Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2016)



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Venerdì, 1 gennaio

Annotazione. Largamente ai margini di Convenzione e materialismo di Virno. La morale è discorso e interpretazione, l'etica esempio, effettualità e concretezza. La morale non può che venire a posteriori in quanto discorso sull'etica, l'etica è a priori della morale. La morale non può che venire a posteriori in quanto discorso sull'etica. La morale, pur avendo una narrazione universale, è fondamentalmente un prodotto soggettivo, con minore o maggiore successo rispetto al rappresentato e alla sua oggettività; l'etica è immediatamente collettiva e oggettiva. Questo nella configurazione valida per il mondo classico e moderno.

Domenica, 3 gennaio

Annotazione. Il quadro etico e politico della trasformazione sociale degli anni settanta e ottanta, che ha traghettato verso quella che viene definita post – modernità, disegna un cambiamento radicale e profondo e quindi una nuova epoca.
Negri, Virno, Berardi, Foucault e Deleuze in moltissime opere descrivono, narrano e registrano questo passaggio. Rimane, almeno per me, il problema di quell'ormai antico, ma forse non ancora inattuale, concetto di operaio sociale, abbandonato, lasciato lì, dato per presupposto ma mai, alla fine, dimostrato e, soprattutto, descritto. Dietro quel soggetto, però, potrebbe essere la vita, l'etica e la politica di questa nuova epoca.
Rimane, inoltre, l'assenza di dati statistici, e questo limitatamente alla mia analisi, che non per questo deve essere di impedimento perché, spero si sia capito, l'analisi dell'operaio sociale va fatta dal suo interno, dal di dentro della sua autopercezione, dalla singolarità (concetto scoperto da Virno e amato da Negri).
Le statistiche le recupererò ma servono a poco; in fondo, la statistica deve essere di tutt'altro genere.
L'idea, che si è fatta avanti con prepotenza in Italia negli anni novanta, di appartenere a un altro genere di forza lavoro, questa idea è la statistica: la statistica è una nuova immagine del lavoro subalterno e salariato.
Quello che negli anni settanta era fantascienza, oggi è realtà, in mezzo a questi due estremi è l'esperienza dell'operaio sociale, che è, probabilmente, due cose apparentemente opposte: una figura di passaggio, provvisoria e transeunte che contiene una tipologia epocale.

Giovedì, 7 gennaio

Ai margini dei fatti di capodanno in Colonia. È uno schema storico vecchio quasi quanto la civiltà: giunte a un certo livello di sviluppo economico, politico e istituzionale, le realtà internazionalmente egemoni cercano di rinnovare lo sviluppo esportando all'esterno le contraddizioni più brucianti, sotto forma di sottosviluppo. L'impero romano e bizantino sono stati esemplari in questo.
Questo avviene ancora con maggiore precisione scientifica, più attenta e consapevole programmazione. Questa attenzione e precisione scientifica derivano in parte dall'esperienza storica acquisita e in parte dalla tipologia di sviluppo che si intende rinnovare. Per romani e bizantini il problema era evitare carestie e crisi agricole, attraverso l'uso di potenti strumenti di coercizione extraeconomica sulle economie della loro periferia non pacificata; per i paesi capitalisticamente egemoni il problema è esportare parte della produzione obsoleta dal punto di vista dei paradigmi ecologici e tecnici verso le aree non – egemoni, rinunciando anche alla originaria nazionalità di quella produzione, quando e dove necessario.
Questo spostamento permette di ubicare l'antagonismo tra capitale e lavoro, incarnato dal conflitto tra operaio massa e fabbrica taylorista, al di fuori degli ambiti degli stati nazionali egemoni. Questo spostamento permette, inoltre, di coltivare all'interno dei confini nazionali nuovi paradigmi ecologici e produttivi e una nuova tipologia di sviluppo, permette l'appropriazione di quello che fino a pochi decenni fa non era un valore: del tempo di vita, dell'etica, dell'intelligenza individuale e collettiva e della comunicazione sociale, delegando gran parte del comando della forza lavoro manuale e operaia e dell'estrazione del valore tradizionale agli stati nazionali 'arretrati'.
Questo spostamento non deve essere pensato come una semplice esportazione; il capitalismo  non riproduce l'operaio – massa nel sud del mondo così come era stato nel nord del mondo: il lavoro di fabbrica non è ora fonte di sviluppo ma sorgente e causa di sottosviluppo, non produce, come in Europa e America tra XVIII e XIX secolo, modernizzazione ma un suo surrogato, una sua imitazione, per il semplice motivo che la natura dell'attuale modernità non è quella modernità.
Il rapporto di lavoro salariato, costituito sulla legge del pluslavoro, non riesce a egemonizzare le economie periferiche (Sud America, Africa, paesi arabi, Cina e India) dove, pure, si sviluppa pienamente; il fabbrichismo non determina in quei paesi i fenomeni politici tipici delle democrazie parlamentari, poiché non si associa a elementi che sono stati fondamentali per la formazione di quelle (un ceto intellettuale diffuso e anch'esso vicino e limitrofo al lavoro dipendente) e il superamento di un'identità sociale basata sulla tribalità, la famiglia allargata e la comunità locale (l'immaginario tribale, l'immaginario dispotico e l'immaginario collettivista asiatico). Il fabbrichismo si presenta ed è nelle aree non – egemoni un'appendice del capitalismo internazionale, un salario di sopravvivenza senza ricadute sul territorio e senza un allargamento della domanda di beni. La fabbrica è una colonia.
Allo stesso tempo e naturalmente, il modo di produzione di fabbrica subisce, esattamente come quello che rimane operante nei paesi capitalistici egemoni, la concorrenza del nuovo modo di produrre e l'influenza delle sue tipologie. La concorrenza del nuovo modo di produrre egemone nei paesi 'sviluppati' si coniuga anche nei paesi 'arretrati' al fabbrichismo e fa sentire la sua influenza non solo sul modo di produzione di fabbrica ma anche sull'intera società, coniugando sviluppo e sottosviluppo in forme pittoresche e inusuali, per la gioia di qualche letterato.
Molti potrebbero interpretare questo scenario come il risultato della resistenza degli stati nazionali egemoni allo sviluppo, al nuovo modo di produrre e di creare valore e alla definitiva internazionalizzazione del mercato del lavoro e della produzione; gli stati nazionali egemoni continuerebbero, quindi, per affermarsi e mantenere la loro identità e ruolo a esportare le loro debolezze e criticità verso le aree nazionali deboli e sottosviluppate, verso i figli di un dio minore. Esisterebbe un antagonismo tra stato nazionale e capitalismo globale, una diversità di vedute, strategie e obiettivi.
Non è affatto così. Su questo terreno, il terreno della redistribuzione dei paradigmi produttivi e tecnologici, il capitalismo globale, il biocapitalismo, come amo definirlo, è in maniera assoluta legato e coessenziale alle politiche degli stati nazionali. Serve, infatti, una concertazione internazionale, istituita secondo le vecchie metodiche del mondo diviso in nazioni, per governare e programmare la distribuzione di sviluppo e sottosviluppo.
Certamente il capitalismo è cambiato e questo cambiamento non è tanto recente, come invece ancora molti ritengono, ma affonda le sue radici e i suoi elementi di fondo nel welfare state di Roosvelt. Da allora i vecchi stati nazione hanno iniziato a essere nuovi  e hanno cessato di essere il prodotto remoto dello stato nazionale e dinastico della modernità europea.
Il capitalismo contemporaneo attraversa le nazioni, frantuma indiscutibilmente antiche territorialità e omogeneità, divide e separa quello che un tempo, in nome della geografia amministrativa, appariva inscindibile, e quindi ha costretto e costringe ancora di più oggi la nazionalità a rinnovarsi, ma continua a riconoscere nel vecchio stato nazionale, evoluto e non evoluto, un interessante strumento istituzionale, politico e ideologico.
Il sottosviluppo può contribuire allo sviluppo solo se si presenta come metro stesso dello sviluppo, la cui misura sono ancora gli stati nazionali. Il sottosviluppo diviene il rischio di un processo esterno allo stato nazionale che può minarne la stabilità, ma anche il timore di qualcosa di esterno che possa diventare interno, contaminandone l'identità; lo stato nazionale rimane indispensabile misura del rischio economico e della mobilità culturale ed etnica. Lo stato nazionale rimane un mappa nautica indispensabile alla navigazione, poco importa che non sia più aggiornata, importa che rimanga come misura per i diversi metri economici, politici e culturali.
Solo grazie al mantenimento della misura, distesa all'interno dello stato nazionale, alla sua formazione, genesi, storia e via discorrendo, è possibile costituire la dialettica tra sviluppo e sottosviluppo, tra immagine della ricchezza e della povertà, della libertà e della tirannia. È una falsa misura? Certamente. Ma è una misura ancora in uso e dunque vera.

Qui è necessario eseguire uno scarto analitico e andare verso l'immaginario e l'immaginazione sociale, la soggettività generica che rivela questo processo come un processo problematico, quale effettivamente è.
La corrispondenza tra immaginario e immaginazioni e realtà economica e culture tecniche e produttive è un tratto distintivo della nuova modernità, la complessità degli immaginari rispecchia la complessità delle forze produttive e la loro disaggregazione e aggregazione continua.
Il timore del ritorno all'economia del passato, a un economia della privazione e della penuria, insieme con il timore di una progressiva perdita delle politiche egualitarie tra i generi, anima questa dialettica intellettuale tra sviluppo e sottosviluppo, che se non trova una relazione con la nazionalità, la sua costituzione e la sua storia, difficilmente potrebbe essere scritta; la nazionalità, le sue conquiste storiche sono e rimangono la misura dello sviluppo. La nazionalità, però, è animata anche da timori opposti, quelli che paventano la fine dell'identità economica e finanziaria delle nazioni e la dissoluzione delle economie fondate sul lavoro (fatti inequivocabili) che comporterà anche e quindi la fine dell'etica e della morale: qui lo stato nazione non è solo misura ma anche metro.
Si tratta delle declinazione della stessa inadeguatezza analitica: sviluppo e sottosviluppo non sono intesi come elementi dello stesso processo, ma il processo si qualificherebbe, per entrambi i fronti, solo attraverso lo sviluppo.
Il sottosviluppo, al contrario, ha una funzione vitale per il biocapitalismo: senza la povertà, banalmente, non può essere ricchezza, senza nazioni povere, modernizzate ma incapaci di modernità e nazionalità, non possono essere nazioni ricche, moderne nel senso nuovo, vale a dire moderne e capaci di superare la vecchia modernità e la nazionalità a quella legata. Paradossalmente, come senza sottosviluppo non può esistere sviluppo, così senza nazionalità non è immaginabile e programmabile il suo superamento. È il paradosso del biocapitalismo o del capitalismo globalizzato, se si preferisce il termine.
Questa è un'antinomia che percorre continuamente, in maniera costante, puntuale e tempestiva il mondo contemporaneo; questa antinomia scende nell'immaginario, pervadendolo attraverso moltissimi strumenti, media e messaggi, con una ridda contraddittoria e disorientante che proprio perché tale ha la capacità e di comportarne l'interiorizzazione collettiva e singolare, secondo gradienze diverse e quindi secondo un'ulteriore dispersione e disorientamento.

La modernizzazione incompiuta, al contrario, nei paesi o nelle aree del sottosviluppo, fa il lavoro del sarto: riveste le vecchie ideologie e tradizioni culturali e religiose che non hanno, si badi bene, una base compiutamente nazionale; cose del passato, tribalismi, genealogie, legami dinastici e dispotici assumono l'aspetto del moderno e le corrispondenti culture si assumono anche i compiti del pensiero moderno. La famosa legge dello sviluppo diseguale che si realizzava su  singoli segmenti del processo storico, ora innerva l'intero processo.
Le ideologie religiose, che nella modernità precedente erano state costrette a una parte della cultura, in una frazione tendente al personale e individuale, perdendo terreno nell'immaginario  e nella progettazione sociale, hanno assunto, in quest'ultima modernità, l'aspetto viscerale ed esclusivo che possedevano all'origine (ebraismo, cristianismo e islam) o se questo gli era estraneo, lo hanno importato (induismo e buddismo). Questa visceralità esclusiva ha conquistato la ribalta dell'ideologia, la programmazione sociale, un disegno ecumenico che, però, si dispone verso la politica immediatamente e semplicisticamente, ignorando molte fasi intermedie della maturazione ideologica e della progettazione sociale e politica.
Per cogliere un esempio, nel mondo del sottosviluppo l'islam diviene un generico  e incompiuto pensiero anticapitalista, quindi moderno, unito a un etica dei generi e del lavoro arcaica; non si tratta di un ibrido, di una contaminazione insulsa, ma del modo di essere del biocapitalismo in alcune aree geografiche, caratterizzate da un particolare sostrato storico e culturale. Aspirazioni critiche contro il capitalismo e difesa di etiche pre – moderne si fondono. Spesso le chiese cristiane percorrono un percorso simile e analogie le possiamo reperire in alcune componenti moderne dell'induismo.
Certamente, quindi, la modernizzazione del sottosviluppo provoca la trasformazione delle ideologie religiose in ideologie politiche, in modi di essere della politica. La riscoperta della potenza politica delle religioni non è affatto un ritorno alla prima epoca moderna e alla riforma protestante e cattolica, anche se in parte gli assomiglia, ma registra un nuovo campo di azione della politica, totalizzante che interessa la vita privata e pubblica, singolare e sociale dell'individuo, che coinvolge la vita dell'individuo quasi in essenza. È questo uno dei volti e dei portati del biocapitalismo.
È un processo generale che riguarda lo sviluppo e il sottosviluppo, solo per noi molto più evidente, in ragione del nostro eurocentrismo culturale, nei paesi dominati dalle economie del sottosviluppo, dove le ideologie fondamentaliste, di qualsiasi segno religioso, hanno assunto l'aspetto di un nazismo per i popoli delle aree povere e di un socialismo senza lotta di classe, nello stesso tempo. Lì, in quelle aree, l'odio di classe, negato, viene però sublimato in un odio di una parte delle nazioni contro altre nazioni, di alcuni popoli contro altri popoli e di alcune culture contro altre culture. I popoli poveri, dotati di una vera fede e di una vera morale, quasi imitando le fraseologie fasciste e naziste dell'Europa novecentesca, si prenderanno riscatto dei popoli ricchi, privi di fede, di morale e di principi etici.
Questo nazismo religiosamente fondato per le nazioni, comunità e aree povere, unito al socialismo senza critica sociale è l'opposizione più semplice e comoda che i paesi egemoni capitalisticamente potessero desiderare, non solo al di fuori, ma anche al loro interno; il biocapitalismo domina e governa, informandole di sé, le contraddizioni che crea: diviene modo di vivere, diviene anche critica antagonista.
Il biocapitalismo ha suscitato questa apparente regressione, regressione autentica per chi rimane legato all'eurocentrismo culturale, perché è la risposta in forma arcaicizzante, adeguata all'area e alle popolazioni del sottosviluppo, alla modernissima esigenza di controllo dei corpi e delle vite, dei desideri e delle pulsioni, della comunicazione e dell'etica.
Un tempo si sarebbe detta un'opposizione di sua maestà, dove il monarca, però, non ha corpo, non ha partito, non ha istituzione, ma è un processo economico senza volto, un processo astratto e un monarca astratto. L'opposizione di sua maestà inorridisce a questa astrattezza, che pare voler competere con il suo riscoperto divino, e pretende allora di disegnare volti, partiti e istituzioni per quel processo, di personalizzarlo e territorializzarlo, di interpretarlo come un complesso di persone e di nazioni malvagie e nemiche.
Il fondamentalismo pretende di far tornare il mondo indietro, solo descrivendolo e descrivendolo come sarebbe potuto essere descritto un tempo. Questa descrizione ha successo perché è semplice e rende semplici alla comprensione le cose del mondo, nascondendo il conflitto reale e necessario, ma inspiegabile secondo i parametri semplici, per sostituirlo con uno verosimile e possibile.
Questa opposizione semplificata entra anche nei territori ricchi, nelle nazioni egemoni, in primo luogo come segno del sottosviluppo e delle popolazioni in fuga dalle aree di quello, ma anche come segno affascinante di una nuova modernità, una modernità ultima che riscopre il passato che l'ha preceduta e la vuole unire  a sé, rivificandola. Esemplare il percorso della chiesa cattolica da papa Giovanni Paolo II in poi, sotto questo profilo, ma anche di movimento mistici indigeni e non, di sette cristiane, di comunità buddhiste, induiste e via dicendo, dove la visceralità esclusiva è elemento fondante, che contraddistingue questi fenomeni, seppur molto differenti tra loro.
Il nazismo per i paesi, le nazioni, le aree, le comunità e le popolazioni povere si diffonde come strumento di identità non necessariamente nazionale nel sottosviluppo, e come strumento di frantumazione e scollamento delle identità nazionali, verso nuove forme identitarie, nei paesi egemoni.

Venerdì, 8 gennaio

Ai margini dei fatti di capodanno in Colonia. Il modo di diffondersi di idee, atteggiamenti mentali e comportamenti sociali è molto cambiato in questi cinquant'anni: la diffusione ha perduto l'aspetto univoco, spesso è policentrica, sempre imita la policentricità pur mantenendo una sostanza monocentrica, e sempre si serve autenticamente di strumenti policentrici e reticolari. L'elemento decisivo non risiede nella sostanza, ma nell'apparenza policentrica, sulla sostanza ci sarebbe molto da ragionare e quantomeno bisognerebbe presupporre una dialettica e confronto tra quella e l'apparenza.
Le barriere nazionali, vero ambiente e caposaldo della diffusione ideologica, comportamentale e culturale univoca, in questo contesto, comunque, contano davvero poco e sono del tutto inadatte anche a gestire la dialettica tra apparenza ed essenza della reticolarità. Il contesto policentrico e reticolare è il risultato della compenetrazione continua tra diverse aree, diverse sotto il profilo economico, produttivo e demografico. C'è un rispecchiamento tra reticolo e compenetrazione, anche se è, ovviamente, imperfetto.
I fondamentalismi si diffondono da nazioni a nazioni, da nazioni povere verso nazioni ricche ed egemoni, ma, nello stesso tempo, originano anche, in maniera indipendente e auto generativa, nelle nazioni egemoni,  perché vivono nel medesimo ed essenziale brodo di coltura che è l'economia e la socialità progettata dal biocapitalismo. Questa è la dialettica culturale del biocapitalismo.
Nei paesi egemoni il fondamentalismo, al di là delle forme ideologiche e dei riferimenti che assume (pensiero liberale, neo – cristianesimo, escatologie diverse) sacralizza e rende trascendenti lo stile di vita raggiunto, le abitudini acquisite, in quanto divengono la realizzazione del senso stesso della storia, lo scopo del cammino stesso dell'umanità. È una convinzione di massa, condivisa e un sistema di valori antropologici; è un sistema di valori antropologici nel senso che su alcuni di quelli, presi singolarmente, tenuti separati gli uni dagli altri, si può anche sindacare, discutere e introdurre innovazioni e cambiamenti, ma sul complesso generale, sulla sua collocazione, peso e ruolo nella vita sociale generale, sull'economia generale, sulla stessa idea del mondo non si è disposti a nessun compromesso. L'idea secondo la quale l'umanità vive di progressivi rischiaramenti, crescita di sé, è parte ineludibile di questo sistema di valori. Nel mondo dell'immanenza esiste una trascendenza, ed è, per i fondamentalismi ricchi, la consapevolezza di sé raggiunta dai paesi economicamente egemoni, che rappresenta nel migliore dei modi possibili, nella maniera più adeguata possibile, la storia del mondo e dell'uomo.
I fondamentalismi poveri, per forza di cose, non condividono questa teleologia; il mondo dell'immanenza come progressivo miglioramento e rischiaramento dell'umano è per quelli bugia e prova provata di quanto la menzogna, la falsificazione della realtà abbiano, finora, dominato il mondo e di come il mondo sia nemico.
I fondamentalismi poveri sottolineano il conflitto, quelli ricchi la pacificazione. Il conflitto in quelli è una necessità immanente per la costruzione di un nuovo piano trascendente; la pacificazione, nei fondamentalismi ricchi, sottolinea la sintesi, la trascendenza che richiede il conflitto per il motivo opposto, la difesa del piano immanente sulla quale si fonda.
I fondamentalismi poveri sottolineano l'impossibilità di uscire dal sottosviluppo e disegnano il sottosviluppo come valore, i fondamentalismi ricchi sottolineano la possibilità del superamento delle contraddizioni tra sviluppo e sottosviluppo.
In entrambi i casi, lo sviluppo e il sottosviluppo sono dati come momenti inevitabili, stati necessari, e in entrambi i casi non si mette in discussione la tipologia dello sviluppo. Vanno radicalmente rivisti gli assiomi del marxismo ortodosso e classico, che è stato per molti aspetti una forma di fondamentalismo incapace di criticare la logica dello sviluppo e che, spesso, ha preso le parti della sintesi e della trascendenza, altre volte quelle del conflitto e dell'immanenza. Alle volte il pensiero marxista ha ritenuto che solo spingendo il piede sull'acceleratore dello sviluppo o altre volte solo facendo leva sulle forze e resistenze del sottosviluppo si potesse giungere a una sintesi finale e alla realizzazione dei destini dell'umanità.
Uso la categoria di fondamentalismo come una figura retorica, come una semplificazione, un'inadeguatezza ma efficace, verso un'efficacia che dovrebbe comportare, al contrario, una terribile complessità.
Proseguendo in questa semplificazione, lo sviluppo del capitalismo globale, anche perché è uno sviluppo biocapitalista, porta con sé la crescita di fondamentalismi poveri (quelli che fanno della povertà un valore assoluto e una garanzia di etica e moralità) e ricchi (quelli che fanno dei relativi livelli di agiatezza economica, di raffinatezza intellettuale, una garanzia etica e morale opposta). Questo sviluppo, però, porta con sé anche la visione realistica o addirittura materialistica della fine dell'immanenza, vale a dire della fine del senso della storia e degli scopi dello sviluppo storico. È il cuore e l'incubo più profondo, quasi inconscio, del biocapitalismo.
Questo incubo e cuore può darsi anche nella realtà, manifestarsi al di fuori del sogno, come una guerra civile mondiale strisciante o una crisi economica costante, come guerra civile e crisi che diventano strumenti, forme e abiti dello sviluppo; dal punto di vista classico uno sviluppo senza sviluppo.

Si interseca a questa visione realistica, se non addirittura materialistica, la critica all'unità del diritto; l'unitarietà del diritto è stata uno dei fondamenti dell'unità e identità degli stati nazione. In base a questa idea giuridica, abbastanza recente e vecchia di appena tre secoli, uno scenario sociale, per essere tale, doveva fondarsi su un'uniformità giuridica, realizzata su base geografica, che poteva anche dividere la società ma orizzontalmente e non verticalmente.
L'unitarietà del diritto non era propria del diritto romano, quanto meno non era l'elemento centrale in quello; il mondo giuridico romano prevedeva che alcune componenti e frazioni delle leggi, delle definizioni delle colpe e della statuizione delle pene fossero gestite in maniera diversificata a seconda delle aree geografiche, delle province, dell'etnia, del lignaggio e dello stato sociale del soggetto giuridico. Un Ebreo in Roma viveva secondo un diritto diverso da quello ebraico della Palestina e le cose cambiavano ulteriormente in funzione del suo stato sociale, se era donato di cittadinanza oppure no, se alla sua comunità era riconosciuta una soggettività giuridica oppure no, e via dicendo. Gradienze e gradazioni diverse costellavano l'applicazione del diritto in Roma imperiale.
Il cinismo biocapitalista, o meglio il realismo e per certi versi il materialismo biocapitalista non colloca l'unitarietà del diritto tra i valori irrinunciabili per lo sviluppo; qui si contrappone allo stato – nazione. Lo stato nazionale è unitarietà e assimilazione nell'unitarietà; la tendenza statuale biocapitalista, il potenziale farsi stato del biocapitalismo, non ha fondazione necessaria nell'unitarietà dei diritti, anzi volge verso la compresenza e frequentazione di diritti singolari e particolari. I fondamentalismi opposti, attraverso la guerra civile mondiale teatralizzata e realizzata in forme mediatiche, difendono, seguendo inclinazioni, metodologie e fascinazioni diverse e spesso opposte, la conservazione dell'unitarietà del diritto.

Domenica, 24 gennaio

Annotazione. Negli anni novanta, in Italia, succedono due cose, importanti: finisce la prima repubblica (o fa il verso di finire, ma poco importa ai fini analitici di questi pensieri) e viene siglato l'accordo sul costo del lavoro. Sono importanti per inquadrare l'emergenza di una nuova tipologia di relazioni di lavoro, che indirizzano lo sviluppo del nuovo soggetto operaio sotto il profilo della normativa contrattuale. Le spinte sociali degli anni '70 e '80 per l'abbandono del lavoro dipendente inteso in senso stretto, normato contrattualmente, trovano nei novanta un canale di sbocco naturale e integralmente subordinato alle regole del mercato. La fuga dal lavoro contrattualmente normato diventa, ora, l'immediata e non normata relazione con il mercato del lavoro e delle merci.
La disgregazione di una ancora piccola parte dello Stato sociale, sancita e santificata ideologicamente dalla rivoluzione dei magistrati, da tangentopoli e dalla conseguente messa sotto accusa mediatica della prima repubblica, si sposò con una politica di bassi salari che ha slegato irreversibilmente il principio del reddito da quello della retribuzione del lavoro, come era stato già anticipato dall'abolizione della scala mobile nel 1984. Il lavoro dipendente tradizionale nel settore privato si avvicina alle nuove forme di retribuzione e di controllo del lavoro che erano state sperimentate nel lavoro esternalizzato dal settore pubblico negli anni ottanta e che hanno oggettivamente funzionato da laboratorio contrattuale e nel comando d'impresa.
Il taylorismo perde la sua sponda keynesiana, rappresentata dal reddito complessivo slegato parzialmente dalla produttività grazie alla fornitura pubblica di servizi sanitari, educativi ed assistenziali in regime di quasi gratuità. Non è la domanda, ma l'offerta ad essere sostenuta e lo stesso modo di produzione di Taylor diviene inadeguato, la produzione di massa viene riformata e rivista. Si diffonde il just in time, l'azzeramento del magazzino e la flessibilità delle linee di montaggio: la produzione operaia cambia volto, insieme con il lavoro operaio di fabbrica. Ma soprattutto cambia il modo di stare dei produttori nella società, oltre che nella produzione stessa.
I primi anni novanta, in Italia, ebbero davvero un aspetto storicamente rivoluzionario: cambiava una piccola parte della costituzione formale, soprattutto nelle forme della rappresentanza politica (evidenziata ma non riassunta dal passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario), ma cambiava autenticamente la costituzione reale. Si registrava, quasi di un tratto e quindi appunto in maniera rivoluzionaria, la trasformazione che si era insinuata nei quindici anni precedenti, tra 1975 e 1990.

Sabato, 30 gennaio

Annotazione. Presero corpo in forma nuova, nei novanta, le tendenze all'autoimprenditorialità che si erano espresse fin dai secondi settanta.
Sono centrali queste nuove forme: l'autoimprenditorialità (in verità parola un poco vuota ma utile in questo caso per distinguerla dall'imprenditorialità tradizionale e 'storica') perse la carica critica nei confronti del lavoro salariato che l'aveva animata nei due decenni precedenti e cessò di legarsi alla soggettività politica dell'operaio – massa, quando, invece, questo legame aveva determinato l'incredibile combine antagonista, quella sorta di comune di Parigi, frazionata istituzionalmente  e  distribuita  geograficamente tra Roma, Milano e Bologna, durante le annate 1975 – 1977.
Non furono, dunque, nuove forme marginali, secondarie come lo è il prodotto di una sottocultura politica e sociale: il rifiuto del lavoro salariato, del lavoro regolato contrattualmente, del lavoro dipendente, era stato, infatti, il tratto unificante tra vecchia e nuova composizione di classe, o, meglio è scrivere, tra il passato che resisteva e il futuro che iniziava a organizzarsi insieme con esso. Il rifiuto del lavoro si trasformò, grazie a questa frattura e divorzio, necessariamente in sempre più generico elogio all'attività contro il lavoro, alla libertà del mercato contro la schiavitù del salario. Il lavoro slegato dal comando di fabbrica e da uno dei suoi strumenti, la norma contrattuale, non diventava libertà dal lavoro salariato ma solo libertà dalla norma contrattuale, dalla coercizione collettivizzata.
Non accadde, quindi, che accanto alla vecchia classe operaia fordista si collocò una nuova classe operaia; accadde, invece, che si trasformò generalmente il modo di lavorare, di intendere il lavoro e di essere forza lavoro. I vecchi aggettivi validi a circoscrivere l'esperienza operaia decaddero fino al punto di rendere difficile la definizione di classe operaia. I quadri statistici sull'occupazione non possono rilevare questa trasformazione, perché fu il modo stesso di stare nell'occupazione, di essere occupati, di avere e subire una condizione contrattuale, di stare nel lavoro oppure di essere nella disoccupazione e di stare senza una condizione contrattuale normata a cambiare radicalmente.
Non si trattava più di nuovi e vecchi soggetti, di avanguardie e retroguardie sociali (e magari politiche) ma di un nuovo contesto generale, dentro il quale era ed è ancora oggi inadeguato e mistificatorio scrivere di soggetti sociali.
L'accordo sul costo del lavoro riduceva la variabile operaia, anzi l'ha azzerata, mentre la deregolamentazione economica produceva una pioggia di appalti ed esternalizzazioni  che favorivano nuove mentalità operaie e nuovi soggetti. L'impresa si decentrava e con essa la normativa del lavoro si frantumava.
Molti, legandosi ancora al tradizionale discorso sui soggetti sociali e cercando di rivitalizzarlo, hanno sottolineato come il capitalismo cognitivo e il lavoro immateriale sono stati centrali in questo processo; tutto questo permetteva di individuare e circoscrivere un segmento di produzione, dotarlo di un ruolo trainante e costituire ideologicamente un nuovo soggetto proletario. A parte il fatto che, precisamente come il termine autoimprenditorialità, capitale cognitivo e lavoro immateriale sono concetti un poco vuoti, che contengono in sé stessi il loro inizio e la loro fine, concetti che si autodistruggono, la mia percezione è che tutto l'involucro produttivo, ma non solo quello ma l'intera socialità, venne in quel decennio coinvolto in una trasformazione profonda.
Certo è possibile, anzi necessario, continuare a individuare segmenti e settori sociali, ma non più in termini di soggetti compresenti e di composizione. Se si fosse costretti a ragionare in termini di soggetti e composizione sociale si dovrebbe scrivere che i cambiamenti intervenuti negli anni novanta (sto scrivendo dell'Italia) hanno provocato la costituzione di un unico soggetto proletario, che però non è una composizione, perché non è minimamente unitario, e che quindi, seppur utile dal punto di vista di un analisi filosofica, è pressoché inutilizzabile in quella economica e politica e, dunque, alla fine, non è un soggetto sociale ma antropologico.
Segmenti e segmentazioni ve ne sono state, molto spesso in stridente contraddizione con il nuovo concetto del lavoro come attività, tanto nel mondo delle fabbrica, più spontaneamente connaturato ad ospitare questa contraddizione, quanto in quello della cosiddetta nuova economia.

È comunque innegabile che il modo di produzione di fabbrica, la tendenza alla segmentazione e semplificazione delle mansioni, ha in parte abbandonato la fabbrica; è, però, altrettanto innegabile che la segmentazione, parcellizzazione e semplificazione delle mansioni lavorative sono state esportate  e ancora oggi resistono e funzionano bene, dal punto di vista del comando d'impresa, nell'amministrazione e nei servizi per le / nelle imprese.
È oggi corretto analizzare il tradizionale lavoro di ufficio (il front e back office, la produzione documentale, l'archiviazione, l'euristica) nei termini di un lavoro produttivo, svolto quasi in termini tayloristici. Il taylorismo è migrato. Questa è certa conseguenza, molto specifica, di una condizione generale, secondo la quale anche l'informazione aziendale è un prodotto, nel senso di un bene, di un valore di scambio e non solo d'uso, anche se, ovviamente, il suo valore non è misurabile con la medesima scienza del valore di scambio fisico e materiale. Scriverei, però, che tende a quella scienza.
Mentre la scientifica misurazione del valore di scambio abbandona la produzione manifatturiera, approda a quella intellettuale, coinvolgendo il lavoro subordinato e comandato direttamente, spesso precisamente normato dalla contrattualistica su base oraria, dentro le strutture amministrative delle aziende. Il taylorismo è entrato nel mondo degli impiegati.
Anche nell'eccezione tayloristica del nuovo modo di lavorare impiegatizio si rientra a buon diritto e senza conflitti sistemici nel nuovo mondo e scenario sociale: il modo di misurare il lavoro comandato direttamente dal capitale attraverso il sistema del comando di impresa è cambiato e anche là dove il comando di impresa e contrattuale è rimasto rigidamente legato alla concezione della base oraria per la retribuzione, all'idea di tempo di lavoro, la sua misura non fa riferimento (e non può ovviamente farlo per la natura stessa del prodotto nel caso dell'impiegato) alla misura oraria del lavoro vivo necessario.

