacolo politico e che ricerca un consenso motivato attraverso gli
          strumenti della sua spettacolarizzazione. La democrazia indiretta,
          rappresentativa, diviene a tratti diretta: il consenso diviene la
          prima opzione della politica, il suo obiettivo, e correre dietro il
          consenso il mestiere del politico maturo e formato della
          contemporaneità. 
          Il consenso, mitizzato, viene in realtà alleggerito e svuotato di
          contenuti politici; il consenso ottenuto non vincola e i suoi
          contenuti possono essere rivisitati, riscritti, narrati diversamente.
          Il consenso può trovare una nuova rappresentazione.
          Il consenso diviene quindi un fine e non un mezzo e la democrazia si
          trasforma in uno strumento e un attrezzo per il politico. Emblematico,
          sotto questo aspetto, del
            referendum inglese il caso di  coloro che hanno votato
          leave si sono trovati, improvvisamente, come un esercito
          senza capo, scoprendo che la guerra non c'era e che faceva parte di
          uno spettacolo che, in realtà, non la prevedeva. Ovviamente si sono
          impauriti e alcuni pentiti  del loro voto, generando, così, lo
          spettacolo nello spettacolo: lo spettacolo ghiotto di una democrazia
          esagerata ed eccessiva che, comunque, verrà rispettata, quindi lo
          spettacolo della critica alla democrazia e della sua ridicolizzazione.
          Ma non è la successione scenografica a interessare: interessa che la
          politica ha radicalmente cambiato professione.
          Perdita di strategia in politica e spettacolarizzazione dipendono
          certamente dal fatto che alla politica non rimangono che lo spettacolo
          e la tattica, perché le strategie sono stabilite altrove; ma anche da
          una progressiva e intrinseca perdita di senso della democrazia: la
          democrazia perde di senso nello spettacolo perché perde di senso in
          quanto tale. La perdita di senso della democrazia ha un'origine
          diversa dallo spettacolo, lo spettacolo non ha svuotato la politica ma
          la politica è giunta allo spettacolo poiché svuotata. È giunta naturalmente
          allo spettacolo, dunque. È vero che la spettacolarizzazione della
          politica richiede uno svuotamento della democrazia rappresentativa e,
          addirittura, pare esserne la causa, ma, al contrario, lo svuotamento
          della democrazia rappresentativa favorisce e causa la sua
          spettacolarizzazione.
          
          Giovedì, 30 giugno
            
          Annotazione. [Del
            declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Il
            numero di coloro che si astengono dal momento elettorale e non vanno
            a votare non cresce affatto (come alcuni a 'sinistra', in maniera
            consolatoria, ritengono) per una critica a questo nuovo concetto di
            rappresentanza come rappresentazione politica, e quindi per un'idea
            - forza democratica, per una protesta in favore del ritorno della
            rappresentanza politica o, ancora meno, per una valutazione
            strategica (neppure inconscia e pre - politica) ma
          l'astensione spontanea dell'elettorato aumenta a causa della
          constatazione amara e disillusa dell'assoluta impossibilità di
          restaurare alcunché. La politica come spettacolo  non solo è un
          dato ineluttabile ma un dato interiorizzato anche da coloro che
          rifiutano il voto.
          Quando il voto sulla brexit recupera all'astensionismo circa
          il 20% dei suffragi, questo recupero non è affatto, però, il risultato
          di un'improvvisa individuazione di dimensione strategica a politica e
          voto, ma della coalizione di ansie e timori, il risultato della
          spettacolarizzazione della società, del vivere sociale, dello
          spettacolo bombardante spiegato sull'immigrazione 'selvaggia',
          incontrollata e assetata di ricchezza e denaro, degli attentati in
          Francia, in una parola della spettacolarizzazione complessiva dello
          scenario politico e sociale. 
          La democrazia c'entra tanto poco che i britannici, pensando di fermare
          l'immigrazione, non hanno pensato ai dazi, alle frontiere e a tutto
          quello che di concreto e ben poco spettacolare potrebbe derivare alla
          loro vita quotidiana. Contemporaneamente la democrazia c'entra molto:
          la disconferma effettiva del voto, usa la spettacolarizzazione della
          politica (una democrazia folle, smisurata ed esagerata che però va
          rispettata, una democrazia nonostante gli effetti della democrazia,
          questi i mantra dei media), il suo orizzonte binario, i paradossi che
          produce quell'orizzonte, per proporre una superiore mediazione, che
          facendo il verso di rispettare il voto, criticato e censurato, non lo
          rispetterà senza criticarlo e censurarlo apertamente. Da un lato si
          disconfermerà ulteriormente la democrazia elettorale come valore
          fondante le istituzioni, le istituzioni diverranno quasi ostaggio di
          una democrazia priva di razionalità, dall'altro lato si approfondirà
          il generale adattamento del corpo elettorale alla binarietà, alla
          semplificazione personalistica della politica, alla produzione e
          confezione della politica come un fatto emotivo. Questo adattamento è
          spiegabile con la potenza delle tecniche e tecnologie della
          comunicazione di massa? Preferisco altre risposte, quelle secondo le
          quali la potenza dei media è proporzionale alla vulnerabilità sociale
          ai media e con questa va in larga misura spiegata.
          Non che i media siano un fenomeno che 'proviene dall'alto', solo ed
          esclusivamente mainstream, anche quando lo sono, per molti
          versi i media sono fenomeni orizzontali, anche quelli verticali, ma
          esiste una vulnerabilità che si struttura dal basso, dal sostrato
          sociale, dall'humus : il corpo elettorale ha percepito la sua
          scarsa importanza, l'abbassamento del suo peso politico e questa
          percezione ci avvicina al cuore del problema.
          
        
        Rivedi giugno
          Inizio anno
          
          Martedì, 5 luglio
            
          Annotazione. [Del
              declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Partiamo
          dal basso, dall'humus, che spesso coincide con la genesi, con
          la costituzione primaria di un fenomeno sociale e umano. 
          La democrazia si fondava sul principio che ogni uomo era un cittadino
          e che ogni cittadino era un voto. Questo, un cittadino un voto,
          ovviamente è rimasto vero. Nell'ottocento e nella prima metà del
          novecento, epoca in cui il suffragio si estese fino a diventare
          universale, ogni voto aveva una maturazione e una formazione
            educativa precise: la collocazione o non collocazione nel
          contesto produttivo, perché il cittadino era anche un produttore e, in
          genere, un lavoratore. Nella tendenza più affermata il rapporto con il
          lavoro preparava e costruiva il voto, definendo così il voto operaio,
          il voto contadino, il voto impiegatizio e via dicendo. Assolutamente
          estranei concetti trasversali rispetto al lavoro come voto giovanile,
          delle donne o degli anziani, si poteva scendere, al massimo, alle
          preferenze elettorali dei disoccupati. Il rapporto con il lavoro era
          decisivo nel processo politico. Il lavoro in quanto tale costruiva la
          parte delle relazioni sociali più significative sotto il profilo
          politico; questa forma di partecipazione e coinvolgimento,
          coniugandosi con la precedente ideologia liberale intorno al voto
          inteso come scelta individuale e personale, ha contribuito a generare
          uno degli elementi delle democrazie di massa, i partiti politici di
          massa, e ha anche contribuito a strutturare le corrispondenti
          ideologie di massa, che pure, paradosso storico, erano la negazione
          del liberalismo primitivo. Estraneo al liberalismo primitivo, infatti,
          era un progetto politico complessivo e 'organico', secondo il quale
          ogni parte della società andava amministrata in funzione del tutto,
          tutto inteso come unicità dalla quale le singole parti non potevano
          essere separate senza perdere senso e consistenza. Questa fu
          l'architettura delle grandi ideologie politiche e anche del
          liberalismo moderno, quando cessò, e lo fece presto, di fondare la sua
          progettualità politica sulla naturalità dei processi economici e
          sociali.
          L'origine di questa trasformazione nella visione della società stava
          nel lavoro collettivo e organizzato, nel lavoro sociale, distribuito
          socialmente, e nei cittadini che partecipavano al lavoro in comune e
          collettivo, seppur a diverso titolo e secondo tutti i modi possibili
          ed economicamente interessanti e determinati da un'organizzazione
          produttiva. Anche per i liberali, infatti, il soggetto politico era
          un'emanazione di un soggetto economico; e qui va introdotta
          un'importante precisazione geografica: tutto questo accadde nei paesi
          capitalisticamente egemoni.
          
          Mercoledì, 6 luglio
          
          Annotazione. [Del
              declino della politica nella sua espressione rappresentativa].
          Questa precisazione geografica sottolinea un'importantissima
          separazione, che non solo ha segnato ma conformato,
          strutturato e reso possibile la storia e lo sviluppo del capitalismo.
          Questa precisazione potrebbe tranquillamente esulare dalla questione
          della brexit dalla quale si era partiti e dalla crisi della
          rappresentanza, se non fosse per il fatto che lo sviluppo del
          capitalismo, l'attuale fase biocapitalistica, sta ricongiungendo i due sentieri separati; si
          stanno ricongiungendo grazie a delle biforcazioni e ad alcune bretelle
          che toccano alcuni tratti dei percorsi e sovrappongono piani viari
          eterogenei. Il depotenziamento del voto, secondo le forme espresse
          dalla vicenda della brexit (ma dovremmo pensare anche al
          referendum irlandese sul trattato di Lisbona, alla consultazione
          europeista in Francia e a molti altri eventi simili), fino a quindici
          anni fa sarebbe stato impensabile nella tradizionale patria della
          democrazia rappresentativa, e applicabile in India, Turchia, Egitto o
          Pakistan. Oggi, sotto questo aspetto (e sotto molti altri), i paesi
          capitalisticamente egemoni e quelli egemonizzati si assomigliano fino
          al punto di rendere obsoleta e inadeguata la distinzione tra di loro.
          In generale va annotato che la spettacolarizzazione della politica ha
          coinvolto anche il momento elettorale; il voto ha perduto la sua
          fisicità (il voto deposto nell'urna, un voto e una testa) quantomeno
          nell'immaginario e nella rappresentazione retorica , che pure si era mantenuta viva nell'epoca delle grandi
            ideologie e, dopo la prima guerra mondiale, nelle cosiddette
          società di massa. Gli individui si coalizzavano nel voto in un gruppo
          omogeneo che li qualificava, che li rendeva omogenei e simili, in
          maniera costante e non transitoria; il gruppo elettorale creava
          un'identità collettiva. C'era, inoltre, lo scrutinio (altro evento
          fisico), la conta dei voti e, alla fine, il risultato definitivo.
          Il voto oggi è stato abolito nella sua fisicità, lo scrutinio è già
          dato prima, nelle proiezioni e il voto stesso anticipato dalle
          intenzioni di voto e dai sondaggi. Che le proiezioni siano erronee
          poco importa, perché importa che il momento elettorale sia un
          complesso scenografico che gira intorno, prima, durante e dopo il voto
          fisico. Le proiezioni sono più importanti del voto fisico e si
          aggiornano come votazioni virtuali sopprimendo il voto reale, fino a
          coincidere con quello alla fine del processo elettorale. Questa
          spettacolarizzazione, pur non decisiva ai fini del depotenziamento
          dell'evento elettorale, contribuisce meglio allo svuotamento
          strategico della politica e delle elezioni. Il vuoto, però, ha un
          altra origine, la fine della fisicità elettorale ha un'altra origine.
          
          Sabato, 9 luglio
          
          Annotazione. [Del declino della politica nella sua espressione
                rappresentativa]. L'origine è strutturale,
          come si sarebbe detto un tempo, o in un'altra parte della struttura
          come si direbbe oggi. Spettacolarizzazione della politica, diminuzione
          della politica, riduzione della politica a teatralizzazione dei
          contenuti dell'economia, crisi degli Stato in genere, degli Stati
          nazionale come caso particolare del genere, sono elementi intersecati
          che ruotano intorno a un volano, percepibile compiutamente solo nei
          paesi capitalisticamente egemoni, che è la mutazione radicale della
          relazione tra lavoro e capitale. Questa mutazione comporta anche uno
          sconvolgimento delle relazioni tra politica e lavoro. Il lavoratore è,
          in gran parte, il modo di darsi alla politica del cittadino; il lavoro
          ha creato comunità; il lavoro palesava il cittadino, donava una
          socialità politica all'individuo. Attraverso il lavoro collettivo
          organizzato dal capitalismo industriale il cittadino si sentiva parte
          del tutto, della società, anzi nasceva, non casualmente, il concetto
          stesso di società,  e reperiva la forza stessa dell'idea
          politica, dell'idea da applicare alla comunità.
          Attraverso il lavoro, l'individuo usciva dalla singolarità della
          famiglia, dell'esistenza, e si proiettava in un'esistenza collettiva;
          spesso, giungeva al quartiere grazie al lavoro e si riconosceva ed era
          riconosciuto in quello attraverso il lavoro: il lavoro organizzato era
          garanzia delle potenzialità educative e sociali dell'individuo sul
          territorio. Tutto questo non è più; sia perché il lavoro ha perduto la
          stabilità necessaria a fornire un'identità extralavorativa,
          un'identità etica, un comportamento e atteggiamenti continuativi, sia
          soprattutto perché la quota del lavoro superfluo è aumentata
          enormemente. Il lavoro non è stabile, permanente e continuativo, nella
          stessa misura in cui non è necessario. Stabilità e necessità erano
          qualità del lavoro che si proiettavano sulla figura del cittadino. Il
          cittadino era stabile, stanziale ed era anche soggetto di diritto. Il
          cittadino era un complesso di diritti stabiliti con certezza: diritti
          stabili e necessari, come il lavoro.
          Esiste una sicura relazione tra il lavoro retribuito con il salario e
          il suddito dato nelle forma del cittadino. Tra il reddito elargito
          dietro la misurazione del tempo di lavoro e il diritto di partecipare
          alla vita politica e di avere rappresentanza, tra democrazia
          rappresentativa e capitalismo industriale, esiste una relazione
          stretta, sebbene la democrazia rappresentativa preceda di un secolo
          l'avvento dell'industria. Il lavoro necessario giustificava la
          accumulazione del tempo di vita estraneo alla produzione, tempo di
          vita tutelato dai diritti politici e civili. Il valore superfluo
          prodotto attraverso il lavoro ritornava all'individuo come reddito e
          come diritti, e parimenti reddito e diritti contribuivano allo
          sviluppo dell'organizzazione del lavoro e dell'economia industriale.
          La democrazia rappresentativa e le ideologie di massa erano analoghe
          all'industria e al mercato quando era governato dalla produzione
          massificata, in una sorta di socialismo del capitale,
          proporzionalmente a come le filosofie politiche elitarie del
          primissimo capitalismo erano analoghe a un mercato in formazione e
          privo di governo esogeno. L'equazione non è più vera.
          
          Giovedì, 14 luglio
          
          Annotazione. [Del declino della politica nella sua
                  espressione rappresentativa]. Per meglio dire: l'equazione è
                  ancora vera ma produce risultati nuovi e tra questi produce il
                  declino della democrazia rappresentativa e il declino della
                  politica e delle relative ideologie politiche. La democrazia
                  rappresentativa è stata sostituita da una democrazia
                  rappresentata, televisivamente e mediaticamente, e
                  soprattutto, perdendo il carattere rappresentativo, ha
                  acquisito (ed è paradosso) componenti plebiscitari, binari,
                  volti a un sì o a un no, spesso verso o contro qualcuno,
                  mancando, nella concretezza, il qualcosa, l'oggetto politico
                  del voto. Contemporaneamente e secondo un processo 'naturale',
                  la forza vincolante di questi plebisciti democratici è molto
                  bassa, quasi nulla.
          