Se esiste l'operaio sociale, questo soggetto indimostrabile, abbiamo scoperto la sua prima caratteristica dopo l'indimostrabilità e che presuppone l'indimostrabilità, la non unitarietà. L'operaio sociale è indimostrabile perché non è unitario e quindi  non si presenta come un soggetto.
In Italia questo nuovo soggetto si è affermato concretamente negli anni novanta, rovinando, per la sua stessa natura, tutti gli altri soggetti proletari, risucchiandoli, polarizzandoli e spezzettandoli. Negli anni novanta, in Italia, l'operaio sociale è uscito da una metaforica minorità storica e la sua affermazione è la niente affatto lineare conseguenza di uno cambiamento complesso e complessivo, ma privo di aspetti unitari e dialettici, dello scenario economico, politico e istituzionale.
Le caratteristiche di cognitività e immaterialità delle risorse e del lavoro che sono associate solitamente a questo soggetto vanno ridimensionate: la fondazione del soggetto è anche una conseguenza di quelle ma non si basa su quelle.
Se intendiamo inoltre ridurre l'analisi sul soggetto indimostrabile verso la costituzione e l'incontro con un soggetto sociologicamente e politicamente tendente all'omogeneità, potenzialmente omogeneo, che cammina verso una precisa direzione politica e ideologica e verso una determinata composizione di classe, quindi, appunto con un soggetto sociale, corriamo il rischio di dover fare dell'antropologia, scienza affascinante, ma fuori dai nostri scopi iniziali. Questo deragliamento potenziale è, comunque, eloquente.

Domenica, 31 gennaio

Annotazione. In Italia, negli anni '90, attraverso le nuove leggi elettorali, gli accordi tra governo e confederazioni sindacali e la rivoluzione apparente di tangentopoli, non si è affermato solo un nuovo quadro politico e ideologico, ma anche un nuovo concetto di cittadinanza.
Se le caratteristiche dell'operaio sociale non disegnano un nuovo soggetto sociale e una nuova composizione di classe, ma un generale e sociale approccio al mondo, al mercato e al lavoro, allora la sua affermazione deve necessariamente accompagnarsi con un cambiamento strutturale e, per usare un'aggettivazione storica, epocale.
Questo non perché, secondo una regola storica abbastanza ovvia, a una composizione di classe corrisponde una forma di comando sull'economia e di dominio politico, ma perché, senza voler introdurre nessuna deroga a questa regola generale e per me incontestabile, banale e, lo ripeto, ovvia, le trasformazioni che hanno determinato la comparsa di questa nuova composizione di classe, di questo soggetto indimostrabile (in Italia negli anni '70, ma negli Stati Uniti possiamo tranquillamente retrodatare agli anni cinquanta questa epifania) sono state molto più ampie, generali, che nel passato del capitalismo e forse della storia dell'umanità. Insomma la mia impressione è che questa nuova composizione di classe sfugge all'analitica che, tradizionalmente, nel marxismo, conduceva a individuare una composizione di classe. Oggi la composizione di classe stessa richiede un marxismo oltre il marxismo, una specie di Marx oltre Marx e la scelta di quel titolo da parte di Negri, per un suo testo degli anni ottanta, fu, secondo una modalità che certamente Negri non aveva immaginato, profetica.

L'Italia ha avuto la sua parte di questo cambiamento e l'ha reso, a suo modo, visibile; ha rispettato in questo la sua storia particolare, la sua particolarità, che appariva dominata da un sostanziale immobilismo istituzionale e politico (la costituzione del 1948, il regime democristiano prima e poi i governi di pentapartito), lungo mezzo secolo. A fondare la costituzione italiana era stato uno scenario contraddistinto non solo dalla fine della guerra ma di una guerra civile e necessariamente la costituzione italiana ha avuto una fondazione e una genesi forte, in quanto testimonianza e sanzione del superamento di una guerra intestina ed esterna la cui riproposizione doveva essere scongiurata. La costituzione e la repubblica italiana, quindi, sono stati i prodotti di una rivoluzione politica, della fine del fascismo, della dittatura, dell'affermazione del suffragio universale e della distribuzione della rappresentanza in maniera rigorosamente democratica, la distribuzione dei seggi secondo il sistema  proporzionale.
Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è stato, dunque, morbido e secondo i metri europei apparente, proprio per questa genesi della democrazia parlamentare e repubblicana; ma non per questo non è stato un passaggio concreto e dalla sua morbidezza e dal sostanziale rispetto della struttura costituzionale emersa nel 1948 mantenne anche  nei novanta la peculiarità politica del nostro paese, lo scombinamento dei concetti di destra e sinistra e la polemica, spesso rovesciata ed emersa fin dagli anni ottanta, tra conservatori e riformatori.
Il concetto di cittadinanza, difeso dai costituenti nel 1946, era, dal punto di vista del cittadino inteso come soggetto sociale, quello di una partecipazione necessaria al mondo del lavoro e alla distribuzione del reddito attraverso il lavoro. Il fatto di essere cittadino doveva essere garanzia di una relazione protetta con le forze economiche  e mediata con il mercato.
Negli anni novanta, anche se i riferimenti formali a questa concezione non furono abrogati, la costituzione reale rese il cittadino in diretto rapporto con il mercato, precisamente come il lavoro salariato, nelle sue diverse espressioni, andava verso un rapporto immediato con l'economia di mercato.
La cittadinanza, da valore che precedeva il mercato, è diventata valore che lo segue e che da esso è validato in quanto valore. L'innegabile senso autoritario del sistema elettorale maggioritario, che sposta il momento della definizione delle ipotesi di governo a prima del confronto elettorale, è in qualche maniera analogo a questo spostamento del valore della cittadinanza, almeno in Italia e tenendo conto della storia istituzionale italiana.
La democrazia rappresentativa, anche in Italia e con qualche decennio di ritardo rispetto agli altri paesi egemoni nell'occidente, si è fatta tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta un'istituzione autoritaria dotata di un consenso di massa.
Mentre ancora negli anni ottanta la riscoperta del mercato era un fenomeno di una piccola minoranza dei soggetti produttivi, di una minoranza che, per una relativa libera scelta, abbandonava il mercato del lavoro normato contrattualmente, nel decennio seguente divenne un fenomeno di massa. Riuscire ad affrontare direttamente il mercato, fare impresa, associarsi per mettersi in proprio fu una tendenza già presente negli anni ottanta, ma sposata a una serie di finanziamenti pubblici, a un welfare, che favoriva la formazione di microimprese. Negli anni ottanta, quindi, la mediazione stabilita dalla costituzione nel rapporto con il mercato era costitutiva anche per l'autoimprenditorialità e si affermava in settori scelti e programmati: il settore dei beni culturali, il mondo dell'informatica e pochi altri. La mediazione con il mercato si coniugava alla crescita di iniziative microimprenditoriali e / o cooperativistiche nei settori che presto sarebbero stati detti della produzione cognitiva e immateriale (assistenza ai disabili, a problematici psicologici ed emotivi, portatori di handicap, oltre ai tradizionali settori del lavoro culturale e dell'informazione). Nasceva, quindi, in questi anni anche il concetto (non ancora il termine) di  lavoro affettivo.
La traccia del grande impulso fornito dai movimenti dei due decenni appena trascorsi, verso il rifiuto del lavoro salariato e soprattutto del lavoro manuale e alto contenuto fisico, era ancora tangibile e forte e, in controluce, si potevano ancora vedere quelle vecchie aspirazioni ideali e nelle biografie, molto spesso, gli stessi protagonisti.
Negli anni novanta la musica non cambiò, ma cambiarono i suonatori e il loro numero e, alla fine, anche il concerto: si suonava la stessa melodia, ma in modo completamente diverso.
Si produsse una nuova mescolanza, dentro la quale i numeri, i rapporti numerici tra vecchi e nuovi soggetti produttivi sono ben poco indicativi per qualificarne le caratteristiche: il carattere di fondo della nuova composizione è, infatti, la compresenza di altre composizioni sociali, vecchi e nuove e vecchie in forme nuove.

Rivedi gennaio
Inizio anno

Giovedì, 11 febbraio

Annotazione. Il soggetto indimostrabile si dimostrò in Italia, nell'economia italiana, negli anni novanta, avendo già dato prova di sé, limitatamente alla cultura e agli stili di vita, nei due decenni precedenti. Uno degli enigmi dell'operaio sociale è proprio questo: mentre si affaccia autenticamente al mondo, perde le caratteristiche che avevano distinto la sua gestazione, l'elemento distintivo si scioglie nell'economia.
Per dirla in parole povere, negli anni novanta, in Italia, l'operaio sociale diviene una figura operaia tra le altre.
Il lavoro intellettuale era stato uno dei settori preferiti, scelti addirittura, dell'attività economica dell'operaio sociale, mentre negli anni novanta ampi strati del lavoro manuale sono contagiati dalla forma organizzativa che era appartenuta, quasi in regime di esclusività, alla nuova forza lavoro sociale: crescono microimprese, ditte individuali e prestazioni occasionali d'opera anche nel mondo operaio (soprattutto nel nord est) e nell'edilizia. Il lavoro in outsourcing, l'appalto e il subappalto si diffondono anche ai margini della fabbrica, nell'indotto, e persino dentro i recinti degli stabilimenti. Il rifiuto del lavoro manuale e della relazione di lavoro salariato si trasforma in un lavoro manuale che non viene erogato attraverso il comando diretto sul salario, ma attraverso il comando indiretto della 'relazione tra imprese'. La mediazione con il mercato, costituita dal rapporto di lavoro normato contrattualmente, viene meno e si sostituisce una relazione diretta tra lavoratore e mercato. Spesso il mercato ha il volto di un'unica e sola offerta di lavoro, ma la finzione di una relazione libera è rappresentata.
In questo passaggio avvengono anche notevoli trasformazioni nei settori produttivi dove, tradizionalmente, era impiegata la nuova figura: nel lavoro creativo, nella ricerca, nella progettazione e in genere nell'outsourcing per gli enti pubblici. In questi settori la relazione non cambia ed è già assodata e, come scritto, addirittura esportata anche in alcuni segmenti del lavoro manuale ma cambia la relazione con l'emolumento o meglio con il valore d'uso del lavoro, che perde quasi del tutto l'aspetto di una quota di reddito garantito. Politiche al ribasso dei prezzi e attente al minor costo divengono egemoni, dove prima non lo erano e lo erano sono in parte o, ancora, non definivano completamente il quadro dell'offerta. Il liberismo italiano, santificato dall'affermazione della 'seconda repubblica', è quello del minor costo e miglior prezzo: imprese cooperative, microimprese e prestatori occasionali d'opera devono affrontare un nuovo mercato, dove cessano di riprodursi i codici di rispetto e le garanzie che vivevano in una certa analogia con quelli garantiti per il rapporto di lavoro salariato, il rapporto di lavoro normato contrattualmente.

Domenica, 14 febbraio

Annotazione. Non si è trattato solo di un fenomeno quantitativo, di spostamento di manodopera da una relazione di lavoro a un'altra relazione di lavoro (sull'ampiezza di questo spostamento andrebbero viste le statistiche di CENSIS e ISTAT) ma qualitativo. È cambiata insieme con la quantità del lavoro la sua qualità.
Le logiche tayloriste migrano nel lavoro d'ufficio, favorite dalla job automation e dall'incipiente uso della telematica, ma soprattutto  il taylorismo, come strumento complessivo, come mentalità, atti a coordinare la produzione cede il passo a nuovi strumenti e mentalità. In queste nuove forme diventa centrale il coordinamento territoriale tra i diversi segmenti produttivi, che fa il paio, si sposa perfettamente, con la dimensione mondializzata della produzione. Negli anni novanta, localismo, distrettualismo si sposano con l'orizzonte globalizzato del mercato ma, si badi bene, non lo recepiscono e non lo fanno proprio: negli anni novanta, in Italia, si è verificata una reazione non una partecipazione, si è vista una passività non il protagonismo.
La definitiva fine della centralità della fabbrica, la fabbrica intesa come recinto architettonico e produttivo, ha imposto e indotto uno sguardo verso tutto quello che stava nelle immediate vicinanze della fabbrica, uno sguardo verso il territorio, verso il territorio come risorsa produttiva. Per certi versi la fabbrica si allargava nel territorio e spesso questo ha significato il suo spostamento, la sua migrazione, nel lavoro a domicilio per centinaia di microimprese artigianali, altre volte interi segmenti della di produzione venivano concessi in appalto a aziende più contenute nel numero di occupati.
Il comando di fabbrica lasciava posto al comando sul territorio, alla capacità di formare le professionalità, nuove imprese, nell'area che circondava la fabbrica.
La produzione stessa si separava nelle forme secondo linee gerarchiche: si introduceva la robotica nella fabbrica dimagrita, mentre in altri settori sopravvivevano forme produttive ancora legate alla linea di montaggio e in altre ancora si sperimentavano tecnologie innovative. Non fu un modello univoco, anche se largamente egemone e qualche volta il cosiddetto indotto superò per innovazione il concentramento produttivo primario.
La territorializzazione del comando di impresa ha reso l'impatto con il mercato del lavoro da parte dei soggetti operai, per certi versi, immediato, sul modello già elaborato per i servizi e il lavoro sull'informazione, per il nuovo lavoro intellettuale, negli anni '70 e '80. Una volta tanto i figli avevano maggiore esperienza dei padri ed erano aperti a un cinismo e opportunismo che i padri avevano sempre cercato di evitare. Negli anni novanta si trovarono a confronto non solo due composizioni di classe, questa volta non mediato da complicità ideologiche (l'operaio massa con l'operaio sociale) ma due generazioni proletarie. Lo scontro che embrionalmente si era dato nel biennio '75 – '77, spesso enfatizzato dalla mistificazione ideologica, dalla rappresentazione della classe operaia portata avanti dall'allora partito comunista italiano, ora si rivela nella sua crudezza, per cosi dire in tutta la sua naturalità, anche se con significative differenze. Nel campo della produzione dei beni materiali, dei prodotti di manifattura, si riutilizzava, costringendola a nuovi codici di impresa, la vecchia impresa artigianale e la sua mentalità, insomma quella che, seguendo Bologna, potrebbe essere detto il lavoro autonomo di seconda generazione. L'antica mitologia del 'farsi da sé' si arricchiva dell'idea di partecipare a una progettazione complessiva e a un comando razionale sul lavoro della propria area, di contribuire all'esaltazione della sua specificità e delle sue professionalità.
Per inciso, la crescita della Lega tra i nuovi artigiani del nord e anche tra i vecchi settori operai è stata il segno di questa illusione di governare localmente la mondializzazione dell'economia e questa illusione è stata in gran parte alla base dell'analisi di classe, finalizzata esclusivamente alla propaganda elettorale, della Lega Nord. La Lega Nord ha avuto la capacità, tra fine anni ottanta e anni novanta, di usare politicamente le nuove condizioni di rappresentazione del lavoro di fabbrica e della nuova manifattura diffusa sul territorio nel settentrione italiano. Era questo uno schema ideologico secondo il quale il coordinamento locale della produzione avrebbe permesso di affrontare i mercati internazionali, reiventando attraverso di quello la matrice stessa del territorio, della regione, la sua identità, da proiettarsi poi, ma solo poi, sul passato localista, medioevale, comunale e anti imperiale del nord d'Italia: i comuni lombardi e la retorica su quel medioevo, come la storicità dell'enclave produttive del nord.
Varrebbe la pena di articolare meglio questa analisi, un giorno, chissà quale? Però.
Indirettamente, con infinite mediazioni analitiche e senza mettere in stretta relazione processi tra loro molto diversi, per natura e struttura, l'emergere della Lega Nord, la crisi dell'immagine ufficializzata del movimento operaio storico, la ridenominazione del PCI, il nuovo sistema elettorale e tangentopoli hanno segnato, sotto il profilo della politica istituzionale, questa radicale trasformazione del mondo del lavoro. La novità della Lega è maggiormente adiacente al mondo della produzione dei beni materiali, è il prodotto di un frammento del processo, che ha determinato, nella sua complessità, il cambiamento istituzionale generale ma è rappresentativa della trasformazione in corso, è quella che meglio la rappresenta.
Si badi, comunque, bene, secondo la mia percezione, in Italia nel decennio dei novanta, si dà un cambiamento radicale che, però, non riesce ancora a porre una nuova relazione operaia con il lavoro come polare e tocca, forse più, il lavoro manifatturiero che non quello immateriale. L'impressione è addirittura che, nel quadro di un capitalismo quasi regressivo, volto al passato e agli esempi di un mercato prekeynesiano e per certi versi protocapitalista, non resuscitabile concretamente ma perseguibile come modello ideale, un capitalismo volto maggiormente verso un'ideologia che non verso una concretezza, il lavoro manuale e il comando su quello abbiano funzionato come strumento per massificare modi di vivere il lavoro minoritari, di nicchia e repertorio, fino a quel momento, del nuovo lavoro intellettuale.

Sabato, 20 febbraio

Annotazione. Gli anni novanta, senza ridipingere il quadro, hanno cambiato la cornice, hanno inquadrato il lavoro, pur rispettando in larga misura le normative esistenti, in una nuova prospettiva. La vecchia contrattualistica e le novità contrattuali atipiche rimanevano tali, rimanevano il vecchio e il nuovo, che convivono ignorandosi e, apparentemente, non influenzandosi reciprocamente.
Il rapporto con il lavoro divenne manifestamente non univoco e la complessità, prima embrionale, poi occultata durante i due decenni precedenti, si manifestò. Il lavoro salariato divenne un riferimento per una molteplicità contrattuale che ne era esclusa e che cercava sul mercato di costituire i suoi parametri.

Domenica, 21 febbraio

Annotazione. Alla mia percezione e secondo la persistente 'anomalia italiana', gli anni novanta sono stati il periodo di autentico passaggio tra la vecchia composizione di classe e la nuova e tra la vecchia costituzione di capitale e la nuova. Per quanto fin qui scritto, però, non si è determinato un razionale e scientificamente descrivibile approdo a una nuova complessità, ma semmai l'incontro con qualcosa che, mettendo in discussione il concetto stesso di composizione di classe e quello relativo di costituzione di capitale, trova nella complessità, nell'asincronicità, nei contrasti e nelle compresenze contraddittorie il suo senso.
Qui bisognerebbe saper distinguere quanto di queste antinomie, asincronicità nello sviluppo, dipendano dalla specificità italiana (dall'anomalia, appunto) e quanto, invece, partecipino alla linea di sviluppo naturale del capitalismo, al passaggio dal capitalismo fordista e neolitico al biocapitalismo postindustriale e informativo. Il passaggio da un soggetto e dalla generazione della soggettività perfettamente dimostrabili a un soggetto e relativa generazione soggettiva indimostrabili impone, infatti, di usare l'aggettivo naturale, quando è riferito a questo sviluppo, chiuso tra virgolette.
In ogni caso quello che nel paese capitalistico egemone par excellence, gli Stati Uniti d'America si è realizzato tra il 1945 e il 1965 (anno più, anno meno), in Italia si è espresso compiutamente mezzo secolo dopo e solo al prezzo di una mezza e semiseria, ma concreta, 'rivoluzione' istituzionale e costituzionale.
Questo compimento storico non va inteso come meccanica realizzazione, soddisfazione quasi, di una tendenza ineluttabile, non come una tendenza naturale, perché non è possibile comprenderlo e decifrarlo secondo questi parametri. Di naturale, nel senso tradizionale, storico, del termine è rimasto poco nella storia: oggi la storia, rispetto ai canoni illuministi e romantici, è ben poco storica. In Italia la storia ha cessato di essere storica dagli anni novanta.

Mercoledì, 24 febbraio

Annotazione. Se i critici del cubismo potevano ironizzare sui problemi di vista di Braque e Picasso, i detrattori dell'arte astratta erano costretti ad ammettere che lì non si vedeva nulla, che non c'era nulla di visibile. La realtà, nei primi, si scomponeva e le sue forme si riassemblavano; nei secondi la realtà rimaneva come energia di fondo, come il problema della tela e della sua fisicità e per certi versi il problema della creazione artistica si mostrava in quintessenza.

Annotazione. Alla fine degli anni sessanta, il Partito Comunista Americano considerò la rivoluzione impossibile. Non so come sia giunto a questa conclusione e che importanza storica abbia avuto, né se si trattò di una coerente e consapevole rinuncia alla teleologia, oppure di una rivisitazione strategica. Ma la rinuncia a un tratto fondamentale della realizzazione del fine della politica e della storia, che prevedeva la rivoluzione come necessaria, non può non essere messa in relazione con la trasformazione subita dalla società americana. Se non ho inteso male, i comunisti americani ritenevano ormai impossibile costruire l'unità tra i diversi soggetti proletari, unità considerata indispensabile a ogni ipotesi rivoluzionaria e alla costituzione di un nuovo dominio. Io intenderei, ora, questa oggettiva impossibilità come occasione per nuove possibilità politiche e storiche, di una nuova opportunità, di un nuovo piano per la teleologia: non è sicuramente, infatti, in questione, ormai, la costituzione di un nuovo dominio unitario, ma proprio tutto l'opposto è in questione e, usando un brutto termine, all'ordine del giorno. È all'ordine del giorno, oggi, la fondazione di domini, poteri e potenze disperse.

Venerdì, 27 febbraio

Annotazione. L'idea di domini e poteri, alla fine il concetto riassuntivo dei due termini potrebbe essere quello di potenze, è analiticamente debole, sotto molti punti di vista.
È debole perché contraddittoria implicitamente: domini e poteri dispersi difficilmente, nell'esperienza storica concreta, hanno abdicato alla costituzione centralizzata, hanno rinunciato alla tendenza a costituirsi secondo dinamiche centrifughe anziché centripete. Li definisco poteri e domini solo perché non trovo altri vocaboli, anche se il problema non è solo terminologico o linguistico. Un potere implica sempre una giurisdizione, l'espressione di un diritto che sono la sua potenza, e quindi la potenza, che pure non nasce intendendosi immediatamente come centripeta, richiede un'omologazione e quindi una naturale tendenza al centripeto. Un potere, nel migliore dei casi, (sto pensando ai comuni medioevali, alle repubbliche autonomiste del tardo impero romano e anche a certe giurisdizioni feudali) è l'affermazione e la pratica di alcuni diritti, regole e norme e anche se non si iscrive necessariamente in un territorio (il caso dei comuni medioevali è emblematico in tal senso) deve possedere una territorialità. Nel migliore dei casi, quindi, il potere e la relativa potenza ha una territorialità e non ha un territorio; in epoca contemporanea la rete telematica offre l'infrastruttura per una territorialità analoga a quella costituita in assenza di un territorio.
È debole anche sotto il profilo ideologico, nel senso che la policentricità possa essere, in quanto tale, garanzia di democrazia e controllo democratico e di sovversione del dominio economico. Il  policentrico e disperso oltre che essere paradigma per l'infrastruttura telematica, che comunque non è modello neutro  e tanto meno spontaneo e generato in maniera socialmente ermafrodita, è paradigma economico del biocapitalismo. Il biocapitalismo è una forma di potere economico costituita dalla sua stessa dispersione. Un discorso sul potere incentrato sulla necessità della dispersione dei poteri rischia di scambiare per suo il paradigma biocapitalista, per rovesciarlo semplicemente di segno, un po' infantilmente. Spesso Negri e Hardt corrono questo rischio tanto in Impero, quanto, soprattutto, in Moltitudine. La critica al nuovo dominio del capitale deve certamente seguirne il corso, ma chi si compiace di descrivere un corso parallelo, anche se critico, rischia di non cogliere i punti di rottura che sorgono tra il nuovo dominio e il nuovo sfruttamento, rischia di non vedere chiaramente le nuove forme di sfruttamento e, alla fine, può facilmente trovarsi a immaginare un corso inverso, un naturale biocomunismo che scorre già dentro il biocapitalismo. Il solco tra alienazione e liberazione non è, invece, mai stato ampio come in questo periodo storico, poiché si scava non solo dentro il lavoro e le relazioni di lavoro, non solo dentro la vita e le relazioni di vita, ma anche dentro la creatività, l'emotività e l'affettività degli individui.
Lo scontro tocca lo stesso concetto di convivenza e di comunità: lo scontro non è neanche etico, è antropologico. Teoricamente lo scontro si dovrebbe ubicare su un terreno di radicalità e opposizione estrema, tanto forte e tanto viscerale da non essere rappresentabile da nessuna ideologia politica, perché lo scontro si porrebbe al di fuori dei parametri dell'ideologia.
Questo ha già introdotto nella vita sociale, ma anche nel contesto internazionale, uno stato latente, imprendibile di guerra civile, che registra in forma quasi onirica, imprendibile e intoccabile appunto, e certamente mistificata dal pensiero liberista e dall'opposizione di sua maestà al liberismo.
La guerra civile latente, comunque, prefigura, in maniera primordiale e barbara, questa potenziale dispersione di poteri e di domini, e nella primordialità, utilizzando strumenti assolutamente inadeguati allo scopo, ricerca confusamente una nuova territorializzazione e non una nuova territorialità.
Quando il Partito Comunista Americano denunciò l'impossibilità della rivoluzione ha fatto opera di disvelamento, forse senza nessuna consapevolezza: ha svelato un problema, per nasconderlo. L'abbandono della tattica e della strategia rivoluzionaria leninista hanno comportato l'abbandono dell'idea stessa di comunismo e questo non è accaduto solo al partito americano ma, dal mio punto di vista inevitabilmente, a tutti partiti comunisti che parteciparono alla terza internazionale. La constatazione dell'impossibilità del successo della pratica rivoluzionaria leninista ha facilmente, quasi automaticamente, comportato la conclusione dell'impossibilità del comunismo. L'impossibilità di costituire una nuova unità sociale e politica, un organismo giuridico, in una parola lo Stato comunista, ha portato con sé l'abbandono dell'idea stessa di comunismo.
Il comunismo è stato considerato, nella tradizione marxiana, come il naturale e necessario risultato dello sviluppo storico, come la meta, la causa ad un tempo formale e finale (per dirla con Aristotele) della storia. Secondo questo schema, che ha avuto notevole successo, l'ontologia e la gnoseologia, la realtà e la conoscenza della realtà, l'oggettività sociale e la soggettività sociale crescevano insieme, si condizionavano l'un l'altra e interagivano, dando corpo a una visione completa, organica, perfetta in sé, alla fine scolastica, e certamente scientista. L'attualità mette radicalmente alla prova questa visione e, nei fatti, la confuta del tutto.
Il biocapitalismo realizza, in verità, molti tratti dell'utopia comunista, e in parte pare dare ragione a Marx, opponendosi a Marx, rendendo possibile, in forma onirica e imprendibile, la felicità sociale che Marx aveva immaginato come scopo della storia. Il biocapitalismo ribalta il comunismo non nel suo contrario ma nella sua opposizione mistificata, nell'assoluta mistificazione, mercificazione e reificazione dei valori immaginati da Marx e dal marxismo per il comunismo. Il biocapitalismo costruisce nuove comunità e nuove forme comunicative e intellettuali, precisamente come il comunismo avrebbe dovuto in Marx, ma non sono le comunità e le forme comunicative a costituirsi, a trovare in sé stesse gli strumenti e le materie per la costruzione, ma è il biocapitalismo a fornire materie e strumenti. Queste materie e questi strumenti non appaiono estranei alla comunità e alla sua vita, fanno, anzi, parte della sua vita, sono impliciti alla sua costituzione; non si tratta, quindi, davvero in un delirio anacronistico, di andare a ricercare, seguendo ancora Lenin o il progetto rivoluzionario classico, una coercizione esterna sulle comunità e sulle vite degli individui, andare a cercare una neutralità e naturalità sulla quale si esercita violenza e alienazione, ma la violenza e l'alienazione dentro la fondazione della comunità e la vita degli individui. Il paradigma logistico, tecnico, produttivo e creativo del biocapitalismo non è neutro, disposto alla felicità, scientificamente determinato e oggettivo ma sottoposto a un dominio estraneo che lo vampirizza: la logistica, la tecnica, la produzione e la creatività, nel biocapitalismo, nascono come prodotti, sono prodotti, sono merci e non sono neutri. Per scrivere ancora più radicalmente: la stessa umanità, la stessa etica non sono neutre ma sono innervate, in maniera molecolare, di una genetica economica e sociale. L'economia è umanità ed etica nel biocapitalismo e questo ha comportato una radicale trasformazione non solo dell'etica e dell'umanità ma anche dell'economia: non esiste economia politica che possa rappresentare compiutamente l'economia del capitalismo dell'attualità.
Negri e Hardt, a mio parere dimenticando completamente il pensiero di Marx, ritengono che sia possibile limitarsi ad eliminare l'involucro economico che costringerebbe il general intellect, vampirizzandolo. Il biocapitalismo, o meglio nel loro caso è meglio scrivere di capitalismo globalizzato, sarebbe una sorta di prelievo feudale sul flusso produttivo (per flusso produttivo intendo davvero tutta la produttività sociale), il vampiro che succhia le risorse e le energie per reinvestirle in altro controllo e altra vampirizzazione. Il capitalismo si sarebbe ridotto a essere controllo sul ciclo produttivo, ma il ciclo produttivo, in sé, è già indipendente ed estraneo al capitalismo. È il concetto di general intellect come potenza neutra, astorica, posta al di fuori dei rapporti storici, che è discutibile.
C'è un elemento vero nell'analisi sviluppata in Impero e Moltitudine: l'alta costituzione raggiunta dal capitale deve concedere la preminenza agli elementi progettuali, ideativi e comunicativi nel lavoro vivo e comporta la trasformazione del concetto di prodotto, di bene, verso di qualcosa di immateriale e di comune, quasi naturalmente comune per la sua caratteristica intrinseca di essere comunicabile, pensabile e fruibile immaterialmente. Negri e Hardt sottolineano una conquista del capitalismo contemporaneo, un passo verso le comunità che ha compiuto, un passo verso la sconvolgente novità di una comunità come prodotto economico. Ed hanno ancora ragione quando sembrano pensare che questo è quasi il comunismo di Marx. Sbagliano, invece, quando ritengono scontato e naturale che questo strumento perché neutrale e oggettivo, non sia un prodotto ma un valore in sé, quando ritengono che il general intellect  sia un valore in sé e non un prodotto.
Ma è vero proprio il contrario: il comunismo nell'epoca del general intellect orientato al biocapitalismo è il contro natura filosofico, la negazione dell'etico e dell'umano. Il comunismo si presenta come la negazione della comunità, della comunicazione e, oggettivamente, lo è. La competizione, infatti, non si svolge sul terreno del lavoro, ma di tutta la vita che si svolge intorno al lavoro e soprattutto quella che viene sussunta al lavoro, secondo una sussunzione del tutto nuova, che non riguarda un tempo di vita misurato a ore, in una giornata lavorativa anche intesa come giornata lavorativa sociale, ma la vita come prodotto da sussumere al lavoro. La vita cessa di essere un valore in sé, misurabile a ore ma esterno ed estraneo alla produzione, ma è un valore interno alla produzione, un prodotto in produzione. Non ci può essere nessuna spontaneità e naturalezza nel passaggio dal biocapitalismo al comunismo: si deve presupporre la rottura rivoluzionaria della macchina produttiva, per costruirne una nuova e una nuova neutralità, scientificità e un nuovo sostrato comunitario. Questa rottura riguarda l'individuo come appartenente e produttore di comunità, riguarda il momento nel quale alcuni individui smettono di produrre per la vecchia comunità e decidono per la nuova. Questa rottura è determinata da esigenze materiali, bisogni materiali che si distendono su tutta la vita, su tutta la biologia e quindi su tutti gli aspetti della comunità.
Dobbiamo essere felici di questa libertà dal fine necessario e naturale della storia, perché ci aiuta a capire bene come il comunismo sia un prodotto artificiale, volontario e possibile solo oggi e quindi posto tra le necessità dell'oggi senza che siano necessarie. Il comunismo è oggi umano, troppo umano.
In qualsiasi ragionamento sul comunismo prossimo venturo, con comunismo prossimo venturo intendo la rifondazione assolutamente necessaria e radicale del pensiero e della pratica comunista, in quanto pratica rivoluzionaria, necessariamente rivoluzionaria, perché la neutralità del biocapitalismo si ferma alla sua critica, dovremo avere ben presenti due semplici assiomi, in apparenza contraddittori. 1) Il riformismo, in un quadro privo di spazio economico e concettuale per le riforme, in un quadro privo di economia politica, è sempre rivoluzionario 2) Il potere non reprime, recupera e questo è il suo principale lavoro.
Il primo assioma possiamo farlo derivare da Rosa Luxembourg, il secondo dal pensiero situazionista. Il riformismo è determinato dal fatto che nel biocapitalismo è in gioco la macchina sociale nella interezza, il funzionamento e non un suo improvviso riposizionamento sotto un'altra logica e coercizione / controllo;
cambiando il modo di vedere e fare le cose  introduciamo una rottura che non è percepibile come rivoluzionaria, ma al massimo  come utopia riformista, l'utopia riformista, che non richiede riposizionamenti complessivi e immediati sa di doversi confrontare con un continuo tentativo di recupero, riassemblamento, ridefinizione. La lotta rivoluzionaria diviene un processo instancabile di prodotti e nuovi prodotti, assemblaggi e nuovi assemblaggi.
Rimangono, comunque, questi, due schematismi, contrapposti, questa contrapposizione, però, genera la complessità intellettuale indispensabile a comprendere il sistema contemporaneo e la libertà necessaria per ricostruire un pensiero rivoluzionario sulla storia e la società. Ci troveremo, probabilmente, a elogiare più spesso la tradizione anarchica che non quella socialista o comunista, secondo i paradossi della storia che la rendono libera, interessante e terribilmente umana, anzi meglio dire antropologica.

Sabato, 28 febbraio

Annotazione. Per scriverla in uno slogan, per definire questa contraddittoria tensione verso una meta storica che non è un traguardo ineluttabile e necessario ma solo possibile, potenziale e non esaustivo, e per descrivere la tensione che percorre, drammatica, lo stato di cose presenti basta questa semplice proposizione: il biocapitalismo è il posto dove non avere un posto e un'identità è necessario, il comunismo il posto dove non avere un posto è scelta. Si assomigliano, certamente, ma si negano.

Rivedi febbraio
Inizio anno

Mercoledì, 16 marzo

Annotazione. [Il soggetto indimostrabile] Nel primo decennio di questo secolo, l'Italia ha conosciuto, percepito chiaramente, il manifestarsi della nuova forma del lavoro. Il consolidarsi dei contratti atipici, anche a livello giurisprudenziale, oppure dell'uso di quelli tipici ma a tempo determinato, gli orari flessibili, si sono accompagnati a una nuova dimensione del lavoro, quasi una nuova razionalità del lavoro. In alcuni settori la giornata lavorativa si è allungata e ha investito, massicciamente nel commercio, in maniera meno massificata nei settori dell'informatica e della telematica, in maniera sporadica ma significativa nella manifattura, i giorni festivi. In generale la giornata lavorativa ha subito un allungamento di fatto, effettivo, dettato dalla contrattualità concreta presente nelle imprese, per tutti i settori lavorativi, nessuno escluso. Il nuovo lavoro ha iniziato a presentarsi come un lavoro privo di pause collettive, dominato dalla necessità di produrre servizi, beni intellettuali e materiali sette giorni su sette. Per dirla con linguaggio dotto e marxisticamente dotto, la giornata lavorativa sociale non riconosce più riposi collettivi.
Questo nuovo paradigma dell'orario è perfettamente rispondente al nuovo carattere del lavoro, in quanto il lavoro intellettuale ha acquisito componenti affettive, emotive, investendo il mondo degli affetti e delle emozioni. Tenderei, però, contrariamente a molta letteratura, a limitare drasticamente il peso del lavoro affettivo in quanto tale dentro la composizione di questo nuovo soggetto indimostrabile, dentro la vita dell'operaio sociale o di qualsiasi suo sinonimo. Il lavoro affettivo (il lavoro di assistenza ospedaliera, il lavoro sul disagio giovanile o sugli anziani, il lavoro a domicilio sulle patologie geriatriche) indica una tendenza economica di fondo e ci costringe a porre l'accento su componenti affettive ed emotive che, però, non investono solo quello ma l'intero mondo del lavoro: il commesso nel commercio non vende solo prodotti materiali, ma vende un suo prodotto aggiunto, certezza, educazione, simpatia, disponibilità, reperibilità, producendolo attraverso l'uso del suo normale e tradizionale orario di lavoro ma anche attraverso il suo modo di stare sul lavoro. Disponibilità, cortesia, reperibilità e molte altre componenti affettive ed emotive fanno oggi parte delle mansioni del commesso di negozio e sono indissolubilmente legate alla sua reperibilità il sabato, la domenica, la Pasqua e il Natale. Questo tipo di mansionario affettivo ed emotivo lo ritroviamo anche nell'offerta di servizi informatici e telematici.
In generale, e per tutti i comparti produttivi, il bene in vendita è anche la continuità del servizio e della produzione, l'adattabilità veloce alle situazioni e spesso la capacità di ideare nuovi scenari.

Venerdì, 18 marzo

Annotazione. [Il soggetto indimostrabile. Servilismo e etica del lavoro] L'enfatizzazione del peso dei lavori affettivi, immateriali e cognitivi descrive, in maniera quantitativa, un salto qualitativo che, nei paesi capitalisticamente egemoni, ha veramente cambiato l'aspetto del lavoro. Tutti i lavori hanno acquisito una componente affettiva ed emotiva, un investimento che prima costituiva un valore aggiuntivo esterno all'attività lavorativa.
La componente affettiva ed emotiva spesa sul lavoro costituiva un punto sulla tabella ideale della sua valorizzazione; l'attaccamento al lavoro, spesso legato e confuso con l'attaccamento all'azienda, era un fattore extralavorativo, era il risultato di una disposizione spontanea del lavoratore o di una pressione, esercitata dall'esterno dei meccanismi dell'attività lavorativa, che veniva esercitata sul lavoratore. L'attaccamento al lavoro non faceva parte del lavoro.
Oggi, invece, l'attaccamento al lavoro fa parte del lavoro e della sua natura, ed è addirittura fuorviante definirlo con il termine attaccamento, come se si esercitasse su un elemento estraneo, esterno. Se ancora negli anni novanta, in Italia, il coinvolgimento della manodopera nella produzione era ottenuto attraverso strumenti aziendali come le ideologie e i metodi di gestione del personale, ora è il lavoro in quanto tale a disporlo.
Quello che un tempo era il risultato di una coercizione extraeconomica diventa, quindi, parte integrante del contratto e del mansionario; la coercizione extraeconomica, quindi, fa parte dell'economia. A livello formale, non esiste job description che eviti le tematiche dell'adattabilità, della capacità comunicativa e via dicendo. Sono spesso frasi vuote che, però, registrano una pienezza, una nuova pienezza del lavoro che si esprime anche su un terreno che un tempo era lasciato al vuoto e all'indefinito, in una parola, alla vita privata del prestatore d'opera.
Il cosiddetto servilismo, analogamente, era un involucro esterno, un atteggiamento, una corazza, un elemento accidentale, un surplus necessario solo in particolari occasioni e situazioni lavorative; all'alba del nuovo millennio il servilismo è diventato un componente fondamentale del lavoro, anche in Italia. Il modo di essere nella produzione nipponico, il toyotismo, è stato esportato anche in Italia.
È cambiato dunque ciò che si produce e ciò che produce profitto, ricchezza e di converso reddito operaio ma, soprattutto, è cambiato radicalmente il modo di produrre in generale, è cambiato il lavoro e non solo il suo oggetto e anche là dove l'oggetto della produzione è rimasto materiale e la produzione è rimasta industriale, il lavoro si è trasformato. È chiaro che il cambiamento dell'oggetto influenza il lavoro che lo produce, meno chiaro è come, anche nei lavori materiali tradizionali, si sia affermata la disposizione tipica del lavoro affettivo, cognitivo ed emotivo.
Come il termine attaccamento al lavoro o anche il concetto di etica del lavoro si avvicinano alla nuova disposizione verso il lavoro ma non la risolvono, così la parola servilismo, che viene spontaneo usare, rappresenta sicuramente il nuovo atteggiamento del lavoratore subordinato ma non lo spiega.
L'etica lavorista e il servilismo attuali hanno tutt'altra causa: hanno origine dentro il lavoro e sono imposti (se è giusto usare ancora questo verbo in proposito) dalla naturalezza del mercato. Servilismo ed etica del lavoro sono oggi valori produttivi e non valori lavorativi ergo non sono più servilismo ed etica, ma altre cose e andrebbero indicati con altri nomi.

Domenica, 20 marzo

Annotazione. [Soggetto indimostrabile. Sinistra e destra]. Servono, dunque, nuove parole per descrivere la forma attuale del capitalismo, serve un nuovo dizionario e una nuova enciclopedia. Non è affatto escluso che la crisi di termini e concetti come quelli di sinistra e destra sia da riferire a questa necessità.
L'inadeguatezza del termine sinistra nasce da molti requisiti.
Prima di tutto un requisito istituzionale e cioè l'indebolirsi della democrazia parlamentare nella quale aveva un forte senso la collocazione dei deputati nei banchi, come segno di un mandato inequivocabile e indeferibile. La crisi del sistema rappresentativo nei paesi egemoni capitalisticamente, nei paesi occidentali, ha colpito maggiormente quelle forze che pretendevano di organizzare il popolo e di difenderne gli interessi e che costruivano su questo la loro identità. L'idea di popolo si è disciolta in mille rivoli e in mille rivoli si è disciolto il parlamentarismo corrispondente.
Subito dopo viene un'inadeguatezza ontologica del concetto di sinistra, determinata dalla trasformazione delle relazioni sociali sulle quali si fondava la tradizione operaia, la sua ideologia e la sua prospettiva. Oggi, dichiararsi di sinistra, continuando a far riferimento a quella rispettabile tradizione, è un po' come se si volesse essere quaccheri per costruire un fronte repubblicano e anti monarchico. Si rischia davvero di essere i quaccheri dell'anticapitalismo. Il primo decennio di questo secolo ha introdotto con prepotenza in Italia la crisi del termine sinistra, come di tutto quello che stava dietro a quel termine. Quello che ancora nel decennio precedente appariva, e oggettivamente ancora era,  il prodotto di una polemica ideologica, di propaganda, di una rinnovata contrapposizione tra destra e sinistra, dopo il duemila e, a mio parere, in modo conclamato dopo il 2008 e la crisi, altrettanto conclamata, dell'indipendenza del nostro Stato nazionale (pensiamo all'avventura di Monti) insieme con quella di molti altri, è diventato realtà. Sinistra, intesa come forza popolare nazionale, con una stabile presenza nei banchi riservati nel parlamento nazionale, è diventata il risultato di una lontananza dalla realtà, di un'incapacità a descriverla e perfino di darne una coerente rappresentazione ideologica. La sinistra ha perduto definitivamente la capacità di avere un progetto sociale complessivo e ha sempre più spesso preso a identificare il progetto sociale complessivo con quello che non confliggeva direttamente gli interessi della tradizione operaia. La sinistra ha fatto del tradizionalismo la sua ragione ideologica.
Il soggetto di riferimento del pensiero di sinistra, il soggetto operaio, il lavoratore subordinato, il salariato normato e non, è talmente cambiato da mettere in discussione la parola stessa sinistra, applicata a tutti, senza distinzioni di correnti, tanto quelli che hanno instaurato o cercato di instaurare una relazione diretta e orizzontale con i soggetti proletari, quanto quelli che hanno fatto della mediazione, della selezione, della verticalizzazione il loro modo di approcciarli. Il sindacalismo più coerente ha avuto la stessa fortuna, sotto il profilo della conservazione di un concetto credibile di sinistra, del sindacalismo più arrendevole, perché entrambi hanno continuato a far riferimento non a un soggetto indimostrabile ma a un soggetto inesistente ma dimostrato.

Mercoledì, 23 marzo

Annotazione. [Europei ancora uno sforzo] I fatti di Bruxelles mi costringono a occuparmi, anche se solo per qualche centinaio di parole, dell'attualità politica, cosa per la quale non mi sento, in tutta semplicità, preparato.
Gli attentati del nuovo genere (anche se non è un genere del tutto nuovo, per esempio se guardiamo alla recente storia italiana) disorientano, ovviamente; sono fatti per disorientare. Disorienta maggiormente la reazione agli attentati e sembra che si prefigga anch'essa disorientamento.
L'obiettivo pare essere il medesimo: introdurre un'ulteriore militarizzazione della vita sociale, la definitiva eliminazione del garantismo e della residua vitalità delle democrazie rappresentative.
L'islamisti radicali e politicamente rivoluzionari si propongono, consapevolmente, l'abbattimento delle democrazie occidentali; questo è il loro obiettivo ideologico, questo è l'obiettivo dell'opposizione di sua maestà al biocapitalismo. Il fronte estesissimo, più di quanto appaia esteso e più di quanto si pensi esso stesso esteso, degli anti islamisti occidentali, si propone la stessa cosa.
Gli islamisti politici e rivoluzionari rivendicano la loro differenza per omologare, gli anti – islamisti la stessa cosa. Al centro di queste due  ideologie e immaginari contrapposti è la stessa cosa: la rappresentazione di una grande guerra civile tra popoli che, come ogni guerra civile, richiede la fine delle libertà politiche e, come altra guerra convenzionale, la militarizzazione della società.
Quando gli europeisti, anche quelli di sinistra, anzi impietosamente ancor più quelli di sinistra perché gli europeisti di destra sono orientati al ripristino delle frontiere nazionali, individuano il nuovo collante europeo nella difesa comune, nella frontiera esterna comune e nella polizia comune, indicano in questi nuovi strumenti il valore sul quale rifondare l'Europa: l'unità europea si salverà perché costretta a rispondere al terrorismo internazionale. Ovviamente l'Europa, come nazione democratica, è già morta.
Quando gli europeisti, e anche qui quelli di sinistra impietosamente più degli altri, auspicano la necessità di mantenere Schengen per tenere aperte le frontiere all'economia e soprattutto per abbattere le frontiere che difendono ancora alcune enclave garantiste al suo interno, progettando come necessaria e irrinunciabile un'omologazione autoritaria di tutti gli Stati dell'unione, trasformano la salvezza europea nella salvezza dell'ordine europeo. Ovviamente l'Europa, come nazione democratica, è già morta.
Quando gli europeisti europei, nessuno escluso, destra, sinistra, centro, alto e basso, tacciono rigorosamente della dittatura che è stata organizzata in Ungheria non rimane che augurare: “Europei! Ancora uno sforzo! Ancora pochi passi al vostro sesto Reich!”. Non rimane che constatare che costoro saranno europei per moneta, polizia, esercito e multinazionali e che io non sono quel tipo di europeo; ho smesso di essere italiano e mi è costato qualcosa, non mi costa davvero nulla smettere di essere quell'europeo.

Annotazione. [L'Europa e l'islamismo politico] Il terrorismo islamico è terrorismo politico, nel quale il premoderno assume la veste della modernità in tempi accelerati. Che sia la confessione religiosa a essere decisiva nella scelta del terrorismo islamico è indubitabile, proprio perché assume altri significati e lavora per un altro da sé.  Quindi l'islam non è decisivo ma il ruolo che ha assunto l'islam è decisivo. Il fatto che l'islam sia uno dei fattori decisivi nel ruolo che ha assunto presso i terroristi l'uso della forza è altrettanto indubitabile, per  la sua tendenza a teorizzare il proselitismo attraverso lo scontro armato, ma è altrettanto indubitabile che in particolari situazioni storiche è stato il marxismo, sempre in medioriente, a fornire armi alle teorie terroriste.
L'islam è una componente, un elemento culturale, un'occasione, magari più facile da utilizzare in questa particolare fase storica, tra molte altre.  La situazione economica europea, la destrutturazione dello Stato sociale e di diritto, la crisi dell'identità nazionale e l'apparizione di nuovi regionalismi e di un nuovo peso del localismo hanno aperto praterie a ogni genere di improvvisazione ideologica e fascinazione negli immaginari (e sul versante potenzialmente progressivo, nuovo, di queste praterie bisognerebbe aprire una vera analisi politica). La crisi europea, per crisi intendo la discussioni dei fondamenti stessi della modernità europea, si è coniugata e in parte è stata provocata dalla situazione internazionale, soprattutto la fine dei blocchi e del vecchio ordine internazionale (USA / URSS – Capitalismo privatistico / Capitalismo di Stato / Economie miste – Democrazie rappresentative / Socialismo reale / Democrazie 'particolari'). La fine dei blocchi ha terminato regolamenti e assiomi di sviluppo e anche questo ha avuto effetti all'interno dei singoli stati, tra i popoli e le popolazioni, contribuendo a generare ulteriori fantasie e le praterie dell'immaginazione. Nel contesto internazionale, la prateria è un'unica corrente indifferente alle forme istituzionali, totalitaria in campo economico, governata da un pensiero unico, dentro la quale può prendere corpo, per usare una metafora italiana, una strategia della tensione, mondiale nella sua espressione geografica, biopolitica nell'intensità spesa sulle vite e sui corpi.
La morte che prefigura per le sue crisi, è la morte per sterminio, la morte di massa, unita alla contemporanea e necessaria negazione della morte come evento degno dell'umano, la morte come non senso assoluto, fine della merce umana, termine della sua utilità.
Tutte queste cose insieme sono nel terrorismo politico islamico e nella guerra al terrorismo politico islamico: le contraddizioni reali, le praterie aperte dalla destrutturazione di Stato nazionale, Stato sociale e Stato di diritto, della precedente socialità capitalistica e del precedente ordine imperialistico e le contraddizioni recitate attraverso la distruzione delle vite e dei corpi in quantità industriale e industrializzata.

Annotazione. [Dall'imperialismo al bioimperialismo] Il mondo è andato avanti senza avere la possibilità di vedere questo avanzamento. Qualcuno ha fatto di tutto per chiudergli gli occhi e il passato, così, si presenta come una novità improvvisa, come una luce abbacinante e irrecuperabile, la storia si presenta in forme mitologiche. In altre parole il capitalismo industriale e neolitico ha superato sé stesso ma non si è annullato e la fine del capitalismo è rimasta capitalistica: il capitalismo non sa spiegare il mondo e non gli rimane che dominarlo.
Il nuovo dominio capitalista si esprime in maniera molecolare, forse ancora di più, socialmente atomica o subatomica, sulle componenti che secondo Marx avrebbero, invece, dovuto fondare la società dopo la fine non solo del capitalismo storico ma anche del socialismo. Il capitalismo odierno non è più un capitalismo storico, è metastorico. L'imperialismo non è più un azione sull'economia politica dei paesi non ancora capitalistici ma un'azione sulle etnie, l'etica e la socialità dei paesi capitalisticamente non egemoni. L'imperialismo è bioimperialismo.
Si dirà; che c'entra l'operaio sociale con tutto questo? Madonna! Se c'entra, ne è il nucleo, è il nucleo di tutta questa questione che è politica e filosofica non certo sociologica, se fosse sociologica non c'entrerebbe affatto. C'entra perché al capitalismo metastorico si dovrà contrapporre il comunismo metastorico, uno scontro tra sistemi non susseguenti o conseguenti ma compresenti. L'operaio sociale è stata la prima forma di questa socialità possibile e volontaria.

Venerdì, 25 marzo

Annotazione. [Magmatica sul biocapitalismo] Lo strano avanzamento della storia non deve essere un alibi. La crisi della teleologia sociale non deve affatto assolverci dall'intervento politico nel mondo.
Tutto è diventato irrimediabilmente incomprensibile e come tale ingovernabile. Il desiderio di progettare e organizzare certamente si attenua di fronte all'incomprensibile e le nuove forme del lavoro offrono una compensazione per questa perdita di teleologia sociale positivista.
Pensiamo al nostro soggetto, giustamente e sempre più giustamente postulato come indimostrabile. La sua posizione è incomprensibile ai vecchi metri dell'analisi di classe, esso stesso li fugge consapevolmente, qualche volta li rifiuta apertamente: non lo descrivono, non lo rappresentano e non lo comprendono.
Questo mondo rimane dominato da uomini, la novità dell'epoca è che chi lo domina ha dichiarato una guerra contro la sua stessa specie cioè contro quella che un tempo i vecchi capitalisti industriali, almeno nell'ideologia, chiamavano lo scopo del mondo.
Paradossalmente proprio quando l'umanità viene presentata come valore assoluto, come valore indipendente dai suoi stessi scopi, come un processo senza alcun scopo se non in sé stesso, lo scopo non è l'umanità e mai nella storia lo è stato meno. Quando l'umanità sostituisce il divino, ma non per conformare un nuovo repertorio del divino ma per prendersi in eredità e incarnare la divinità del passato e della tradizione, quando l'umanità diventa teologia, allora l'umanità è finita; l'umanità stessa diventa un soggetto indimostrabile. La cultura che segue la modernità, la cultura contemporanea, è la comprensione assoluta, teologica, della realtà, che non comprende nulla; è, quindi, una cultura totalizzante, estesa a interpretare ogni manifestazione dell'umanità, attentissima scientificamente a non farsi sfuggire una singola molecola per rappresentarla, usarla e costituirla solo in funzione del suo controllo e della sua produzione e messa in produzione.
L'operaio sociale è stato il primo risultato di questa messa in produzione complessiva dell'umanità, dove anche la morte perde significato biologico e diviene una merce, un valore da rappresentare e adatto a rappresentare altri valori.
L'affermazione di pratiche istituzionali che isolano e nascondono la morte e le malattie, oltre che coniugarsi perfettamente con l'abbandono al suo destino della spesa e dello Stato sociale, ha permesso il formarsi di un contesto favorevole alla fine del biologico come momento indipendente della vita sociale, anzi ha provocato e organizzato la fine del biologico e il suo dissolvimento nella produzione economica.
L'operaio sociale è un agente economico non solo nella storia, come accadeva per le figure sociali precedenti, ma nella biologia. Anche l'ecologismo e l'ambientalismo, in questo contesto, sembrano quasi un'articolazione dell'eugenetica e lungi dal proporre una nuova biologia e una nuova antropologia puntano a un dominio della biologia e dell'antropologia, a una loro continua correzione verso la perfezione divina e la rettitudine teologica.
La teologia si è fatta carne, anima, mente, affetto e immaginazione.
L'assenza di comprensibilità e di scopi sociali, che non siano l'immanente diventato trascendente, per essere più chiari il presente che è diventato eterno, determina, però, la necessità di una radicale valorizzazione dell'indipendenza dal presente. Non è un lavoro svolto verso il futuro e non è un lavoro svolto contro il presente, sarà, invece, un lavoro nel presente eterno per un'indipendenza eterna: una nuova dimostrazione di sé del soggetto indimostrabile, una nuova comprensione del mondo e una nuova rappresentazione sul mondo. Al centro di quella deve essere la vita come eccezionale fattore sovversivo della vita intesa come eccezionale fattore repressivo: la ricostituzione dell'umanità senza unità teologiche.
Nessun uomo vero e nessuna umanità autentica in questa prospettiva: in questa prospettiva gli aggettivi vero e autentico in riferimento alla natura umana e alla società saranno per sempre banditi. Noi abbiamo bisogno di un uomo divino ma senza teologia.
Stiamo, giorno dopo giorno, constatando la bestialità dell'attuale divinità umana: la pulsione immediata verso la morte, dove la vita si dimostra indipendente dalla produzione, cioè indipendente da sé stessa, dove si manifestano irriducibilità alla produzione emerge immediata la condanna etica, antropologica e la negazione dell'umanità, un problema verso la specie, una fonte di non appartenenza alla specie. L'uso della forza militare, un tempo limitata ai confronti tra Stati nazionali, oggi è diventata diffuso dentro i singoli Stati, da parte degli stessi Stati contro i suoi cittadini o di altri Stati egemoni economicamente contro i cittadini di altri Stati. Il fatto che in tutte le guerre dal 1936 in qua siano i civili i principali obiettivi e combattere al fronte sia quasi un privilegio in tempo di guerra è paradigma di questa guerra contro la specie per ottenerne il miglioramento. Per questi episodi troveremo certamente innumerevoli precedenti storici ma non troveremo un'epoca in cui l'umanità è pensata come un ostaggio di sé stessa per la sua redenzione.
La produzione, paradosso questo di una società che pretende di realizzare e non di produrre, è diventato uno schematismo più importante dell'economia, come se il prodotto avesse conquistato sé stesso e in nome di questa conquista dicesse: “Ecco io non sono più un prodotto, ma un'idea pura, non sono più produzione ma ideazione”. Il trascendente si fa carne, si fa vita, si fa uomo, biocapitalismo nel senso corretto dell'etimo.
Precisamente come si coniuga con la destrutturazione dello Stato sociale e dello Stato di diritto, con l'economia della penuria e con le democrazie autoritarie di massa, il biocapitalismo si sposa con il progressivo impoverimento dei popoli che hanno vissuto nel capitalismo egemone, quindi che hanno sperimentato abbondanza di merci, diritto e assistenza pubblici. L'impoverimento dei proletari nella prima parte del mondo non comporta affatto un arricchimento per quelli dell'altra parte: non c'è la benché minima compensazione o riflusso di risorse.
Il privilegio diviene un privilegio minore, un privilegio più povero, ma rimane privilegio e anzi, impoverendosi, si sente più facilmente minacciato e tende ad assumere patologie isteriche, ansiose e angoscianti, patologie poliziesche e militari. L'impoverimento è davvero globale, riguarda tutti, e si accompagna ovunque alla perdita di significato della socialità, che è come dire, in altre parole, la perdita di senso dell'esistenza.
Accade in generale, ma in particolar modo nelle realtà capitalisticamente egemoni, che l'esistenza diviene fatto assolutamente individuale che assume socialità, e quindi senso biologico, solo sussumendosi agli schematismi della produzione. Negli stati che non hanno conosciuto la modernità questo provoca un trauma nell'immaginario, uno choc e il ritorno al passato, al vissuto delle generazioni precedenti, si propone come una fuga disperata verso un improbabile futuro.
Il senso biologico della nostra specie è la vita in comune, la cooperazione e la partecipazione; l'essere parte viene restituito dal biocapitalismo come partecipazione a una biologia individualizzata che è la negazione della nostra biologia, della nostra specie, anche se si presenta come sua esaltazione. Il biocapitalismo, al contrario del capitalismo industriale e manifatturiero, non semplifica, anzi mette in produzione la complessità, e per certi versi riprende i canoni delle società premoderne e precapitaliste, ma la interpreta in maniera semplice: la rivela come fatto complesso, come effettivamente è, ma la semplifica nell'articolazione delle interpretazioni scientifiche che si svolgono, anche rispettando una certa onestà intellettuale, sui molteplici livelli dell'umano. Le diverse e raffinatissime e altrettanto utili discipline scientifiche della contemporaneità adottano un metro unico, concorrono a costituire un metro unico, una indimostrabile e aprioristica teologia dell'umano.
Il biocapitalismo si avvicina all'uomo, è terribilmente umano, troppo umano, e ha rotto ogni teleologia sociale, ogni futuro, perché il telos e il futuro sono già nel presente; il biocapitalismo pretende di chiudere la storia e di realizzare l'uomo. È riuscito ad appropriarsi di tutto il repertorio dell'umano: ha ereditato l'appropriazione del tempo di lavoro da tutte le società precedenti, nella forma perfezionata dal capitalismo manifatturiero, l'appropriazione della produzione intellettuale dal suo immediato precedente, il capitalismo sociale e keynesiano, e ha sfondato le porte dell'emotività, dell'immaginario, dell'affettività e della morte. Ora tutto l'umano è rinchiuso nel capitale.
Le lotte degli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, i movimenti degli anni novanta, la lotta e contestazione contro il capitale finanziario nel primo decennio di questo millennio, sono percorsi inversi. Moltissime cose, in questi percorsi, ricordano il socialismo premarxista, l'utopia, l'anarchismo ottocentesco e molte battaglie degli albori del capitalismo intorno ai diritti e alle cose da stabilirsi come comuni. Il marxismo è in crisi, nella misura in cui alla crisi della scienza economica capitalista corrisponde la crisi della scienza economica operaia: due realismi antitetici sono scomparsi e dobbiamo delineare un nuovo e solo realismo, poiché sarà solo di parte. Ma non un realismo antitetico, un altro realismo, un realismo rivoluzionario, invece, mentre il realismo storico è monopolio del trascendente biocapitalista.

Sabato, 26 marzo

Annotazione. [Il sogno della ragione e l'operaio sociale] Sembra di essere all'opposto del mito illuminista secondo il quale durante il sonno della ragione si risvegliano i peggiori incubi; oggi, invece, è la ragione, la comprensione scientificamente articolata ma semplificata, non solo a generare incubi ma essere incubo essa stessa. La ragione affronta la complessità solo in funzione del suo controllo, della sua sistemazione in un unico metro. Quindi quest'incubo non è affatto un sogno semplice e facilmente decriptabile, ma complesso nella sua cifratura. La ragione socializzata del biocapitalismo organizza una serie interminabile di trinceramenti, ciascuno semplice, contro la critica, riposizionandosi continuamente e spostandosi di continuo.
Quando, come oggi, il processo sociale è un processo umano, inevitabilmente deve divenire bersaglio critico non solo l'uso della ragione ma la ragione stessa, la definizione stessa, l'idea stessa di razionale.
Cosa c'entra l'operaio sociale in tutto questo?
C'entra, c'entra perché non può che essere un soggetto storico e sociale, ma che esce dalla categoria sociologica di soggetto a impugnare questa critica e impugna questa critica proprio perché esce dalla categoria sociologica di soggetto e ha interesse per questo verso una critica radicale.

Domenica, 27 marzo

Annotazione. [Biocapitalismo e Stati nazionali, Bozze analitiche] Il capitalismo contemporaneo tende a conformare uno scenario dominato dalla stratificazione delle divisioni di classe su base internazionale. Il rischio di un simile scenario sta proprio nella diversità di partenza nella costruzione e partecipazione allo scenario. La stragrande maggioranza dell'umanità, i 4/5 per lo meno,  ha conosciuto il capitalismo industriale, quando lo ha conosciuto, come espressione dell'imperialismo nei primi tre quarti del novecento, quindi come presenza esterna e non ha conseguentemente sperimentato la modernità in tutta la sua ampiezza, complessità e nel suo equilibrio, nell'equilibrio tra le parti che la componevano (economia, politica, cultura e filosofia), cioè come stato storico equilibrato e stabile. Il capitalismo è stato per la maggioranza dell'umanità un'aggressione esterna che ha rotto i precedenti equilibri interni.
La decadenza dell'imperialismo e la sua sostituzione con il biocapitalismo, ha fatto in modo che il dominio capitalistico surcodificasse queste differenze, per certi versi le interiorizzasse. La divisione di classe interna ai paesi capitalisticamente egemoni si proietta sullo scenario internazionale, riproducendosi in quello. La divisione del lavoro internazionale non decide più della collocazione sociale e dei livelli di reddito dei popoli, come durante il taylorismo,  la divisione del lavoro passa trasversalmente i diversi paesi, ma è la divisione di classe a massificarsi nei rapporti tra gli stati nazionali. Certamente nei paesi non egemoni ma egemonizzati dal capitalismo, la costituzione di capitale solitamente è più bassa e i modi di produzione fanno spesso riferimento all'industria e alla manifattura, cioè al passato 'materiale' del capitalismo, l'elemento decisivo, però, nella divisione è il livello del reddito, dei servizi e delle strutture sociali.
Gli Stati nazionali hanno il compito di codificare questa divisione internazionale di classe, senza, spesso, poter fare a meno di registrarne l'asimmetria, l'ingiustizia e l'arbitrarietà. Già nel passato, in epoca imperialista, in realtà, i popoli e le popolazioni dei paesi egemonizzati rivendicavano, attraverso la nazionalità, i loro diritti sociali essenziali, ritenendo sinceramente che la soluzione dei loro problemi potesse passare attraverso l'acquisizione di potere e potenza dello Stato nazionale di loro riferimento; pensiamo al 'diritto di autodeterminazione dei popoli' teorizzato dalla terza internazionale o al movimento dei paesi non allineati degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo.
Questo sostrato di fondo, questo 'nazionalismo' ereditario permane, nei paesi non egemoni, ma si unisce con qualcosa di completamente nuovo che rende lo scenario internazionale ancora di più leggibile secondo lo schema, valido alla fine dell'ottocento  per la classe operaia europea, di una lega che difende gli interessi di una 'aristocrazia operaia', la lega dei paesi egemoni, contro gli interessi dei proletari comuni, la lega dei paesi egemonizzati. Ovunque, in verità, e questo è un sentimento comune dell'epoca biocapitalistica, che attraversa ogni regione, un fatto globale, come si ama dire oggi, sorgono identità geografiche nuove, nuovi legami sul territorio, che spesso coincidono ma altre volte si contrappongono alla geografia nazionale.
L'emergere di nuovi nazionalismi, quindi di nuove definizioni geografiche e appartenenze, si coniuga anche con l'emergere di nuove forme di appartenenza e di identità che aggirano e ignorano il concetto tradizionale di nazione. Ai due estremi e in rivalità, e paradossalmente limitrofi geograficamente, incontriamo, per esempio, il federalismo inclusivo dei movimenti guerriglieri del Kurdistan, o il cosmopolitismo islamico rivoluzionario del califfato sunnita dell'ISIS, ma paradossi simili attraversano l'Europa, da Podemos e Siriza, dal Front National alla Nuova destra tedesca di Alternativa per la Germania, dall'autonomismo scozzese al leghismo italiano.
La mia impressione è che, oggi, gli Stati nazionali continuano a svolgere il compito di rappresentare la stratificazione sociale mondiale solo a livello ideologico, ma il vuoto di questa rappresentazione diviene ogni momento più chiaro e viene riempito da identità più forti e più radicate, che non fanno riferimento alla modernità ma, in gran parte, alla premodernità. Gli Stati nazionali dei paesi egemonizzati capitalisticamente non sono fonte di equilibrio, precisamente come non è stata equilibrata la loro modernità.
Il biocapitalismo, affidando agli Stati nazionali il compito di amministrare la stratificazione sociale mondiale, è perfettamente consapevole della storica inadeguatezza dello strumento e che oggi questa è diventata esplosiva, contemporaneamente il governo delle nuove forme identitarie è problematico, fino al punto di generare scenari di guerra civile internazionale, senza la sponda di una struttura giuridico – politica sul territorio calibrata sul modello dello Stato nazionale.
La stratificazione, la divisione, con il declino degli Stati nazionali provocato dalle nuove identità, territorialismi e geografie, si è trasformato da prodotto di una mistificazione ideologica (il nazionalismo delle nazioni povere), a un'ideologia che non dice nulla di falso. In un'ideologia che è realtà.
La crisi dell'ideologia è causata dal suo trionfo definitivo: non può esistere altra ideologia che quella che rappresenta i meccanismi di dominio della realtà, e può essere unica e univoca, perché la realtà è dominio.