          Venerdì, 22 luglio
          
        Annotazione. [Del declino
                    della politica nella sua espressione rappresentativa].
          La democrazia ha perduto sostanza poiché è mancato il suo materiale da
          costruzione: il cittadino / lavoratore e il lavoro come fonte naturale
          del reddito, come attività che produce una ricchezza riconosciuta
          socialmente e legittimata. I diritti politici e civili sono stati il
          prodotto della necessità del lavoro massificato per lo sviluppo del
          capitalismo, del tempo di lavoro come misura del lavoro in generale,
          di qualsiasi lavoro, come misura della subordinazione generale nel
          lavoro della vita del lavoratore. L'area del diritto, allora, si è
          conformata sul tempo di vita libero dal lavoro, una proiezione
          giuridica di questo, mentre il diritto che riempiva questa zona si è
          costituito sulla necessità di misurare il tempo di lavoro, di trovare
          una misura per il lavoro.
          La misurazione del lavoro è stata la base delle numerose misurazioni
          delle abitudini sociali fino al punto di formalizzarsi in  leggi,
          in un diritto.
          Questa impalcatura sta venendo giù. La spettacolarizzazione della
          politica, allora, proprio per questo crollo, ha iniziato a funzionare,
          a diventare uno spettacolo credibile, perché fedele alla realtà. Lo
          spettacolo della politica rappresenta la realtà, la costituisce certo
          come rappresentazione, ma, paradossalmente, la rappresenta nel senso
          che la riproduce e la registra: le due cose, le due funzioni e le due
          parole finiscono per coincidere. Non è la realtà a piegarsi allo
          spettacolo, ma la realtà stessa richiede di essere spettacolarizzata,
          senza questo non sarebbe nulla di socialmente rilevante.
          In una società dove l'attività umana perde importanza economica e
          dove, però, l'economia è tutto, non solo il potere economico cessa di
          realizzarsi con il lavoro e va verso altri strumenti di realizzazione,
          ma la società stessa perde il contatto, l'aderenza, con ciò che la
          domina; vengono a mancare corrispondenze e analogie.
          La società stessa, dunque, si svuota e quello che avviene tra gli
          uomini, fuori dall'economia, perde peso, fisicità, precisamente come
          il tempo di lavoro perde sostanza. La vita degli uomini, posta ai
          margini della produzione del valore e dell'economia, diventa una
          comparsa della storia, una traccia fuori dal divenire, il componente
          di uno spettacolo.
          Qui, signori miei!, è la base della critica a tutti i valori, a tutti
          i diritti e a qualsiasi etica ed è qui che il percorso dei paesi
          capitalisticamente egemoni si ricongiunge con quello dei paesi che non
          hanno conosciuto la modernità, almeno quella dispiegata e compiuta.
          Qui avviene il piacevole incontro basato sulla fine del lavoro come
          potenza sociale.
          
          Sabato, 23 luglio
          
          Annotazione. [Del
                      declino della politica nella sua espressione
                      rappresentativa].
          La fine del lavoro come potenza e valore sociale non significa la fine
          del lavoro, ma una generale, mondiale, nuova immagine economica e
          nuovo ruolo sociale per il lavoro. Il lavoro da strumento principale
          dell'economia e della produzione, in base al quale costruiva la sua
          socialità, diviene direttamente strumento di socialità; la potenza
          creativa del lavoro biocapitalistico è in gran parte un mezzo di
          controllo, di divisione sociale e di discriminazione. Il lavoro
          continua a giustificare il reddito o l'assenza di reddito e, secondo
          orbite ben determinate, la partecipazione alla creazione dell'essere
          nelle sue forme 'alte' (lavoro cognitivo, intellettuale e
          comunicativo) e 'basse' (lavoro manuale) o la netta esclusione da
          entrambe, giustifica una gradazione nella distribuzione del reddito
          del tutto illegittima secondo il coefficiente della produttività
          capitalistica classica. Ci troviamo di fronte un modello lavorista
          sciolto dai concreti risultati economici del lavoro.
          Non esiste più differenza (fondamentale in tutte le precedenti fasi
          del capitalismo) tra paesi che hanno conosciuto la modernità e quelli
          che non sono stati coinvolti nell'industrializzazione. Sotto il
          profilo delle relazioni con il lavoro si è verificato un incontro, una
          tendenza alla omogeneità, occultata dalle condizioni, dagli scenari e
          dalle tradizioni completamente differenti. Il fatto, però, che oggi si
          possa descrivere lo scenario internazionale anche nei termini di una guerra
            civile mondiale rende giustizia, in forma spettacolare e
          televisiva, a questo dato di fatto, lo testimonia al di là dello
          spettacolo mistificante con il quale la guerra civile viene narrata.
          
         Rivedi luglio
          Inizio anno 
          
          Lunedì, 8 agosto 
          
          Ai margini. Tra Berkeley e Deleuze. Sono passato agli antipodi nelle
          letture, da Che cos'è la Filosofia dove si fa un uso un po' troppo
          disinvolto delle parole, al Trattato sui principi della conoscenza di
          Berkeley dove si opera una critica al linguaggio e al legame tra i
          nomi e le idee che pretendono di rappresentare. In Berkeley, alla
          fine, il nome non rappresenta nulla e la rappesentazione stessa non ha
          diritti, ne ha solo la relazione; le idee stesse sono relazioni tra le
          cose o, meglio, tra le idee particolari. 
          
          Venerdì, 12 agosto 
          
        Ai
                margini. [Un segnalibro tra Berkeley e Deleuze]
          Passare da Berkeley a Deleuze è mettere un segnalibro; dal caos al
          cosmos? Bello ma impossibile traguardo. Dal caos alla finzione di un
          ordine intellettuale? Meno bello ma altrettanto impossibile. Dalla
          finzione del caos alla finzione del cosmos? Più probabile.
          Non credo all'esistenza del caos, parallalelamente non credo
          all'esistenza del cosmos. La velocità applicata al caso è l'orizzonte
          del caos, reso perfettamente visibile nella contemporaneità e con
          naturalezza confondibile con il caos. Cosa è però il caos? Un ordine
          primitivo dal quale liberarsi, delle regole anarchiche primigenie? O,
          tutto il contrario, la conquista ultima della nostra modernità? Tutte
          e due le cose messe insieme, che convivono insieme.
          Caos, che spesso utilizza Deleuze, è un termine troppo generico, anzi
          è il termine generico per antonomasia, scritto quasi apposta per
          essere negato e confutato. Se penso al caos è perché ho un ordine, se
          percepisco e sento il caos è perchè ho un ordine nella mia sensazione
          e percezione.
          Il caos presuppone l'incondizionato, quello che esce, supera e
          travalica la capacità della nostra percezione, il suo ordine, la sua
          condizione; non è affatto necessario che la nostra sensazione e
          percezione rincorra quello che non riesce per sua costituzione a
          raggiungere, che non ha alcun interesse a raggiungere, inoltre. Il dio
          degli scolastici ha la stessa estensione del caos di Deleuze, come
          quello è infinito, non percepibile e concepibile in tutti suoi
          attributi se non come complesso inconcepibile di attributi, che così
          rimangono in una zona morta, per loro stessa concezione, per
          l'immaginazione che li rappresenta e al contempo li ispira.
          Il segnalibro mi dice che, proprio per questo, il caos non esiste e
          con esso non esiste neppure il segnalibro del caos. Il segnalibro mi
          dice, insieme con Berkeley ma anche con Kant, quindi con la filosofia
          della lentezza e della vecchiezza, che il caos non va collocato in una
          dimensione costitutiva dell'essere, che non è proprio necessario
          farlo, e che Deleuze e insieme con lui Guattari, soffrono
          l'adolescenza di una filosofia altrettanto senile. Può darsi anche che
          Deleuze e Guattari non intendessero porre il caos in una dimensione
          costitutiva, ontologica, ma impongono, a tratti, questa esegesi. Il
          caos è, invece, il prodotto della percezione, forse riesce a
          strutturarsi in concetto compiuto (non sono in grado di stabilirlo) ma
          spiega solo il limite della percezione, le forme della percezione
          umana, anche nella sua distensione scientifica e strumentale.
          C'è, in verità, un'ontologia per il caos, ed è un'ontologia storica;
          questo è un momento (o forse, nella storia ci furono anche altri
          momenti) nel quale il caos può diventare un elemento ontologico, una cosa
            materiale, l'epoca in cui la produzione di concetti, affetti,
          passioni e stati emotivi diventa produzione di valore, di prodotti, di
          essere concreto. In questo caso il caos appare come realtà tangibile,
          come potenza reale, come potenza espressa sulla realtà, come
          espressione di una metafisica che innerva la fisica, le leggi
          scientifiche e le governa.
          Questo dipende dal fatto che concetti, affetti, stati d'animo,
          emozioni e passioni, poiché sono divenuti valori, assumono un aspetto
          diverso e una natura diversa, vengono percepiti e sentiti in modo
          diverso. Sono, infatti, prodotti in funzione di una particolare
          operatività mediata, che ama presentarsi come operatività generale,
          universale, immediata e naturale, operatività emotiva par
            excellence. In secondo luogo sono prodotti in quantità
          industriali, letteralmente in fabbrica, secondo una produzione di
          serie. Il mondo delle idee e degli affetti è diventato una fabbrica.
          Non basta, però, questo a spiegare il caos, cioé il mondo delle idee
          che diventa fabbrica e suo mercato. Non si produce solo velocemente,
          ma, secondo la tradizione del capitalismo industriale, si vende il
          prodotto. Nel piazzamento di un prodotto ideale ed emotivo è
          fondamentale, come per qualsiasi merce, che esso abbia un valore
          d'uso; nel caso del prodotto virtuale il valore d'uso è determinato
          esclusivamente dalla  adeguatezza del prodotto al contesto
          culturale e sociale; il contesto culturale e sociale è, in realtà, il
          valore d'uso primigenio di ogni prodotto virtuale. Il valore d'uso
          nasce dalla sua capacità di combinarsi con altri valori d'uso che non
          cooperano con quello (come per il caso dei valori d'uso tradizionale e
          materiali) ma si fondano insieme con esso; i valori d'uso ideali si
          fondano reciprocamente. 
          La dialettica marxista è abbattuta: il valore d'uso,  era per
          quella il valore primigenio, che fondava lo scambio e le sue
          combinazioni, e dopo di questo diveniva valore di scambio e merce. Il
          valore d'uso aveva il ruolo dell'ontologia, del noumeno in
          Kant, della verità delle cose e nelle cose, forse era anche
          considerato come un valore naturale, connaturato alla nostra specie,
          il vero modo dell'uomo di pensare il valore delle cose e le cose; il
          valore di scambio, invece, era il fenomeno, l'apparenza
          sociale, la concretezza delle cose ma non la realtà e verità di
          quelle. Il biocapitalismo ha semplificato la filosofia: noumeno e
          fenomeno coincidono. La distinzione tra ciò che percepiamo e ciò che
          pensiamo di una cosa che Kant usa, tra pensiero scientifico e pensiero
          filosofico, è probabilmente inconsistente fin dall'origine e Kant ha
          descritto un'inconsistenza valida sempre, ma oggi questa inconsistenza
          si rivela al mondo, coinvolgendo la filosofia, e si realizza nel
          mondo, coinvolgendo il pensiero scientifico. 
          Se Aristotele rinascesse oggi e cercasse di riprendere la sua
          impostazione filosofica in questo mondo, concluderebbe disorientato
          che il motore immobile esiste e si muove con evidenza in questo mondo
          e che per muoversi deve essere immobile. 
          
          Venerdì, 19 agosto
          
        Ai margini. Trattato sui principi della conoscenza di Berkeley.
        [Segnalibro: Berkeley e Spinoza]Lo strano deus sive natura di
        Berkeley è un piano dell'immanenza che tocca in molte parti, per me
        insospettabilmente, quello di Spinoza. La natura, per Berkeley, non ha
        statuto ontologico, al contrario che per Spinoza, ma è ontologia divina.
        I due piani, (quello di Spinoza e quello di Berkeley) che sono
        apparentemente antitetici, sono in realtà prossimi.
        Questo accade perché tanto Spinoza quanto Berkeley pongono la natura
        quasi interamente come un complesso di leggi e di regole scientifiche,
        di regolarità empirica. Per Spinoza, però, quel complesso di leggi e
        regole, la realtà empirica, è la natura in sè, che è concretamente Dio o
        parte costituente di Dio; per Berkeley, invece, la natura è espressione,
        azione e volizione dello spirito divino e se sia anche una componente
        ontologica dell'essere divino è questione non determinabile. La natura è
        spirito divino, ma lo spirito non è concepito da Berkeley come
        un'energia vivificante, una forza che innerva la natura e le sta al di
        fuori ma, e qui nuovamente in maniera insospettabile si avvicina a
        Spinoza, lo spirito divino è l'oggetto di percezione comune e collettivo
        tra gli spiriti, tra le intelligenze. La natura è una sorta di comunità
        delle intelligenze, di territorio condiviso tra quelle. La natura è
        dunque Dio in quanto oggetto di una percezione che si fonda sul commercio
          degli spiriti e delle intelligenze del quale è Dio l'artefice.
        Dio è un'intelligenza e percezione collettiva.
        Dio è, anche per Berkeley, natura, ma non perchè, come in Spinoza
        invece, entra nella natura con le sue leggi, materializzandosi, ma
        perché Dio crea o è un'assonanza logica di carattere generale che
        chiamiamo natura o materia. Certamente, alla fine, Dio rimane estraneo
        alla natura e alla materia ma la conoscibilità della natura e della
        materia è prova dell'esistenza dello spirito comune, cioè di Dio.
        La materia è, insomma, un fatto mentale sia sotto il punto di vista
        divino che umano: esiste una natura soggettiva per Dio, natura
        soggettiva di Dio, che assume per gli uomini un valore generale e
        oggettivo, ed esiste una natura soggettiva per l'uomo che rimane
        subordinata e imperfetta perché legata al commercio degli spiriti e
        delle intelligenze organizzato da Dio. Qui nuovamente Spinoza e Berkeley
        tornano a far coincidere un tratto importante del loro perimetro
        intellettuale.
        La dissoluzione della differente costituzione ontologica, differenza
        stabilita da Cartesio, tra il piano dell'ideale, del percettivo e del
        sensibile (la res cogitans cartesiana) e il piano delle 'cose'
        (la res extensa) assomiglia e per lunghi tratti coincide con
        la centralità del percipere / percipi dell'ontologia empirista
        di Berkeley e con il deus sive natura di Spinoza. Entrambi
        proiettano il pensiero filosofico verso un orizzonte concettuale secondo
        il quale esiste una stretta associazione tra le 'cose' e il pensiero,
        tra pensante e pensato. Il pensato è prioritario in Spinoza, ma rimane
        pensato, non cosa in sè fuori dal pensato, ed è da questa caratteristica
        che scaturisce la forza conoscitiva della natura e della materia; il
        pensante è, al contrario, prioritario in Berkeley che, però, riabilita
        il pensato, l'idea passiva e inerte, la 'cosa', la 'materia' attraverso
        quell'intelligenza collettiva e comune.
        