Rivedi marzo
Inizio anno

Martedì, 19 aprile

Annotazione. [La Santa Alleanza semovente]La guerra civile mondiale, lo stato di guerra non dichiarato che contraddistingue la guerra civile ma che si estende al contesto internazionale, la guerra non convenzionale, sono fatti nuovi, più o meno ultime novità. Queste ultime novità  sono certamente il prodotto delle nuove tecnologie belliche, le tecniche nucleari, che rendono impossibile l'esercizio della guerra tradizionale come guerra tradizionale, cioè come scontro risolutivo, e fanno in modo che anche lo scontro tradizionale non possa essere risolutivo e definitivo perché costretto a rimandare a qualcos'altro, a un altro scontro inapplicabile e inattuabile.  La guerra nucleare ha reso meno attraente, sotto il profilo dell'agibilità politica, la guerra tra Stati, l'antica guerra imperialista.
Ma le ultime novità, quelle che portano a uno scenario molto simile a una guerra civile mondiale, sono anche il prodotto del fatto che la guerra, oggi, ha acquisito un altro senso e significato indipendentemente dal rischio della catastrofe nucleare, un significato che ha origini non tecniche ma squisitamente politiche. L'antica guerra imperialista ha perduto la sua adeguatezza perché manca la sua causa: non esiste più l'antico imperialismo. Per usare una metafora geologica, il mondo imperialista prevedeva una tettonica a zolle e lo scontro / frizione tra i continenti; il mondo post imperialista prevede una sola zolla, nella quale passano direttamente le discontinuità. Gli Stati nazionali, riuniti in blocchi e coalizioni, agganciavano il mondo e il mercato mondiale formando precise aree di interesse e di rapporti di produzione, una zolla appunto, contrapposte ad altre precise  aree e rapporti. Oggi le tensioni attraversano gli Stati e i vecchi blocchi, li percorrono dall'interno, e la zolla presenta delle fratture non individue, delle fratture e non delle separazioni e rotture, incapaci di produrre una singolarità internazionale. Queste fratture non separanti, invece, sono capaci di mettere in relazione e connettere realtà diverse, aree urbane europee con aree urbane indiane, aree agricole americane con aree agricole inglesi, aree urbane americane con aree agricole italiane, e intersecano, non unendole ma anzi attraverso la frattura,  livelli economici e sociali lontani, buttati lì come segmenti. L'area del Brunello della campagna senese si interseca con il marchio di distribuzione alimentare californiano e il marchio californiano con la fabbrica messicana che produce tappi e bottiglie; il quartiere di Delhi sperimenta le stesse forme di distribuzione commerciale della periferia londinese, il quartiere ad alta disoccupazione di Liverpool diventa un appendice della periferia di Damasco, i quartieri residenziali del Cairo confinano con i centri direzionali di Parigi. Queste fratture non separanti unificano secondo molteplici livelli i diversi distretti geografici tradizionali che tendono a divenire solo nomi capaci di identificare la direzione e i poli del segmento, privi di qualificazione economica intrinseca. La geopolitica è stata rivoluzionata non solo nelle forme enunciative ma anche nella struttura. All'interno delle stesse vecchie e tradizionali aree geografiche omogenee gli elementi caratterizzanti tendono a scomparire; pensiamo alle aree urbane dell'occidente dove, sempre più spesso, la diversificazione tra centro e periferia, costruita tradizionalmente su base geografica, che era una differenza visibile sul territorio, nella topografia stessa, si mitiga per dare luogo a molti centri e molte periferie che attraversano e rompono i vecchi concetti geografici di centro e periferia.
Questa nuova geopolitica distrugge le specificità locali, per costruirne delle altre che, apparentemente, esaltano la tradizione per riscriverla radicalmente. Il localismo attuale si costituisce sull'esaltazione del genius mundi operante sul luogo e non certo sul genius loci, per usare categorie classiche e paganeggianti.
Anche per questi motivi, l'aspetto del conflitto internazionale contemporaneo è quello della guerra civile, della guerra intestina, che spacca e attraversa i vecchi nomi geografici e le vecchie nazionalità; questa guerra intestina passa oltre la geografia tradizionale e scende in una nuova geografia, fatta di segmenti geografici. La guerra internazionale è sempre più la manifestazione di contrasti tra interessi che a volte coincidono ancora con quelli nazionali, con il vecchio nome del distretto, ma che non si fondano su quel distretto.
La forma della guerra civile, della guerra intestina, occulta la ragione unitaria dei conflitti, la loro razionalità, ma rivela, in verità, le caratteristiche di questa nuova razionalità. I conflitti generano ancora da esigenze imperialiste che, però, si presentano in forma polverizzata. L'imperialismo unico americano degli anni ottanta e novanta, che ha rappresentato la forma di trapasso dall'imperialismo multipolare all'imperialismo polverizzato, è rimasto il modello di riferimento; il modello di riferimento attuale è un imperialismo unipolare ma proprio per il fatto di avere questo riferimento unipolare, l'imperialismo è profondamente cambiato e per certi versi è abbastanza forzato dirlo ancora imperialismo.
Vi ricordate la Santa Alleanza, quel gruppo di monarchie che nella prima metà del XIX secolo garantiva la Restaurazione post napoleonica? Questa dell'attualità è qualcosa di simile alla Santa Alleanza a componenti variabili e transitorie sorta allo scopo di garantire il rapporto di produzione essenziale, mondializzato e unificato, è il nuovo imperialismo che non è più imperialismo, che non è una nazione che opprime e sovradetermina altre nazioni ma è una ragione economica superiore, imperiale (secondo Negri e Hardt), che sussume ogni altra realtà politica internazionale.
Questa Santa Alleanza semovente è a sua volta sussunta alla razionalità, al lessico e al linguaggio del capitalismo internazionale ma, precisamente come le alleanze tradizionali, lascia liberi alcuni campi, alcuni settori di interesse marginale o privi di qualsiasi interesse, che un tempo avrebbero provocato conflitti nazionali secondari, mentre oggi portano con sé guerre civili, guerre per bande, lotte armate nelle periferie del mondo non capitalisticamente egemone, a causa di quelli che nel diritto penale sarebbero detti futili motivi. I casi del Ruanda, quelli del Burundi, non vanno considerati come elementi di atroce colore locale, di cronaca locale, ma al contrario come il segnale di un generale imbarbarimento dei rapporti internazionali, che  di pari passo seguono l'imbarbarimento provocato dall'uso di un solo linguaggio, di un unico lessico e di una razionalità unica distesi da un dominio economico unico mondializzato.
La guerra, così, perduta la sua convenzionalità, tende ad assumere i due caratteri, apparentemente contrapposti ma in realtà complementari, della guerra a bassa intensità, alta tecnologia e professionalizzata, gestita direttamente dalla Santa Alleanza semovente e biocapitalista, e della guerra ad alta intensità umana, bassa qualità, dequalificata tecnicamente e di massa che si sviluppa ai margini dei processi bellici principali e controllati.

Mercoledì, 20 aprile

Annotazione. [L'ultimo imperialismo] Panama e Grenada, l'attacco all'Iraq durante la prima guerra del golfo, l'appoggio alla guerriglia afgana avevano coronato l'illusione di poter ereditare le dinamiche e metodologie imperialiste sotto l'ombrello di un solo blocco, di una sola dimensione geografica.
In centro America la politica delle cannoniere, in Iraq il rituale contrasto con un alleato scontento per l'esiguità della sua ricompensa, in Afganistan il colpo risolutivo a un avversario morente. Gli ottanta e i novanta furono i decenni dell'imperialismo a una dimensione, che si muoveva ancora secondo gli stilemi di un mondo bipolare. Gli Stati Uniti d'America erano una supernazione, garante della stabilità di tutte le altre nazioni.
Questa impostazione generava fastidi, insofferenze ma soprattutto era inadeguata agli scopi del capitalismo multinazionale. L'attacco alle torri gemelle del 2001 ha reso manifesta alla storia questa insofferenza diffusa, ma anche la sua natura che si rivelava, tragicamente, nuova.
Il terrorismo internazionale diventava una forma di guerra a pieno titolo e proprio in quanto terrorismo internazionale.  Il terrorismo diventava forma di guerra in quanto capace di produrre effetti mediatici, emotivi, eclatanti, propri degli episodi della guerra di massa convenzionale, e in quanto guerra, strumento per colpire, in maniera il più possibile devastante, il nemico. Gli Stati Uniti d'America sono stati colpiti, nel 2001, non perché erano uno Stato imperialista, ma perché erano uno Stato che pretendeva di riassumere in sé i caratteri globali dell'imperialismo; il nuovo imperialismo, il capitalismo globalizzato, il biocapitalismo hanno costituito un processo spontaneo e parallelo al vecchio imperialismo, capace di rivelarne i difetti e le brecce, dentro le quali, teatralmente e in un teatro non aperto a tutti, un teatro non pubblico ma chiuso e riservato, hanno agito alcuni nuovi strumenti bellici. Qui il dominio post fordista ha posto, cinicamente, gli Stati Uniti d'America di fronte alle nuove responsabilità e ai nuovi rischi che la posizione di interprete monopolistico delle esigenze del dominio capitalistico globalizzato comportava, con un chiaro invito, per lo spettatore accorto e invitato a quel teatro, a declinarlo. Il nuovo capitalismo internazionale ha dimostrato tutto il suo disinteresse a legarsi a un solo mastino, a uno Stato nazionale, seppur potente. L'attentato del 2001 ha simbologie fortissime e precise: gli attentatori sono sauditi, quando l'Arabia Saudita è il miglior alleato dell'imperialismo unipolare in medio oriente; sono suicidi e martiri, facendo riferimento alla specificità religiosa dell'area e a un nuovo modo di combattere prossimo venturo e a una cultura della morte diametralmente opposta e completamente disconfermante l'ideologia della salute imperiale americane, della vita e della pienezza della vita nei consumi, nel divertimento e nella riproduzione del capitale che caratterizza il modello americano; gli strumenti di morte sono due aerei da trasporto civile e l'obiettivo è un centro direzionale, un nodo della nuova produzione del capitalismo immateriale e finanziario, posto al centro della più importante metropoli statunitense. L' 11 settembre è il simbolo di una falla, che viene messa in rappresentazione con tutta la sua sconvolgente ampiezza.
È anche un altro simbolo, in realtà il repertorio simbolico che costituisce l'11 settembre è quasi infinito, il simbolo dell'inadeguatezza dell'imperialismo unipolare incarnato dagli USA. Mentre il biocapitalismo palesava pienamente la sua vocazione cosmopolita, la sua capacità di usare tutte le contraddizioni distese sullo scenario internazionale, il mastino del capitalismo internazionale, l'imperialismo americano, subiva un 'complotto', spontaneo e involontario come i processi spontanei e involontari dell'economia, che ha coinvolto settori dell'intelligence medesima statunitense, ha usufruito dell'indifferenza di altri servizi  di paesi alleati ed è stato portato a compimento da gruppi ideologici che individuavano nella presenza americana in Arabia Saudita un atto blasfemo.
É stata probabile la concorrenza di molti fattori tipici della politica estera tradizionale nell'attentato del 2001 e nei suoi dintorni, e quindi nulla di assolutamente nuovo, ma l'attentato e soprattutto i suoi dintorni sono stati il sintomo (oltre che il simbolo largamente voluto) di una nuova forma della politica estera nella quale gli interessi economici mondializzati si organizzavano o cercavano già di organizzarsi: il capitalismo internazionale contemporaneo si organizza politicamente al di fuori degli Stati nazione e del relativo paradigma dell'imperialismo. L'imperialismo è ancora oggi una chiave di lettura valida dello scenario internazionale, ma solo a patto di ridurre la sua sfera analitica a procedure secondarie, a tecniche ed esecuzioni, non alla sostanza del dominio economico internazionale che preferisce altre strade.
L'imperialismo, negli anni novanta, è diventato ingombrante anche perché, cercando di coniugarsi con il capitalismo globalizzato gli rendeva un pessimo servizio, esponendolo politicamente, rendendo facilmente visibile la sua strategia e semplificandola eccessivamente; in tal maniera cresceva ed è cresciuta la corrispondente critica di massa al biocapitalismo globale, nonostante Negri e Hardt neghino l'esistenza e la possibilità stessa dell'esistenza di cicli di lotta internazionali, nella seconda metà dei novanta è difficile non pensare a qualcosa di simile per quello che è accaduto nel sud e nel centro America, negli Stati Uniti e anche in Europa. È stato, in realtà, il cosiddetto e infelicemente detto movimento no global a firmare l'atto di morte dell'imperialismo, che non fu applicato però da una penna rivoluzionaria, anzi, ancora una volta e come al solito, da un nuovo e inedito riformismo del capitale.

Venerdì, 23 aprile

Annotazione. [L'impero e l'imperialismo] La fine dell'imperialismo non ha coinciso con la fine del dominio capitalista sul mondo. Negri ha scelto, per la nuova fase del governo del capitale sul mondo, il termine di impero. L'impero negriano è reticolare, non ha un nucleo centrale, è formato da nodi e non ha, alla fine, una costituzione politica e istituzionale. Negri e Hardt ritengono che l'impero stia cercando di assumere una definizione istituzionale, grazie alla quale sarà possibile contrapporre al complesso imperiale un complesso repubblicano e quindi mettere in moto una nuova dialettica. In tutta  sincerità la penso in maniera opposta e i fatti stessi pare la pensino così.
L'impero non ha alcun interesse a darsi un'istituzionalità riconosciuta e soprattutto riconoscibile e non sta facendo nulla per formalizzarla. La categoria di impero, anche se affascinante e spesso utile, è sbagliata: spiega troppo, cercando di essere esaustiva, ma non spiega quasi nulla. Il pregio principale del concetto introdotto da Negri e Hardt sta nell'avere chiaramente individuato la fine dell'imperialismo e il delinearsi di una nuova epoca nello sviluppo del capitale e di averne descritto alcuni elementi, ma, paradossalmente, non il più importante. Devo annotare che gli autori hanno mancato di coraggio nel trarre le conseguenze della loro stessa analisi e si sono fatti dominare, in fondo, da un ottimismo illuministico nei confronti della forza e potenza storica del diritto. La fine / rovina del capitalismo impone di tirare una conseguenza drastica, invece: la fine delle regole e del diritto internazionale, alle quali anche l'imperialismo faceva riferimento, anzi che permettevano all'imperialismo di manifestarsi come oggettività e legalità. Oggettività e legalità c'entrano poco con l'impero che non è affatto il prodotto di una repubblica tradita nel seicento, che riposa insonne lungo tutta la storia del capitalismo; quella repubblica se mai è esistita è sepolta, morta e non potrà essere la repubblica del domani che sconfigge l'impero insidiandone le istituzioni. I rapporti tra Stati fanno, invece, riferimento ai rapporti tra individui e a un mistificato e reinventato stato di natura antropologico internazionale, nel quale, inoltre, questi individui sono scissi e privi di identità e, anzi, la mutevolezza e le continue scissioni sostituiscono la struttura tradizionale dell'identità nazionale.

Venerdì, 29 aprile

Annotazione. Il capitalismo post moderno e la sua costituzione internazionale, costituzione reale e pragmatica, hanno la capacità di imporre e coordinare una stratificazione sociale planetaria. Questo non era mai accaduto prima, anche se era stato già anticipato da alcune e limitate esperienze storiche tutte di epoca moderna, soprattutto nel nazismo e, in misura minore, nel fascismo. Segmenti, continenti, tendenzialmente (l'uso di questo avverbio è davvero obbligatorio) aristocratici, secondo la categoria marxista di un aristocrazia operaia dotata di reddito, diritti civili, diritti politici, diritti sociali, apparente controllo del lavoro e realizzazione sul lavoro, e segmenti, continenti tendenziamente devalorizzati, dequalificati, poveri di diritti e di reddito, senza nessun rapporto con il lavoro che non sia precario e di assoluta subalternità, secondo la categoria marxista degli  operai comuni. In questo scenario che si congiunge e affianca con molto altri scenari e altri paradigmi, con livelli diversi che corrono paralleli ma anche in maniera stridente e contrapposta, il proletariato di una parte del mondo ha cessato di pensare sé stesso come proletariato e, addirittura, i poveri di quella parte del mondo stanno imparando a non avere coscienza della loro povertà, mentre il proletariato e i poveri dell'altra parte del mondo stanno consolidando una visione pauperistica di sé e del proprio riscatto, un'ottica premoderna.
Questa capacità del capitalismo contemporaneo di controllare e coordinare gli elementi sociali a livello internazionale ha certamente reso archeologica ogni residua ipotesi leninista, il partito rivoluzionario, anche nel mondo proletario dominato dalla penuria, ma anche messo ineluttabilmente in discussione il neomarxismo della seconda metà del XX secolo, secondo il quale la 'maggioranza', l'organizzazione di massa, diffusa e diversificata si sarebbero fatte carico della trasformazione rivoluzionaria della società. Paradossalmente, però, oggi è più attuale l'archeologia di Lenin che non il rinnovamento di Krahl, Negri e Bologna, come se, nel XIX secolo, il calvinismo fosse ritornato a essere più cogente dell'illuminismo.
La stratificazione sociale planetaria, inoltre, oltre che essere nuova di per sé, deriva da un carattere inedito anche per le strutture stesse del capitalismo: non sono il lavoro, l'intensità del lavoro, la produttiva del lavoro e le quote di lavoro  necessario a conformare la gerarchia, se non nella finzione ideologica, nella narrazione come si usa dire; la gerarchia sociale planetaria nasce da una distribuzione ineguale del reddito, organizzata e strutturata in maniera arbitraria sotto il profilo dell'economia classica, ma perfettamente legittima sotto il comando della nuova economia liberista, nella quale economia e politica e pensiero politico si compenetrano in maniera indistricabile. Incontriamo, dunque, una doppia novità e forse esponenziale.
In secondo, ma non certo ultimo luogo (i luoghi, i punti tematici di questo processi potrebbero essere enunciati per serie infinite), è la scomparsa di circuiti di comunicazione delle esperienze di lotta e opposizione. Abbiamo assistito alla dissoluzione dei partiti politici tradizionali del movimento operaio, all'incapacità dei proletari di riconoscersi come soggetti e di elaborare soggettività, fortissima questa impotenza nei paesi egemoni capitalisticamente, oppure, nei paesi non egemoni, nei segmenti poveri e devalorizzati, verifichiamo la capacità di sentirsi soggetti unitari ma l'incapacità di elaborare una soggettività adeguata che, alla fine, trasforma questo soggetto unitario in un composto premoderno e pauperistico.
Nell'epoca delle reti telematiche, in quella che sarebbe potuta essere l'epoca del villaggio globale, come si diceva un tempo, con un termine che ne centrava involontariamente le potenzialità progressive, viviamo il paradosso del fatto che lo scambio di esperienze critiche e antagoniste, almeno in apparenza, si è assottigliato fino a dissolversi.
E allora potrebbe essere necessario ragionare ancora sul soggetto indimostrabile, non solo per capire il faticoso occidente ma trovare segmenti e unioni possibili tra la periferia di Delhi e quella di Milano, che magari passano per alcuni rioni del Cairo.


Rivedi aprile
Inizio anno

Venerdì, 6 maggio

Annotazione. [Lavoro intellettuale e lavoro manuale] Trovo che si è troppo enfatizzato, in moltissima letteratura, sebbene con ovvie diversità nelle sfumature, il ruolo e l'importanza del lavoro cognitivo e creativo e della produzione immateriale, intellettuale, non fisica e digitale. Solo alcuni nomi che ho incontrato in quest'enfasi: l'ultimo Negri, Berardi e Virno.
Io rivedrei volentieri, invece, l'assunto secondo il quale la produzione immateriale è il fattore caratterizzante, da un punto di vista strutturale, dell'attuale produzione capitalistica, e insieme con quello l'assunto secondo il quale non è più possibile oggi scrivere di strutturale e sovrastrutturale. Contesto, in questo ambito, la perdita di senso che viene spesso denunciata del concetto di valore orario e di lavoro necessario, che, al contrario, proprio per le trasformazioni occorse sono concetti che vanno ben tenuti a mente.
La perdita di senso dei concetti di orario e lavoro necessario si è verificata solo nella misura in cui, e limitatamente ai paesi capitalisticamente egemoni, il lavoro cognitivo ha acquisito, in alcuni segmenti produttivi e negli stilemi sociali consolidati, un ruolo predominante nella distribuzione del reddito, nella maniera di manifestare il lavoro al lavoro, contribuendo a conservare la sua facies di reddito da lavoro. In questo senso e in questa misura, il lavoro cognitivo appare veramente come la forma prevalente e decisiva del lavoro umano dell'attualità.
Sono, però, convinto del fatto che la grande trasformazione del capitalismo, il passaggio dal fordismo al post fordismo, si basa sul terreno della produzione materiale, sul terreno della produzione dell'essere, in una parola nel lavoro materiale, del vecchio e filosoficamente sotterrato, lavoro operaio. La rivolta del lavoro materiale e le molteplici risposte a questa rivolta hanno determinato la radicale trasformazione della sostanza della produzione materiale, fino al punto che l'apparenza del processo si è presentata come sostanza. La parola chiave, negli anni settanta – novanta del secolo scorso, è stata: riduzione ai minimi termini del lavoro vivo, immediato, necessario alla produzione del valore di scambio e alla generazione del profitto. La riduzione ai minimi termini del lavoro vivo, immediato e necessario ha permesso una moltiplicazione della quantità del lavoro superfluo, del surplus, del plusvalore.
Questo ha provocato una liberazione di energie e risorse produttive dal lavoro materiale verso altre destinazioni, consentendo di costituire il volume di massa del lavoro intellettuale e cognitivo che sicuramente si svolge attraverso i paradigmi descritti da Negri e da Virno. Ha anche, però, causato nella produzione materiale degli elementi che ritroviamo, solo dopo, nel lavoro cognitivo: in realtà, il paradigma del lavoro post moderno nasce nel lavoro manuale, nel lavoro vivo e immediato, ed è stato esportato in quello intellettuale e cognitivo.
Il just in time, l'eliminazione del magazzino e la flessibilità produttiva schiacciata per intero sulla domanda hanno determinato nella manifattura industriale l'adesione ai meccanismi del mercato, là dove si era abituati a produrre progettando il mercato. Questo processo non ha toccato solo la manifattura ma tutti settori produttivi e anche segmenti del lavoro materiale come l'edilizia, l'industria alberghiera e la grande distribuzione commerciale.
Le metodiche tipiche di quello che Marx chiamava 'lavoro improduttivo', contrassegnate dal servilismo verso la clientela, verso il mercato, hanno invaso anche il lavoro produttivo, inteso tanto come impresa, quanto come dipendente.
La grande produzione di massa richiedeva un governo del mercato da parte delle imprese; le imprese utilizzavano una rigidità produttiva che imponeva un'analoga conformazione del mercato. Alla rigidità delle imprese verso il mercato corrispondeva una rigidità dei lavoratori nei confronti delle imprese. Come gli operai di fabbrica erano una variabile indipendente della produzione, così la produzione capitalistica tendeva a essere una variabile indipendente dal mercato, costituendolo in larga misura. La miniaturizzazione dei tempi del lavoro necessario, oltre che liberare enormi quote di lavoro, ha anche liberato enormi quote di profitto che si è riversato, in forme diverse, sul mercato; il mercato ha assunto, così, centralità nella determinazione dei profitti e indipendenza dai valori costruiti nella produzione. In questo contesto la variabile indipendente è diventata il mercato, mentre lavoro e impresa, accomunate sotto questo aspetto, al medesimo destino, sono diventate esclusivamente sottoposte all'eterodirezione del mercato.

Domenica, 8 maggio

Annotazione. [Dieci punti] Ogni tanto conviene puntualizzare e questo sarà il caso di una breve, imprecisa e squisitamente assertoria puntualizzazione.

Punto uno. La borghesia, come classe, descritta secondo gli stilemi marxisti, non esiste più. Non esiste più neppure se considerata semplicemente come formazione sociale, come ceto, come strato di proprietari dei mezzi di produzione industriale.

Punto due. Il capitalismo sopravvive senza borghesia, cioè senza la sua classe di riferimento; è un capitalismo, quello contemporaneo, senza borghesia, ma è anche un capitalismo oltre il capitalismo, per parafrasare la più che indovinata figura retorica di Negri nel suo 'Marx oltre Marx'. L'adeguatezza di questa figura retorica indica una corrispondenza interessante: al superamento del pensiero di Marx corrisponde il superamento del capitalismo, come al carattere profetico dell'opera di Marx nei Grundisse corrisponde il carattere profetico dell'attualità del capitalismo. Blade runner senza necessità di replicanti è tra noi e blade runner è la profezia del capitalismo.
Il capitalismo non ha più una proprietà individuale, ma una proprietà assolutamente e rigorosamente anonima, astratta e collettiva, e ha superato uno dei suoi elementi fondanti, la proprietà individualizzata, personalizzata, dei mezzi di produzione. Il capitalismo è oggi socialista. Il capitalismo è oggi un socialismo governato dagli amministratori delegati, dai gestori dei pacchetti azionari, dalle quote sociali, da un'intelligenza collettiva che è essa stessa, socialisticamente, un sistema sociale che astrae i rapporti sociali e li rappresenta.

Punto tre. Il capitale, slegato da una classe di individui, è diventato anche nei suoi modi di governare, anche nella sua forma politica, un fatto astratto. Il capitale non si genera più attraverso l'asimmetria del rapporto di lavoro salariato, che, in qualche modo, lo personalizzava, ma nel reinvestimento delle enormi risorse finanziarie ottenute attraverso la miniaturizzazione del lavoro vivo, immediato e necessario; il capitale è diventato immediatamente denaro, l'astratto per definizione.

Punto quattro. Il capitale che va oltre il capitale rimanendo capitale, non genera dunque più lavoro salariato e non percorre il valore del lavoro orario come valore che fonda la prestazione di lavoro. Rimanendo capitale, però, impone la subordinazione del lavoro vivo usando altri metri e misure: il tempo di lavoro è sussunto attraverso altre metriche, poiché il tempo di lavoro diventa tempo di vita comandata non attraverso la mediazione della produzione oraria, ma direttamente attraverso la finzione della paga oraria che NON paga il lavoro necessario, ma la vita stessa dell'individuo. È biocapitalismo, è potere sugli individui e sulle vite, in quanto produzione di stili di vita e di individualità.

Punto cinque. Il capitale va oltre il capitale ma il proletariato non è andato oltre il proletariato. Il proletariato rimane proletariato poiché è costretto, per vivere, a vendere la propria vita non sotto forma di lavoro produttivo ma sotto la forma, ben più generale, di vita comandata.

Punto sei. L'economia non descrive il capitale e il suo sviluppo, ma descrive piuttosto il dominio del capitale. L'economia non è più il campo del confronto tra capitale e lavoro, ma è esterno a questo confronto. L'economia è diventata il quadro del dominio del capitale sul mondo, sulle società, sulle popolazioni e sulla vita. In tal contesto l'economia ha cessato di essere scienza autonoma dal sistema sociale, sebbene la sua indipendenza sia stata relativa e mai assoluta, ed è divenuta l'involucro che permette al sistema sociale di riprodursi e non in quanto sistema economico ma in quanto, appunto, sistema di dominio sociale. Si verifica oggi il paradosso di una società planetaria nella quale l'economia, il danaro e la finanza sono il nucleo, il perno adatto a basare tutti i valori, mentre l'economia, il danaro e la finanza non hanno un nucleo, un perno e una fondazione.
L'economia, quindi, non è neanche più scienza del dominio, ma solo tecnica di esecuzione diretta del dominio.

Punto sette. La dequalificazione della politica. La politica non amministra più la sovranità popolare e si riduce a essere una tecnica dell'amministrazione delle risorse che il capitalismo destina, in luoghi non politici ma 'economici', alle infrastrutture economiche e sociali. La tecnica dell'amministrazione del pubblico, inoltre, è diventata anche tecnica dell'amministrazione di sé medesima. L'economia è il vero discorso politico e la sovranità popolare, equiparata non senza un certo machiavellismo alla sovranità nazionale, scompare.
La dequalificazione della politica ha comportato la drastica (e facilmente verificabile) riduzione della professionalità del ceto politico, l'abbandono definitivo di ogni interfacciamento e rapporto di filiazione della politica con l'ideologia e la filosofia. La politica, nata come scienza dell'amministrazione nel XVII secolo, è diventata una tecnica per una scienza che non è politica, l'economia. L'economia è a sua volta una tecnica comunicativa e ideologica per il dominio sociale. Lo scadimento verso il basso delle facoltà intellettuali coinvolti in entrambe le discipline è inevitabile.

Punto otto. La riduzione della politica a scienza amministrativa, che è poi il suo ruolo genetico e storico (tolta la parentesi della modernità matura o adulta), comporta e sottintende la crisi generalizzata della democrazia parlamentare e rappresentativa. Le forme di organizzazione del consenso non passano più attraverso discorsi o narrazioni fondati filosoficamente, politicamente o in maniera ideologica, attraverso una struttura di elaborazione e analisi; i partiti politici della modernità, parallelamente a questo le cerimonie democratiche, i momenti elettorali, comportano sempre meno progetti politici contrapposti e sempre più tecniche comunicative, psicologiche e sociologiche adeguate a governare risorse economiche che sono sempre ineluttabilmente date, determinate e altrove, insindacabilmente, stabilite. Non si tratta per i partiti, i comitati e 'le ideologie' politiche contemporanee di progettare lo sviluppo ma di organizzare la società istituzionale in funzione dello sviluppo che si dà completamente al di fuori di quella. Il politico è oggi un amministratore di basso profilo, infimo profilo, perché gestisce una quota parte ridicola delle risorse economiche, che è la quota parte destinata al pubblico dal biocapitalismo.

Punto nove. Il riemergere, rivisitati, dall'antichità e premodernità di rapporti di produzione, mentalità e cultura produttive e relazioni sociali pre – capitalistici: rapporti servili e di colonato, nella relazione di lavoro, rapporti di uso e usufrutto, nella relazione con le merci e con il possesso individuale, di condivisione asimmetriche con le tecnologie. Tutti istituti che l'antichità classica ha ben conosciuto.

Punto dieci. Stabilisce la fine della puntualizzazione.

Venerdì, 20 maggio

Annotazione. [L'impresa dispersa nel post fordismo]. È stato nella produzione di beni materiali che si è verificato il trapasso da moderno a post moderno e non altrove. Il lavoro intellettuale non aveva autonomia per deciderlo e fondarlo, ma solo per definirlo compiutamente; è stata la produzione dell'essere a decidere e fondare la produzione delle idee su scala industriale, dopo è apparso che fosse stata la produzione di idee a sovradeterminare quella dell'essere, ma solo è un ribaltamento abbagliante e affascinante. Il toyotismo degli anni ottanta è stato esemplare di questo per ciò che riguarda la grande industria, ma, in generale, erano emersi modelli di produzione flessibile in tutti i comparti produttivi fin dal decennio precedente. Questi modelli, indubbiamente, hanno messo in crisi non solo la classe operaia ma anche la struttura dell'impresa capitalistica tradizionale, che era basata su una rigida gerarchia del lavoro e un comando di impresa disposto per livelli verticali. Da allora il comando sul lavoro operaio ha iniziato a esprimersi attraverso strumenti orizzontali, livelli di controllo disposti orizzontalmente; questo ha comportato l'esportazione della gerarchia e del comando di fabbrica al di fuori della grande azienda manifatturiera e la sua ricaduta e riversamento su imprese limitrofe. Le imprese limitrofe smettevano di fare riferimento all'organizzazione del lavoro di fabbrica e recuperavano molti elementi dell'organizzazione del lavoro artigianale, del mestiere e della professionalità. La gerarchia su questo lavoro distribuito si fondava sull'acquisizione di una particolare competenza da parte delle imprese nei riguardi di un altrettanto particolare settore del ciclo produttivo; il ciclo produttivo era disseminato al di fuori della fabbrica e sempre più  spesso la tipologia di queste imprese era quella di una piccola o micro impresa specializzata in una particolare lavorazione.

Sabato, 21 maggio

Annotazione. [Lavoro manuale nel post fordismo] Spesso, ancora, una particolare lavorazione non veniva assolta usando un'alta costituzione di capitale, un'alta tecnologia, ma (e questo comportava la 'professionalità' o quantomeno una sua componente) la quota di intervento diretto, immediato del lavoro vivo era determinante. Il capitale, esportando la sua gerarchia di comando sul ciclo produttivo, decideva, quindi, che per alcuni segmenti produttivi il lavoro manuale, il lavoro fisico e spesso la manualità restavano nucleari e fondamentali.
Emblematico può essere il caso dell'edilizia dove, già negli anni settanta, la tendenza a compiere le opere attraverso trust di imprese individuate e divise per compiti e competenze si è fatta avanti. Queste imprese non condividevano affatto il medesimo livello tecnologico, anzi potevano lavorare insieme proprio perché non lo condividevano.
Quello che intendo affermare è che già nella produzione industriale del tardo capitalismo manifatturiero (in una parola il periodo 1950 – 1970) si è verificata la tendenza a rendere il lavoro nuovamente 'professionalizzato', anche in un contesto di assoluta dequalificazione del lavoro e della riduzione drastica del lavoro necessario; questa tendenza è stata sperimentata nel lavoro produttivo di beni materiali, nella produzione dell'essere.
Con la fine del taylorismo e con l'emergere del mercato come 'variabile indipendente' verso lavoro e capitale, l'importanza della logistica è aumentata esponenzialmente. La logistica corrisponde e deve rispondere alle mutevoli esigenze del mercato e poiché il mercato viaggia in tempo 'quasi reale' anche la logistica deve viaggiare in tempo 'quasi reale'. Questo viaggio verso il just in time è il risultato di una digitalizzazione telematica delle comunicazioni interaziendale e intraziendali, e in genere delle comunicazioni 'pubbliche', dell'abbandono della voce fisica e di quella telefonicamente trasportata, dei tempi geografici nella comunicazione,  e quindi dell'uso delle nuove tecnologie e della cognitività della logistica; contemporaneamente il ciclo produttivo di fine ottocento, pur avendo a disposizione quelle tecnologie, non avrebbe saputo che farsene e le avrebbe relegate al ruolo di piacevole e divertente curiosità ed è il ciclo produttivo di fine novecento che scopre digitale e telematica, per certi versi lo inventa dove non è ancora stato inventato.
Il lavoro manuale non viene eliminato dalla digitalizzazione in maniera assoluta, inoltre. Sempre restando nella logistica, proprio l'eliminazione dello stoccaggio delle merci e del magazzino richiede molto più lavoro manuale, flessibile e dilatato negli orari e continuamente reperibile: i trasportatori, i movimentatori di merci e i magazzinieri. Nei grandi centri di logistica, la robotica ha sicuramente ridotto il lavoro necessario legato al lavoro tradizionale del magazziniere, ma al contempo la velocità che introduce e richiede il 'tempo reale' impone un uso più intenso, maggiore e distribuito capillarmente di lavoratori manuali.
La logistica è un  secondo esempio, dopo l'edilizia, delle trasformazioni profonde occorse nel lavoro  manuale e fisico. Il lavoro vivo necessario immediatamente alla produzione di merci, liberato dalla produzione di fabbrica e diventato superfluo in quella, è migrato verso altre forme di lavoro manuale; questa tipologia di lavoro (lavoro svolto nella distribuzione e circolazione delle merci) esaminato sotto un'analisi marxista classica potrebbe essere detto 'lavoro improduttivo', ma è, invece, proprio nel contesto della miniaturizzazione del lavoro necessario e dell'autonomizzazione del mercato dalla diretta dipendenza dall'apparato produttivo di beni materiali, lavoro recuperato alle esigenze della produzione e dunque lavoro produttivo che non partecipa direttamente alla produzione.
In generale il lavoro manuale per primo, prima anche di quello intellettuale, si è trasformato in una forma di lavoro che richiede forte autonomia, mobilità sul territorio, spostamenti e pendolarismo (edilizia e logistica ne potrebbero essere i modelli) e in un'attività nella quale la forma dell'impegno artigianale, presa sotto l'aspetto della flessibilità, adattabilità e completezza del controllo sul segmento produttivo assegnato è preminente e, per certi versi, riscoperta dal passato medioevale e protocapitalistico. Mancano assolutamente, in questo recupero del passato, gli elementi di stabilità, riconoscibilità e identificazione sociale che il lavoro artigianale offriva.
Il soggetto indimostrabile non è affatto un lavoratore cognitivo o esclusivamente cognitivo e, credo, il lavoro cognitivo è debitore delle trasformazioni avvenute nel lavoro fisico e manuale della seconda metà del novecento per i presupposti del suo inquadramento 'definitivo' nello sviluppo capitalistico.
Non si tratta di fare questioni di lana caprina sul peso del lavoro manuale e intellettuale nell'odierna costituzione del capitale, ma di affrontare la questione della natura del lavoro cognitivo nella sua integrazione nel capitalismo: controcorrente sono convinto del fatto che il lavoro cognitivo entra nella produzione non come lavoro cognitivo ma secondo le forme già sviluppate per il lavoro manuale. La conseguenza è che il lavoro cognitivo ha perduto la sua individuazione, la sua autonomia progettuale, la sua etica e ontologia: è diventato qualcosa di diverso. Per dirla grossa e con parole grosse: la ragione non è più la ragione.

Domenica, 22 maggio

Annotazione. [La linea di montaggio è inutile] Nella stessa fabbrica era venuta fuori la consapevolezza che la linea di montaggio, piuttosto che rispondere ad autentiche esigenze produttive, corrispondesse a un'esigenza disciplinare. Negli settanta era abbastanza diffusa l'idea, soprattutto tra gli operai italiani, che si potesse amministrare e organizzare il lavoro in maniera completamente diversa, senza per questo mettere in discussione i fondamenti del capitalismo, senza che fosse necessario un riferimento rivoluzionario in politica.
Quando si sottolinea il fatto che automazione, robotizzazione e digitalizzazione dell'industria sono la risposta del capitale al rifiuto del lavoro operaio, si dimentica che l'atteggiamento operaio denunciava il taylorismo come inutile anche sotto l'aspetto dello sviluppo capitalistico.
Per quanto non li conosca approfonditamente, negli Stati Uniti, i movimenti sociali avevano fatto proprio questo orizzonte già dagli anni cinquanta, abbandonando da quel periodo, nella concretezza, l'idea della centralità della forma industriale classica nello sviluppo del capitalismo contemporaneo. La rivoluzione economica e sociale teorizzata e praticata negli anni sessanta e settanta poteva, quindi, non comportare necessariamente, come per un legame indissolubile, la rivoluzione politica e poteva essere realizzata senza quella.
Probabilmente, la forma industriale come asse centrale dello sviluppo (per forma industriale intendo la manifattura meccanica) ha iniziato a perdere centralità fin dal new deal e questa perdita è stata registrata, teoricamente, dal pensiero economico di Keynes. L'interesse essenziale dell'economista inglese e anche la pratica del new deal sono più rivolte al mercato che non ai processi produttivi. Sicura ipocrisia e sicura ideologia questa, mascheramento dei termini del reale e mistificazione, anche questo è certo, ma la possibilità percorsa di ridurre al mercato il problema dello sviluppo è eloquente; per certi versi si prefigurò la nuova costituzione del capitalismo a venire.


Rivedi maggio
Inizio anno


Mercoledì, 1 giugno

Annotazione. [Il cominciamento del post moderno durante la maturità del capitalismo industriale] Il capitalismo ha iniziato a camminare nella post modernità negli anni trenta del secolo scorso e negli Stati Uniti d'America. Keynes registrava una fuga in avanti del capitale rispetto alle previsioni di Marx, fuga che si segnalava con la prima, in verità forse in gran parte apparente, crisi di stagnazione da sovrapproduzione del capitalismo. Probabilmente, invece, la crisi del 1929 fu ancora una crisi della crescita, ma quella crescita iniziava a richiedere linee di sviluppo non strettamente connesse con le regole dell'economia classica; in realtà nel capitalismo la crescita è un'ontologia, una metafisica: il capitalismo non può non crescere.
Quella fuga in avanti del capitalismo fu percepita anche in Europa: la prima guerra mondiale ha esemplificato la novità essenziale che il capitalismo proponeva nelle regole dell'economia. L'imperialismo diventava fatto planetario, gli Stati nazione dovevano farsi carico di questi nuovi orizzonti dello sviluppo economico e contemporaneamente rendersi interpreti del fatto che la mobilitazione delle risorse umane diveniva una mobilitazione di massa, una mobilitazione socialmente massificata e massificante. Tutta la società nazionale venne coinvolta, in una maniera o nell'altra,  nella Grande guerra e nel relativo sforzo organizzativo, logistico, militare ed economico.
Il capitalismo industriale iniziava a richiedere e conformare esigenze, bisogni e desideri di massa, una società di massa, ideologie di massa e culture di massa: tutto questo, tra anni dieci e anni trenta del novecento, imponeva il declino e l'accantonamento del liberalismo e anche del liberismo.
L'espressione 'società di massa' non è assolutamente adeguata a descrivere il risultato di questa trasformazione, anzi è fuorviante e per moltissimi aspetti bugiarda: tutte le società storiche sono state, in qualche misura, società di massa. La massa, come entità riconducibile a una omologazione culturale, politica e sociale, ben lontana dalla 'folla' classica, dalla turba indistinta della letteratura classica, è certamente un'invenzione del XX secolo.
Durante la prima guerra mondiale l'omologazione diventa più stringente, rispetto a quella del periodo precedente, perché si sviluppa in ambiti solitamente esclusi da quella. La società si disciplina in funzione della guerra, il corpo sociale viene pensato, vissuto e immaginato come uno strumento bellico, la guerra stessa richiede la mobilitazione di eserciti di massa, la propaganda bellica fece leva sui sentimenti e gli stati d'animo degli individui, costituendo per la prima volta un immaginario pubblico e collettivo, gli strumenti della propaganda bellica furono strumenti di massa. Tutti questi elementi (alcuni dei quali comparvero qualche decennio prima del conflitto e durante quello ottennero piena realizzazione) contribuirono a costruire un assolutamente nuovo concetto di massa, di popolo e di nazione.
La fuga in avanti del capitalismo verso la formazione di un fenomeno sociale profondo e omologato profondamente è etichettata con il termine 'formazione della società di massa'. Mentre oltreoceano, però, fu l'economia, che si avvicinava a essere, anche per gli aspetti produttivi, un'economia di massa, a governare il fenomeno, in Europa fu invece la politica, il caso della Grande guerra è emblematico, a introdurlo. In America i nuovi bisogni si realizzavano, magari ancora in modo incompiuto, in Europa si presagivano, provocando alcune anticipazioni catastrofiche sotto il profilo politico ed etico. Fascismo e nazismo sono stati il modo di costruire la 'società di massa' in Europa, uno dei modi per tenere dietro a questa fuga in avanti delle regole dell'economia che si vede realizzarsi altrove (negli Stati Uniti) e incombere qui. Fascismo e nazismo, come annotava con incredibile lucidità Antonio Gramsci, furono la maniera di costruire psicologie di massa prima che si esprimessero storicamente. La difficoltà di inquadrare i tempi nuovi del capitalismo (produzione di massa di beni di consumo, sovradeterminazione della produzione sul mercato) uniti agli effetti delle politiche imperialiste fecero in modo che il potere politico e le strutture del potere politico anticipassero le esigenze, le suscitassero, per inquadrarle preventivamente, quasi cercando di determinarle a priori. Per prevenire e incanalare l'esplosione del carattere di massa della produzione e della socialità si organizzò una politica di massa. L'intento era quello di rompere il legame possibile tra il nuovo sviluppo capitalistico e le organizzazioni operaie, l'intento era quello di evitare una rivoluzione bolscevica europea e che il bolscevismo assumesse il carattere di una nuova società di massa. Sarebbe, però, un discorso molto lungo.

Giovedì, 2 giugno

Annotazione. [Due giugno]. Una repubblica retta in forma parlamentare è un'istituzione talmente naturale che non andrebbe neppure commemorata. È la base di ogni istituto democratico e la sola possibilità del suo allargamento e perfezionamento, perchè comporta l'idea che la democrazia è un fine e non solo un mezzo. Una costituzione monarchica retta in forma parlamentare porta con sè il segno stesso della legittimità della diseguaglianza e della potenziale fine della democrazia e nasconde l'idea che la democrazia è solo un mezzo e non un fine.

[Il cominciamento del post moderno durante la maturità del capitalismo industriale] Personalmente ho sempre percepito la Grande guerra come uno spartiacque tra la prima fase del capitalismo (e della modernità) e la seconda fase, durante la quale liberalismo, positivismo e i presupposti illuministici dei due secoli precedenti venivano messi in discussione sempre più radicalmente.
Le 'società di massa' e dell'informazione generalizzata si forgiarono, in buona parte, in quei cinque anni, sebbene sia innegabile che il processo era in gestazione da qualche decennio e sia altrettanto fuor di dubbio che non si attuò compiutamente solo durante e con la guerra. Un sentimento diffuso socialmente e politicamente provocato entrò a far parte dell'immaginario collettivo, quello della paura. Questo sentimento ha ancor oggi notevole fortuna, anzi nella contemporaneità, che dagli anni novanta può dirsi una terza fase del capitalismo (e della modernità) si è  selezionato, è stato reso specifico, si è diviso in specie, ordini e categorie. La paura è diventata oggetto di scienza e di manipolazione tecnologica.
Il soggetto indimostrabile lo è anche perché, anche se fosse un soggetto, una categoria sociale e politica interessata e capace di dimostrarsi, non lo farebbe comunque, e non lo farebbe in ragione del timore di farlo. Il soggetto indimostrabile sa che offrirebbe un regalo inutile e pericoloso, un regalo che dovrebbe temere di consegnare alla visibilità.
Certamente, però, la chimica dei sentimenti si è fatta più complessa nel passaggio dal secondo al terzo capitalismo, anzi il suo complicarsi è stato uno degli elementi che lo distinguono.

Sabato, 4 giugno

Annotazione [Festival dell'economia di Trento] Si sta svolgendo, in Trento, l'annuale Festival dell'economia. Si è presentato con una veste univoca: l'economia come scienza dell'amministrazione, cioè a dire come branca della politica. In verità è tutto il contrario: è la politica a costituire una branca dell'economia, che cerca di fornire a quella una narrazione, un senso e un tempo si sarebbe detto una 'rappresentazione ideologica'.
L'economia è tutto, il fondamento del mondo attuale, lo spiega per come esso è, spiega le sue leggi ma non spiega assolutamente nulla del mondo e delle leggi. Il mondo e le sue leggi sono presentati come dei dati di fatto, ontologie, non come complessi di dati e di interpretazioni, o meglio di dati interpretati che si fanno dati nell'interpretazione. L'economia stessa si presenta come un datto di fatto, un'ontologia, una trascendenza e una metafisica. Le leggi economiche scompaiono per far posto ad asserzioni, ad assiomi indiscutibili per loro stessa definizione, e quindi metafisici e trascendenti.
Quando, come nel caso dell'industria automobilistica americana, il lavoro necessario si è ridotto, negli ultimi trentacinque anni, dei ¾ e questo ha determinato un incredibile ed esponenziale accrescimento dei profitti senza la tradizionale ricaduta sul reddito sociale, le leggi dell'economia non riguardano più il lavoro, il lavoro inteso come fatto sociale, ma sempre più il lavoro come fatto meccanico; le leggi dell'economia descrivono sempre meno il lavoro umano.
Conseguentemente cessano di essere leggi, ma asserzioni su una potenziale ricaduta di questi profitti in altri settori. E questo non è più argomento di leggi economiche, ma di leggi politiche. L'economia è direttamente politica, quando le grandi multinazionali investono i loro profitti in biotecnologie piuttosto che in telematica, a Seattle piuttosto che a Napoli.
Le relazioni tra economia e politica sono completamente diverse, quando la produzione del valore, dei beni materiali e dell'essere cessa di essere un fatto sociale e socialmente remunerativo e identificante ed è in massima parte realizzata senza la necessità di lavoro umano.
Contemporaneamente non è più il lavoro e il tempo di lavoro produttivo a decidere del tempo in generale. La ricaduta del capitale sulla produzione di idee, sentimenti, stati d'animo, servizi alle persone è inevitabile e naturale, ma presuppone una colonizzazione del tempo della vita e delle energie vitali che non ha nulla a che vedere con l'economia e che si può e si deve chiamare politica.
Estremizzando, lo scenario economico è quello di una riduzione a merce non della vita che si spende in tempo di lavoro, ma della vita tout cour, non della vita in quanto capace di determinare tempo di lavoro, ma della vita in quanto tale.
Poiché sono in vena di pensieri estremi, ritengo fortemente probabile che gli scenari di annualità non troppo lontane nel futuro del Festival dell'economia siano un nuovo rapporto di produzione di tipo servile, generalizzato e reso, ovviamente, irriconoscibile alla storia e presentato, altrettanto ovviamente, come problema amministrativo.

Domenica, 5 giugno

Annotazione [Festival dell'economia di Trento] Per via della presenza di esponenti del governo, del mondo sindacale e del sistema bancario, senza una rilevante partecipazione di economisti (e sul termine e la scienza economica ci sarebbe molto da  scrivere) il Festival di Trento ha involontariamente (?) descritto l'economia in quanto tecnica dell'amministrazione sociale.
Il problema economico di fondo, che può certamente essere ancora analizzato con i criteri della 'scienza' economica classica, non è un problema economico, ma un problema dell'economia. La produzione generale di beni industriali, agricoli, alimentari e le tecniche per la loro distribuzione, commercializzazione e conservazione, la produzione generale dell'essere, è sufficiente a nutrire, coprire, vestire, curare e abitare l'intera popolazione del pianeta con un considerevole margine di eccesso. Questa potenza produttiva non ha bisogno della sottrazione di lavoro vivo agli altri settori sociali in quantità eccezionali e non avrebbe problemi a realizzarsi utilizzando solo una piccola e certamente minoritaria quota delle risorse umane disponibili. Questa potenza produttiva crea tassi di profitto inimmaginabili due secoli fa. Questa potenza produttiva libera dalla produzione dell'essere energie che volgono solo in minima parte alla produzione di idee, di servizi e di comunità. Questa potenza produttiva, infatti, non è nata per creare quello che realmente produce ma per creare quello che concretamente produce: non è nata per creare beni materiali in quanto beni materiali, ma per creare beni materiali il cui valore non risiede nel bene. Questa potenza produttiva non è nata per creare quello che produce ma per creare un valore diverso da quello contenuto nel prodotto. I profitti tesaurizzati non contribuiscono con ricadute sociali a produrre spesa sociale: gli Stati, dovendo affrontare la persistenza apparente delle leggi classiche dell'economia, che rimangono solo nel loro campo di attività ancora valide, non riescono minimamente a tenere dietro a questo sviluppo capitalistico e ai problemi sociali che comporta. L'economia degli Stati deve confrontarsi con la crisi del reddito da lavoro, con la scomparsa epocale dei ceti medi e con l'inversione pauperistica nei rapporti sociali e di produzione; l'economia degli Stati si impoverisce nella stessa misura in cui si impoverisce il reddito da lavoro. Quella tra la potenza produttiva e la ricchezza sociale è una divaricazione palpabile, che propone un contrasto e una contrapposizione rivoluzionari, almeno se analizzato il processo in maniera classica.
Se a questa analisi, che volutamente mantengo stretta al settore della produzione dell'essere, per evitare implicazioni analitiche comunque prima o poi necessarie, aggiungessi la produzione di sapere, cognizioni, organizzazione, logistica e di tutta l'incredibile infrastruttura e struttura immateriale, il quadro del profitto, della formazione del valore e dei rapporti sociali uscirebbe ancora più polarizzato.
Qualcuno ritiene che il grande capitalismo globalizzato e globalizzante saprà regolare il suo sviluppo, abbracciando i paradigmi ecologisti, sociali, energetici e comunitari che sono venuti fuori nel secolo scorso; solo quando c'è business, annoto invece, e non in maniera sistemica questo potrà accadere (e per fortuna, continuo ad annotare, perché quando cerca di farsi sistema in ciascuno di questi campi, il biocapitalismo inventa il suo sistema ecologico, energetico e via dicendo, inventa la sua scienza). Altri pensano che sarà il mercato a produrre la regolazione, seguendo una doppia follia bugiarda, perché il mercato non esiste più e quando esisteva non ha mai regolato nulla.
Il desiderio del capitalismo contemporaneo usa il mercato, ma non ha nulla a che fare con il mercato, usa soprattutto la finanza ma non ha nulla a che fare con il capitalismo finanziario di solo mezzo secolo fa. È  un desiderio semplice ma molto forte, molto più forte del desiderio sessuale o del desiderio di ricchezza sproporzionata, è il desiderio di potere; è il piacere di comandare i corpi e le menti di centinaia di milioni di individui, è il piacere di creare associazione e organizzazione, di fondare il distretto industriale globale. Il profitto e l'accumulazione sproporzionata e insensata sotto il punto di vista del profitto stesso di capitali sono lo strumento fortissimo di questo fortissimo desiderio.
Allora ritorna il problema centrale e ancor più letteralmente vitale (etimologicamente) del soggetto che può distruggere, che abbia interesse a distruggere, non la divaricazione e il divario, che non è opera realizzabile, ma la sorgente dello spazio di divaricazione.

Mercoledì, 15 giugno

Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. Trovo il testo di Bifo, L'anima al lavoro, troppo spesso schematico nello sviluppo dei suoi assunti, come interessante negli assunti. È un'opera da scomporre e analizzare punto a punto, per concedere a quella maggiore respiro, che non le ha lasciato l'autore. Nulla da aggiungere, però, a questo passo che vale quasi come un programma, un'idea programmatica.
“La società non ha bisogno di più lavoro, di più posti di lavoro, di più competizione. Al contrario. Abbiamo bisogno di un enorme taglio del tempo di lavoro, una enorme liberazione della vita dalla fabbrica sociale, per poter ricostruire il tessuto della relazione sociale. Eliminare il legame tra lavoro e reddito libererà un'enorme quantità di energia per finalità sociali che non possono più fare parte dell'economia e dovrebbero tornare a essere forma di vita. Dato che la domanda si riduce e le fabbriche chiudono, la gente soffre di mancanza di danaro e non può comprare cose necessarie per la vita (…). Il doppio legame della sovrapproduzione non si può risolvere con mezzi economici, ma solo con un salto antropologico, l'abbandono della cornice economica che consiste nello scambio di lavoro e salario (…). L'idea che il reddito debba essere il premio di una prestazione è un dogma di cui dobbiamo assolutamente liberarci. Ogni essere umano ha il diritto di ricevere la quantità di danaro che è necessaria per la sopravvivenza. E il lavoro non ha nulla a che fare con questo. Il salario non è una cosa naturale della sfera sociale (…). Fino a quando la maggioranza dell'umanità non sarà libera dal nesso tra reddito e lavoro, la miseria e la guerra saranno la regola della relazione sociale” (pp. 276 - 277)

Giovedì, 16 giugno

Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. Sempre su quella sorta di “che fare” compresa in quella che è una specie di postfazione scritta nel gennaio di quest'anno.
Bifo annota, con chiarezza molto sintetica, che “il nostro compito sarà di creare zone sociali di resistenza umana, intese come zone di contagio terapeutico. Il capitalismo non è destinato a scomparire dal panorama del mondo, ma perderà il suo ruolo di paradigma onnipervasivo di semiotizzazione,, diventerà uno dei tanti modi dell'organizzazione sociale. Il comunismo non sarà mai il principio di una nuova totalizzazione, ma uno dei tanti modi possibili di autonomizzazione della regola capitalisica” (p.  280). Al di là del fatto che l'aggettivo umano che viene associato al sostantivo resistenza è vago e metafisico, presupporrebbe una dote, una qualità originaria la cui esistenza tutto il resto del libro contesta, è interessantissima questa idea della politica come di una terapia. La migliore tradizione illuminista è evocata, quella che permette, cioè, anche una critica all'illuminismo, ed è certamente questa la via da percorrere. Oggi, la critica all'economia conduce a una nuova critica alla ragione, a ogni prodotto ideale che pretenda di presentarsi come razionale. L'impossibilità oggettiva, però, della conservazione dell'egemonia del paradigma capitalistico, non comporta affatto che questa egemonia scompaia naturalmente. È certamente vero, e questo è un terribile paradosso della nostra epoca,  che se l'economia fosse razionalità, fosse autonomia della ragione, fosse scienza (ma non lo è più, se mai lo è stata), l'involucro economico è politico. Non sarà mai detto dal capitale: “Scusate, signori, scusate l'ingombro, un po' di spazio, invece, anche per voi!”. Bisognerà farlo percepire l'ingombro e la necessità della terapia, solitamente i malati non accettano la malattia e anzi la rifiutano: questo credono sia la loro cura della malattia. Il capitalismo contemporaneo, al contrario di quello classico, sa di dover convivere con la decrescita, anzi la decrescita è la forma della crescita economica della contemporaneità, il suo nuovo sviluppo e le vecchie regole, le vecchie crescite e il vecchio sviluppo non funzionano più. Funzionano come politica, come rappresentazione, perché anche il capitalismo ha la sua terapia sul mondo: la penuria in una società circondata, addirittura assediata, da abbondanza, la penuria in balia dell'abbondanza, la penuria delimitata e contaminata da infiniti segni di ricchezza e abbondanza condivisibile. Il capitalismo prescrive il sintomo e la malattia. Il capitalismo è disastro alimentare, tipico delle economie della penuria,  che si unisce con il disastro ecologico, tipico dell'economia dell'abbondanza, termine di una socialità corporea e fisica e riedizione di una socialità virtuale, incorporea e atomizzata, diminuzione dei consumi di massa con crescita esponenziale dei consumi di nicchia, di aree di consumi privilegiati e riservati, distruzione, nelle classi dirigenti economiche, delle selezioni meritocratiche con la cooptazione di lignaggi tecnocratici, generalizzazione della depersonalizzazione della proprietà con contemporanea invenzione di elementi dinastici in quella. Questo paradigma ha necessità di conservare egemonia per conservarsi e di ghettizzare ogni altro modello. È fuori di dubbio che la lotta di classe e il comunismo assumeranno caratteri diversi da quelli storici e che il comunismo non sarà il prodotto della lotta di classe, non avrà in quella il suo asse genetico; ma senza contrapposizione e le energie che la contrapposizione produce tra chi ha bisogno della finzione del lavoro per vivere e chi organizza questa finzione, la decrescita sarà davvero eterna e la stagnazione infinita.
Proprio perché è vero che le regole dell'economia non sono più capaci di descrivere la situazione, allora è anche vero che non sono capaci di governare la situazione e di darle razionalità, non sono più gli strumenti del dominio economico, se non in rappresentazione. E qui potrebbe avere ragione Bifo, quando pensa a mondi sociali paralleli.  Esiste però un'altra economia che non pensa affatto a sé come rappresentazione parziale, ma complessiva; esistono interessi economici che hanno bisogno di controllare egemonicamente la società secondo un comportamento paradossale: usare le relazioni umane, farne un valore politico, una merce che non è merce ma che è dominio e distruggere, in realtà, il signicato e la parola stessa di merce, sostituendola con il controllo sull'uso. Il possesso viene sostituito dall'uso condiviso e controllato. Il bisogno scompare per far posto a qualcosa che viene accomunato al desiderio. Questa nuova forma di egemonia si fonda come un processo democratico, la condivisione del dominio dentro le relazioni umane. Se salta la condivisione salta il meccanismo stesso del dominio: la terapia è necessariamente un atto di forza, allora, una contestazione, c'è da rompere una condivisione obbligata.

Venerdì, 17 giugno

Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. È una tesi interessante e descrive la realtà delle cose quella che vede questo atto terapeutico (secondo la terminologia scelta da Bifo) non come il prodotto di una volontà, di una razionalità, di una scelta deliberata, ma il risultato della perdita di egemonia del modello capitalistico. Bisogna, però, tenersi lontani da qualsiasi determinismo, che, sotto banco, si proponga. La tesi descrive la realtà delle cose, lo scenario, ma non è necessariamente vera e dunque praticabile. Il “Signori si accomodino” presuppone anche e sempre una domanda, un'azione e un comportamento proattivo (come si diceva un tempo); richiede un “possiamo accomodarci?”. Richiede, quindi, la nascita di un concetto di spazio e di luogo condivisi che, al contrario, oggi manca e quando si costituisce rimanda a un razionalismo che, in concreto, nega la condivisione autentica, pur esaltandola. Lo spazio va invece costruito perché non esiste condivisione, se non nella forma adatta alla dominazione.

[Bifo e le pantere grige] Il testo di Bifo affronta anche il tema della vecchiaia, quando affronta il problema, socialmente sviluppato, della depressione. La depressione è una reazione senile all'evidenza della nostra imperfezione, dei nostri limiti e della nostra finitezza; la depressione dipende, usando altre parole, dal non – essere Dio dell'uomo. Prima era l'ansia e il panico, nella gioventù, la rincorsa alla complessità e alla velocità, poi arriva l'amara constatazione dell'inutilità di questa rincorsa. Il testo lega, in maniera stretta, complessità e velocità dello sviluppo sociale e tecnico con la depressione che non è solo un fatto sociale, una sindrome collettiva tipica del capitalismo contemporaneo, ma una sindrome economico – finanziaria. In questo contesto, a fronte dell'inadeguatezza del lavoro vivo, dell'umano, contro il lavoro morto, l'automatizzato, inadeguatezza esaltata dal capitalismo della post modernità, la senilità finisce per essere una condizione sociale ed economica generalizzata, epocale.

[Pantere grige] Non stabilirei un collegamento così forte, quasi meccanico, tra depressione e vecchiaia, anzi, tolte le innegabili contingenze sociali e politiche che rendono la vecchiaia un disvalore assoluto (in una parola la crisi dello Stato assistenziale), questa immagine ha il pregio di storicizzare il fenomeno, ma il difetto dello storicismo. Al contrario il superamento del capitalismo industriale apre degli spazi concettuali adatti a ribaltare, e in maniera abbastanza radicale, questo collegamento tra vecchiaia e depressione.
La vecchiaia è stata un radicale disvalore nella società di fabbrica: il corpo, usato e disciplinato nel lavoro e attraverso il lavoro senza quasi la partecipazione dell'elemento mentale e intellettuale, quando invecchia diventava un parassita, un anti produttivo e un oggetto di assistenza, cura e mantenimento e quindi un anti economico allo stato chimicamente puro. Il corpo inabile al lavoro è, nel capitalismo di fabbrica, il non valore per antonomasia. La società precedente il capitalismo, contadina e artigianale, esaltando e usando il connubio tra mente e corpo, assegnava all'esperienza lavorativa un grande valore. Il corpo del vecchio continuava a valere ed essere usato sul lavoro fino alla morte; il corpo del vecchio era custode di una suprema (esistenzialmente) professionalità.
Oggi la vecchiaia può acquisire un valore aggiunto, slegato dal lavoro e fondato sull'esperienzialità. L'esperienza esperibile nel solo volgere di una generazione umana di realtà informative molteplici, di diversissimi livelli informativi e comunicativi e del loro incessante intersecarsi, determinano un sedimento, il sedimento può a volte trasformarsi in abitudine, in attrezzo, in strumento e infine in modello utile e duttile per affrontare, prevedere e sviluppare situazioni, per affrontare, tornando alla terminologia di Bifo, una terapia. La 'terapia' è la capacità di segnare punti fermi, abitudini e di comprendere, con un certo distacco, che sono necessari anche se non veri, e che  quanto essi funzionano e sono desiderabili, tanto più sono veri. Questa è un'altra componente della vecchiaia: non la senilità, non la nostalgia, ma l'astuzia dell'abitudine e del continuo rinnovamento dell'abitudine: il cuore rivoluzionario del partito delle Pantere Grige.