        Sabato, 20 agosto
        
        Annotazione. [L'esclusività dell'islam] Il fondamentalismo è ed è stato
        un modo di essere molto importante dell'islam. Il mondo ideale
        mussulmano, molto più di quello cristiano, ha faticato a metabolizzare
        le preesistenze religiose e a includerle. Lo stesso fatto che Dio, nel
        corano, sia una lingua e una lingua precisa, precisazione che non ha
        equivalenti nei vangeli e solo dei precedenti nell'ebraismo, non ha
        favorito una mentalità inclusiva. Dio parla l'arabo nel corano, mentre
        nel vangelo è stato aramaico, greco, latino, copto ecc. ecc. L'islam è
        stato esclusivo.
        L'attuale nuovo fondamentalismo cade su questo milieu e la
        cosa è inevitabile perchè ognuno cade sulla sua cultura o più
        precisamente sulle linee forze e strutturali di quella, ma il nuovo
        fondamentalismo non è, come potrebbe essere comodamente inteso, un
        rifiuto radicale e insensato della modernità; l'islam nuovo -
        fondamentalista è una risposta attualissima alla modernità ed è parte
        integrante delle forme del post moderno.
        Del post moderno ha assunto in maniera abbastanza naturale molti
        aspetti, riprendendo elementi dell'islam originario: il rifiuto
        dell'idea nazionale, la totalizzazione della vita privata nella vita
        politica, l'abbandono o l'ignoranza dell'etica del lavoro, la dimensione
        pubblicitaria della comunicazione sociale e l'amore e l'interesse per la
        tecnologia presi e usati come surrogati dello sviluppo sociale e
        sostituto dell'evoluzione etica. L'islam nuovo - fondamentalista non è
        il medioevo che ritorna, ma il medioevo che si progetta nel futuro e con
        il futuro.
        Gioco comodo imputare alla predicazione di Maometto e al Corano i
        caratteri dell'attuale nuovo - fondamentalismo, comodo perché vero in
        superficie. L'esclusivismo è un attributo basilare dell'islam. Le
        società islamiche non si sono mai ridotte a questo, però, e
        l'esclusivismo diventa, invece, valore totalizzante nel nuovo -
        fondamentalismo che fa riferimento a un innegabile milieu ma
        che diventa imprescindibile, sempre presente e quindi appunto
        totalizzante.
        Il problema dell'islam di fronte all'inclusione di altre tradizioni
        nella sua, problema genetico, diventa esplosivo di fronte al superamento
        della modernità. La modernità, fortemente criticata, era però oggetto di
        una dialettica possibile: pensiamo alla rivoluzione iraniana il cui
        sviluppo è avvenuto a imitazione di quello delle rivoluzioni politiche
        europee; i rivoluzionari iraniani e i giacobini francesi furono
        accomunati dal medesimo impegno strategico e dalla stessa analisi e
        inquadramento della tattica, muovendosi politicamente allo stesso modo.
        La crisi della modernità ha comportato anche la crisi del modello
        rivoluzionario moderno (inglese, americano, francese e russo) che
        provoca delle ricadute generali su modelli pre moderni nella gestione /
        risoluzione e immaginazione dei conflitti. In realtà il nuovo
        radicalismo islamico non è che uno degli aspetti della crisi della
        teoria e della pratica rivoluzionaria in generale.
        L'islam non è affatto impermeabile alla crisi della politica, della
        sovranità espressa su base nazionale e rappresentativa e dei fondamenti
        dei diritti civili e politici; onestamente è estremamente suscettibile a
        questo genere di impulsi e li sta trasmettendo in maniera diretta e in
        soluzione chimicamente pura. Il nuovo - fondamentalismo islamico è una
        rappresentazione diretta, in forma di ripresa medioevale, della
        contemporaneità.
        
        Domenica, 22 agosto
        
        Annotazione. [La forma dell'immanenza nella contemporaneità] La
        totalizzazione, con questo termine intendo l'acquisizione di un elemento
        unificante in base al quale e dentro il quale tutte le parti di un
        processo assumono un senso, è un fatto della contemporaneità. Sembra un
        paradosso pensare questo per un'epoca che mette in discussione ogni telos
        indifferentemente fondato sulla trascendenza o sull'immanenza. Abbiamo
        di fronte un'unità / totalità priva di telos, di fine,
        un'unità che non si muove o che esprime un movimento solo apparente;
        questo dipende dal fatto che il movimento si svolge dentro l'unità data
        e questa unità è indiscutibile e presupposta: metterla in discussione
        assomiglierebbe a mettere in discussione l'esistenza del mondo,
        assomiglierebbe a un non - senso, a un pensiero assurdo. L'immanenza è
        il dato di partenza di questa unità storica e questa unità storica ha
        sconvolto ampiamento il concetto di immanenza; l'immanenza è diventata
        un senso e significato immobile che spiega sè stesso. L'immanenza è il
        materialismo immobile, indiscutibile, concreto: il concreto e il
        materialismo sono diventati trascendenza: l'immanenza è diventata
        trascendenza e la trascendenza non è più un particolare modo di spiegare
        l'immanenza, ma è uno dei volti di questa nuova immanenza.
        Il materialismo divinizza la materia, ne fa un ente astratto, il
        riferimento assoluto per l'etica. La materia assume l'aspetto di Dio.
        Dalle leggi della materia dipendono tutte le altre leggi e la materia è
        sempre stata così, percepibile, sensibile e conoscibile in questa
          maniera come materia, come corpo, anche quando è virtuale è
        materia virtuale, conseguentemente le sue leggi sono da intendersi come
        eterne e di validità infinita ed eterna.
        Il fondamentalismo materialista istituisce così una nuova materia,
        una materia ontologica che dimentica, volutamente, la percezione della
        materia, al di fuori delle leggi che attribuisce alla materia.
        Il nuovo Dio non è il danaro, come nella vulgata critica dell'attualità,
        il danaro è la disciplina nella quale si sistemano le leggi materiali,
        le leggi della nuova trascendenza priva di telos, di senso e
        di movimento. 
        Il conflitto attuale non è tra un dualismo e un monismo ontologico;
        l'oggetto del conflitto è nella percezione della realtà materiale, tra
        chi ritiene la materia spiegata e chi non, tra chi ritiene impossibile
        un movimento, se non apparente (intendo il movimento delle borse, il
        capitalismo finanziario), poichè sempre svolto dentro le medesime leggi,
        e chi ritiene possibile un movimento reale, che interviene sulle leggi
        della materia, trasfigurandola e cioè liberandola dalla sua attuale
        figura apparente o dalla sua attuale concretezza.
        Non può esserci, ormai, altro conflitto, non può essere altrimenti; in
        questa fase della storia, l'immanente, che pretende ed è orgoglioso
        della sua immanenza, per governarsi, per darsi delle leggi, si dota
        della strumentazione del trascendente. La storia contemporanea si volge
        solo al passato, quando pensa a sè stessa, e il presente diventa lo
        scenario del già accaduto e quindi dell'irrimediabile. In verità nella
        storia, neppure in quella cristalizzata negli studi storici, esiste
        l'irrimediabile e il già accaduto; persino un fatto del passato, che ha
        comportato fatti e conseguenze nel presente, può considerarsi
        archiviato, chiuso e definito. Un evento può essere rivisitato,
        cambiato, ricombinato con altri eventi, ridefinito come evento esso
        stesso, diventare parte di eventi ai quali non era associato o parte
        principale di altri eventi quando era parte secondaria e viceversa; un
        evento storico è un salmone che si mette a risalire e scendere la
        corrente. Questo non dovrebbe essere solo il compito dello storico ma
        soprattutto quello del politico e ancora di più del filosofo, perchè uno
        storico, quando è veramente uno storico, è anche un politico e un
        filosofo, come un politico, quando riuscisse a essere di nuovo un vero
        politico, sarebbe inevitabilmente anche storico e filosofo e infine come
        un filosofo, quando si occupa dell'immanenza con serietà, deve
          essere anche politico e storico.
        
        Rivedi agosto
          Inizio anno 
          
          Sabato, 3 settembre
          
          Ai margini larghi di Che cosa è la Filosofia di Deleuze e Guattari.
          Brevemente. [Terminologie in bozza].Il concetto di realtà rappresenta
          quello che la consistenza del reale non realizza in maniera
          immediatamente empirica, mentre quello di concretezza fa il contrario.
          Il reale comprende il concreto, ma il concreto comprende solo una
          parte del reale. Reale e concreto sono due aggettivi che si
          riferiscono all'immanenza, entrambi, ma concreto, seppur meno esteso e
          compreso in quello di reale, pretende di essere la parte
            significativa e autenticamente esistente dell'immanenza.
          Concreto è il valore di scambio che diventa valore d'uso nella merce,
          reale il valore d'uso che diviene valore di scambio per poi
          ridefinirsi valore d'uso nella merce.
          Percepibile è quello che viene percepito quando non lascia una traccia
          di sè o lascia una traccia breve, sensibile è quello che viene
          percepito quando lascia una traccia di sè, una traccia duratura, una
          sensazione che viene concettualizzata. Pensabile è il risultato di
          questa prima concettualizzazione, intuibile e quello che commisura il
          percepibile e il sensibile senza tenere conto della consistenza delle
          loro traccie, come se fossero equivalenti e soggetti di
          concettualizzazione.
          Inteso (intendibile) è una concettualizzazione associabile a
          una parola, l'intendimento è il motore della convenzione filosofica
          perchè lavora all'associazione dei segni mentali con i segni verbali o
          grafici e quindi all'edificazione di un segno comune e collettivo.
          
          Mercoledì, 7 settembre 
          
          Annotazione. [o la borsa o la vita] La nostra vita è come se avesse
          una sola borsa e quella sola. Ha poca importanza che sia bella o
          brutta, solida o fragile, ben rifinita o grezza; quello che importa
          veramente è di caricarla per quello che può contenere, in modo tale
          che possa fino alla fine fare il suo lavoro di borsa; e quello che
          importa è che si sia sempre ben consapevoli del fatto che proprio
          perchè è una borsa, prima o poi, sarà necessario ritoccarla,
          rinforzare le cuciture, allargare le tasche, e che, alla fine, si
          romperà del tutto. Il suo ingombro, apparentemente inerte, però
          rimarrà in mezzo a quello di tutte le altre borse, ancora integre,
          ancora attive; ruberà a quelle ancora dello spazio e senza quel furto
          e senza tutti quei furti, nessuna delle borse saprebbe precisamente
          quale è il suo spazio e non si muoverebbe, ma rimarrebbe ferma,
          sospesa fuori dallo spazio, senza un luogo.
        
          Giovedì, 8 settembre 
          
          Annotazione. [o la borsa o la vita] Rimarranno le tracce delle
          cuciture e dei suoi rinforzi sopra le borse che le sono passate
          vicino. E scrivo passate e non 'state', perché le borse di questo tipo
          non sono mai ferme, anche se si credono, molto di frequente, ferme.
          Quando cessano il loro uso, anche lì, ormai prive di contenuto,
          continuano a muoversi e dunque ad averlo; vengono scontrate dalle
          altre, rimangono indietro, dimenticate, poi, agganciate su una
          cucitura, progrediscono un po', quasi fino alla prima fila e poi
          rimangono ancora indietro rispetto alla corrente generale.
          Il verso di questa corrente non è qualcosa, una forza o un'energia,
          che sta al di sopra delle borse, qualcosa di visibile e di
          quantificabile e neppure di misurabile, il verso di questa corrente è
          un movimento senza direzione: il movimento è determinato dalla
          creazione di nuove borse, di altri contenitori, dall'estensione del
          materiale e, soprattutto, dalla presenza del vecchio materiale, in
          disuso, ma ancora operativo agli effetti del movimento generale, della
          stessa tipologia delle borse. Le borse non sarebbero quelle borse e il
          movimento non sarebbe quel movimento se non esistessero le borse vuote
          e prive di contenuto, ma, alla fine, il contenuto non sarebbe
          contenuto senza le borse che non lo contengono, che sono vuote. Viene
          fuori qualcosa che assomiglia a un movimento quasi immobile e a un
          contenuto quasi vuoto, a un peso quasi privo di peso. 
          
          Martedì, 13 settembre
          
          Annotazione. [L'Islam incluso] Esiste un motore generale, rispetto al
          quale il radicalismo islamico contemporaneo è un dispositivo
          particolare. Basta scorrere la biografia dei terroristi islamici delle
          banlieu tanto quanto quelle dei serial killer anglosassoni
          degli ultimi due secoli. Assolvere l'islam? No di certo: è un
          dispositivo particolare che si presta, in questa specifica fase
          storica, con naturalezza al movimento di quello generale. Il
          movimento, però, è altrove, è fuori dall'islam, un po' meno fuori
          dalle periferie, ma in gran parte estraneo anche a quelle. Spiegarci
          il movimento generale, l'imbarbarimento delle relazioni, la fine dei
          concetti di pace e guerra, la devalorizzazione dei diritti, della vita
          e dell'esperienza umani, è rovesciare la verità delle cose (dura
          parlare di verità e anche solo pensarla, ma è una durezza più che mai
          necessaria). Certo si preferisce morire e combattere per una causa
          esatta, precisa e ben definita, come si preferisce morire piuttosto
          che rimanere in un continuo e reiterato dubium vitae. Il dubium
            vitae è la somma della nuova barbarie, e della nuova pace
          bellica; è il sentimento razionalmente ispirato che prevale. La fonte
          del motore generale conosce bene queste cose, ha studiato con
          accuratezza l'uomo per millenni e ha accumulato conoscenze allo scopo
          di dominarne la vita con una sempre più elevata precisione
          scientifica. Quest'ascesa della scientificità del dominio ha avuto il
          moto di una sinusoide e quindi a progressi si sono intervallati
          regressi, ma la retta intorno alla quale la sinusoide disegna le sue
          onde è inclinata.
          