Domenica, 19 giugno

Annotazione.  [La politica del profitto] La vecchiaia assume un ruolo diverso, soprattutto se diviene il modello di una vita slegata dalla produzione di valore, e se il valore non è solo quello che viene prodotto ma anche quello che viene comunicato. Questo modello può avere una validità generale, quando sarà effettivamente registrato il crollo del lavoro necessario nell'industria e nell'agricoltura, del lavoro necessario a produrre l'essere, e insieme con questo crollo sarà evidenziata l'elevazione esponenziale dei profitti. La produzione dell'essere, il lavoro del corpo, saranno caratterizzati da una sproporzione economicamente e antropologicamente insostenibile.
I profitti, inoltre, sproporzionati, lo sono ancora di più se posti di fronte alla miniaturizzazione del lavoro necessario: sono un fine a sé stesso, un grandissimo ingombro in una sala da pranzo senza invitati. Il capitalismo fa oggi l'elogio della produttività del lavoro, e cioè fa con questo l'elogio al lavoro superfluo. Il capitalismo fa oggi l'elogio dell'aumento generalizzato dell'orario di lavoro, facendo questo compie l'elogio del lavoro inutile economicamente e della superfluità economica. 
La crisi del lavoro necessario, inoltre, non compete solo alla produzione manifatturiera o all'industria primaria, ma riguarda anche la produzione intellettuale, il lavoro creativo e persino il lavoro gestionale e commerciale. Pensiamo alla digitalizzazione e automazione degli archivi e degli strumenti gestionali: il back office tende ad assottigliarsi e il front office (l'esecutivo, il direttivo e il commerciale) tendono a gestire ed essere anche il back office.
Pensiamo la sig. Marchionne che fa vanto di giornate lavorative di sedici ore. Dovrebbe nasconderle, perché sono sicuro sintomo di incapacità. Invece che vantarsi delle ore spese, della loro intensità, della loro produttiva e importanza (pericolosissima criticità quest'ultima), il sig. Marchionne passerebbe per un individuo di maggior intelligenza se sapesse riconoscere il fatto che gli piace farlo, che gli piace sentirsi così, indispensabile, decisionale e importante nel suo tempo di lavoro, ma che la stragrande maggioranza di quello non serve a nulla. Sarebbe, in effetti, più utile che tutto quel lavoro superfluo, insieme a quello di milioni di altri, venisse usato nella salute pubblica, nella pubblica igiene, nelle reti di comunicazione sociale, nel raffinamento delle loro infrastrutture e delle loro tecnologie, nella progettazione di nodi, nuovi nodi e nuovi scenari sociali. Allora quei profitti sottratti al lavoro necessario diventerebbero qualcosa di valido per la narrazione della storia umana.
Perché il profitto non si redistribuisce? Perché non viene meno, poiché i tempi sarebbero belli e maturi, la scusa pubblica per quell'ingombro? Il profitto è politico, il profitto è oggi la principale forma ideologica, comunicativa, emotiva e sociale del potere. Il potere oggi non sa immaginarsi senza il profitto. Marchionne non sgombrerà pentito e convinto dalle armi della ragione, ma sgombrerà costretto da una forza, da una potenza capace di essere potente, attraente e desiderabile quanto il profitto. Il profitto, seppur inadeguato sotto il profilo dell'economia tradizionale alla sua riproduzione, è, invece adeguato, sotto quello della nuova economia, a una funzione politica generale, a essere grammatica del potere e della condivisione del potere.

Domenica, 29 giugno

Annotazione. [Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Il voto inglese sulla cosiddetta brexit è la sommatoria di molte contingenze, coincidenze e concorrenze storiche da avere valore generale, da essere esemplificativo di un processo generale. Meglio scrivere esemplificativo di un processo generale al quale concorrono molti processi particolari e che riesce a riassumerli tutti. Il voto inglese è paradigmatico (è proprio il caso di usare questo abusato aggettivo) per il voto in sé e il risultato, il modo con il quale si è giunti al referendum e le reazioni dopo lo scrutinio. Il voto inglese è fatto testimoniale di almeno tre cose: la riduzione assoluta della politica, la diminuzione della democrazia elettorale e, molto più in là, la fine, ormai chiara ed evidente, di un modello socio - politico fondato sul lavoro.
Direi che non c'è davvero poco in quel voto (come in molte altre prove europee degli ultimi quindici anni) che è l'effetto di un intreccio incredibile di elementi spesso sotterranei che si sono manifestati, nella spettacolarizzazione della politica, improvvisamente, ma, in questo specifico caso, lo spettacolo della politica ha coinciso più che in altri casi con la sua sostanza: lo stupore mediatico corrisponde allo stupore reale.
Il referendum non è nato da un'iniziativa popolare, ma dall'interpretazione dei sentimenti potenziali del popolo di fronte allo spettacolo televisivo e mediatico offerto intorno alla società multietnica europea: immigrazione, terrorismo, delinquenza diffusa. Facendo riferimento a questa miniera sentimentale, la classe dirigente politica inglese si proponeva di risolvere una contraddizione sorta, all'interno del partito conservatore, sulla candidatura del futuro premier, Cameron. La destra del partito conservatore, sventolando la bandiera dell'ostilità all'Unione Europea, e convincendo del rischio del drenaggio di consensi a favore della estrema destra, domandò a Cameron, per confermare la sua candidatura, una consultazione referendaria sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione. Cameron accettò questa pregiudiziale verifica europeista alla sua rielezione.
Si è arrivati, quindi, al voto e vince il fronte del leave. Si scopre che nessuno è pronto al risultato; non lo sono i sondaggisti, non è pronta la borsa, non sono attrezzati gli unionisti  e ancora meno i secessionisti. Nessuno è pronto e conseguentemente tutti si spaventano, come dei bambini che abbiamo dato fuoco al pagliaio di papà: l'accendino è il corpo elettorale inglese e il pagliaio una serie non indifferente di trattati internazionali e accordi commerciali. Dilettantismo? Innegabile. Dilettanti? No. Professionisti, invece, perché questi sono gli orizzonti del nuovo politico professionale: amministrare il consenso, essendone amministrati. Il consenso, infatti, non è più l'elemento strutturale della democrazia, non perché non si ricerchi più il consenso ma perché il consenso che si ricerca non è più un consenso politico, ovvero fondato sulla politica e il ragionamento politico e, conseguentemente, proprio perché non si rincorre un consenso politico, ma un consenso sentimentale, l'elemento politico del referendum verrà disatteso: l'Inghilterra non uscirà dall'Europa precisamente come la Scozia non uscirà dal Regno Unito. Il referendum inglese avrà delle conseguenze sicure, ma non quelle per le quali la gente è stata chiamata al voto.
La politica perde qualsiasi dimensione strategica (che viene elaborata al di fuori della politica) per occuparsi di questioni tattiche: la politica è ridotta a tattica del consenso e a tattica della gestione economica delle istituzioni pubbliche. La battaglia sulla brexit, spettacolarizzata come battaglia strategica è nata su una questione tattica (la forza della leadership di Cameron dentro il suo partito) e conseguentemente e naturalmente è rimasta una questione tattica, priva di respiro, che non sia, appunto, un respiro spettacolare e passionale. Suonano davvero patetici, ridicoli e soprattutto idioti, i rimpianti verso la politica di un tempo e gli uomini politici di un tempo, verso la loro statura, ampiezza di vedute, coraggio e profondità; come se tutto si spiegasse con le biografie e i dati personali: si tratta, al contrario. di anagrafe politica.
La spettacolarizzazione della politica non è il dono della politica ai media, l'offerta della politica alle telecamere e ai social network è la riduzione della politica a spettacolo. Le leggi dello spettacolo non si sono affatto adattate a quelle della politica ma è stata la politica a fare sue le leggi dello spettacolo. Il sistema politico americano, coronato dal suo sistema bipartitico, ha trovato una naturale convergenza nella politica - spettacolo fin dagli anni trenta del novecento e ne ha, secondo la sua tradizione, conformato alcuni canoni: contrapposizioni uno a uno, sistemi ideologici binari, sistemi elettorali maggioritari, alternative nette ma tattiche e recitate e mai strategiche. La democrazia rappresentativa tende a essere un'istituzione basata su istituti plebiscitari o tendenze plebiscitarie e ad allontanarsi il più possibile dal principio della rappresentanza per assumere quello della rappresentazione dell'elettorato e dei suoi desideri. In Italia questo sistema, nato nell'America del new deal, si è affermato, con gradualità, a partire dagli anni ottanta, con qualche timida anticipazione nel decennio precedente.
L'obiettivo finale è quello di una forma di democrazia  che usa il consenso come l'applauso a teatro  o il gradimento in televisione, una democrazia che costruisce il consenso attraverso lo spettacolo politico e che ricerca un consenso motivato attraverso gli strumenti della sua spettacolarizzazione. La democrazia indiretta, rappresentativa, diviene a tratti diretta: il consenso diviene la prima opzione della politica, il suo obiettivo, e correre dietro il consenso il mestiere del politico maturo e formato della contemporaneità.
Il consenso, mitizzato, viene in realtà alleggerito e svuotato di contenuti politici; il consenso ottenuto non vincola e i suoi contenuti possono essere rivisitati, riscritti, narrati diversamente. Il consenso può trovare una nuova rappresentazione.
Il consenso diviene quindi un fine e non un mezzo e la democrazia si trasforma in uno strumento e un attrezzo per il politico. Emblematico, sotto questo aspetto,
del referendum inglese il caso di  coloro che hanno votato leave si sono trovati, improvvisamente, come un esercito senza capo, scoprendo che la guerra non c'era e che faceva parte di uno spettacolo che, in realtà, non la prevedeva. Ovviamente si sono impauriti e alcuni pentiti  del loro voto, generando, così, lo spettacolo nello spettacolo: lo spettacolo ghiotto di una democrazia esagerata ed eccessiva che, comunque, verrà rispettata, quindi lo spettacolo della critica alla democrazia e della sua ridicolizzazione. Ma non è la successione scenografica a interessare: interessa che la politica ha radicalmente cambiato professione.
Perdita di strategia in politica e spettacolarizzazione dipendono certamente dal fatto che alla politica non rimangono che lo spettacolo e la tattica, perché le strategie sono stabilite altrove; ma anche da una progressiva e intrinseca perdita di senso della democrazia: la democrazia perde di senso nello spettacolo perché perde di senso in quanto tale. La perdita di senso della democrazia ha un'origine diversa dallo spettacolo, lo spettacolo non ha svuotato la politica ma la politica è giunta allo spettacolo poiché svuotata. È giunta naturalmente allo spettacolo, dunque. È vero che la spettacolarizzazione della politica richiede uno svuotamento della democrazia rappresentativa e, addirittura, pare esserne la causa, ma, al contrario, lo svuotamento della democrazia rappresentativa favorisce e causa la sua spettacolarizzazione.

Giovedì, 30 giugno

Annotazione.
[Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Il numero di coloro che si astengono dal momento elettorale e non vanno a votare non cresce affatto (come alcuni a 'sinistra', in maniera consolatoria, ritengono) per una critica a questo nuovo concetto di rappresentanza come rappresentazione politica, e quindi per un'idea - forza democratica, per una protesta in favore del ritorno della rappresentanza politica o, ancora meno, per una valutazione strategica (neppure inconscia e pre - politica) ma l'astensione spontanea dell'elettorato aumenta a causa della constatazione amara e disillusa dell'assoluta impossibilità di restaurare alcunché. La politica come spettacolo  non solo è un dato ineluttabile ma un dato interiorizzato anche da coloro che rifiutano il voto.
Quando il voto sulla brexit recupera all'astensionismo circa il 20% dei suffragi, questo recupero non è affatto, però, il risultato di un'improvvisa individuazione di dimensione strategica a politica e voto, ma della coalizione di ansie e timori, il risultato della spettacolarizzazione della società, del vivere sociale, dello spettacolo bombardante spiegato sull'immigrazione 'selvaggia', incontrollata e assetata di ricchezza e denaro, degli attentati in Francia, in una parola della spettacolarizzazione complessiva dello scenario politico e sociale.
La democrazia c'entra tanto poco che i britannici, pensando di fermare l'immigrazione, non hanno pensato ai dazi, alle frontiere e a tutto quello che di concreto e ben poco spettacolare potrebbe derivare alla loro vita quotidiana. Contemporaneamente la democrazia c'entra molto: la disconferma effettiva del voto, usa la spettacolarizzazione della politica (una democrazia folle, smisurata ed esagerata che però va rispettata, una democrazia nonostante gli effetti della democrazia, questi i mantra dei media), il suo orizzonte binario, i paradossi che produce quell'orizzonte, per proporre una superiore mediazione, che facendo il verso di rispettare il voto, criticato e censurato, non lo rispetterà senza criticarlo e censurarlo apertamente. Da un lato si disconfermerà ulteriormente la democrazia elettorale come valore fondante le istituzioni, le istituzioni diverranno quasi ostaggio di una democrazia priva di razionalità, dall'altro lato si approfondirà il generale adattamento del corpo elettorale alla binarietà, alla semplificazione personalistica della politica, alla produzione e confezione della politica come un fatto emotivo. Questo adattamento è spiegabile con la potenza delle tecniche e tecnologie della comunicazione di massa? Preferisco altre risposte, quelle secondo le quali la potenza dei media è proporzionale alla vulnerabilità sociale ai media e con questa va in larga misura spiegata.
Non che i media siano un fenomeno che 'proviene dall'alto', solo ed esclusivamente mainstream, anche quando lo sono, per molti versi i media sono fenomeni orizzontali, anche quelli verticali, ma esiste una vulnerabilità che si struttura dal basso, dal sostrato sociale, dall'humus : il corpo elettorale ha percepito la sua scarsa importanza, l'abbassamento del suo peso politico e questa percezione ci avvicina al cuore del problema.


Rivedi giugno
Inizio anno

Martedì, 5 luglio

Annotazione.
[Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Partiamo dal basso, dall'humus, che spesso coincide con la genesi, con la costituzione primaria di un fenomeno sociale e umano.
La democrazia si fondava sul principio che ogni uomo era un cittadino e che ogni cittadino era un voto. Questo, un cittadino un voto, ovviamente è rimasto vero. Nell'ottocento e nella prima metà del novecento, epoca in cui il suffragio si estese fino a diventare universale, ogni voto aveva una maturazione e una formazione educativa precise: la collocazione o non collocazione nel contesto produttivo, perché il cittadino era anche un produttore e, in genere, un lavoratore. Nella tendenza più affermata il rapporto con il lavoro preparava e costruiva il voto, definendo così il voto operaio, il voto contadino, il voto impiegatizio e via dicendo. Assolutamente estranei concetti trasversali rispetto al lavoro come voto giovanile, delle donne o degli anziani, si poteva scendere, al massimo, alle preferenze elettorali dei disoccupati. Il rapporto con il lavoro era decisivo nel processo politico. Il lavoro in quanto tale costruiva la parte delle relazioni sociali più significative sotto il profilo politico; questa forma di partecipazione e coinvolgimento, coniugandosi con la precedente ideologia liberale intorno al voto inteso come scelta individuale e personale, ha contribuito a generare uno degli elementi delle democrazie di massa, i partiti politici di massa, e ha anche contribuito a strutturare le corrispondenti ideologie di massa, che pure, paradosso storico, erano la negazione del liberalismo primitivo. Estraneo al liberalismo primitivo, infatti, era un progetto politico complessivo e 'organico', secondo il quale ogni parte della società andava amministrata in funzione del tutto, tutto inteso come unicità dalla quale le singole parti non potevano essere separate senza perdere senso e consistenza. Questa fu l'architettura delle grandi ideologie politiche e anche del liberalismo moderno, quando cessò, e lo fece presto, di fondare la sua progettualità politica sulla naturalità dei processi economici e sociali.
L'origine di questa trasformazione nella visione della società stava nel lavoro collettivo e organizzato, nel lavoro sociale, distribuito socialmente, e nei cittadini che partecipavano al lavoro in comune e collettivo, seppur a diverso titolo e secondo tutti i modi possibili ed economicamente interessanti e determinati da un'organizzazione produttiva. Anche per i liberali, infatti, il soggetto politico era un'emanazione di un soggetto economico; e qui va introdotta un'importante precisazione geografica: tutto questo accadde nei paesi capitalisticamente egemoni.

Mercoledì, 6 luglio

Annotazione.
[Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Questa precisazione geografica sottolinea un'importantissima separazione, che non solo ha segnato ma conformato, strutturato e reso possibile la storia e lo sviluppo del capitalismo. Questa precisazione potrebbe tranquillamente esulare dalla questione della brexit dalla quale si era partiti e dalla crisi della rappresentanza, se non fosse per il fatto che lo sviluppo del capitalismo, l'attuale fase biocapitalistica, sta ricongiungendo i due sentieri separati; si stanno ricongiungendo grazie a delle biforcazioni e ad alcune bretelle che toccano alcuni tratti dei percorsi e sovrappongono piani viari eterogenei. Il depotenziamento del voto, secondo le forme espresse dalla vicenda della brexit (ma dovremmo pensare anche al referendum irlandese sul trattato di Lisbona, alla consultazione europeista in Francia e a molti altri eventi simili), fino a quindici anni fa sarebbe stato impensabile nella tradizionale patria della democrazia rappresentativa, e applicabile in India, Turchia, Egitto o Pakistan. Oggi, sotto questo aspetto (e sotto molti altri), i paesi capitalisticamente egemoni e quelli egemonizzati si assomigliano fino al punto di rendere obsoleta e inadeguata la distinzione tra di loro.
In generale va annotato che la spettacolarizzazione della politica ha coinvolto anche il momento elettorale; il voto ha perduto la sua fisicità (il voto deposto nell'urna, un voto e una testa) quantomeno nell'immaginario e nella rappresentazione retorica
, che pure si era mantenuta viva nell'epoca delle grandi ideologie e, dopo la prima guerra mondiale, nelle cosiddette società di massa. Gli individui si coalizzavano nel voto in un gruppo omogeneo che li qualificava, che li rendeva omogenei e simili, in maniera costante e non transitoria; il gruppo elettorale creava un'identità collettiva. C'era, inoltre, lo scrutinio (altro evento fisico), la conta dei voti e, alla fine, il risultato definitivo.
Il voto oggi è stato abolito nella sua fisicità, lo scrutinio è già dato prima, nelle proiezioni e il voto stesso anticipato dalle intenzioni di voto e dai sondaggi. Che le proiezioni siano erronee poco importa, perché importa che il momento elettorale sia un complesso scenografico che gira intorno, prima, durante e dopo il voto fisico. Le proiezioni sono più importanti del voto fisico e si aggiornano come votazioni virtuali sopprimendo il voto reale, fino a coincidere con quello alla fine del processo elettorale. Questa spettacolarizzazione, pur non decisiva ai fini del depotenziamento dell'evento elettorale, contribuisce meglio allo svuotamento strategico della politica e delle elezioni. Il vuoto, però, ha un altra origine, la fine della fisicità elettorale ha un'altra origine.

Sabato, 9 luglio

Annotazione.
[Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. L'origine è strutturale, come si sarebbe detto un tempo, o in un'altra parte della struttura come si direbbe oggi. Spettacolarizzazione della politica, diminuzione della politica, riduzione della politica a teatralizzazione dei contenuti dell'economia, crisi degli Stato in genere, degli Stati nazionale come caso particolare del genere, sono elementi intersecati che ruotano intorno a un volano, percepibile compiutamente solo nei paesi capitalisticamente egemoni, che è la mutazione radicale della relazione tra lavoro e capitale. Questa mutazione comporta anche uno sconvolgimento delle relazioni tra politica e lavoro. Il lavoratore è, in gran parte, il modo di darsi alla politica del cittadino; il lavoro ha creato comunità; il lavoro palesava il cittadino, donava una socialità politica all'individuo. Attraverso il lavoro collettivo organizzato dal capitalismo industriale il cittadino si sentiva parte del tutto, della società, anzi nasceva, non casualmente, il concetto stesso di società,  e reperiva la forza stessa dell'idea politica, dell'idea da applicare alla comunità.
Attraverso il lavoro, l'individuo usciva dalla singolarità della famiglia, dell'esistenza, e si proiettava in un'esistenza collettiva; spesso, giungeva al quartiere grazie al lavoro e si riconosceva ed era riconosciuto in quello attraverso il lavoro: il lavoro organizzato era garanzia delle potenzialità educative e sociali dell'individuo sul territorio. Tutto questo non è più; sia perché il lavoro ha perduto la stabilità necessaria a fornire un'identità extralavorativa, un'identità etica, un comportamento e atteggiamenti continuativi, sia soprattutto perché la quota del lavoro superfluo è aumentata enormemente. Il lavoro non è stabile, permanente e continuativo, nella stessa misura in cui non è necessario. Stabilità e necessità erano qualità del lavoro che si proiettavano sulla figura del cittadino. Il cittadino era stabile, stanziale ed era anche soggetto di diritto. Il cittadino era un complesso di diritti stabiliti con certezza: diritti stabili e necessari, come il lavoro.
Esiste una sicura relazione tra il lavoro retribuito con il salario e il suddito dato nelle forma del cittadino. Tra il reddito elargito dietro la misurazione del tempo di lavoro e il diritto di partecipare alla vita politica e di avere rappresentanza, tra democrazia rappresentativa e capitalismo industriale, esiste una relazione stretta, sebbene la democrazia rappresentativa preceda di un secolo l'avvento dell'industria. Il lavoro necessario giustificava la accumulazione del tempo di vita estraneo alla produzione, tempo di vita tutelato dai diritti politici e civili. Il valore superfluo prodotto attraverso il lavoro ritornava all'individuo come reddito e come diritti, e parimenti reddito e diritti contribuivano allo sviluppo dell'organizzazione del lavoro e dell'economia industriale. La democrazia rappresentativa e le ideologie di massa erano analoghe all'industria e al mercato quando era governato dalla produzione massificata, in una sorta di socialismo del capitale, proporzionalmente a come le filosofie politiche elitarie del primissimo capitalismo erano analoghe a un mercato in formazione e privo di governo esogeno. L'equazione non è più vera.

Giovedì, 14 luglio

Annotazione.
[Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Per meglio dire: l'equazione è ancora vera ma produce risultati nuovi e tra questi produce il declino della democrazia rappresentativa e il declino della politica e delle relative ideologie politiche. La democrazia rappresentativa è stata sostituita da una democrazia rappresentata, televisivamente e mediaticamente, e soprattutto, perdendo il carattere rappresentativo, ha acquisito (ed è paradosso) componenti plebiscitari, binari, volti a un sì o a un no, spesso verso o contro qualcuno, mancando, nella concretezza, il qualcosa, l'oggetto politico del voto. Contemporaneamente e secondo un processo 'naturale', la forza vincolante di questi plebisciti democratici è molto bassa, quasi nulla.

Venerdì, 22 luglio

Annotazione. [Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. La democrazia ha perduto sostanza poiché è mancato il suo materiale da costruzione: il cittadino / lavoratore e il lavoro come fonte naturale del reddito, come attività che produce una ricchezza riconosciuta socialmente e legittimata. I diritti politici e civili sono stati il prodotto della necessità del lavoro massificato per lo sviluppo del capitalismo, del tempo di lavoro come misura del lavoro in generale, di qualsiasi lavoro, come misura della subordinazione generale nel lavoro della vita del lavoratore. L'area del diritto, allora, si è conformata sul tempo di vita libero dal lavoro, una proiezione giuridica di questo, mentre il diritto che riempiva questa zona si è costituito sulla necessità di misurare il tempo di lavoro, di trovare una misura per il lavoro.
La misurazione del lavoro è stata la base delle numerose misurazioni delle abitudini sociali fino al punto di formalizzarsi in  leggi, in un diritto.
Questa impalcatura sta venendo giù. La spettacolarizzazione della politica, allora, proprio per questo crollo, ha iniziato a funzionare, a diventare uno spettacolo credibile, perché fedele alla realtà. Lo spettacolo della politica rappresenta la realtà, la costituisce certo come rappresentazione, ma, paradossalmente, la rappresenta nel senso che la riproduce e la registra: le due cose, le due funzioni e le due parole finiscono per coincidere. Non è la realtà a piegarsi allo spettacolo, ma la realtà stessa richiede di essere spettacolarizzata, senza questo non sarebbe nulla di socialmente rilevante.
In una società dove l'attività umana perde importanza economica e dove, però, l'economia è tutto, non solo il potere economico cessa di realizzarsi con il lavoro e va verso altri strumenti di realizzazione, ma la società stessa perde il contatto, l'aderenza, con ciò che la domina; vengono a mancare corrispondenze e analogie.
La società stessa, dunque, si svuota e quello che avviene tra gli uomini, fuori dall'economia, perde peso, fisicità, precisamente come il tempo di lavoro perde sostanza. La vita degli uomini, posta ai margini della produzione del valore e dell'economia, diventa una comparsa della storia, una traccia fuori dal divenire, il componente di uno spettacolo.
Qui, signori miei!, è la base della critica a tutti i valori, a tutti i diritti e a qualsiasi etica ed è qui che il percorso dei paesi capitalisticamente egemoni si ricongiunge con quello dei paesi che non hanno conosciuto la modernità, almeno quella dispiegata e compiuta. Qui avviene il piacevole incontro basato sulla fine del lavoro come potenza sociale.

Sabato, 23 luglio

Annotazione.
[Del declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. La fine del lavoro come potenza e valore sociale non significa la fine del lavoro, ma una generale, mondiale, nuova immagine economica e nuovo ruolo sociale per il lavoro. Il lavoro da strumento principale dell'economia e della produzione, in base al quale costruiva la sua socialità, diviene direttamente strumento di socialità; la potenza creativa del lavoro biocapitalistico è in gran parte un mezzo di controllo, di divisione sociale e di discriminazione. Il lavoro continua a giustificare il reddito o l'assenza di reddito e, secondo orbite ben determinate, la partecipazione alla creazione dell'essere nelle sue forme 'alte' (lavoro cognitivo, intellettuale e comunicativo) e 'basse' (lavoro manuale) o la netta esclusione da entrambe, giustifica una gradazione nella distribuzione del reddito del tutto illegittima secondo il coefficiente della produttività capitalistica classica. Ci troviamo di fronte un modello lavorista sciolto dai concreti risultati economici del lavoro.
Non esiste più differenza (fondamentale in tutte le precedenti fasi del capitalismo) tra paesi che hanno conosciuto la modernità e quelli che non sono stati coinvolti nell'industrializzazione. Sotto il profilo delle relazioni con il lavoro si è verificato un incontro, una tendenza alla omogeneità, occultata dalle condizioni, dagli scenari e dalle tradizioni completamente differenti. Il fatto, però, che oggi si possa descrivere lo scenario internazionale anche nei termini di una guerra civile mondiale rende giustizia, in forma spettacolare e televisiva, a questo dato di fatto, lo testimonia al di là dello spettacolo mistificante con il quale la guerra civile viene narrata.

Rivedi luglio
Inizio anno

Lunedì, 8 agosto

Ai margini. Tra Berkeley e Deleuze. Sono passato agli antipodi nelle letture, da Che cos'è la Filosofia dove si fa un uso un po' troppo disinvolto delle parole, al Trattato sui principi della conoscenza di Berkeley dove si opera una critica al linguaggio e al legame tra i nomi e le idee che pretendono di rappresentare. In Berkeley, alla fine, il nome non rappresenta nulla e la rappesentazione stessa non ha diritti, ne ha solo la relazione; le idee stesse sono relazioni tra le cose o, meglio, tra le idee particolari.

Venerdì, 12 agosto

Ai margini. [Un segnalibro tra Berkeley e Deleuze] Passare da Berkeley a Deleuze è mettere un segnalibro; dal caos al cosmos? Bello ma impossibile traguardo. Dal caos alla finzione di un ordine intellettuale? Meno bello ma altrettanto impossibile. Dalla finzione del caos alla finzione del cosmos? Più probabile.
Non credo all'esistenza del caos, parallalelamente non credo all'esistenza del cosmos. La velocità applicata al caso è l'orizzonte del caos, reso perfettamente visibile nella contemporaneità e con naturalezza confondibile con il caos. Cosa è però il caos? Un ordine primitivo dal quale liberarsi, delle regole anarchiche primigenie? O, tutto il contrario, la conquista ultima della nostra modernità? Tutte e due le cose messe insieme, che convivono insieme.
Caos, che spesso utilizza Deleuze, è un termine troppo generico, anzi è il termine generico per antonomasia, scritto quasi apposta per essere negato e confutato. Se penso al caos è perché ho un ordine, se percepisco e sento il caos è perchè ho un ordine nella mia sensazione e percezione.
Il caos presuppone l'incondizionato, quello che esce, supera e travalica la capacità della nostra percezione, il suo ordine, la sua condizione; non è affatto necessario che la nostra sensazione e percezione rincorra quello che non riesce per sua costituzione a raggiungere, che non ha alcun interesse a raggiungere, inoltre. Il dio degli scolastici ha la stessa estensione del caos di Deleuze, come quello è infinito, non percepibile e concepibile in tutti suoi attributi se non come complesso inconcepibile di attributi, che così rimangono in una zona morta, per loro stessa concezione, per l'immaginazione che li rappresenta e al contempo li ispira.
Il segnalibro mi dice che, proprio per questo, il caos non esiste e con esso non esiste neppure il segnalibro del caos. Il segnalibro mi dice, insieme con Berkeley ma anche con Kant, quindi con la filosofia della lentezza e della vecchiezza, che il caos non va collocato in una dimensione costitutiva dell'essere, che non è proprio necessario farlo, e che Deleuze e insieme con lui Guattari, soffrono l'adolescenza di una filosofia altrettanto senile. Può darsi anche che Deleuze e Guattari non intendessero porre il caos in una dimensione costitutiva, ontologica, ma impongono, a tratti, questa esegesi. Il caos è, invece, il prodotto della percezione, forse riesce a strutturarsi in concetto compiuto (non sono in grado di stabilirlo) ma spiega solo il limite della percezione, le forme della percezione umana, anche nella sua distensione scientifica e strumentale.
C'è, in verità, un'ontologia per il caos, ed è un'ontologia storica; questo è un momento (o forse, nella storia ci furono anche altri momenti) nel quale il caos può diventare un elemento ontologico, una cosa materiale, l'epoca in cui la produzione di concetti, affetti, passioni e stati emotivi diventa produzione di valore, di prodotti, di essere concreto. In questo caso il caos appare come realtà tangibile, come potenza reale, come potenza espressa sulla realtà, come espressione di una metafisica che innerva la fisica, le leggi scientifiche e le governa.
Questo dipende dal fatto che concetti, affetti, stati d'animo, emozioni e passioni, poiché sono divenuti valori, assumono un aspetto diverso e una natura diversa, vengono percepiti e sentiti in modo diverso. Sono, infatti, prodotti in funzione di una particolare operatività mediata, che ama presentarsi come operatività generale, universale, immediata e naturale, operatività emotiva par excellence. In secondo luogo sono prodotti in quantità industriali, letteralmente in fabbrica, secondo una produzione di serie. Il mondo delle idee e degli affetti è diventato una fabbrica.
Non basta, però, questo a spiegare il caos, cioé il mondo delle idee che diventa fabbrica e suo mercato. Non si produce solo velocemente, ma, secondo la tradizione del capitalismo industriale, si vende il prodotto. Nel piazzamento di un prodotto ideale ed emotivo è fondamentale, come per qualsiasi merce, che esso abbia un valore d'uso; nel caso del prodotto virtuale il valore d'uso è determinato esclusivamente dalla  adeguatezza del prodotto al contesto culturale e sociale; il contesto culturale e sociale è, in realtà, il valore d'uso primigenio di ogni prodotto virtuale. Il valore d'uso nasce dalla sua capacità di combinarsi con altri valori d'uso che non cooperano con quello (come per il caso dei valori d'uso tradizionale e materiali) ma si fondano insieme con esso; i valori d'uso ideali si fondano reciprocamente.
La dialettica marxista è abbattuta: il valore d'uso,  era per quella il valore primigenio, che fondava lo scambio e le sue combinazioni, e dopo di questo diveniva valore di scambio e merce. Il valore d'uso aveva il ruolo dell'ontologia, del noumeno in Kant, della verità delle cose e nelle cose, forse era anche considerato come un valore naturale, connaturato alla nostra specie, il vero modo dell'uomo di pensare il valore delle cose e le cose; il valore di scambio, invece, era il fenomeno, l'apparenza sociale, la concretezza delle cose ma non la realtà e verità di quelle. Il biocapitalismo ha semplificato la filosofia: noumeno e fenomeno coincidono. La distinzione tra ciò che percepiamo e ciò che pensiamo di una cosa che Kant usa, tra pensiero scientifico e pensiero filosofico, è probabilmente inconsistente fin dall'origine e Kant ha descritto un'inconsistenza valida sempre, ma oggi questa inconsistenza si rivela al mondo, coinvolgendo la filosofia, e si realizza nel mondo, coinvolgendo il pensiero scientifico.
Se Aristotele rinascesse oggi e cercasse di riprendere la sua impostazione filosofica in questo mondo, concluderebbe disorientato che il motore immobile esiste e si muove con evidenza in questo mondo e che per muoversi deve essere immobile.