          Mercoledì, 14 settembre
          
          Annotazione. [il DNA double face] È  arrivato il punto
          della più radicale delle antinomie nella storia dell'umanità: quella
          posta tra la sopravvivenza del sistema economico e la sopravvivenza
          della nostra specie, intendendo per nostra specie quella specie di
          animali che ha acquisito assoluta centralità negli ultimi diecimila
          anni nella vita sul pianeta.
          Qualche animalista e qualche ecologista estremo gioirebbero e forse,
          se consapevoli, gioiscono a quesra prospettiva. Questa potenziale
          gioia, gioia paradossale perché è una gioia che si suicida, non deve
          affatto stupire: animalismo, ecologismo, quando  intendono sè
          medesimi  come discipline astratte, come morali, come istinti
          puri, sono i prodotti, tra i numerosissimi, dell'antinomia e,
          inconsapevolmente spesso, i migliori rappresentanti
          dell'intellettualità spicciola e banalizzante, anche se raffinata
          scientificamente, proprio del sistema economico. Ecologismo e
          animalismo, lungi dall'incentivare una praticabile difesa dei
          paradigmi ambientalisti, finiscono per partecipare alla grande
          corrente della devalorizzazione della vita umana, cioè della vita di
          una specie animale che, come ogni altra specie, lavora nella
          natura e la trasforma secondo i suoi strumenti e secondo le sue
          capacità. Non c'è specie vivente che rispetti l'ambiente: non c'è
          specie vivente che conosca ambiente e rispetto come valori astratti,
          assoluti e sciolti dalla natura, cioè dal lavoro necessario e
          indispensabile sulla natura che la vita compie.
          Se scrivo di sistema economico e non di 'questo' sistema economico, lo
          faccio perché  il mondo dell'economia ha acquisito una dimensione
          assoluta e assolutizzante; il sistema economico è un secondo e
          intoccabile sistema naturale, sistema ecologico. C'era un gruppo rock,
          negli anni ottanta, americano, che aveva scelto di chiamarsi DNA, nel
          segno dell'elemento primordiale, arcaico che viene conosciuto dal suo
          stesso prodotto, nel segno dell'inizio e della fine, nel segno della
          causa e del suo effetto che, in quanto effetto, conosce la sua stessa
          causa e giunge, alla fine, all'annullamento di causa ed effetto
          insieme, come fatti separati e, dunque, anche della storia come
          sequenza causale. Alla stessa maniera l'intera storia dell'umanità può
          essere interpretata  attraverso quest'ultimo sviluppo, finale e
          necessario a questo punto e sotto questo punto di vista,  che
          porta alla scomparsa dell'uomo, in quanto elemento anti - economico,
          l'uomo come costo, detto da colui che ha costruito il concetto di
          costo.
          Anche l'ideazione delle macchine, il lavoro umano per eccellenza,
          quello che contraddistingue l'uomo come animale tra gli altri animali,
          può essere affidata ad altre macchine e tecnica e sistema economico
          hanno contratto un matrimonio necessariamente inscindibile, perchè
          grazie alla tecnica il sistema economico si libera della variabile
          umana nella produzione e si assolutizza, realizzando l'assoluto nella
          storia. L'elemento indispensabile, il vero detentore del patrimonio,
          non è la tecnica ma l'economia, l'economia è la tecnica, si immerge in
          quella.
          Il sistema economico ha bisogno dello sviluppo della tecnica per
          generare i suoi orizzonti di sviluppo, e le leggi della tecnica si
          confondono con quelle dell'economia. La tecnica genera lo sviluppo, ma
          non può generare l'ambiente adatto alla riproduzione dell'economia.
          Lì, nello scambio dei beni e dei prodotti la tecnica non c'è, nella
          domanda, nel consumo, la tecnica non c'è. Far lavorare la tecnica nel
          campo della domanda trasformerebbe il sistema economico in un sistema
          ludico, integralmente ludico; già oggi è su questa via, quando buona
          parte della gestione della domanda assume componenti ludiche, ma alla
          fine di questa strada è un sistema ludico a tutto tondo.
          Le robuste anticipazioni di questa trasformazione esistono già: la
          preminenza nella progettazione economica e nella fenomenologia
          economica dell'antico gioco in borsa, che proprio perdendo
          l'aspetto 'giocoso', l'azzardo e il rischio è diventato indice
          (fenomenologia), progetto (investimento) e centro dell'economia. Le
          regole di questo sistema non sono quelle dell'economia, ma si
          esprimono tutte in forma economica. Pensiamo alla relazione tra il
          gioco degli scacchi e la forma della guerra per definire il rapporto.
          Alla base del valore economico non il tempo di lavoro, o la rendita
          agricola e naturale, come in ogni società precedente, cioé un surplus
          estratto in diverse forme e attraverso diversi agenti alla natura, ma
          un valore che è indipendente dalla natura e dal pianeta, che sta sopra
          all'economia e che fa dell'economia la nuova forma della legge
          universale e naturale. Ma la legge non è economica, la legge è
            naturale, nel senso che crea una nuova natura e una nuova
          ecologia di valori. La forma economica è la sua forma razionale, il
          modo di darsi in maniera intellegibile, precisamente come negli
          scacchi i pezzi servono per lo sviluppo del gioco e per visualizzare
          le regole, ma le regole sono al di fuori della scacchiera. 
          L'economia, e sembrava già rivoluzione nella tarda modernità,
          nell'epoca neokeynesiama e poi neoliberista, ha negato ogni autonomia
          alla politica, ma l'economia rinnega la sua nuova indipendenza, perchè
          non può vivere in autonomia. 
          
          Venerdì, 16 settembre
          
          Annotazione. L'economia ha bisogno di farsi politica, senza ammettere
          l'autonomia del politico e cioè di quello che è diventata; la politica
          deve essere autonoma fino a quando è un travalicamento che l'economia
          compie su sè stessa, un movimento critico interno all'economia. È
          qualcosa di simile a quello che Deleuze e Guattarì scrivono sulla
          relazione tra vita e arte: l'arte forma delle sensazioni sulla vita,
          le rende sensibili alla vita stessa. Nella contemporaneità (ma già
          dagli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti,
          oggi è diventato fenomeno globale) la politica non inventa l'economia,
          precisamente come l'arte non lo fa con la vita, ma forma alcuni
          elementi del flusso economico affinchè divengano significativi oltre
          l'economia, fermi oltre l'economia, cristalli e sedimenti, e
          sensazioni permanenti per gli uomini, sensazioni, quindi, politiche.
          La politica è immagine dell'economia, ma la scienza economica ha
          bisogno di presentarsi come scienza politica, anche perchè lo è concretamente.
          
          
          Sabato, 24 settembre
          
          Annotazione. Concreto termine interessante. La concretezza
          del realismo cinico, la concretezza del dominio e della necessità.
          Concreto viene dal latino cumcrescere, crescere insieme -
          addensarsi. La concretezza, secondo questa etimologia, rimanda a uno
          stato e a una situazione dinamici, mai stabiliti. Nelle traduzioni del
          termine dai testi di Marx, concreto è usato in questa sua
          ambivalenza: un aspetto della realtà di fatto, la 'concreta realtà',
          appunto, che tende a eternizzarsi e a produrre come conseguenza
          rassegnazione e cinismo; sentimenti concreti o meglio i sentimenti
          degli individui concreti. In questa valenza il concreto perde il
          movimento, perde il fatto di essere un risultato, un prodotto, e
          diviene un elemento ontologico, autofondante. 
          In Marx, invece, concreto è anche un elemento soggettivo, che proviene
          dalla soggettività, è un aggettivo generato dalla soggettività
          politica e sociale; concreto è il prodotto dell'interpretazione
          dominante della realtà, ma può anche esistere un'altra concretezza,
          un'altra maniera di legare insieme e di addensare il sistema
          produttivo e sociale, liberandolo dall'attuale concretezza.
          È il concreto del realismo rivoluzionario.
          Nel cinismo, invece, l'aspetto dell'assodato, addensato e dimostrato è
          egemone; la concretezza della visione cinica si fonda sulla
          cristallizzazione ed eternizzazione dello stato di cose presenti; nel
          cinico lo stato di cose, diventa lo stato delle cose. Anche
          il cinico immagina, ovviamente, un movimento storico e un'evoluzione,
          ma come parte di uno stato eternizzato, come parte apparente e
          secondaria, accessoria, dello stato di cose: la parte fondamentale ed
          essenziale dello stato di cose presenti è l'eternità. Nel pensiero
          rivoluzionario l'aspetto dell'addensabile, assodabile e dimostrabile è
          la concretezza: la concretezza si deve ancora fare.
          Il marxismo ha dimenticato questo aspetto della concretezza in Marx e
          insieme con quello quasi tutto il pensiero rivoluzionario, che, nel
          bene o nel male, volontariamente o involontariamente, al marxismo ha
          fatto riferimento. Il marxismo nelle mani dei marxisti è diventata una
          scienza economica e una dottrina politica, è diventato concreto, ma
          non nell'accezione di Marx, ma in quella cinica. 
          
          Domenica, 25 settembre 
            
          Annotazione. [Il biocapitalismo è un dio che incombe da un
          passato mai conosciuto] L'idea che il capitalismo contemporaneo
          comporti una internalizzazione delle strutture del potere è diffusa.
          Questa idea è troppo semplice: stabilisce una relazione lineare tra il
          potere economico e quello politico che, nella storia, non si è mai
          verificata. È certo che il capitalismo globalizzato richiede una
          deterritorializzazione delle istituzioni politiche e dei relativi
          processi; questa innegabile e necessaria deterritorializzazione non
          deve obbligatoriamente assumere l'aspetto dell'internazionalizzazione.
          Il declino dell'ONU e il persistere del senso nell'esistenza degli
          Stati nazionali fa parte di un meccanismo tutt'altro che semplice, ma
          anzi complicato. Alcuni Stati nazionali stanno acquisendo un nuovo
          senso, una nuova ragione proprio all'interno delle politiche
          biocapitalistiche, altri le subiscono, scambiandole e percependole
          esclusivamente come politiche globalizzanti e internazionalizzanti,
          come politiche che tendono alla soppressione della sovranità popolare
          espressa su base nazionale.
          In verità il meccanismo globalizzante non è riassumibile in una
          egemonia semplice dello Stato nazionale statunitense, egemonia
          riconducubile alla sua capacità di interpretare le esigenze del
          capitalismo multinazionale e delle grandi corporations,
          poichè lo Stato nazionale statunitense, in quanto potenza nazionale
          tradizionalmente determinata, è anch'esso in declino, nè nel declino
          delle tradizionali istituzioni internazionali, nè nell'emergere in
          forma compiuta della potenza nazionale cinese, sull'assetto del
          capitale multinazionale a maggioranza cinese, e neppure
          sull'insospettata resistenza dello Stato russo.
          Il nuovo potere economico, come in biochimica le vitamine, ha bisogno
          di enzimi per metabolizzarsi e la sorgente metabolica è quella
          esercitata dalla storia degli Stati; il biocapitalismo non può fare a
          mano degli Stati anche se, in ultima tendenza, ne proporrebbe
          l'abolizione. Gli Stati, però, sono dei trasmettitori locali del senso
          dello sviluppo economico, dalle compatibilità finanziarie e della
          gestione generale delle risorse umane. Molti Stati nazionali
          cambieranno natura, altri si frantumeranno sotto il movimento
          sotterraneo ma potentissimo di deterritorializzazione e
          riterritorializzazione dei flussi economici, come è sempre stato,
          inoltre, nel capitalismo e dall'epoca moderna. Anche il capitalismo
          nazionale, basato sulle singole borghesie, ha creato naturalmente gli
          Stati nazione, ma per formarli ne ha distrutti molti altri e
          potenziali. Lo Stato nazionale come espressione chimicamente pura
          della sovranità in epoca moderna è una teoria comoda, ma non del tutto
          giusta e adeguata.
          La novità oggettiva è che i flussi economici sono diventati sistemi di
          segni telematici e di comunicazione automatizzata, per loro stessa
          natura delocalizzati e delocalizzanti e sono davvero, si verificano
          davvero, in maniera sincronica in ogni luogo e ogni luogo possiede lo
          stesso tempo, ogni luogo è simultaneo a ogni altro luogo.
          E in questo punto si interseca il problema del trionfo, altrettanto
          oggettivo, del lavoro morto (intellettuale e 'manuale') sul lavoro
          vivo.
          Due elementi davvero inedite, dunque, conformano questa fase storica,
          accompagnadosi: la progressiva obsolescenza, inadeguatezza e
          inattualità dell'interveno umano nella produzione dell'essere e la
          presenza, secondo tecnologie che permettono la simultaneità, del
          medesimo sistema economico in tutto il pianeta. Il peso del fattore
          umano in economia si polarizza sul consumo delle risorse e dei
          prodotti, sul consumo dell'essere, e si riduce il campo della
          produzione, della progettazione, dell'ideazione e della creatività,
          mentre questa polarizzazione erode ogni limite geografico e si propone
          ovunque, seguendo procedure uniformi, procedure tecniche, simultanee
          per loro natura. Dentro le eredità geo - politiche, dentro cioè la
          trama degli Stati nazionali e delle loro gerarchie costruite e
          stabilite su scala planetaria e in maniera univoca e simultanea
          (quindi davvero globale), le popolazioni che non hanno conosciuto la
          povertà del mondo moderno, la povertà industriale, sono proiettate
          nella povertà post - industriale, passando da un mondo basato su
          relazioni sociali circoscritte localmente e su la produzione
          artigianale, governata dall'esigenza dell'autoconsumo. Queste
          popolazioni sono inserite in un mondo basato su relazioni non -
          circoscritte e sul lavoro salariato e astratto senza che il lavoro
          salariato sia possibile, ma rimane come un presupposto intangibile,
          assoluto, posto al di fuori delle cose, una potenza storica
          ingovernabile, ignota e terribile come un dio che incombe da un
          passato mai vissuto.
          Il mondo  che ha conosciuto il lavoro salariato come forma
          egemone del valore del lavoro e relazioni sociali allargate, rischia
          di dover combattere per conservare livelli di povertà almeno
          industriali contro il resto del mondo, che non l'ha conosciuto. Il
          passato, però, in maniera diversa, incombe anche contro il mondo
          svezzato nella modernità e nell'industrialesimo: modernità e
          industrialesimo sono state solo particolari stati dell'economia
          assoluta, sono sempre stati limite e crisi, modelli negativi da
          oltrepassare.
          La guerra civile mondiale non è uno scenario prefigurabile, è già una
          realtà di fatto, e gli Stati nazionali funzioneranno come strumenti,
          punti di riferimento, ma non protagonisti, (non protagonisti in quanto
          Stati - nazione, espressione di una volontà nazionale, ma protagonisti
          in quanto strumenti nazionali), di questo scenario. Per tenere dietro
          a questi nuovi orizzonti, per essere funzionali in questi nuovi
          confini e compiti, sono costretti ad abdicare alla loro natura, ad
          acquisire un nuovo senso per perpetrare e amministrare la guerra tra
          poveri che si delinea. Esempio lineare è la politica del governo
          italiano dal 2011 in poi, che ha ottenuto finanziamenti dal resto
          della comunità europea per il ruolo di portale dell'emigrazione nord /
          sud dell'emisfero occidentale: uno Stato nazionale realizza progetti
          internazionali, in quanto Stato nazionale. Esempi simili in questo
          campo li offrono la Grecia, la Turchia e la Bulgaria.
          