Venerdì, 19 agosto

Ai margini. Trattato sui principi della conoscenza di Berkeley. [Segnalibro: Berkeley e Spinoza]Lo strano deus sive natura di Berkeley è un piano dell'immanenza che tocca in molte parti, per me insospettabilmente, quello di Spinoza. La natura, per Berkeley, non ha statuto ontologico, al contrario che per Spinoza, ma è ontologia divina. I due piani, (quello di Spinoza e quello di Berkeley) che sono apparentemente antitetici, sono in realtà prossimi.
Questo accade perché tanto Spinoza quanto Berkeley pongono la natura quasi interamente come un complesso di leggi e di regole scientifiche, di regolarità empirica. Per Spinoza, però, quel complesso di leggi e regole, la realtà empirica, è la natura in sè, che è concretamente Dio o parte costituente di Dio; per Berkeley, invece, la natura è espressione, azione e volizione dello spirito divino e se sia anche una componente ontologica dell'essere divino è questione non determinabile. La natura è spirito divino, ma lo spirito non è concepito da Berkeley come un'energia vivificante, una forza che innerva la natura e le sta al di fuori ma, e qui nuovamente in maniera insospettabile si avvicina a Spinoza, lo spirito divino è l'oggetto di percezione comune e collettivo tra gli spiriti, tra le intelligenze. La natura è una sorta di comunità delle intelligenze, di territorio condiviso tra quelle. La natura è dunque Dio in quanto oggetto di una percezione che si fonda sul commercio degli spiriti e delle intelligenze del quale è Dio l'artefice. Dio è un'intelligenza e percezione collettiva.
Dio è, anche per Berkeley, natura, ma non perchè, come in Spinoza invece, entra nella natura con le sue leggi, materializzandosi, ma perché Dio crea o è un'assonanza logica di carattere generale che chiamiamo natura o materia. Certamente, alla fine, Dio rimane estraneo alla natura e alla materia ma la conoscibilità della natura e della materia è prova dell'esistenza dello spirito comune, cioè di Dio.
La materia è, insomma, un fatto mentale sia sotto il punto di vista divino che umano: esiste una natura soggettiva per Dio, natura soggettiva di Dio, che assume per gli uomini un valore generale e oggettivo, ed esiste una natura soggettiva per l'uomo che rimane subordinata e imperfetta perché legata al commercio degli spiriti e delle intelligenze organizzato da Dio. Qui nuovamente Spinoza e Berkeley tornano a far coincidere un tratto importante del loro perimetro intellettuale.
La dissoluzione della differente costituzione ontologica, differenza stabilita da Cartesio, tra il piano dell'ideale, del percettivo e del sensibile (la res cogitans cartesiana) e il piano delle 'cose' (la res extensa) assomiglia e per lunghi tratti coincide con la centralità del percipere / percipi dell'ontologia empirista di Berkeley e con il deus sive natura di Spinoza. Entrambi proiettano il pensiero filosofico verso un orizzonte concettuale secondo il quale esiste una stretta associazione tra le 'cose' e il pensiero, tra pensante e pensato. Il pensato è prioritario in Spinoza, ma rimane pensato, non cosa in sè fuori dal pensato, ed è da questa caratteristica che scaturisce la forza conoscitiva della natura e della materia; il pensante è, al contrario, prioritario in Berkeley che, però, riabilita il pensato, l'idea passiva e inerte, la 'cosa', la 'materia' attraverso quell'intelligenza collettiva e comune.

Sabato, 20 agosto

Annotazione. [L'esclusività dell'islam] Il fondamentalismo è ed è stato un modo di essere molto importante dell'islam. Il mondo ideale mussulmano, molto più di quello cristiano, ha faticato a metabolizzare le preesistenze religiose e a includerle. Lo stesso fatto che Dio, nel corano, sia una lingua e una lingua precisa, precisazione che non ha equivalenti nei vangeli e solo dei precedenti nell'ebraismo, non ha favorito una mentalità inclusiva. Dio parla l'arabo nel corano, mentre nel vangelo è stato aramaico, greco, latino, copto ecc. ecc. L'islam è stato esclusivo.
L'attuale nuovo fondamentalismo cade su questo milieu e la cosa è inevitabile perchè ognuno cade sulla sua cultura o più precisamente sulle linee forze e strutturali di quella, ma il nuovo fondamentalismo non è, come potrebbe essere comodamente inteso, un rifiuto radicale e insensato della modernità; l'islam nuovo - fondamentalista è una risposta attualissima alla modernità ed è parte integrante delle forme del post moderno.
Del post moderno ha assunto in maniera abbastanza naturale molti aspetti, riprendendo elementi dell'islam originario: il rifiuto dell'idea nazionale, la totalizzazione della vita privata nella vita politica, l'abbandono o l'ignoranza dell'etica del lavoro, la dimensione pubblicitaria della comunicazione sociale e l'amore e l'interesse per la tecnologia presi e usati come surrogati dello sviluppo sociale e sostituto dell'evoluzione etica. L'islam nuovo - fondamentalista non è il medioevo che ritorna, ma il medioevo che si progetta nel futuro e con il futuro.
Gioco comodo imputare alla predicazione di Maometto e al Corano i caratteri dell'attuale nuovo - fondamentalismo, comodo perché vero in superficie. L'esclusivismo è un attributo basilare dell'islam. Le società islamiche non si sono mai ridotte a questo, però, e l'esclusivismo diventa, invece, valore totalizzante nel nuovo - fondamentalismo che fa riferimento a un innegabile milieu ma che diventa imprescindibile, sempre presente e quindi appunto totalizzante.
Il problema dell'islam di fronte all'inclusione di altre tradizioni nella sua, problema genetico, diventa esplosivo di fronte al superamento della modernità. La modernità, fortemente criticata, era però oggetto di una dialettica possibile: pensiamo alla rivoluzione iraniana il cui sviluppo è avvenuto a imitazione di quello delle rivoluzioni politiche europee; i rivoluzionari iraniani e i giacobini francesi furono accomunati dal medesimo impegno strategico e dalla stessa analisi e inquadramento della tattica, muovendosi politicamente allo stesso modo. La crisi della modernità ha comportato anche la crisi del modello rivoluzionario moderno (inglese, americano, francese e russo) che provoca delle ricadute generali su modelli pre moderni nella gestione / risoluzione e immaginazione dei conflitti. In realtà il nuovo radicalismo islamico non è che uno degli aspetti della crisi della teoria e della pratica rivoluzionaria in generale.
L'islam non è affatto impermeabile alla crisi della politica, della sovranità espressa su base nazionale e rappresentativa e dei fondamenti dei diritti civili e politici; onestamente è estremamente suscettibile a questo genere di impulsi e li sta trasmettendo in maniera diretta e in soluzione chimicamente pura. Il nuovo - fondamentalismo islamico è una rappresentazione diretta, in forma di ripresa medioevale, della contemporaneità.

Domenica, 22 agosto

Annotazione. [La forma dell'immanenza nella contemporaneità] La totalizzazione, con questo termine intendo l'acquisizione di un elemento unificante in base al quale e dentro il quale tutte le parti di un processo assumono un senso, è un fatto della contemporaneità. Sembra un paradosso pensare questo per un'epoca che mette in discussione ogni telos indifferentemente fondato sulla trascendenza o sull'immanenza. Abbiamo di fronte un'unità / totalità priva di telos, di fine, un'unità che non si muove o che esprime un movimento solo apparente; questo dipende dal fatto che il movimento si svolge dentro l'unità data e questa unità è indiscutibile e presupposta: metterla in discussione assomiglierebbe a mettere in discussione l'esistenza del mondo, assomiglierebbe a un non - senso, a un pensiero assurdo. L'immanenza è il dato di partenza di questa unità storica e questa unità storica ha sconvolto ampiamento il concetto di immanenza; l'immanenza è diventata un senso e significato immobile che spiega sè stesso. L'immanenza è il materialismo immobile, indiscutibile, concreto: il concreto e il materialismo sono diventati trascendenza: l'immanenza è diventata trascendenza e la trascendenza non è più un particolare modo di spiegare l'immanenza, ma è uno dei volti di questa nuova immanenza.
Il materialismo divinizza la materia, ne fa un ente astratto, il riferimento assoluto per l'etica. La materia assume l'aspetto di Dio. Dalle leggi della materia dipendono tutte le altre leggi e la materia è sempre stata così, percepibile, sensibile e conoscibile in questa maniera come materia, come corpo, anche quando è virtuale è materia virtuale, conseguentemente le sue leggi sono da intendersi come eterne e di validità infinita ed eterna.
Il fondamentalismo materialista istituisce così una nuova materia, una materia ontologica che dimentica, volutamente, la percezione della materia, al di fuori delle leggi che attribuisce alla materia.
Il nuovo Dio non è il danaro, come nella vulgata critica dell'attualità, il danaro è la disciplina nella quale si sistemano le leggi materiali, le leggi della nuova trascendenza priva di telos, di senso e di movimento.
Il conflitto attuale non è tra un dualismo e un monismo ontologico; l'oggetto del conflitto è nella percezione della realtà materiale, tra chi ritiene la materia spiegata e chi non, tra chi ritiene impossibile un movimento, se non apparente (intendo il movimento delle borse, il capitalismo finanziario), poichè sempre svolto dentro le medesime leggi, e chi ritiene possibile un movimento reale, che interviene sulle leggi della materia, trasfigurandola e cioè liberandola dalla sua attuale figura apparente o dalla sua attuale concretezza.
Non può esserci, ormai, altro conflitto, non può essere altrimenti; in questa fase della storia, l'immanente, che pretende ed è orgoglioso della sua immanenza, per governarsi, per darsi delle leggi, si dota della strumentazione del trascendente. La storia contemporanea si volge solo al passato, quando pensa a sè stessa, e il presente diventa lo scenario del già accaduto e quindi dell'irrimediabile. In verità nella storia, neppure in quella cristalizzata negli studi storici, esiste l'irrimediabile e il già accaduto; persino un fatto del passato, che ha comportato fatti e conseguenze nel presente, può considerarsi archiviato, chiuso e definito. Un evento può essere rivisitato, cambiato, ricombinato con altri eventi, ridefinito come evento esso stesso, diventare parte di eventi ai quali non era associato o parte principale di altri eventi quando era parte secondaria e viceversa; un evento storico è un salmone che si mette a risalire e scendere la corrente. Questo non dovrebbe essere solo il compito dello storico ma soprattutto quello del politico e ancora di più del filosofo, perchè uno storico, quando è veramente uno storico, è anche un politico e un filosofo, come un politico, quando riuscisse a essere di nuovo un vero politico, sarebbe inevitabilmente anche storico e filosofo e infine come un filosofo, quando si occupa dell'immanenza con serietà, deve essere anche politico e storico.

Rivedi agosto
Inizio anno

Sabato, 3 settembre

Ai margini larghi di Che cosa è la Filosofia di Deleuze e Guattari. Brevemente. [Terminologie in bozza].Il concetto di realtà rappresenta quello che la consistenza del reale non realizza in maniera immediatamente empirica, mentre quello di concretezza fa il contrario. Il reale comprende il concreto, ma il concreto comprende solo una parte del reale. Reale e concreto sono due aggettivi che si riferiscono all'immanenza, entrambi, ma concreto, seppur meno esteso e compreso in quello di reale, pretende di essere la parte significativa e autenticamente esistente dell'immanenza. Concreto è il valore di scambio che diventa valore d'uso nella merce, reale il valore d'uso che diviene valore di scambio per poi ridefinirsi valore d'uso nella merce.
Percepibile è quello che viene percepito quando non lascia una traccia di sè o lascia una traccia breve, sensibile è quello che viene percepito quando lascia una traccia di sè, una traccia duratura, una sensazione che viene concettualizzata. Pensabile è il risultato di questa prima concettualizzazione, intuibile e quello che commisura il percepibile e il sensibile senza tenere conto della consistenza delle loro traccie, come se fossero equivalenti e soggetti di concettualizzazione.
Inteso (intendibile) è una concettualizzazione associabile a una parola, l'intendimento è il motore della convenzione filosofica perchè lavora all'associazione dei segni mentali con i segni verbali o grafici e quindi all'edificazione di un segno comune e collettivo.

Mercoledì, 7 settembre

Annotazione. [o la borsa o la vita] La nostra vita è come se avesse una sola borsa e quella sola. Ha poca importanza che sia bella o brutta, solida o fragile, ben rifinita o grezza; quello che importa veramente è di caricarla per quello che può contenere, in modo tale che possa fino alla fine fare il suo lavoro di borsa; e quello che importa è che si sia sempre ben consapevoli del fatto che proprio perchè è una borsa, prima o poi, sarà necessario ritoccarla, rinforzare le cuciture, allargare le tasche, e che, alla fine, si romperà del tutto. Il suo ingombro, apparentemente inerte, però rimarrà in mezzo a quello di tutte le altre borse, ancora integre, ancora attive; ruberà a quelle ancora dello spazio e senza quel furto e senza tutti quei furti, nessuna delle borse saprebbe precisamente quale è il suo spazio e non si muoverebbe, ma rimarrebbe ferma, sospesa fuori dallo spazio, senza un luogo.

Giovedì, 8 settembre

Annotazione. [o la borsa o la vita] Rimarranno le tracce delle cuciture e dei suoi rinforzi sopra le borse che le sono passate vicino. E scrivo passate e non 'state', perché le borse di questo tipo non sono mai ferme, anche se si credono, molto di frequente, ferme. Quando cessano il loro uso, anche lì, ormai prive di contenuto, continuano a muoversi e dunque ad averlo; vengono scontrate dalle altre, rimangono indietro, dimenticate, poi, agganciate su una cucitura, progrediscono un po', quasi fino alla prima fila e poi rimangono ancora indietro rispetto alla corrente generale.
Il verso di questa corrente non è qualcosa, una forza o un'energia, che sta al di sopra delle borse, qualcosa di visibile e di quantificabile e neppure di misurabile, il verso di questa corrente è un movimento senza direzione: il movimento è determinato dalla creazione di nuove borse, di altri contenitori, dall'estensione del materiale e, soprattutto, dalla presenza del vecchio materiale, in disuso, ma ancora operativo agli effetti del movimento generale, della stessa tipologia delle borse. Le borse non sarebbero quelle borse e il movimento non sarebbe quel movimento se non esistessero le borse vuote e prive di contenuto, ma, alla fine, il contenuto non sarebbe contenuto senza le borse che non lo contengono, che sono vuote. Viene fuori qualcosa che assomiglia a un movimento quasi immobile e a un contenuto quasi vuoto, a un peso quasi privo di peso.

Martedì, 13 settembre

Annotazione. [L'Islam incluso] Esiste un motore generale, rispetto al quale il radicalismo islamico contemporaneo è un dispositivo particolare. Basta scorrere la biografia dei terroristi islamici delle banlieu tanto quanto quelle dei serial killer anglosassoni degli ultimi due secoli. Assolvere l'islam? No di certo: è un dispositivo particolare che si presta, in questa specifica fase storica, con naturalezza al movimento di quello generale. Il movimento, però, è altrove, è fuori dall'islam, un po' meno fuori dalle periferie, ma in gran parte estraneo anche a quelle. Spiegarci il movimento generale, l'imbarbarimento delle relazioni, la fine dei concetti di pace e guerra, la devalorizzazione dei diritti, della vita e dell'esperienza umani, è rovesciare la verità delle cose (dura parlare di verità e anche solo pensarla, ma è una durezza più che mai necessaria). Certo si preferisce morire e combattere per una causa esatta, precisa e ben definita, come si preferisce morire piuttosto che rimanere in un continuo e reiterato dubium vitae. Il dubium vitae è la somma della nuova barbarie, e della nuova pace bellica; è il sentimento razionalmente ispirato che prevale. La fonte del motore generale conosce bene queste cose, ha studiato con accuratezza l'uomo per millenni e ha accumulato conoscenze allo scopo di dominarne la vita con una sempre più elevata precisione scientifica. Quest'ascesa della scientificità del dominio ha avuto il moto di una sinusoide e quindi a progressi si sono intervallati regressi, ma la retta intorno alla quale la sinusoide disegna le sue onde è inclinata.

Mercoledì, 14 settembre

Annotazione. [il DNA double face] È  arrivato il punto della più radicale delle antinomie nella storia dell'umanità: quella posta tra la sopravvivenza del sistema economico e la sopravvivenza della nostra specie, intendendo per nostra specie quella specie di animali che ha acquisito assoluta centralità negli ultimi diecimila anni nella vita sul pianeta.
Qualche animalista e qualche ecologista estremo gioirebbero e forse, se consapevoli, gioiscono a quesra prospettiva. Questa potenziale gioia, gioia paradossale perché è una gioia che si suicida, non deve affatto stupire: animalismo, ecologismo, quando  intendono sè medesimi  come discipline astratte, come morali, come istinti puri, sono i prodotti, tra i numerosissimi, dell'antinomia e, inconsapevolmente spesso, i migliori rappresentanti dell'intellettualità spicciola e banalizzante, anche se raffinata scientificamente, proprio del sistema economico. Ecologismo e animalismo, lungi dall'incentivare una praticabile difesa dei paradigmi ambientalisti, finiscono per partecipare alla grande corrente della devalorizzazione della vita umana, cioè della vita di una specie animale che, come ogni altra specie, lavora nella natura e la trasforma secondo i suoi strumenti e secondo le sue capacità. Non c'è specie vivente che rispetti l'ambiente: non c'è specie vivente che conosca ambiente e rispetto come valori astratti, assoluti e sciolti dalla natura, cioè dal lavoro necessario e indispensabile sulla natura che la vita compie.
Se scrivo di sistema economico e non di 'questo' sistema economico, lo faccio perché  il mondo dell'economia ha acquisito una dimensione assoluta e assolutizzante; il sistema economico è un secondo e intoccabile sistema naturale, sistema ecologico. C'era un gruppo rock, negli anni ottanta, americano, che aveva scelto di chiamarsi DNA, nel segno dell'elemento primordiale, arcaico che viene conosciuto dal suo stesso prodotto, nel segno dell'inizio e della fine, nel segno della causa e del suo effetto che, in quanto effetto, conosce la sua stessa causa e giunge, alla fine, all'annullamento di causa ed effetto insieme, come fatti separati e, dunque, anche della storia come sequenza causale. Alla stessa maniera l'intera storia dell'umanità può essere interpretata  attraverso quest'ultimo sviluppo, finale e necessario a questo punto e sotto questo punto di vista,  che porta alla scomparsa dell'uomo, in quanto elemento anti - economico, l'uomo come costo, detto da colui che ha costruito il concetto di costo.
Anche l'ideazione delle macchine, il lavoro umano per eccellenza, quello che contraddistingue l'uomo come animale tra gli altri animali, può essere affidata ad altre macchine e tecnica e sistema economico hanno contratto un matrimonio necessariamente inscindibile, perchè grazie alla tecnica il sistema economico si libera della variabile umana nella produzione e si assolutizza, realizzando l'assoluto nella storia. L'elemento indispensabile, il vero detentore del patrimonio, non è la tecnica ma l'economia, l'economia è la tecnica, si immerge in quella.
Il sistema economico ha bisogno dello sviluppo della tecnica per generare i suoi orizzonti di sviluppo, e le leggi della tecnica si confondono con quelle dell'economia. La tecnica genera lo sviluppo, ma non può generare l'ambiente adatto alla riproduzione dell'economia. Lì, nello scambio dei beni e dei prodotti la tecnica non c'è, nella domanda, nel consumo, la tecnica non c'è. Far lavorare la tecnica nel campo della domanda trasformerebbe il sistema economico in un sistema ludico, integralmente ludico; già oggi è su questa via, quando buona parte della gestione della domanda assume componenti ludiche, ma alla fine di questa strada è un sistema ludico a tutto tondo.
Le robuste anticipazioni di questa trasformazione esistono già: la preminenza nella progettazione economica e nella fenomenologia economica dell'antico gioco in borsa, che proprio perdendo l'aspetto 'giocoso', l'azzardo e il rischio è diventato indice (fenomenologia), progetto (investimento) e centro dell'economia. Le regole di questo sistema non sono quelle dell'economia, ma si esprimono tutte in forma economica. Pensiamo alla relazione tra il gioco degli scacchi e la forma della guerra per definire il rapporto. Alla base del valore economico non il tempo di lavoro, o la rendita agricola e naturale, come in ogni società precedente, cioé un surplus estratto in diverse forme e attraverso diversi agenti alla natura, ma un valore che è indipendente dalla natura e dal pianeta, che sta sopra all'economia e che fa dell'economia la nuova forma della legge universale e naturale. Ma la legge non è economica, la legge è naturale, nel senso che crea una nuova natura e una nuova ecologia di valori. La forma economica è la sua forma razionale, il modo di darsi in maniera intellegibile, precisamente come negli scacchi i pezzi servono per lo sviluppo del gioco e per visualizzare le regole, ma le regole sono al di fuori della scacchiera.
L'economia, e sembrava già rivoluzione nella tarda modernità, nell'epoca neokeynesiama e poi neoliberista, ha negato ogni autonomia alla politica, ma l'economia rinnega la sua nuova indipendenza, perchè non può vivere in autonomia.

Venerdì, 16 settembre

Annotazione. L'economia ha bisogno di farsi politica, senza ammettere l'autonomia del politico e cioè di quello che è diventata; la politica deve essere autonoma fino a quando è un travalicamento che l'economia compie su sè stessa, un movimento critico interno all'economia. È qualcosa di simile a quello che Deleuze e Guattarì scrivono sulla relazione tra vita e arte: l'arte forma delle sensazioni sulla vita, le rende sensibili alla vita stessa. Nella contemporaneità (ma già dagli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti, oggi è diventato fenomeno globale) la politica non inventa l'economia, precisamente come l'arte non lo fa con la vita, ma forma alcuni elementi del flusso economico affinchè divengano significativi oltre l'economia, fermi oltre l'economia, cristalli e sedimenti, e sensazioni permanenti per gli uomini, sensazioni, quindi, politiche. La politica è immagine dell'economia, ma la scienza economica ha bisogno di presentarsi come scienza politica, anche perchè lo è concretamente.

Sabato, 24 settembre

Annotazione. Concreto termine interessante. La concretezza del realismo cinico, la concretezza del dominio e della necessità. Concreto viene dal latino cumcrescere, crescere insieme - addensarsi. La concretezza, secondo questa etimologia, rimanda a uno stato e a una situazione dinamici, mai stabiliti. Nelle traduzioni del termine dai testi di Marx, concreto è usato in questa sua ambivalenza: un aspetto della realtà di fatto, la 'concreta realtà', appunto, che tende a eternizzarsi e a produrre come conseguenza rassegnazione e cinismo; sentimenti concreti o meglio i sentimenti degli individui concreti. In questa valenza il concreto perde il movimento, perde il fatto di essere un risultato, un prodotto, e diviene un elemento ontologico, autofondante.
In Marx, invece, concreto è anche un elemento soggettivo, che proviene dalla soggettività, è un aggettivo generato dalla soggettività politica e sociale; concreto è il prodotto dell'interpretazione dominante della realtà, ma può anche esistere un'altra concretezza, un'altra maniera di legare insieme e di addensare il sistema produttivo e sociale, liberandolo dall'attuale concretezza. È il concreto del realismo rivoluzionario.
Nel cinismo, invece, l'aspetto dell'assodato, addensato e dimostrato è egemone; la concretezza della visione cinica si fonda sulla cristallizzazione ed eternizzazione dello stato di cose presenti; nel cinico lo stato di cose, diventa lo stato delle cose. Anche il cinico immagina, ovviamente, un movimento storico e un'evoluzione, ma come parte di uno stato eternizzato, come parte apparente e secondaria, accessoria, dello stato di cose: la parte fondamentale ed essenziale dello stato di cose presenti è l'eternità. Nel pensiero rivoluzionario l'aspetto dell'addensabile, assodabile e dimostrabile è la concretezza: la concretezza si deve ancora fare.
Il marxismo ha dimenticato questo aspetto della concretezza in Marx e insieme con quello quasi tutto il pensiero rivoluzionario, che, nel bene o nel male, volontariamente o involontariamente, al marxismo ha fatto riferimento. Il marxismo nelle mani dei marxisti è diventata una scienza economica e una dottrina politica, è diventato concreto, ma non nell'accezione di Marx, ma in quella cinica.

Domenica, 25 settembre

Annotazione. [Il biocapitalismo è un dio che incombe da un passato mai conosciuto] L'idea che il capitalismo contemporaneo comporti una internalizzazione delle strutture del potere è diffusa. Questa idea è troppo semplice: stabilisce una relazione lineare tra il potere economico e quello politico che, nella storia, non si è mai verificata. È certo che il capitalismo globalizzato richiede una deterritorializzazione delle istituzioni politiche e dei relativi processi; questa innegabile e necessaria deterritorializzazione non deve obbligatoriamente assumere l'aspetto dell'internazionalizzazione. Il declino dell'ONU e il persistere del senso nell'esistenza degli Stati nazionali fa parte di un meccanismo tutt'altro che semplice, ma anzi complicato. Alcuni Stati nazionali stanno acquisendo un nuovo senso, una nuova ragione proprio all'interno delle politiche biocapitalistiche, altri le subiscono, scambiandole e percependole esclusivamente come politiche globalizzanti e internazionalizzanti, come politiche che tendono alla soppressione della sovranità popolare espressa su base nazionale.
In verità il meccanismo globalizzante non è riassumibile in una egemonia semplice dello Stato nazionale statunitense, egemonia riconducubile alla sua capacità di interpretare le esigenze del capitalismo multinazionale e delle grandi corporations, poichè lo Stato nazionale statunitense, in quanto potenza nazionale tradizionalmente determinata, è anch'esso in declino, nè nel declino delle tradizionali istituzioni internazionali, nè nell'emergere in forma compiuta della potenza nazionale cinese, sull'assetto del capitale multinazionale a maggioranza cinese, e neppure sull'insospettata resistenza dello Stato russo.
Il nuovo potere economico, come in biochimica le vitamine, ha bisogno di enzimi per metabolizzarsi e la sorgente metabolica è quella esercitata dalla storia degli Stati; il biocapitalismo non può fare a mano degli Stati anche se, in ultima tendenza, ne proporrebbe l'abolizione. Gli Stati, però, sono dei trasmettitori locali del senso dello sviluppo economico, dalle compatibilità finanziarie e della gestione generale delle risorse umane. Molti Stati nazionali cambieranno natura, altri si frantumeranno sotto il movimento sotterraneo ma potentissimo di deterritorializzazione e riterritorializzazione dei flussi economici, come è sempre stato, inoltre, nel capitalismo e dall'epoca moderna. Anche il capitalismo nazionale, basato sulle singole borghesie, ha creato naturalmente gli Stati nazione, ma per formarli ne ha distrutti molti altri e potenziali. Lo Stato nazionale come espressione chimicamente pura della sovranità in epoca moderna è una teoria comoda, ma non del tutto giusta e adeguata.
La novità oggettiva è che i flussi economici sono diventati sistemi di segni telematici e di comunicazione automatizzata, per loro stessa natura delocalizzati e delocalizzanti e sono davvero, si verificano davvero, in maniera sincronica in ogni luogo e ogni luogo possiede lo stesso tempo, ogni luogo è simultaneo a ogni altro luogo.
E in questo punto si interseca il problema del trionfo, altrettanto oggettivo, del lavoro morto (intellettuale e 'manuale') sul lavoro vivo.
Due elementi davvero inedite, dunque, conformano questa fase storica, accompagnadosi: la progressiva obsolescenza, inadeguatezza e inattualità dell'interveno umano nella produzione dell'essere e la presenza, secondo tecnologie che permettono la simultaneità, del medesimo sistema economico in tutto il pianeta. Il peso del fattore umano in economia si polarizza sul consumo delle risorse e dei prodotti, sul consumo dell'essere, e si riduce il campo della produzione, della progettazione, dell'ideazione e della creatività, mentre questa polarizzazione erode ogni limite geografico e si propone ovunque, seguendo procedure uniformi, procedure tecniche, simultanee per loro natura. Dentro le eredità geo - politiche, dentro cioè la trama degli Stati nazionali e delle loro gerarchie costruite e stabilite su scala planetaria e in maniera univoca e simultanea (quindi davvero globale), le popolazioni che non hanno conosciuto la povertà del mondo moderno, la povertà industriale, sono proiettate nella povertà post - industriale, passando da un mondo basato su relazioni sociali circoscritte localmente e su la produzione artigianale, governata dall'esigenza dell'autoconsumo. Queste popolazioni sono inserite in un mondo basato su relazioni non - circoscritte e sul lavoro salariato e astratto senza che il lavoro salariato sia possibile, ma rimane come un presupposto intangibile, assoluto, posto al di fuori delle cose, una potenza storica ingovernabile, ignota e terribile come un dio che incombe da un passato mai vissuto.
Il mondo  che ha conosciuto il lavoro salariato come forma egemone del valore del lavoro e relazioni sociali allargate, rischia di dover combattere per conservare livelli di povertà almeno industriali contro il resto del mondo, che non l'ha conosciuto. Il passato, però, in maniera diversa, incombe anche contro il mondo svezzato nella modernità e nell'industrialesimo: modernità e industrialesimo sono state solo particolari stati dell'economia assoluta, sono sempre stati limite e crisi, modelli negativi da oltrepassare.
La guerra civile mondiale non è uno scenario prefigurabile, è già una realtà di fatto, e gli Stati nazionali funzioneranno come strumenti, punti di riferimento, ma non protagonisti, (non protagonisti in quanto Stati - nazione, espressione di una volontà nazionale, ma protagonisti in quanto strumenti nazionali), di questo scenario. Per tenere dietro a questi nuovi orizzonti, per essere funzionali in questi nuovi confini e compiti, sono costretti ad abdicare alla loro natura, ad acquisire un nuovo senso per perpetrare e amministrare la guerra tra poveri che si delinea. Esempio lineare è la politica del governo italiano dal 2011 in poi, che ha ottenuto finanziamenti dal resto della comunità europea per il ruolo di portale dell'emigrazione nord / sud dell'emisfero occidentale: uno Stato nazionale realizza progetti internazionali, in quanto Stato nazionale. Esempi simili in questo campo li offrono la Grecia, la Turchia e la Bulgaria.