          [Nuovi orizzonti] L'orizzonte è oggettivamente barbarico e arcaico, lo
          sviluppo economico contemporaneo porta con sè, in tutta naturalezza,
          la logica secondo la quale il capitale per vincere la resistenza del
          lavoro lo elimina e le risorse umane, le popolazioni, perdono valore
          in quanto forze produttive ma concentrano il loro valore in quanto
          consumatori, in quanto fisicità slegate dal lavoro, in quanto soggetti
          non produttivi. Questo assunto in una società economica che fa della
          produzione valore fondante è paradossale, è antinomia all'ennesima
          potenza, contraddizione allo stato puro. Siamo orfani di un padre che
          ci sopravvive, di un passato che ci ignora, proiettandosi sul futuro
          con il quale non possiamo avere dimestichezza, nonostante dovremmo
          averne, perchè, in verità, ha tutti i valori del nostro passato.
          L'eliminazione del lavoro non è stata una deliberata scelta del
          capitalismo, però, è stato il lavoro stesso, sono stati gli uomini
          stessi a porre le basi per la distruzione del lavoro. La distruzione
          del lavoro è stata critica radicale al lavoro, negli anni sessanta e
          settanta, ma anche costituzione di nuove forme di lavoro creativo,
          ideativo e comunicativo. Questa lotta al lavoro comandato ha
          comportato anche l'idea, importantissima, che la fruizione dei diritti
          fondamentali dovesse essere slegata, concretamente slegata, dalla
          partecipazione alla produzione. L'estensione dell'ambito di
          applicazione e di generazione dei diritti politici, umani e sociali è
          stato il naturale portato di questa critica al lavoro della seconda
          metà del novecento: il diritto al lavoro è stato sostituito dal
          diritto alla vita al di fuori del lavoro. Questa nuova teoria dei
          diritti ha lasciato dietro di sè un basamento di idee, relazioni,
          sentimenti e di etiche importantissime. Non vada scambiato con
          un'argomentazione consolatoria: è inequivocabile che il diritto che ha
          stabilito la fine del lavoro vivo non è il diritto esteso dell'operaio
          taylorista o dell'operaio sociale, ma il diritto di proprietà sui
          mezzi di produzione del capitale collettivo. Dopo l'espressione
          autoritaria di questo diritto, le fasi marxiane non sono più valide,
          neppure i passi fantascientifici dei grundisse riescono a essere
          fantascienza, ma sono passato, mentre le fasi marxiste, anche se
          richiamate nel neo - marxismo italiano, non sono mai state valide.
          È però da lì che bisogna ripartire, dal nostro soggetto introvabile e
          inconoscibile, dall'operaio dimenticato a metà ricarica della penna
          dal neo - marxismo italiano, dall'operaio sociale fantasmatico;
          operaio sociale è quel coacervo magmatico, ma sotterraneamente
          strutturato, strutturato in maniera inconscia, di diritti, abitudini,
          pigrizie, sollecitudini, relazioni e comunicazioni che si sono
          sviluppate durante la critica operaia al lavoro e poi ancora durante
          la destrutturazione del lavoro operaio di fabbrica. Quel coacervo ha
          trovato a tratti una pianificazione, una sorta di programmazione
          economica dell'emotivo, nel consumismo comunicativo del
          biocapitalismo. Quel coacervo è diventato segno tangibile di una
          sconfitta storica: il lavoro e i suoi diritti sono stati abbattuti;
          esiste solo una forza produttiva: il capitale come forza produttiva.
          Ammettere la sconfitta per riprendere la guerra, per riprendere le
          armi e affrontare il nemico su un altro campo di battaglia, su un
          altro terreno, quello dei diritti collettivi che si contrappongono al
          diritto espresso sui rapporti di produzione. Siamo ad un aut
          / aut, nella realtà delle cose, che è necessario affrontare
          come un et / et o un sive / sive.
          La guerra civile mondiale è disinnescabile solo attraverso la pratica
          dei diritti allargati contro il diritto autoritario del capitalismo
          collettivo contemporaneo che rende la liberazione del lavoro umano
          dalla produzione un suo prodotto esclusivo, un prodotto sottoposto al
          suo diritto di proprietà. Come se non fossero stati gli uomini nel
          loro insieme a creare scienza e tecnica, ma solo il capitale abbia
          avuto, fin da sempre e fin da subito, il monopolio dell'intelligenza
          collettiva. La liberazione dal lavoro, sotto il profilo del
          capitalismo, è estinzione della cooperazione produttiva e dal momento
          che la cooperazione finalizzata alla produzione è stata l'unica forma
          di collaborazione che il capitalismo ha saputo intendere, sotto il suo
          profilo e amministrata dal capitale collettivo e globale, si
          tradurrebbe in fine dei diritti inerenti la collaborazione e
          polverizzazione della società.
          Mi amareggia il fatto di essere giunto a questa visione dicotomica
          radicale a quasi sessanta anni; mi amareggia di aver avuto l'idea, per
          decenni e almeno fino dagli anni ottanta, che le cose si avviassero
          verso un antagonismo radicale e decisivo, ontologico e antropologico,
          e di aver preferito continuare a lavorare, a fruire dei necessari
          surrogati della verità, mentre il lavoro e la verità venivano
          distrutti. Dopo tanto tempo rimane quasi una cinica constatazione, un
          atteggiamento concreto, piuttosto che una sana convinzione
          intorno a una nuova e possibile concretezza.
          La scommessa storica (e sono convinto che sia una scommessa storica
          nel senso che coinvolge il significato di tutta la storia della nostra
          specie) è la riorganizzazione della società al di fuori del
          capitalismo, che significa anche e soprattutto, anche richiede e rende
          necessaria, una riorganizzazione radicale dell'umano, cioè della
          relazione della nostra specie con sè stessa. I radicalismi post /
          vetero marxisti, i tatticismi nuovo riformisti sono piagnistei sulla
          tomba del lavoro e della lotta tra capitale e lavoro, della lotta tra
          antiproduzione e produzione. Certo, siamo stati, come specie e come
          classe, dei lavoratori e in parte continuiamo ad esserlo, e l'et / et
          si accompagna all'aut / aut; la negazione del lavoro non deve essere
          il nostro paradigma, questo paradigma va lasciato ed è del
          capitalismo, la riorganizzazione del lavoro sarà un fatto, una
          necessità ma non generata all'interno del lavoro, del suo mondo, ma
          come risultato di una trasformazione complessiva che partirà
          necessariamente al di fuori di quello.
          Questo movimento si troverà spesso in posizioni scomode, ondeggiando
          tra gruppi di vandeani che hanno in odio il potere del Re ma non
          combattono affatto la Monarchia, ovvero combattono solo tutto ciò che
          ricorda loro uno Stato monarchico, ma sono monarchici, e sarà spesso
          per questo scambiato come un partito del Re, e il Re e la Monarchia
          autentica, che aizzerà i vandeani, senza tenere contatti concreti con
          quelli. Si dovrà combattere i prodotti naturali della Monarchia,
          passando per monarchici. Ma non solo. Questo movimento avrà contro la
          Gironda, che spingerà a riconoscere la razionalità e umanità della
          Monarchia, a richiedere solo aggiustamenti e piccole riforme possibili
          e concrete, verso un eterno e mai realizzabile et / et. Ci saranno
          sicuramente i profeti dell'aut / aut a ogni costo, della scelta della
          guerra civile, della separazione rivoluzionaria a ogni costo. La
          Vandea della nuova rivoluzione sarà, quindi, colorata e piena di
          sfumature, di segni apparentemente contrari e sarà anche dentro di
          noi. 
          
          Martedì, 27 settembre
          
          Annotazione. [inconscio collettivo?] Avrei intenzione di consolidare
          un complesso di idee, un concetto, che mi gira nella mente, indomito,
          da circa un trentennio. Ho spesso ragionato avendo in mente questo
          piano concettuale, ma non l'ho mai formalizzato, anche perchè faticavo
          a battezzarlo e, dare un nome a una cosa, è definirla compiutamente
          (almeno soggettivamente). Inconscio collettivo che è omonimo
          di un concetto della psicologia novecentesca potrebbe andare bene.
          Inconscio collettivo lo intendo come un concetto storico; si occupa e
          comprende quell'area delle relazioni umane che è sempre esistita:
          l'area che negli antichi era riservata alla mentalità religiosa e
          sociale, ad alcuni aspetti del culto, alla visione delle famiglia,
          alle aspettative di vita e in generale ai desideri e alle paure
          collettive e comuni. L'inconscio collettivo si è esteso enormemente e
          ha perso buona parte della sua natura, non rimanda più al
          trascendente, come in epoca classica, ma investe completamente
          l'immanente, spesso o quasi sempre, trascendentalizzandolo.
          L'inconscio collettivo è il mondo dell'inespresso, o dell'inespresso
          in forme politiche compiute e progettuali, che rappresentano, in
          questa figura, il conscio. L'inconscio spiega ed è costituivo, in gran
          parte oggi, in minor o minima parte nella premodernità, il conscio
          collettivo, il politico e l'ideologico. La diffusione, il successo di
          determinate ideologie, progettualità e cornici analitiche ha la sua
          radice nella corrispondenza con un insieme di idee, aspirazioni e
          mentalità inespresse e sotterranee. Nell'inconscio collettivo non
            c'è nulla di inconscio, ma manca una mediazione completata con
          il piano della storia della società e delle sue idee. Spesso, inoltre,
          nel complesso ideale che caratterizza l'inconscio collettivo è una
          relazione quasi immediata con la struttura sociale, qualità che manca
          al conscio collettivo, con i modi di produzione, la tecnica, gli
          strumenti di comunicazione , i mezzi di trasporto e il territorio che
          contiene tutti questi elementi. L'inconscio collettivo riguarda ogni
          singolo individuo ma esiste solo nelle relazioni tra le persone, e
          solo quando queste guardano sè stesse come parte di una socialità, di
          una omogeneità, e guardano il mondo come totalità. Anzi il mondo come
          totalità è un polo dell'inconscio collettivo e uno dei motori del suo
          processo ideativo.
         
                Rivedi settembre
                Inizio anno 
                
                Domenica, 9 ottobre
                
                Annotazione. [il perimetro dell'inconscio collettivo]. Il campo
                concettuale dell'inconscio collettivo va delimitato con estrema
                attenzione perché, per la natura che immagino per il concetto,
                rischia continuamente di invadere altri campi. Intendo dire che
                la cosa che sta dietro al concetto è adattiva,
                si contamina e contamina, occupa, per momenti anche lunghi, il
                terreno del conscio collettivo, di quello che è definito
                storicamente e teorizzato politicamente. Esiste alla base della
                cosa, la divisione tra ufficiale e ufficioso, tra la
                storia 'monumentale' e la storia della vita quotidiana, e poi
                tra le culture 'egemoni', registrate e quelle non egemoni, non
                registrate, clandestine alla visibilità, e poi ancora tra le
                culture e le sottoculture. La cosa nasce, rispetto al
                conscio collettivo, assimigliando a queste divisioni e si divide
                da questo in modi simili. Tutti gli elementi elencati concorrono
                a costituire, narrare e descrivere l'elemento conscio
                collettivamente e quello inconscio, ma non coincidono con la
                natura della separazione tra i due; assomigliano ma non
                coincidono. 
                Inoltre il conscio interviene nell'inconscio, con una maggiore
                permeabilità che in psicologia, l'osmosi e il dinamismo osmotico
                è attivissimo, tra le due parti o cose. Il conscio
                istiga alcune pulsioni, che si strutturano e sedimentano in
                forme inconscie politicamente, lasciano segni apparentemente non
                visibili, non percepibili e non sensibili, ne ferma altre che
                tendono ad emergere dall'inconscio e infine ne costituisce, in
                maniera studiata, altre, in modo tale che si edifichino come
                forme inconscie, come pulsioni spontanee; il conscio non sempre
                produce un 'rischiaramento' dell'inconscio, anzi il conscio
                politico cerca spesso di tramutarsi in forme inconscie, in
                pulsioni sotterranee ma importanti e decisive socialmente.
                Sotterra, spesso, tesori nell'inconscio. Anche l'inconscio,
                ovviamente, interviene nel conscio politico, si manifesta e si
                propone in forme conscie; esce dalla pulsionalità e si dà forma
                ideologica.
                È completamente al di fuori della mia portata la capacità di
                definire i concetti di conscio e inconscio collettivo, ma mi
                preme individuarne il campo e indicarne la necessità. L'insieme
                del conscio collettivo è estremamente più vasto dell'inconscio,
                comprende molti più elementi (cultura, immaginazione, politica,
                ideologia, arte, legislazione), l'insieme dell'inconscio
                collettivo comprende tutte queste discipline, interessi e
                investimenti, solo in relazione alla sua eleborazione, solo in
                riferimento a sé. Nell'inconscio tutti questo elementi sono
                mescolati, embricati in pulsioni, flussi di immaginazioni e
                stati d'animo collettivi.
                Pensiamo all'insieme di motivazioni che hanno spinto, in questi
                decenni, milioni di uomini a lasciare paesi e continenti di
                origine: motivazioni materiali, motivi ideali, ideologie qualche
                volta, quindi elementi del conscio, ma insieme con quelli, e
                spesso legati gemellarmente a quelli, nuove aspettative, nuove
                mentalità, flussi informativi, stereotipi culturali,
                immaginazioni sul mondo, che non si risolvono in un
                discorso strutturato culturalmente, idealmente e politicamente.
                Questo insieme spesso è quasi gemello, delle ideologie,
                valutazioni razionali, calcoli economici, sostiene quell'altro
                come un dorso. Gli elementi inconsci entrano, cioè spesso, a far
                parte dell'ufficialità, entrando in quella come segmenti,
                trovano una segmentata ospitalità nell'ideologia e nella cultura
                registrata.
                Oppure, secondo un processo che appare contrario (ma è
                inadeguato pensare a direzioni, a un movimento tra poli), certi
                elementi culturali e politici, certe teorie, stimolano e
                concorrono a venir diversamente percepite le motivazioni
                materiali, le valutazioni di utilità economica, e spesso
                'ritornano' su sè medesimi arricchiti, sovradeterminati, dalla
                pulsionalitò che hanno incontrato e dentro la quale si sono
                diffusi. Così, 150 euro al mese, un tempo accettabili, diventano
                motivo di fuga; un lavoro operaio, un tempo obiettivo decisivo,
                diventa insopportabile.
                L'immagine televisiva, ufficiale e conscia dei paesi
                dell'occidente, del post industriale (spot pubblicitari, serie
                televisive, informazioni telematiche, passa parola di rete)
                concorrono a rielaborare l'immagine conscia dell'occidente e a
                sedimentare un nuovo inconscio collettivo, un'immagine inconscia
                dell'occidente, una teoria inconscia sull'occidente.
                Questa immagine e teoria inconscia è un vero fuori programma,
                una variabile, estranea alla sociologia ed estranea agli Stati e
                alle istituzioni; viaggia nel basso, nel sottoculturale, nella
                'pancia' del migrante. 
                Al contrario che per la psicoanalisi, conscio e inconscio
                collettivo utilizzano lo stesso linguaggio e le stesse parole,
                gli stessi elementi e la stessa sintassi, ma scrivono due testi
                differenti, due opere diverse, parallele e intersecate,
                osmoticamente. Quindi è chiaro che Stati e istituzioni possono
                intervenire su questa 'pancia', determinare limiti e percorsi,
                estendere o limitare flussi informativi e influenzare il
                fenomeno nel suo complesso, lavorando sul basso, lavorando
                appunto sulle sue  'motivazioni inconsce'. È il gioco più
                importante e il più usato nelle società di massa, nelle società
                del tardo capitalismo industrialee in quello post industriale,
                in generale in quello che a maggior ragione andrebbe detto il
                'capitalismo della vita', il biocapitalismo.
                Comunque l'inconscio collettivo non è la novità di quest'epoca,
                appartiene alla storia delle società umane, ogni società ha
                avuto le sue forme di inconscio collettivo, politico e sociale.
                Non c'è mai nulla di assolutamente nuovo sotto il sole.
                Comunque che fatica! Signori, perimetrare questo concetto!
                Preferirei non mi fosse venuto in mente, ma da troppo tempo
                ronzava.
                
                [Il nuovo mercato dei beni culturali]. Pensavo, inoltre, che
                oggi i concetti in filosofia, per quel che resta della
                  filosofia, assomiglino sempre più a prodotti / merci del
                mercato dei beni culturali. Un mercato costituito, un concetto,
                un dentifricio, proprio un dentifricio e non un automobile
                (l'automobile dura troppo), altre volte una linea di bellezza,
                ancora altre una cura contro l'ingrossemento epatico e la
                colite. La filosofia serve come la psicologia, ma
                contrariarmente alla psicologia, usa farmaci generici, non
                etichettati così precisamente, privi di eccipienti. La
                psicologia, invece, deve produrre effetti programmati,
                precisamente delimitati, deve avere un effetto sociale
                immediato.
                Avremo l'inconscio collettivo, l'immaginario collettivo, la
                moltitudine, la massa, il popolo, la popolazione, relativo effetto di media durata, vendita stimata,
                diffusione, capacità produttiva e riproduttiva, quotazione
                finale nella borsa delle idee.
                
                Mercoledì, 12 ottobre 
                  
                [L'inconscio collettivo e gli anni ottanta].
                L'inconscio collettivo è rappresentazione collettiva della
                realtà, la rappresentazione non ufficializzata, un modo di
                interpretare la realtà. Non manca affatto di strumenti
                analitici, poiché di inconscio in senso psicanalitico non v'è
                nulla in questo concetto, è una cosa perfettamente
                conscia, consapevole; solo il modo di essere rimanda alle
                dinamiche dell'inconscio psiacanalitico.
                Un esempio. Negli anni ottanta in Italia, persistette un modo di
                vedere le cose, uno stile di pensiero, un modo di sentire tipico
                del decennio precedente. Le aspettative e l'atteggiamento verso
                il lavoro che avevano caratterizzato la classe operaia nei
                settanta si riverberarono in settori che operai non erano più e
                che erano stati esclusi dalla fabbrica. Il lavoro dipendente
                veniva criticato e censurato come una servitù, si cercava di
                liberarsene: l'occasione storica della crisi del lavoro operaio
                offriva la possibilità di una pulsione generalizzata, e
                generica, verso il rifiuto del lavoro comandato, che andava
                verso, nella possibilità concreta offerta dal mercato, una nuova
                tipologia di impresa, un lavoro autonomo di seconda generazione,
                ben descritto da Sergio Bologna in un'opera omonima.
                Ogni sedimentazione organizzativa del rifiuto operaio del
                decennio precedente era disciolta, e quella visione non aveva
                più cittadinanza politica e ufficialità e in quell'ambito
                ridotta a qualcosa di simile a una setta testimoniale e
                clandestina; a livello di rappresentazione del mondo e della sua
                spiegazione, però, appunto quello che si potrebbe dire un
                'comune modo di sentire', i desideri, le aspettative e gli stili
                esistenziali del decennio precedente continuavano a proporsi. Si
                proponevano senza darsi una forma politica, rimanevano
                come un sotto fondo, una tappezzeria, ideologica e culturale; un
                inconscio sotto il profilo della comunicazione e
                dell'elaborazione comunicativa.
                Il peso storico di questa sedimentazione comunicativa,
                linguistica ed esistenziale è di difficile valutazione; eppure
                sarebbe molto importante per definire i ruoli sociali dei
                protagonisti, egemoni e subalterni, in una fase storica. Una
                teoria ben strutturata dell'inconscio collettivo potrebbe
                aiutare a conoscere, comprendere una fase storica e avere anche
                una valenza politica non indifferente nella progettazione
                sociale e politica.
                
                [Sul termine] Ho ancora dubbi sulla scelta del termine
                'inconscio collettivo', sono due parole ambigue e molto
                generiche, ma evocative, come dovrebbe essere il concetto.
                Questo ambiguo e generico è proprio quello che rappresenta e
                cerca di rappresentare la cosa, che è equivoca, con
                parentele inconfessabili e che può essere facilmente sottoposto
                a un uso riduttivo e a una rielaborazione continua e perenne. 
                Come l' inconscio psicanalitico, l'inconscio collettivo lavora
                sul conscio, ma il conscio lavora, occultamente, sull'inconscio.
                Il procedimento è quasi contrario a quello disegnato dalla
                psicanalisi: l'inconscio è spesso il prodotto del lavoro
                occulto, nascosto (ma ben programmato) del conscio, anzi è
                definibile inconscio anche per questa procedura di occultamento
                degli obiettivi del conscio.
                
                Sabato, 22 ottobre 
                
                Letture. Lo scambio simbolico e la morte / Jean Baudrillard.
                Scritto nel 1976, è un testo che va letto, per ragionare su
                quello che dice, senza porsi il ragionamento costantemente di
                fronte. È un testo spavent- oso, provoca e porta spavento, lo
                spavento della verità.
                Qual è questa verità? Qual è la verità di Baudrillard nel 1976?
                La verità è che il capitalismo è finito, la sua
                esperienza storica si è esaurita, non ha più nulla da dire alla
                storia ma, ed è un ma terribile e, per l'appunto, spavent-oso,
                il mondo rimane capitalistico; il mondo non sa immaginarsi senza
                il capitalismo.
                Quello che tutti continuano a chiamare capitalismo, ne segue le
                regole, ne segue il gioco, ma non è più un sistema di regole
                costruite dall'economia, ma un gioco costruito sull'economia; il
                capitalismo è, secondo Baudrillard, un sistema di regole che
                utilizza l'economia per legittimarle.
                Il sistema attuale, quindi, non è più un sistema capitalistico,
                ma un nuovo sistema di dominio che utilizza il capitalismo e il
                capitalismo non è più alla sua base, il capitalismo non lo fonda
                più; il capitalismo è solo un'occasione per
                riprodurre, riempire, vivificare, dare a quello un aspetto
                concreto, il dominio sociale, ma non è più l'essenza del
                dominio, non è il dominio in sé. In realtà, Baudrillard si
                chiede se non sia stato sempre così e cioè se il capitalismo non
                sia sempre stato questo, fin dalla sua genesi: uno strumento per
                costruire, diffondere e riprodurre controllo sociale, e se Marx
                non sia solo superato in ragione dello sviluppo attuale del
                capitalismo, ma non abbia sempre sbagliato, scambiando un
                elemento 'sovrastrutturale' del dominio, nella sua struttura.
                Secondo Baudrillard, al contrario che per Foucault, non è la
                fabbrica a fornire il modello per prigioni, manicomi, ospedali e
                scuole, non è la produzione a fornire il modello sociale, a
                inventare l'autoritarismo, ma è accaduto, probabilmente, il
                contrario.
                Questa lettura mi ha imposto il silenzio, nache perché erano
                cose che erano in me, cose e idee che presagivo, confusamente.
                
                [Baudrillard e l'operaio sociale]. Ecco, forse, dove si deve
                andare a cercare l'operaio sociale: tra gli operai che non
                producono più; che non sono più operai ma patiscono una
                soggezione complessiva che usa l'economia senza avere un
                fondamento economico. L'operaio sociale non si individua per la
                produzione di valore, ma per situazioni extaeconomiche, valori,
                certo, ma di tipo diverso, nuovo, anche se spesso, sempre più
                spesso, recuperati dal passato precapitalista. Letto in chiave
                antagonista, e secondo la lezione di Negri su Marx non si
                dovrebbe fare altrimenti, l'operaio sociale, allora, è
                convivenza organizzata contro il Capitale, e quindi estraneità
                esistenziale, e non più limitata alla produzione, organizzata.
                Questa è la via verso il soggetto indimostrabile che
                indica Baudrillard se la mettiamo in relazione con Negri, se la
                recintiamo con i paracarri di Negri, che, alla fine, sono ancora
                i paracarri di Marx.
                Baudrillard, rispetto a Negri e Marx, insegna qualcosa di più e
                di assolutamente nuovo: il nuovo soggetto operaio, quel che
                chiamiamo per comodità operaio sociale, è necessariamente un
                soggetto indimostrabile e la sua composizione non è una
                composizione sociale, realizzata sui temi della critica
                all'economia politica. 
                Non è possibile scrivere di composizione, dopo Baudrillard, ma
                al massimo di scomposizione, se vista dal punto di
                vista marxista, una posteriore frammentazione e frantumazione
                assolute.
                La composizione non comporrà nulla, non porrà accanto nè insieme
                gli individui, la composizione sarà un salto logico,
                assimilabile a un progetto scientifico, tecnico ed etico, e un
                salto relazionale, assimilabile a un progresso politico, qualcosa di simile al progetto
                            situazionista originario.
                
              
    Rivedi ottobre
                            Inizio anno 
                            
                          
    Giovedì,
                                          10 novembre
                                        
                                        Ai margini (estremi) di Cosa è la
                                        filosofia di Deleuze e Guattari. 
                                        La filosofia non ti dice se una cosa è
                                        accaduta, accade o accadrà, ma se
                                        poteva, può e potrà accadere. La
                                        filosofia delimita con precisione il
                                        campo della possibilità, anche e
                                        soprattutto perché essa stessa è quel
                                        campo.
                                        Il pensiero filosofico, nella sua
                                        espressione storica e ufficiale, nella
                                        sua forma pubblica e registrata, entra
                                        in crisi e diminuisce di rilevanza e
                                        importanza, perde campo di applicazione
                                        e di enunciazione, nelle epoche
                                        contraddistinte da società
                                        cristallizzate e in cui l'economia e le
                                        relazioni economiche si personalizzano e
                                        si danno forme di governo
                                        personalizzato. In questi casi il campo
                                        dell'indagine filosofica, il campo della
                                        possibilità, scende o precipita,
                                        addirittura, nell'immanente. Si
                                        stabilisce una coincidenza tra
                                        realizzazione e possibilità, una
                                        coincidenza simbolica, in base alla
                                        quale la realtà è un sistema di simboli,
                                        immanenti, per una realtà simbolica e
                                        trascendente. È il caso della filosofia
                                        medioevale e della scolastica e
                                        soprattutto della filosofia cristiana.
                                        La descrizione simbolica della realtà è
                                        priva di prospettiva, è bidimensionale
                                        ma, e in questo la filosofia non cede,
                                        nemmeno in questi casi storici, al suo
                                        compito, la rappresentazione simbolica
                                        denuncia la mancanza di prospettiva,
                                        presagisce la terza dimensione. Nella
                                        dominazione personalizzata,
                                        individualizzata e singolarizzata
                                        l'elemento della codificazione è
                                        preminente: nei rapporti di dominio si
                                        iscrive un codice. La vita pubblica è
                                        strutturato da un codice univoco,
                                        composto di pochi elementi, declinabili,
                                        poi, secondo le individualità e
                                        singolarità dei rapporti. Nella società
                                        feudale, quindi, il campo della
                                        filosofia è quello del prestabilito, stabilire
                                          e descrivere il prestabilito, il
                                        determinato a priori, e la possibilità
                                        del mondo è nel significato che il
                                        prestabilito e determinato assumono,
                                        nello spiegare la loro azione. Ma è,
                                        comunque, una filosofia, una filosofia
                                        dell'immanenza ma una filosofia.
                                        Il passaggio dal pensiero mitico al
                                        pensiero filosofico segna il passaggio
                                        dalla società tribale a quella
                                        'transtribale'. Nel pensiero mitico la
                                        relazione individualizzata non assurge a
                                        simbolo dell'immanente, ma è fatto
                                        immanente e non spiega l'immanente ma
                                        solo alcune cose di quello, e fatti
                                        autenticamente accaduti comportano con
                                        potenza  molti altri fatti, ma mai
                                        tutti i fatti, ma mai la totalità, ma
                                        mai l'immanente. Il pensiero tribale è,
                                        quindi, un pensiero prestabilito e
                                        determinato ma segnato da fatti
                                        individuali, da eventi specifici, da
                                        eroi singolari che intervengono sulla
                                        realtà e non la trasformano
                                        determinandola. Al pensiero tribale è
                                        sconosciuto il concetto di realtà, ma
                                        semmai si occupa di molte realtà.
                                        Nella società post tribale si afferma un
                                        prestabilito e determinato
                                        indifferenziato, indifferente agli
                                        eventi e alle realtà delle tribù, delle
                                        famiglie e dei lignaggi e i miti tribali
                                        sono inseriti in un secondo mito, che
                                        scrive dell'uomo  e dell'umanità,
                                        una mitologia generica e generale.
                                        Questa mitologia generica introduce il
                                        campo del possibile, il racconto di
                                        quello che poteva accadere e non di
                                        quello che è accaduto. Introduce
                                        l'interpretazione del mito, perchè il
                                        mito, in sè, non spiega più nulla, nè
                                        una realtà singola, che ha perso
                                        dignità, nè tantomeno una realtà
                                        astratta che non lo riguarda e nasce al
                                        di fuori di quello.
                                        La spiegazione del mito, la sua
                                        astrazione a fatto concettuale, che
                                        perde il carattere di accadimento
                                        storico e di racconto, di memoria
                                        familiare, è all'origine delle procedure
                                        della religione e di nuovi orizzonti
                                        intellettuali che comportano la
                                        filosofia. La religione, intesa come
                                        spiegazione della cosmologia e
                                        cosmologia, è sorella della filosofia:
                                        affronta il mondo come immanenza, e
                                        l'immanenza come totalità. La filosofia
                                        ha lo stesso bersaglio 'geografico',
                                        l'immanenza e la totalità, ma si occupa
                                        non di quello che è il mondo ma di ciò
                                        che può essere.
                                        
                                        Venerdì, 11 novembre
                                        
                                        Ai margini estremi dello Scambio
                                        simbolico e la morte di Baudrillard. 
                                        [Proletariato e classe media] Le
                                        previsioni di Marx intorno alla classe
                                        media, se mai state davvero così, perché
                                        non ho mai avuto modo di leggerle, sono
                                        state rovesciate. Da alcuni decenni è la
                                        destra, il populismo di destra,  ad
                                        egemonizzare l'opinione pubblica
                                        dell'occidente, perché l'operaio di
                                        fabbrica e in generale il lavoratore
                                        dipendente è diventato classe media,
                                        dando ragione alle previsioni contrarie
                                        avanzate da Marcuse. Con una
                                        particolarità, però, che Marx aveva
                                        presagito e Marcuse no: la classe media
                                        è rimasta classe media impoverendosi. La
                                        povertà può associarsi alla classe
                                        media, secondo una realissima
                                        contraddizione in termini.
                                        La classe media ha inglobato la classe
                                        operaia, la working class,
                                        proletarizzandosi. L'operaio
                                        contemporaneo è un piccolo - borghese
                                        povero, privo di proprietà, ma
                                        'produce', consuma e crepa come un
                                        piccolo - borghese ricco, come un
                                        piccolo - borghese della prima
                                        modernità. Non è, come era convinzione
                                        di Marx, accaduto il contrario.
                                        L'operaio della fabbrica diffusa,
                                        flessibile e globalizzata è una frazione
                                        della piccola borghesia, istituendo un
                                        legame sempre più tecnicamente indiretto
                                        con la produzione di beni, di plusvalore
                                        e di capitale. Il legame con la
                                        produzione, come nel caso storico della
                                        piccola borghesia, si mantiene solo
                                        ideologicamente, nella rappresentazione
                                        di sè.
                                        Così l'operaio di fabbrica è diventato
                                        una frazione della piccola borghesia ma
                                        una frazione molto particolare. Il
                                        sistema produttivo tradizionale, la
                                        produzione diretta di beni naturali, era
                                        la fonte del riconoscimento operaio
                                        nella società e della sua identità
                                        sociale. L'operaio di fabbrica, però,
                                        non produce più niente, se non il suo
                                        stesso lavoro, che è un concetto, che è
                                        immateriale, che è un valore
                                        immateriale. L'operaio di fabbrica
                                        rimane legato al suo lavoro, come
                                        rappresentazione, non come autentica
                                        forza sociale, come forza produttiva,
                                        rimane legato al teatro del lavoro, alla
                                        cristallizzazione e mummificazione del
                                        lavoro di un tempo; la classe operaia è
                                        diventata, come la classe media di un
                                        tempo e secondo vie sue
                                        particolari,  nostalgica e
                                        tradizionalista e tiene lo sguardo
                                        costantemente rivolto al passato dove il
                                        'lavoro aveva un valore'.
                                        
                                        [Trump e la fabbrica] La fabbrica non è
                                        una forza produttiva, ma una potenza
                                        ideologica, non è comando ma dominio. La
                                        fabbrica diventa, attraverso i corpi
                                        degli operai che la popolano e che
                                        vivono del suo reddito, l'esistenza
                                        nell'economia anche contro tutte le
                                        leggi dell'economia. Le leggi più
                                        potenti dell'economia sono oggi leggi
                                        extraeconomiche, sono ideologie
                                        economiche senza economia, sono le
                                        scelte politiche che privilegiano la
                                        produzione e che portano dirette alla
                                        nazione d'origine della produzione e
                                        della sua classe. La produzione operaia,
                                        svuotata di contenuti, li ritrova fuori
                                        di sè, nell'identità economica della
                                        produzione nazionale, nella mummia della
                                        produzione materiale nazionale. I dazi
                                        protezionistici e il militarismo tornano
                                        di moda, il freno allo sviluppo
                                        economico torna a governare il mondo
                                        economico. Ma, signori, è un finto -
                                        freno allo sviluppo, poichè la
                                        mummificazione del lavoro entra a far
                                        parte di un'ulteriore evoluzione verso
                                        la dematerializzazione del prodotto del
                                        lavoro, dove il prodotto del lavoro sarà
                                        ideologia accidentalmente fruibile come
                                        bene materiale.
                                        L'operaio di fabbrica ha tutte le
                                        possibilità di trasformarsi in un 
                                        vandeano e la fabbrica nazionalistica
                                        nella nuova Vandea. Donald ha vinto in
                                        Ohio e in Michigan, i casi sono due: o
                                        Donald Trump è di 'sinistra', o gli
                                        assetti strategici della 'sinistra'
                                        dovrebbero essere altrove e non in
                                        fabbrica e in Vandea, senza abbandonare
                                        a Donald la Vandea, ovviamente.
                                        
                                        [Il lavoro improduttivo e il lavoro anti
                                        . produttivo] Il resto della classe
                                        media, che è costituita in massima parte
                                        da altra gente, non strettamente operai,
                                        che vivono con un reddito elargito
                                        dietro la prestazione regolata da un
                                        orario di lavoro, non produce neppure
                                        quella, nè direttamente nè
                                        indirettamente, beni materiali.
                                        L'economia si fonda solo in finzione
                                        sulla produzione materiale ma in realtà
                                        lo scheletro economico della produzione
                                        di valore, è macchinico, è la macchina,
                                        è il lavoro morto. Il lavoro morto
                                        egemonizza, anche per il pluslavoro
                                        prodotto (è il pluslavoro in massima
                                        parte), la produzione di beni materiali,
                                        quanto quella di beni intellettuali ed
                                        emotivi, la produzione di stati d'animo;
                                        resta, per il momento, secondaria nella
                                        produzione di affettività, ma è sulla
                                        via per esserlo. Eppure lo scheletro
                                        dell'irrigimentazione del lavoro vivo
                                        nella produzione materiale, lo scheletro
                                        della manifattura, è rimasto il segno
                                        della produzione di valore e come tale
                                        connette la totalità delle attività
                                        umane legate all'elargizione di un
                                        reddito. Anche se sotto il profilo
                                        dell'economia classica la cosa non
                                        avrebbe senso alcuno, nessun senso
                                        interno all'economia, lo assume
                                        nell'economia contemporanea che non ha
                                        più un senso interno, una
                                        giustificazione e legittimità interna.
                                        Il concetto stesso di valore economico è
                                        radicalmente cambiato; non è più il
                                        valore un concetto economico, ma un
                                        concetto 'politico' vestito con l'abito
                                        dell'economia. Sotto questo punto di
                                        vista l'estensione pura e semplice,
                                        meccanica, del paradigma produttivo e
                                        del concetto di valore del lavoro di
                                        fabbrica al campo della produzione
                                        intellettuale, che serviva a
                                        disciplinare e definire il lavoro non -
                                        operaio, il lavoro 'improduttivo' nel
                                        capitalismo, non funziona alla stessa
                                        maniera. Tutto il lavoro, anche quello
                                        produttivo, è diventato 'improduttivo'.
                                        Il lavoro, oggi, distrugge i prodotti
                                        per ricreare il vero prodotto che è la
                                        produzione in sé; il lavoro oggi
                                        distrugge il prodotto del lavoro per
                                        riprodurne il ciclo. Il lavoro della
                                        contemporaneità è anti - produttivo. Il
                                        feudalesimo è diventato un fatto di
                                        massa, generalizzato; l'appropriazione
                                        dei prodotti del lavoro da privilegio di
                                        una casta è diventato occupazione dei
                                        produttori. L'anti - produzione è la
                                        vera produzione nel capitalismo
                                        contemporaneo, che è vitale, umano,
                                        istituito sui comportamenti
                                        esistenziali, che è biocapitalismo.
                                        Così la produzione è anti - produzione,
                                        come la non - proprietà è l'essenza
                                        della proprità privata. Il concetto di
                                        utenza sta sostituendo quello di
                                        proprietario, a tutti i livelli: dal
                                        proprietario dei mezzi di produzione e
                                        comunicazione di massa al propietario
                                        dei beni e dei concetti di consumo. Le
                                        grandi corporation non sono più
                                        proprietarie dei loro mezzi di
                                        produzione ma utilizzatori privilegiati,
                                        così come un utente informatico non è
                                        proprietario del software che sta usando
                                        e questo nuovo concetto di proprietà si
                                        sta estendendo a tutti i beni di consumo
                                        non immediatamente deperibili.
                                        
                                        Domenica, 13 novembre
                                        
                                        [Vandea e Gironda] Tutto quanto scritto
                                        potrebbe far concludere (e la 'destra'
                                        fa questo) che il valore del lavoro è
                                        azzerato e quindi anche i relativi lo
                                        sono: essi apparterebbero al passato,
                                        all'archeologia del capitalismo. La
                                        'sinistra' non ribalta questo
                                        ragionamento, perché è anche il suo
                                        ragionamento: la 'sinistra', la
                                        tradizione riformista e rivoluzionaria
                                        della 'sinistra', mantengono una visione
                                        produttivistica della realtà. Lo
                                        sviluppo sociale è lavoro nella
                                        produzione.
                                        Conseguentemente la 'sinistra' si è
                                        costretta, in verità dopo libera scelta,
                                        a difendere la tradizione operaia,
                                        facendola sua propria e rendendola
                                        indissolubilmente legata al valore della
                                        produzione, in quanto unico elemento
                                        capace di valorizzare il lavoro. In tal
                                        maniera la tradizione operaia non è
                                        un'eredità politica e creativa, ma una
                                        struttura sociologica e culturale:
                                        ideologia del lavoro che valorizza la
                                        produzione, secondo un ribaltamento
                                        antitetico alla verità delle cose.
                                        Questa tradizione ed eredità operaie
                                        hanno delimitato la base elettorale
                                        consueta alla 'sinistra', ma qui ha
                                        incontrato, neppure troppo
                                        inopinatamente, la concorrenza della
                                        'destra', soprattutto di quella 'nuova',
                                        anticapitalista, radicale e nostalgica
                                        di moltissime e diverse nostalgie e
                                        passati. Anche questa 'nuova destra' ha
                                        iniziato a teorizzare il recupero del
                                        valore produttivo nel lavoro operaio e
                                        con quello dell'economia 'reale', contro
                                        il complotto finanziario, contro
                                        l'economia della finanza e il 'Dio -
                                        denaro'. Ma questo non si chiama
                                        recuperare ma inventare:
                                        inventare per il lavoro un valore che
                                        non ha più, e ridare al denaro un ruolo
                                        polare che ha perso. Il danaro non
                                        esiste più come equivalente generale
                                        delle merci, ma solo come segno del
                                        dominio sociale espresso attraverso la
                                        produzione, il denaro è un messaggero di
                                        Dio, ma ben altra cosa è il Dio; verrà
                                        presto il giorno nel quale come il
                                        sistema sta sostituendo la proprietà con
                                        l'uso, così il danaro sarà abolito,
                                        almeno in quanto strumento monetario ed
                                        equivalente generale e forse lo è già in
                                        gran parte.
                                        In verità, tanto la destra quanto la
                                        sinistra (ed è davvero il caso di far
                                        cadere le virgolette a questo punto)
                                        usano lo stesso concetto: il lavoro per
                                        essere fonte di valore e di reddito deve
                                        essere produttivo economicamente.
                                        Chi, come la destra e la sinistra
                                        contemporanee, continua, a quasi un
                                        secolo dall'inizio del declino del
                                        lavoro come valore economico, a
                                        riferirsi al lavoro sotto forma
                                        produttiva ed economica è il più
                                        acerrimo nemico dei diritti del lavoro.
                                        I diritti del lavoro, se vogliono
                                        sopravvivere, devono slegarsi,
                                        emanciparsi dal lavoro.
                                        I diritti al reddito, all'esistenza, al
                                        consumo, alla distribuzione delle
                                        risorse e dei beni, all'assistenza
                                        emotiva, affettiva e medica non devono
                                        essere diritti collegati all'esercizio
                                        del lavoro, del lavoro vivo e collegati
                                        all'uomo soltanto perchè quest'uomo è un
                                        lavoratore; non devono rimanere legati a
                                        una struttura di generazione del valore
                                        agonizzante da un secolo e morta da
                                        mezzo secolo. Se rimangono legati alla
                                        mummia del lavoro operaio ottocentesco,
                                        diverranno mummie tanto puzzolenti da
                                        far fuggire chiunque lontano da loro. I
                                        soggetti non operai, inorriditi da
                                        questo cadavere, finiranno per
                                        integrarsi ferreamente nel dominio
                                        biocapitalista, che, pure, usa quella
                                        putrefazione come un fertilizzante
                                        sociale e biopolitico. I soggetti non
                                        operai e sottoposti formalmente a
                                        relazioni di lavoro salariato potrebbero
                                        essere una pericolosissima Gironda,
                                        accompagnata alla Vandea operaia. Nella
                                        Gironda, però, è già qualcosa della
                                        futura repubblica, nella Vandea operaia,
                                        purtroppo no, è solo nostalgia per la
                                        vecchia 'repubblica borghese' tanto
                                        odiata dagli anarchici. Il federalismo
                                        della nuoba gironda è però un
                                        federalismo orizzontale e non verticale,
                                        multinazionale e non nazionale, sociale
                                        e non geografico ed è una facies
                                        dell'ideologia biocapitalistica, una
                                        delle sue numerose etiche. 
                                        Andiamo, infatti, verso una società
                                        stratificata eticamente e socialmente,
                                        dove le corporazioni superano i paesi e
                                        le popolazioni, le attraversano e non
                                        mettono in discussione il disegno
                                        generale e la composizione di una
                                        società di massa su scala planetaria, ma
                                        anzi la costituiscono. Niente
                                        Moltitudine, ma molte Moltitudini, molte
                                        folle eticamente disposte e dirette.
                                        
                                        Ai margini estremi dello Scambio
                                        simbolico e la morte di Baudrillard 
                                        [Per i diritti del lavoro] I
                                                                  diritti al
                                                                  reddito,
                                                                  all'esistenza,
                                                                  al consumo,
                                                                  alla
                                                                  distribuzione
                                                                  delle risorse
                                                                  e dei beni,
                                                                  all'assistenza
                                                                  emotiva,
                                                                  affettiva e
                                                                  medica sono
                                                                  certamente
                                                                  nati nella
                                                                  fase
                                                                  industriale
                                                                  della storia
                                                                  del
                                                                  capitalismo,
                                                                  sono suoi
                                                                  figli, ma se
                                                                  li guardiamo
                                                                  bene,
                                                                  piuttosto
                                                                  degeneri e per
                                                                  fortuna
                                                                  degeneri. I
                                                                  diritti operai
                                                                  sono diritti
                                                                  che in gran
                                                                  parte si
                                                                  applicano al
                                                                  non lavoro, al
                                                                  mondo della
                                                                  riproduzione
                                                                  del capitale:
                                                                  l'operaio non
                                                                  chiedeva di
                                                                  lavorare
                                                                  meglio ma di
                                                                  lavorare di
                                                                  meno e di
                                                                  investire il
                                                                  salario nella
                                                                  sua negazione,
                                                                  il non -
                                                                  lavoro, il
                                                                  tempo libero
                                                                  dal lavoro.
                                                                  Oggi, il mondo
                                                                  si è liberato
                                                                  dal lavoro,
                                                                  non nel senso
                                                                  che non si
                                                                  lavora più ma
                                                                  nel senso che
                                                                  la produzione
                                                                  non ha bisogno
                                                                  di lavoro, di
                                                                  intervento
                                                                  diretto
                                                                  dell'umano nel
                                                                  macchinico; la
                                                                  produzione è
                                                                  un sistema di
                                                                  potere ma come
                                                                  sistema
                                                                  economico non
                                                                  esiste più,
                                                                  così come la
                                                                  proprietà non
                                                                  esiste più.
                                                                  Oggi il
                                                                  dominio
                                                                  sociale si
                                                                  fonda sul
                                                                  controllo
                                                                  dell'uso delle
                                                                  risorse
                                                                  produttive,
                                                                  creative,
                                                                  intellettuali
                                                                  e, ovviamente,
                                                                  naturali e non
                                                                  più sulla loro
                                                                  proprietà
                                                                  diretta o
                                                                  indiretta.
                                                                  Arcaismi,
                                                                  ovviamente,
                                                                  permangono, ma
                                                                  quasi come
                                                                  mode
                                                                  occultanti la
                                                                  reale sostanze
                                                                  delle cose.
                                                                  Il lavoro
                                                                  salariato
                                                                  generalizzato
                                                                  si scompone in
                                                                  molte forme
                                                                  contrattuali,
                                                                  che conservano
                                                                  il rapporto
                                                                  salariale come
                                                                  modello, e che
                                                                  hanno la forza
                                                                  di attrarre,
                                                                  senza
                                        assorbirlo, il lavoro autonomo.
                                        L'elasticità del rapporto di dominio è
                                        assoluta e abolisce la rigidità del
                                        rapporto di lavoro salariato
                                        tradizionale: non è il tempo di vita, o
                                        meglio una frazione del tempo di vita,
                                        ad essere oggetto della contesa tra le
                                        'classi', ma la vita stessa, la vita nel
                                        suo insieme. L'elasticità del rapporto
                                        di dominio è assoluta: il salario, ormai
                                        forma economica priva di un diretto
                                        rapporto con l'economia e la creazione
                                        di valore economico, smette di essere
                                        tale, un salario, assume forme nuove,
                                        che continuano la sua funzione
                                        emblematica di governo del tempo della
                                        vita, ma esteso a tutta la vita, anche e
                                        soprattutto al tempo libero.
                                        L'elemento economico nel lavoro è
                                        passato in secondo piano, è una
                                        struttura relazionale quella che governa
                                        il lavoro che si da in forma economica.
                                        L'importanza economica del lavoro è sul
                                        versante del lavoratore, perché la
                                        percezione di un reddito indispensabile
                                        alla sopravvivenza è legata alla
                                        prestazione lavorativa e questo continua
                                        a creare un ambito di costrizione
                                        economica intorno al lavoro che
                                        coinvolge tutti colore che per vivere
                                        hanno bisogno di lavorare; l'importanza
                                        economica del lavoro è sul versante
                                        dell'imprenditore, perché il lavoro si
                                        presenta come un costo economico e la
                                        necessità di usare lavoro altrui
                                        coinvolge tutti coloro che fanno impresa
                                        e quindi di usare la costrizione
                                        economica che sta dietro il salario.
                                        L'uso del salario e della costrizione
                                        economico non  fonda l'impresa,
                                        l'impresa si fonda su progetti,
                                        ideazioni e automatismi in larga misura
                                        indipendenti tanto dal lavoro vivo del
                                        dipendente quanto dal lavoro vivo
                                        dell'imprenditore. L'uso del salario e
                                        della costrizione caratterizza
                                        l'impresa, in quel tipo particolare di
                                        impresa.
                                        È l'elemento politico, termine desueto
                                        ma validissimo, di una validità occulta
                                        e ragionatamente occulta oggi, è quindi
                                        il dominio a essere decisivo e a
                                        legittimare la necessità del lavoro. Il
                                        termine di comando d'impresa, inteso
                                        come un insieme di tecniche adatte a
                                        funzionalizzare e organizzare il tempo e
                                        i modi della produzione, va abolito e
                                        sostituito con quello di dominio
                                        d'impresa, inteso come insieme di
                                        tecniche adatte a funzionalizzare i
                                        soggetti produttivi. L'impresa e il suo
                                        dominio, esteso in forme contrattuali
                                        polimorfe, hanno di mira il tempo del
                                        lavoratore e non il tempo di lavoro e il
                                        lavoro, hanno come oggetto la qualità
                                        politica del lavoratore e non la qualità
                                        tecnica, lo stile di vita e non lo stile
                                        del lavoro. Meglio ancora dire che la
                                        qualità tecnica non si distingue dalla
                                        capacità di relazione, di autocontrollo,
                                        quindi politica, la qualità
                                        professionale è fatta di virtù
                                        politiche, le stesse che danno la
                                        struttura a un'etica generale di vita.
                                        In questa maniera, lavoro e produzione,
                                        aboliti come potenze economiche (quindi
                                        reali e concrete secondo la vulgata
                                        tradizionale) diventano una forma
                                        generale della società; però, come un
                                        fantasma fuori dal cimitero, si fa
                                        uscire il mito della produzione e dell'economicità,
                                        tanto da destra che da sinistra, ridando
                                        legittimità all'autoritarismo del
                                        comando, dominio dell'impresa globale.
                                        Questo fantasma va impallinato: i
                                        diritti economici vanno conservati
                                        precisamente come il biocapitalismo
                                        pretende di governare il mondo in nome
                                        dell'economia senza che l'economia
                                        esista più come collante generale del
                                        mondo.
                                        Se lo fanno loro, di usare una cosa
                                        morta, una mummia, perché non farlo
                                        anche noi?
                                        Per dirla con parole plebee, è
                                        necessario criticare apertamente il
                                        dominio dell'economia nella società, non
                                        perché esso sia inumano o immorale, ma
                                        perché illegittimo, perché
                                        l'economia è un gioco piegato alle
                                        esigenze di un dominio astratto, un
                                        gioco dove chi da le carte le decide.
                                        Bisogna criticare apertamente il
                                        capitalismo perché non sa che farsene
                                        dell'economia e costringe la maggioranza
                                        dell'umanità a circoscrivere la propria
                                        esistenza in questioni economiche.
                                        Bisogna criticare apertamente
                                        l'intelaiatura delle regole economiche
                                        che, espressione di una 'politica'
                                        superiore e irraggiungibile ai più, si è
                                        posta al riparo, da lungo tempo, dalle
                                        leggi dell'economia che, invece,
                                        riguardano e sono imposte a tutta la
                                        società. Bisogna criticare apertamente
                                        un progetto politico astratto che è solo
                                        dominio sociale.
                                        Questa politica 'superiore', astratta e
                                        irraggiungibile ha ridotto,
                                        necessariamente, il ruolo della politica
                                        'concreta', alla concretezza dei bilanci
                                        e delle regole finanziarie,
                                        all'amministrazione tecnico - contabile
                                        non certo del sistema, ma
                                        dell'esecuzione del consenso al sistema,
                                        all'amministrazione dell'inconscio
                                        collettivo, al controllo delle variabili
                                        e risultanti del processo generale
                                        generato altrove.
                                        Bisogna riprendere anche ampi brani del
                                        pensiero pre-marxista e anarchico, del
                                        pensiero rivoluzionario del XVIII e XIX
                                        secolo. È  necessario tornare a
                                        delle radici troncate dall'onnipotenza
                                        dell'economico, onnipotenza svolta anche
                                        grazie alla critica all'economia.
                                        
                                        Giovedì, 17 novembre
                                        
                                        Letture. Monadologia di Leibniz. Un
                                        testo per l'infanzia; la filosofia con
                                        gli occhi di un bambino, nella quale
                                        l'attenzione e la curiosità è pari solo
                                        all'ingenuità e innocenza. Leibniz non
                                        pubblicò quasi nulla in vita, ma la sua
                                        opera venne edita nel XIX secolo, nella
                                        primissima parte di quello.
                                        
                                        Sabato, 19 novembre
                                        
                                        [Biocapitalismo e storia] L'attacco ai
                                        diritti del lavoro è un attacco ai
                                        diritti civili tradizionali della
                                        modernità (lo comporta naturalmente) ma
                                        soprattutto è un attacco ai diritti
                                        umani. In che senso? 
                                        È un attacco all'immagine dell'uomo
                                        secondo la quale la nostra specie non ha
                                        l'obbligo o il dovere del vivere
                                        associato, ma ha la possibilità e
                                        libertà di associarsi. La produzione,
                                        divenuto schema sociale, ha associato
                                        all'uomo l'obbligo della cooperazione:
                                        l'uomo deve essere un animale sociale. 
                                        Questo attacco è talmente profondo e
                                        viscerale, antitetico, e motivato
                                        eticamente, che ha provocato alcune
                                        rivisitazioni storiche, spesso
                                        intellettualmente notevoli e certo
                                        curiose, anche sopra i periodi
                                        precedenti il capitalismo e la
                                        manifattura industriale.
                                        Lasciando da parte la poliedrica forma
                                        di queste rivisitazioni, la censura dei
                                        diritti del lavoro cerca di associarli
                                        alle istituzioni egoistiche,
                                        localistiche e corporative del medioevo
                                        europeo. E spesso con un fondo di
                                        ragione, chiamamolo oggettivo riscontro.
                                        Questo accade, ma i motivi di questo
                                        richiamo ad altre epoche sono numerosi e
                                        disposti su diversi livelli, perché il
                                        biocapitalismo si sente protagonista di
                                        una nuova epoca, che ha poco a che
                                        vedere con quelle precedenti. Il
                                        biocapitalismo non sa che farsene della
                                        storia, il suo deve essere un eterno
                                        presente e il segno delle epoche
                                        precedenti è il fenomeno di un'infanzia
                                        dalla quale ci si vuole emancipare e ci
                                        si sente emancipati. Non nel senso che
                                        ci si è liberati da quelle epoche, ma
                                        nel senso che ci siamo distaccati da
                                        quelle, nel senso che viaggiano su
                                        un'altra dimensione. La storia, nel
                                        biocapitalismo, è un fatto museale.
                                        L'estrema libertà di descrivere la
                                        storia, di rimescolare e combinare gli
                                        elementi del passato, dipende dal nuovo
                                        senso storico eternizzante del
                                        capitalismo contemporaneo. 
                                        Il biocapitalismo, pur non abolendo la
                                        storia dal suo orizzonte analitico e non
                                        tornando a una dimensione arcaica
                                        dell'interpretazione dell'umano, si
                                        avvicina all'assenza della storia e al
                                        pensiero arcaico; attua un'eterna e mai
                                        conclusiva fine della storia, una
                                        lunghissima e niente affatto apparente
                                        morte della storia e della prospettiva
                                        storica. Rimane una visione del passato
                                        che non è prospettica.
                                        Per certi versi ben venga! Liberiamoci
                                        della storia come eterno presente, come
                                        museo dell'umano, per andare verso la
                                        prospettiva di una storia al contrario,
                                        una storia come eterno futuro.
                                        In verità, il biocapitalismo sta
                                        rendendo inefficace una delle sue armi
                                        più potenti: la complessità sistemica e
                                        la velocità evolutiva. La perdita del
                                        lavoro e della storia determina,
                                        infatti, una potenziale immobilità del
                                        sistema, dentro la quale la complessità
                                        non ha il valore del complesso, ma di
                                        una serie indifferente di linee
                                        evolutive, non comunicanti, indifferenti
                                        le une alle altre. La velocità evolutiva
                                        diventa rappresentazione, ma è
                                        immobilità. Solo la mummia dell'economia
                                        mantiene in vita la rappresentazione.
                                        Se, al contrario, rimaniamo affascinati
                                        da complessità e velocità, rischiamo di
                                        farci dominare dalla paura del presente
                                        e dalla nostalgia, dal ritorno al
                                        semplice e al lento, che in realtà sono
                                        e potrebbero essere altrettanto veloci e
                                        complessi, dal recupero del locale e
                                        della tradizione, che in realtà sono
                                        altrettanto indefiniti e contemporanei,
                                        in una parola rischiamo di farci
                                        affascinare dal passato, che è solo,
                                        ormai, una rappresentazione museale.
                                        La storia è diventata quello che per gli
                                        antichi era l'età dell'oro, tanto per i
                                        profeti dell'eterno presente, quanto per
                                        i critici. L'eterno presente esige il
                                        mito dell'età dell'oro per criticarlo,
                                        vuole il desiderio del passato per
                                        biasimarlo, ama il premoderno per
                                        poterlo criticare.
                                        L'eterno presente, la fine della storia,
                                        istituisce una cultura e ideologia, una
                                        condizione, paradossali: idolatra la
                                        storia per distruggerne gli idoli. Una
                                        comunicazione paradossale è la fonte di
                                        una relazione autoritaria: il
                                        biocapitalismo istituisce una relazione
                                        visceralmente autoritaria nei confronti
                                        della storia.
                                        La censura ai diritti del lavoro non
                                        passa solo attraverso un'ideologia
                                        critica verso la storia, ma una
                                        chirurgia storica concreta che comporta
                                        la rivisitazione, il rimescolamento e la
                                        combinazione di relazioni sociali e di
                                        rapporti di produzione precapitalistici.
                                        Il nuovo capitalismo guarda al di fuori
                                        di sè, recupera i sistemi sociali
                                        precedenti, ma non come elementi del
                                        passato, come da un museo, ma come se fossero
                                        ancora nel presente, nel suo eterno
                                        presente.
                                        Il lavoro comandato diventa un'attività
                                        preindustriale e il salario viene
                                        elargito in maniera personalizzata,
                                        singolarizzata. Il rapporto di lavoro si
                                        personalizza e la personalizzazione si
                                        serve di categorie generali che
                                        riguardano lo stile di vita
                                        dell'individuo: la bottega artigiana
                                        risorge, in maniera virtualizzata e post
                                        industriale. Le relazioni astratte
                                        tipiche del lavoro salariato
                                        manifatturiero di specificano in
                                        categorie di classi di individui. È come
                                        se l'artigiano medioevale producesse in
                                        nessun / ogni luogo. È un artigiano
                                        astratto, con un padrone astratto e con
                                        una relazione personalizzata con
                                        l'astrazione.
                                        Il soggetto indimostrabile è questo:
                                        l'operaio si umanizza, l'operaio diventa
                                        uomo, lavorando astrattamente; il
                                        capitalismo si umanizza, sostituendo al
                                        lavoro l'umanità.
                                        
                                        Per definizione, tutte le società sono
                                        state società di massa. Quel che è
                                        radicalmente cambiato negli ultimi cento
                                        anni è la sostanza della massa.
                                        La massa non è più un insieme di
                                        tipologie, di abitudini e di credenze,
                                        quella che gli antichi chiamano folla o
                                        moltitudine, capace di coalizzarsi a
                                        tratti e con intermittenza intorno ad
                                        alcune delle sue tipologie, abitudini e
                                        credenze. La massa va oltre le sue
                                        specifiche abitudini, ma è tale perché
                                        pensa che in quanto tale si riconosce in
                                        quelle: la massa, quando è massa, si
                                        pensa come massa, come gruppo non
                                        omogeneo ma con alcune omogeneità
                                        decisive per la sua stessa
                                        sopravvivenza. Nella massa, le
                                        particolarità e singolarità si pensano
                                        in funzione di una forza collettiva, che
                                        le cancella nell'essenza (l'essenza
                                        della massa è di non essere particolare
                                        e singolare ma generale), ma le rispetta
                                        nella forma e addirittura le garantisce
                                        (il singolare e particolare morirebbero
                                        senza il supporto del generale).
                                      
                          
    Rivedi
                                                      novembre
                                                    Inizio
                                                      anno 
                                                  
                           
               
                            Bibliografia consultata e consigliata:
                    
                    L'America / Jean Baudrillard - Milano : Feltrinelli, 1987.
                    
                    L'anima al lavoro: Alienazione, estraneità, autonomia /
                    Franco Berardi Bifo. - Roma : Deriveapprodi, 2016.
                    (Operaviva)
                    
                    Che cos'è la filosofia? / Gilles Deleuze, Felix Guattari ; a
                    cura di Carlo Arcuri. - Torino : Einaudi, stampa 2016. 9.
                    ristampa, - (Piccola Biblioteca Einaudi, Nuove Serie,
                    Filosofia ; 209
                    
                  Convenzione e materialismo : l'unicità senz'aura
                      / Paolo Virno. - Roma : Deriveapprodi, 2011. - 2. ed.
                      rivista e corretta. - 1. ed.  1986 
                      
                      Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo / Pierre
                      Dardot, Christian Laval ; prefazione di Stefano Rodotà
        ; postfazione di Antonello Ciervo,
                        Lorenzo Coccoli, Federico Zappino. - Roma :
                        Deriveapprodi, 2015
                          
                        Eneide / Virgilio ; nella versione poetica di G. Vitale.
                        - Milano : Ceschina, [1971]
                        
                        Iliade / Omero ; a cura di Maria Grazia Ciani ; commento
                        di Elisa Avezzù. - Venezia : Marsilio, stampa 2016
                        (Grandi Classici. Tascabili Marsilio)
                        
                        Internazionale situazionista : 1958-69 / Internazionale
                        situazionista ; [traduzione di Andrea Chersi et al.]. -
                        Torino : Nautilus, 1994
                        
                        Islam / Khaled Fouad Allam, Claudio Lo Jacono, Alberto
                        Ventura ; a cura di Giovanni Filoramo. - Roma ; Bari :
                        Laterza, 2015. - 4. ed. (Economica Laterza, 437)
                        
                        Lavoro e tecnica nel medioevo / Marc Bloch ; prefazione
                        di Gino Luzzato. - Bari : Laterza, 1987 (Universale
                        Laterza, 103)
                        
                        Monadologia e Discorso di metafisica / Gottfried Wilhelm
                        Leibniz ; introduzione di Massimo Mugnai. - Bari :
                        Laterza, 1986. (Universale Laterza, 690)
                        
                        Per la critica dell'economia politica / Karl Marx ;
                        Introduzione di Giulio Pietranera. - La Spezia : Club
                        del Libro Fratelli Melita, 1981. (saggistica, 27)
                        
                        Lo scambio simbolico e la morte / Jean Baudrillard ;
                        traduzione di Girolamo Mancuso - Milano : Feltrinelli,
                        2015. - (Universale economica, Saggi)
                        
                        Storia degli Stati Uniti : la democrazia americana dalla
                        fondazione all'era globale / Giovanni Borgognone. -
                        Milano : Feltrinelli, 2016. - 2. ed. - (Universale
                        economica Feltrinelli : Storia)
                        
                        Trattato sui principi della conoscenza umana / George
                        Berkeley ; introduzione di Paolo Francesco Mugnai. -
                        Roma ; Bari : Laterza, 1984. (Universale Laterza, 655)
                        
                       Inizio anno
                    
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