[Nuovi orizzonti] L'orizzonte è oggettivamente barbarico e arcaico, lo sviluppo economico contemporaneo porta con sè, in tutta naturalezza, la logica secondo la quale il capitale per vincere la resistenza del lavoro lo elimina e le risorse umane, le popolazioni, perdono valore in quanto forze produttive ma concentrano il loro valore in quanto consumatori, in quanto fisicità slegate dal lavoro, in quanto soggetti non produttivi. Questo assunto in una società economica che fa della produzione valore fondante è paradossale, è antinomia all'ennesima potenza, contraddizione allo stato puro. Siamo orfani di un padre che ci sopravvive, di un passato che ci ignora, proiettandosi sul futuro con il quale non possiamo avere dimestichezza, nonostante dovremmo averne, perchè, in verità, ha tutti i valori del nostro passato.
L'eliminazione del lavoro non è stata una deliberata scelta del capitalismo, però, è stato il lavoro stesso, sono stati gli uomini stessi a porre le basi per la distruzione del lavoro. La distruzione del lavoro è stata critica radicale al lavoro, negli anni sessanta e settanta, ma anche costituzione di nuove forme di lavoro creativo, ideativo e comunicativo. Questa lotta al lavoro comandato ha comportato anche l'idea, importantissima, che la fruizione dei diritti fondamentali dovesse essere slegata, concretamente slegata, dalla partecipazione alla produzione. L'estensione dell'ambito di applicazione e di generazione dei diritti politici, umani e sociali è stato il naturale portato di questa critica al lavoro della seconda metà del novecento: il diritto al lavoro è stato sostituito dal diritto alla vita al di fuori del lavoro. Questa nuova teoria dei diritti ha lasciato dietro di sè un basamento di idee, relazioni, sentimenti e di etiche importantissime. Non vada scambiato con un'argomentazione consolatoria: è inequivocabile che il diritto che ha stabilito la fine del lavoro vivo non è il diritto esteso dell'operaio taylorista o dell'operaio sociale, ma il diritto di proprietà sui mezzi di produzione del capitale collettivo. Dopo l'espressione autoritaria di questo diritto, le fasi marxiane non sono più valide, neppure i passi fantascientifici dei grundisse riescono a essere fantascienza, ma sono passato, mentre le fasi marxiste, anche se richiamate nel neo - marxismo italiano, non sono mai state valide.
È però da lì che bisogna ripartire, dal nostro soggetto introvabile e inconoscibile, dall'operaio dimenticato a metà ricarica della penna dal neo - marxismo italiano, dall'operaio sociale fantasmatico; operaio sociale è quel coacervo magmatico, ma sotterraneamente strutturato, strutturato in maniera inconscia, di diritti, abitudini, pigrizie, sollecitudini, relazioni e comunicazioni che si sono sviluppate durante la critica operaia al lavoro e poi ancora durante la destrutturazione del lavoro operaio di fabbrica. Quel coacervo ha trovato a tratti una pianificazione, una sorta di programmazione economica dell'emotivo, nel consumismo comunicativo del biocapitalismo. Quel coacervo è diventato segno tangibile di una sconfitta storica: il lavoro e i suoi diritti sono stati abbattuti; esiste solo una forza produttiva: il capitale come forza produttiva.
Ammettere la sconfitta per riprendere la guerra, per riprendere le armi e affrontare il nemico su un altro campo di battaglia, su un altro terreno, quello dei diritti collettivi che si contrappongono al diritto espresso sui rapporti di produzione. Siamo ad un aut / aut, nella realtà delle cose, che è necessario affrontare come un et / et o un sive / sive.
La guerra civile mondiale è disinnescabile solo attraverso la pratica dei diritti allargati contro il diritto autoritario del capitalismo collettivo contemporaneo che rende la liberazione del lavoro umano dalla produzione un suo prodotto esclusivo, un prodotto sottoposto al suo diritto di proprietà. Come se non fossero stati gli uomini nel loro insieme a creare scienza e tecnica, ma solo il capitale abbia avuto, fin da sempre e fin da subito, il monopolio dell'intelligenza collettiva. La liberazione dal lavoro, sotto il profilo del capitalismo, è estinzione della cooperazione produttiva e dal momento che la cooperazione finalizzata alla produzione è stata l'unica forma di collaborazione che il capitalismo ha saputo intendere, sotto il suo profilo e amministrata dal capitale collettivo e globale, si tradurrebbe in fine dei diritti inerenti la collaborazione e polverizzazione della società.
Mi amareggia il fatto di essere giunto a questa visione dicotomica radicale a quasi sessanta anni; mi amareggia di aver avuto l'idea, per decenni e almeno fino dagli anni ottanta, che le cose si avviassero verso un antagonismo radicale e decisivo, ontologico e antropologico, e di aver preferito continuare a lavorare, a fruire dei necessari surrogati della verità, mentre il lavoro e la verità venivano distrutti. Dopo tanto tempo rimane quasi una cinica constatazione, un atteggiamento concreto, piuttosto che una sana convinzione intorno a una nuova e possibile concretezza.
La scommessa storica (e sono convinto che sia una scommessa storica nel senso che coinvolge il significato di tutta la storia della nostra specie) è la riorganizzazione della società al di fuori del capitalismo, che significa anche e soprattutto, anche richiede e rende necessaria, una riorganizzazione radicale dell'umano, cioè della relazione della nostra specie con sè stessa. I radicalismi post / vetero marxisti, i tatticismi nuovo riformisti sono piagnistei sulla tomba del lavoro e della lotta tra capitale e lavoro, della lotta tra antiproduzione e produzione. Certo, siamo stati, come specie e come classe, dei lavoratori e in parte continuiamo ad esserlo, e l'et / et si accompagna all'aut / aut; la negazione del lavoro non deve essere il nostro paradigma, questo paradigma va lasciato ed è del capitalismo, la riorganizzazione del lavoro sarà un fatto, una necessità ma non generata all'interno del lavoro, del suo mondo, ma come risultato di una trasformazione complessiva che partirà necessariamente al di fuori di quello.
Questo movimento si troverà spesso in posizioni scomode, ondeggiando tra gruppi di vandeani che hanno in odio il potere del Re ma non combattono affatto la Monarchia, ovvero combattono solo tutto ciò che ricorda loro uno Stato monarchico, ma sono monarchici, e sarà spesso per questo scambiato come un partito del Re, e il Re e la Monarchia autentica, che aizzerà i vandeani, senza tenere contatti concreti con quelli. Si dovrà combattere i prodotti naturali della Monarchia, passando per monarchici. Ma non solo. Questo movimento avrà contro la Gironda, che spingerà a riconoscere la razionalità e umanità della Monarchia, a richiedere solo aggiustamenti e piccole riforme possibili e concrete, verso un eterno e mai realizzabile et / et. Ci saranno sicuramente i profeti dell'aut / aut a ogni costo, della scelta della guerra civile, della separazione rivoluzionaria a ogni costo. La Vandea della nuova rivoluzione sarà, quindi, colorata e piena di sfumature, di segni apparentemente contrari e sarà anche dentro di noi.

Martedì, 27 settembre

Annotazione. [inconscio collettivo?] Avrei intenzione di consolidare un complesso di idee, un concetto, che mi gira nella mente, indomito, da circa un trentennio. Ho spesso ragionato avendo in mente questo piano concettuale, ma non l'ho mai formalizzato, anche perchè faticavo a battezzarlo e, dare un nome a una cosa, è definirla compiutamente (almeno soggettivamente). Inconscio collettivo che è omonimo di un concetto della psicologia novecentesca potrebbe andare bene. Inconscio collettivo lo intendo come un concetto storico; si occupa e comprende quell'area delle relazioni umane che è sempre esistita: l'area che negli antichi era riservata alla mentalità religiosa e sociale, ad alcuni aspetti del culto, alla visione delle famiglia, alle aspettative di vita e in generale ai desideri e alle paure collettive e comuni. L'inconscio collettivo si è esteso enormemente e ha perso buona parte della sua natura, non rimanda più al trascendente, come in epoca classica, ma investe completamente l'immanente, spesso o quasi sempre, trascendentalizzandolo. L'inconscio collettivo è il mondo dell'inespresso, o dell'inespresso in forme politiche compiute e progettuali, che rappresentano, in questa figura, il conscio. L'inconscio spiega ed è costituivo, in gran parte oggi, in minor o minima parte nella premodernità, il conscio collettivo, il politico e l'ideologico. La diffusione, il successo di determinate ideologie, progettualità e cornici analitiche ha la sua radice nella corrispondenza con un insieme di idee, aspirazioni e mentalità inespresse e sotterranee. Nell'inconscio collettivo non c'è nulla di inconscio, ma manca una mediazione completata con il piano della storia della società e delle sue idee. Spesso, inoltre, nel complesso ideale che caratterizza l'inconscio collettivo è una relazione quasi immediata con la struttura sociale, qualità che manca al conscio collettivo, con i modi di produzione, la tecnica, gli strumenti di comunicazione , i mezzi di trasporto e il territorio che contiene tutti questi elementi. L'inconscio collettivo riguarda ogni singolo individuo ma esiste solo nelle relazioni tra le persone, e solo quando queste guardano sè stesse come parte di una socialità, di una omogeneità, e guardano il mondo come totalità. Anzi il mondo come totalità è un polo dell'inconscio collettivo e uno dei motori del suo processo ideativo.

Rivedi settembre
Inizio anno

Domenica, 9 ottobre

Annotazione. [il perimetro dell'inconscio collettivo]. Il campo concettuale dell'inconscio collettivo va delimitato con estrema attenzione perché, per la natura che immagino per il concetto, rischia continuamente di invadere altri campi. Intendo dire che la cosa che sta dietro al concetto è adattiva, si contamina e contamina, occupa, per momenti anche lunghi, il terreno del conscio collettivo, di quello che è definito storicamente e teorizzato politicamente. Esiste alla base della cosa, la divisione tra ufficiale e ufficioso, tra la storia 'monumentale' e la storia della vita quotidiana, e poi tra le culture 'egemoni', registrate e quelle non egemoni, non registrate, clandestine alla visibilità, e poi ancora tra le culture e le sottoculture. La cosa nasce, rispetto al conscio collettivo, assimigliando a queste divisioni e si divide da questo in modi simili. Tutti gli elementi elencati concorrono a costituire, narrare e descrivere l'elemento conscio collettivamente e quello inconscio, ma non coincidono con la natura della separazione tra i due; assomigliano ma non coincidono.
Inoltre il conscio interviene nell'inconscio, con una maggiore permeabilità che in psicologia, l'osmosi e il dinamismo osmotico è attivissimo, tra le due parti o cose. Il conscio istiga alcune pulsioni, che si strutturano e sedimentano in forme inconscie politicamente, lasciano segni apparentemente non visibili, non percepibili e non sensibili, ne ferma altre che tendono ad emergere dall'inconscio e infine ne costituisce, in maniera studiata, altre, in modo tale che si edifichino come forme inconscie, come pulsioni spontanee; il conscio non sempre produce un 'rischiaramento' dell'inconscio, anzi il conscio politico cerca spesso di tramutarsi in forme inconscie, in pulsioni sotterranee ma importanti e decisive socialmente. Sotterra, spesso, tesori nell'inconscio. Anche l'inconscio, ovviamente, interviene nel conscio politico, si manifesta e si propone in forme conscie; esce dalla pulsionalità e si dà forma ideologica.
È completamente al di fuori della mia portata la capacità di definire i concetti di conscio e inconscio collettivo, ma mi preme individuarne il campo e indicarne la necessità. L'insieme del conscio collettivo è estremamente più vasto dell'inconscio, comprende molti più elementi (cultura, immaginazione, politica, ideologia, arte, legislazione), l'insieme dell'inconscio collettivo comprende tutte queste discipline, interessi e investimenti, solo in relazione alla sua eleborazione, solo in riferimento a sé. Nell'inconscio tutti questo elementi sono mescolati, embricati in pulsioni, flussi di immaginazioni e stati d'animo collettivi.
Pensiamo all'insieme di motivazioni che hanno spinto, in questi decenni, milioni di uomini a lasciare paesi e continenti di origine: motivazioni materiali, motivi ideali, ideologie qualche volta, quindi elementi del conscio, ma insieme con quelli, e spesso legati gemellarmente a quelli, nuove aspettative, nuove mentalità, flussi informativi, stereotipi culturali, immaginazioni sul mondo, che non si risolvono in un discorso strutturato culturalmente, idealmente e politicamente. Questo insieme spesso è quasi gemello, delle ideologie, valutazioni razionali, calcoli economici, sostiene quell'altro come un dorso. Gli elementi inconsci entrano, cioè spesso, a far parte dell'ufficialità, entrando in quella come segmenti, trovano una segmentata ospitalità nell'ideologia e nella cultura registrata.
Oppure, secondo un processo che appare contrario (ma è inadeguato pensare a direzioni, a un movimento tra poli), certi elementi culturali e politici, certe teorie, stimolano e concorrono a venir diversamente percepite le motivazioni materiali, le valutazioni di utilità economica, e spesso 'ritornano' su sè medesimi arricchiti, sovradeterminati, dalla pulsionalitò che hanno incontrato e dentro la quale si sono diffusi. Così, 150 euro al mese, un tempo accettabili, diventano motivo di fuga; un lavoro operaio, un tempo obiettivo decisivo, diventa insopportabile.
L'immagine televisiva, ufficiale e conscia dei paesi dell'occidente, del post industriale (spot pubblicitari, serie televisive, informazioni telematiche, passa parola di rete) concorrono a rielaborare l'immagine conscia dell'occidente e a sedimentare un nuovo inconscio collettivo, un'immagine inconscia dell'occidente, una teoria inconscia sull'occidente.
Questa immagine e teoria inconscia è un vero fuori programma, una variabile, estranea alla sociologia ed estranea agli Stati e alle istituzioni; viaggia nel basso, nel sottoculturale, nella 'pancia' del migrante.
Al contrario che per la psicoanalisi, conscio e inconscio collettivo utilizzano lo stesso linguaggio e le stesse parole, gli stessi elementi e la stessa sintassi, ma scrivono due testi differenti, due opere diverse, parallele e intersecate, osmoticamente. Quindi è chiaro che Stati e istituzioni possono intervenire su questa 'pancia', determinare limiti e percorsi, estendere o limitare flussi informativi e influenzare il fenomeno nel suo complesso, lavorando sul basso, lavorando appunto sulle sue  'motivazioni inconsce'. È il gioco più importante e il più usato nelle società di massa, nelle società del tardo capitalismo industrialee in quello post industriale, in generale in quello che a maggior ragione andrebbe detto il 'capitalismo della vita', il biocapitalismo.
Comunque l'inconscio collettivo non è la novità di quest'epoca, appartiene alla storia delle società umane, ogni società ha avuto le sue forme di inconscio collettivo, politico e sociale. Non c'è mai nulla di assolutamente nuovo sotto il sole.
Comunque che fatica! Signori, perimetrare questo concetto! Preferirei non mi fosse venuto in mente, ma da troppo tempo ronzava.

[Il nuovo mercato dei beni culturali]. Pensavo, inoltre, che oggi i concetti in filosofia, per quel che resta della filosofia, assomiglino sempre più a prodotti / merci del mercato dei beni culturali. Un mercato costituito, un concetto, un dentifricio, proprio un dentifricio e non un automobile (l'automobile dura troppo), altre volte una linea di bellezza, ancora altre una cura contro l'ingrossemento epatico e la colite. La filosofia serve come la psicologia, ma contrariarmente alla psicologia, usa farmaci generici, non etichettati così precisamente, privi di eccipienti. La psicologia, invece, deve produrre effetti programmati, precisamente delimitati, deve avere un effetto sociale immediato.
Avremo l'inconscio collettivo, l'immaginario collettivo, la moltitudine, la massa, il popolo, la popolazione, relativo
effetto di media durata, vendita stimata, diffusione, capacità produttiva e riproduttiva, quotazione finale nella borsa delle idee.

Mercoledì, 12 ottobre

[L'inconscio collettivo e gli anni ottanta]. L'inconscio collettivo è rappresentazione collettiva della realtà, la rappresentazione non ufficializzata, un modo di interpretare la realtà. Non manca affatto di strumenti analitici, poiché di inconscio in senso psicanalitico non v'è nulla in questo concetto, è una cosa perfettamente conscia, consapevole; solo il modo di essere rimanda alle dinamiche dell'inconscio psiacanalitico.
Un esempio. Negli anni ottanta in Italia, persistette un modo di vedere le cose, uno stile di pensiero, un modo di sentire tipico del decennio precedente. Le aspettative e l'atteggiamento verso il lavoro che avevano caratterizzato la classe operaia nei settanta si riverberarono in settori che operai non erano più e che erano stati esclusi dalla fabbrica. Il lavoro dipendente veniva criticato e censurato come una servitù, si cercava di liberarsene: l'occasione storica della crisi del lavoro operaio offriva la possibilità di una pulsione generalizzata, e generica, verso il rifiuto del lavoro comandato, che andava verso, nella possibilità concreta offerta dal mercato, una nuova tipologia di impresa, un lavoro autonomo di seconda generazione, ben descritto da Sergio Bologna in un'opera omonima.
Ogni sedimentazione organizzativa del rifiuto operaio del decennio precedente era disciolta, e quella visione non aveva più cittadinanza politica e ufficialità e in quell'ambito ridotta a qualcosa di simile a una setta testimoniale e clandestina; a livello di rappresentazione del mondo e della sua spiegazione, però, appunto quello che si potrebbe dire un 'comune modo di sentire', i desideri, le aspettative e gli stili esistenziali del decennio precedente continuavano a proporsi. Si proponevano senza darsi una forma politica, rimanevano come un sotto fondo, una tappezzeria, ideologica e culturale; un inconscio sotto il profilo della comunicazione e dell'elaborazione comunicativa.
Il peso storico di questa sedimentazione comunicativa, linguistica ed esistenziale è di difficile valutazione; eppure sarebbe molto importante per definire i ruoli sociali dei protagonisti, egemoni e subalterni, in una fase storica. Una teoria ben strutturata dell'inconscio collettivo potrebbe aiutare a conoscere, comprendere una fase storica e avere anche una valenza politica non indifferente nella progettazione sociale e politica.

[Sul termine] Ho ancora dubbi sulla scelta del termine 'inconscio collettivo', sono due parole ambigue e molto generiche, ma evocative, come dovrebbe essere il concetto. Questo ambiguo e generico è proprio quello che rappresenta e cerca di rappresentare la cosa, che è equivoca, con parentele inconfessabili e che può essere facilmente sottoposto a un uso riduttivo e a una rielaborazione continua e perenne.
Come l' inconscio psicanalitico, l'inconscio collettivo lavora sul conscio, ma il conscio lavora, occultamente, sull'inconscio. Il procedimento è quasi contrario a quello disegnato dalla psicanalisi: l'inconscio è spesso il prodotto del lavoro occulto, nascosto (ma ben programmato) del conscio, anzi è definibile inconscio anche per questa procedura di occultamento degli obiettivi del conscio.

Sabato, 22 ottobre

Letture. Lo scambio simbolico e la morte / Jean Baudrillard. Scritto nel 1976, è un testo che va letto, per ragionare su quello che dice, senza porsi il ragionamento costantemente di fronte. È un testo spavent- oso, provoca e porta spavento, lo spavento della verità.
Qual è questa verità? Qual è la verità di Baudrillard nel 1976? La verità è che il capitalismo è finito, la sua esperienza storica si è esaurita, non ha più nulla da dire alla storia ma, ed è un ma terribile e, per l'appunto, spavent-oso, il mondo rimane capitalistico; il mondo non sa immaginarsi senza il capitalismo.
Quello che tutti continuano a chiamare capitalismo, ne segue le regole, ne segue il gioco, ma non è più un sistema di regole costruite dall'economia, ma un gioco costruito sull'economia; il capitalismo è, secondo Baudrillard, un sistema di regole che utilizza l'economia per legittimarle.
Il sistema attuale, quindi, non è più un sistema capitalistico, ma un nuovo sistema di dominio che utilizza il capitalismo e il capitalismo non è più alla sua base, il capitalismo non lo fonda più; il capitalismo è solo un'occasione per riprodurre, riempire, vivificare, dare a quello un aspetto concreto, il dominio sociale, ma non è più l'essenza del dominio, non è il dominio in sé. In realtà, Baudrillard si chiede se non sia stato sempre così e cioè se il capitalismo non sia sempre stato questo, fin dalla sua genesi: uno strumento per costruire, diffondere e riprodurre controllo sociale, e se Marx non sia solo superato in ragione dello sviluppo attuale del capitalismo, ma non abbia sempre sbagliato, scambiando un elemento 'sovrastrutturale' del dominio, nella sua struttura. Secondo Baudrillard, al contrario che per Foucault, non è la fabbrica a fornire il modello per prigioni, manicomi, ospedali e scuole, non è la produzione a fornire il modello sociale, a inventare l'autoritarismo, ma è accaduto, probabilmente, il contrario.
Questa lettura mi ha imposto il silenzio, nache perché erano cose che erano in me, cose e idee che presagivo, confusamente.

[Baudrillard e l'operaio sociale]. Ecco, forse, dove si deve andare a cercare l'operaio sociale: tra gli operai che non producono più; che non sono più operai ma patiscono una soggezione complessiva che usa l'economia senza avere un fondamento economico. L'operaio sociale non si individua per la produzione di valore, ma per situazioni extaeconomiche, valori, certo, ma di tipo diverso, nuovo, anche se spesso, sempre più spesso, recuperati dal passato precapitalista. Letto in chiave antagonista, e secondo la lezione di Negri su Marx non si dovrebbe fare altrimenti, l'operaio sociale, allora, è convivenza organizzata contro il Capitale, e quindi estraneità esistenziale, e non più limitata alla produzione, organizzata. Questa è la via verso il soggetto indimostrabile che indica Baudrillard se la mettiamo in relazione con Negri, se la recintiamo con i paracarri di Negri, che, alla fine, sono ancora i paracarri di Marx.
Baudrillard, rispetto a Negri e Marx, insegna qualcosa di più e di assolutamente nuovo: il nuovo soggetto operaio, quel che chiamiamo per comodità operaio sociale, è necessariamente un soggetto indimostrabile e la sua composizione non è una composizione sociale, realizzata sui temi della critica all'economia politica.
Non è possibile scrivere di composizione, dopo Baudrillard, ma al massimo di scomposizione, se vista dal punto di vista marxista, una posteriore frammentazione e frantumazione assolute.
La composizione non comporrà nulla, non porrà accanto nè insieme gli individui, la composizione sarà un salto logico, assimilabile a un progetto scientifico, tecnico ed etico, e un salto relazionale, assimilabile a un progresso politico
, qualcosa di simile al progetto situazionista originario.


Rivedi ottobre
Inizio anno


Giovedì, 10 novembre

Ai margini (estremi) di Cosa è la filosofia di Deleuze e Guattari.
La filosofia non ti dice se una cosa è accaduta, accade o accadrà, ma se poteva, può e potrà accadere. La filosofia delimita con precisione il campo della possibilità, anche e soprattutto perché essa stessa è quel campo.
Il pensiero filosofico, nella sua espressione storica e ufficiale, nella sua forma pubblica e registrata, entra in crisi e diminuisce di rilevanza e importanza, perde campo di applicazione e di enunciazione, nelle epoche contraddistinte da società cristallizzate e in cui l'economia e le relazioni economiche si personalizzano e si danno forme di governo personalizzato. In questi casi il campo dell'indagine filosofica, il campo della possibilità, scende o precipita, addirittura, nell'immanente. Si stabilisce una coincidenza tra realizzazione e possibilità, una coincidenza simbolica, in base alla quale la realtà è un sistema di simboli, immanenti, per una realtà simbolica e trascendente. È il caso della filosofia medioevale e della scolastica e soprattutto della filosofia cristiana.
La descrizione simbolica della realtà è priva di prospettiva, è bidimensionale ma, e in questo la filosofia non cede, nemmeno in questi casi storici, al suo compito, la rappresentazione simbolica denuncia la mancanza di prospettiva, presagisce la terza dimensione. Nella dominazione personalizzata, individualizzata e singolarizzata l'elemento della codificazione è preminente: nei rapporti di dominio si iscrive un codice. La vita pubblica è strutturato da un codice univoco, composto di pochi elementi, declinabili, poi, secondo le individualità e singolarità dei rapporti. Nella società feudale, quindi, il campo della filosofia è quello del prestabilito, stabilire e descrivere il prestabilito, il determinato a priori, e la possibilità del mondo è nel significato che il prestabilito e determinato assumono, nello spiegare la loro azione. Ma è, comunque, una filosofia, una filosofia dell'immanenza ma una filosofia.
Il passaggio dal pensiero mitico al pensiero filosofico segna il passaggio dalla società tribale a quella 'transtribale'. Nel pensiero mitico la relazione individualizzata non assurge a simbolo dell'immanente, ma è fatto immanente e non spiega l'immanente ma solo alcune cose di quello, e fatti autenticamente accaduti comportano con potenza  molti altri fatti, ma mai tutti i fatti, ma mai la totalità, ma mai l'immanente. Il pensiero tribale è, quindi, un pensiero prestabilito e determinato ma segnato da fatti individuali, da eventi specifici, da eroi singolari che intervengono sulla realtà e non la trasformano determinandola. Al pensiero tribale è sconosciuto il concetto di realtà, ma semmai si occupa di molte realtà.
Nella società post tribale si afferma un prestabilito e determinato indifferenziato, indifferente agli eventi e alle realtà delle tribù, delle famiglie e dei lignaggi e i miti tribali sono inseriti in un secondo mito, che scrive dell'uomo  e dell'umanità, una mitologia generica e generale. Questa mitologia generica introduce il campo del possibile, il racconto di quello che poteva accadere e non di quello che è accaduto. Introduce l'interpretazione del mito, perchè il mito, in sè, non spiega più nulla, nè una realtà singola, che ha perso dignità, nè tantomeno una realtà astratta che non lo riguarda e nasce al di fuori di quello.
La spiegazione del mito, la sua astrazione a fatto concettuale, che perde il carattere di accadimento storico e di racconto, di memoria familiare, è all'origine delle procedure della religione e di nuovi orizzonti intellettuali che comportano la filosofia. La religione, intesa come spiegazione della cosmologia e cosmologia, è sorella della filosofia: affronta il mondo come immanenza, e l'immanenza come totalità. La filosofia ha lo stesso bersaglio 'geografico', l'immanenza e la totalità, ma si occupa non di quello che è il mondo ma di ciò che può essere.

Venerdì, 11 novembre

Ai margini estremi dello Scambio simbolico e la morte di Baudrillard.
[Proletariato e classe media] Le previsioni di Marx intorno alla classe media, se mai state davvero così, perché non ho mai avuto modo di leggerle, sono state rovesciate. Da alcuni decenni è la destra, il populismo di destra,  ad egemonizzare l'opinione pubblica dell'occidente, perché l'operaio di fabbrica e in generale il lavoratore dipendente è diventato classe media, dando ragione alle previsioni contrarie avanzate da Marcuse. Con una particolarità, però, che Marx aveva presagito e Marcuse no: la classe media è rimasta classe media impoverendosi. La povertà può associarsi alla classe media, secondo una realissima contraddizione in termini.
La classe media ha inglobato la classe operaia, la working class, proletarizzandosi. L'operaio contemporaneo è un piccolo - borghese povero, privo di proprietà, ma 'produce', consuma e crepa come un piccolo - borghese ricco, come un piccolo - borghese della prima modernità. Non è, come era convinzione di Marx, accaduto il contrario.
L'operaio della fabbrica diffusa, flessibile e globalizzata è una frazione della piccola borghesia, istituendo un legame sempre più tecnicamente indiretto con la produzione di beni, di plusvalore e di capitale. Il legame con la produzione, come nel caso storico della piccola borghesia, si mantiene solo ideologicamente, nella rappresentazione di sè.
Così l'operaio di fabbrica è diventato una frazione della piccola borghesia ma una frazione molto particolare. Il sistema produttivo tradizionale, la produzione diretta di beni naturali, era la fonte del riconoscimento operaio nella società e della sua identità sociale. L'operaio di fabbrica, però, non produce più niente, se non il suo stesso lavoro, che è un concetto, che è immateriale, che è un valore immateriale. L'operaio di fabbrica rimane legato al suo lavoro, come rappresentazione, non come autentica forza sociale, come forza produttiva, rimane legato al teatro del lavoro, alla cristallizzazione e mummificazione del lavoro di un tempo; la classe operaia è diventata, come la classe media di un tempo e secondo vie sue particolari,  nostalgica e tradizionalista e tiene lo sguardo costantemente rivolto al passato dove il 'lavoro aveva un valore'.

[Trump e la fabbrica] La fabbrica non è una forza produttiva, ma una potenza ideologica, non è comando ma dominio. La fabbrica diventa, attraverso i corpi degli operai che la popolano e che vivono del suo reddito, l'esistenza nell'economia anche contro tutte le leggi dell'economia. Le leggi più potenti dell'economia sono oggi leggi extraeconomiche, sono ideologie economiche senza economia, sono le scelte politiche che privilegiano la produzione e che portano dirette alla nazione d'origine della produzione e della sua classe. La produzione operaia, svuotata di contenuti, li ritrova fuori di sè, nell'identità economica della produzione nazionale, nella mummia della produzione materiale nazionale. I dazi protezionistici e il militarismo tornano di moda, il freno allo sviluppo economico torna a governare il mondo economico. Ma, signori, è un finto - freno allo sviluppo, poichè la mummificazione del lavoro entra a far parte di un'ulteriore evoluzione verso la dematerializzazione del prodotto del lavoro, dove il prodotto del lavoro sarà ideologia accidentalmente fruibile come bene materiale.
L'operaio di fabbrica ha tutte le possibilità di trasformarsi in un  vandeano e la fabbrica nazionalistica nella nuova Vandea. Donald ha vinto in Ohio e in Michigan, i casi sono due: o Donald Trump è di 'sinistra', o gli assetti strategici della 'sinistra' dovrebbero essere altrove e non in fabbrica e in Vandea, senza abbandonare a Donald la Vandea, ovviamente.

[Il lavoro improduttivo e il lavoro anti . produttivo] Il resto della classe media, che è costituita in massima parte da altra gente, non strettamente operai, che vivono con un reddito elargito dietro la prestazione regolata da un orario di lavoro, non produce neppure quella, nè direttamente nè indirettamente, beni materiali. L'economia si fonda solo in finzione sulla produzione materiale ma in realtà lo scheletro economico della produzione di valore, è macchinico, è la macchina, è il lavoro morto. Il lavoro morto egemonizza, anche per il pluslavoro prodotto (è il pluslavoro in massima parte), la produzione di beni materiali, quanto quella di beni intellettuali ed emotivi, la produzione di stati d'animo; resta, per il momento, secondaria nella produzione di affettività, ma è sulla via per esserlo. Eppure lo scheletro dell'irrigimentazione del lavoro vivo nella produzione materiale, lo scheletro della manifattura, è rimasto il segno della produzione di valore e come tale connette la totalità delle attività umane legate all'elargizione di un reddito. Anche se sotto il profilo dell'economia classica la cosa non avrebbe senso alcuno, nessun senso interno all'economia, lo assume nell'economia contemporanea che non ha più un senso interno, una giustificazione e legittimità interna.
Il concetto stesso di valore economico è radicalmente cambiato; non è più il valore un concetto economico, ma un concetto 'politico' vestito con l'abito dell'economia. Sotto questo punto di vista l'estensione pura e semplice, meccanica, del paradigma produttivo e del concetto di valore del lavoro di fabbrica al campo della produzione intellettuale, che serviva a disciplinare e definire il lavoro non - operaio, il lavoro 'improduttivo' nel capitalismo, non funziona alla stessa maniera. Tutto il lavoro, anche quello produttivo, è diventato 'improduttivo'.
Il lavoro, oggi, distrugge i prodotti per ricreare il vero prodotto che è la produzione in sé; il lavoro oggi distrugge il prodotto del lavoro per riprodurne il ciclo. Il lavoro della contemporaneità è anti - produttivo. Il feudalesimo è diventato un fatto di massa, generalizzato; l'appropriazione dei prodotti del lavoro da privilegio di una casta è diventato occupazione dei produttori. L'anti - produzione è la vera produzione nel capitalismo contemporaneo, che è vitale, umano, istituito sui comportamenti esistenziali, che è biocapitalismo.
Così la produzione è anti - produzione, come la non - proprietà è l'essenza della proprità privata. Il concetto di utenza sta sostituendo quello di proprietario, a tutti i livelli: dal proprietario dei mezzi di produzione e comunicazione di massa al propietario dei beni e dei concetti di consumo. Le grandi corporation non sono più proprietarie dei loro mezzi di produzione ma utilizzatori privilegiati, così come un utente informatico non è proprietario del software che sta usando e questo nuovo concetto di proprietà si sta estendendo a tutti i beni di consumo non immediatamente deperibili.

Domenica, 13 novembre

[Vandea e Gironda] Tutto quanto scritto potrebbe far concludere (e la 'destra' fa questo) che il valore del lavoro è azzerato e quindi anche i relativi lo sono: essi apparterebbero al passato, all'archeologia del capitalismo. La 'sinistra' non ribalta questo ragionamento, perché è anche il suo ragionamento: la 'sinistra', la tradizione riformista e rivoluzionaria della 'sinistra', mantengono una visione produttivistica della realtà. Lo sviluppo sociale è lavoro nella produzione.
Conseguentemente la 'sinistra' si è costretta, in verità dopo libera scelta, a difendere la tradizione operaia, facendola sua propria e rendendola indissolubilmente legata al valore della produzione, in quanto unico elemento capace di valorizzare il lavoro. In tal maniera la tradizione operaia non è un'eredità politica e creativa, ma una struttura sociologica e culturale: ideologia del lavoro che valorizza la produzione, secondo un ribaltamento antitetico alla verità delle cose. Questa tradizione ed eredità operaie hanno delimitato la base elettorale consueta alla 'sinistra', ma qui ha incontrato, neppure troppo inopinatamente, la concorrenza della 'destra', soprattutto di quella 'nuova', anticapitalista, radicale e nostalgica di moltissime e diverse nostalgie e passati. Anche questa 'nuova destra' ha iniziato a teorizzare il recupero del valore produttivo nel lavoro operaio e con quello dell'economia 'reale', contro il complotto finanziario, contro l'economia della finanza e il 'Dio - denaro'. Ma questo non si chiama recuperare ma inventare: inventare per il lavoro un valore che non ha più, e ridare al denaro un ruolo polare che ha perso. Il danaro non esiste più come equivalente generale delle merci, ma solo come segno del dominio sociale espresso attraverso la produzione, il denaro è un messaggero di Dio, ma ben altra cosa è il Dio; verrà presto il giorno nel quale come il sistema sta sostituendo la proprietà con l'uso, così il danaro sarà abolito, almeno in quanto strumento monetario ed equivalente generale e forse lo è già in gran parte.
In verità, tanto la destra quanto la sinistra (ed è davvero il caso di far cadere le virgolette a questo punto) usano lo stesso concetto: il lavoro per essere fonte di valore e di reddito deve essere produttivo economicamente.
Chi, come la destra e la sinistra contemporanee, continua, a quasi un secolo dall'inizio del declino del lavoro come valore economico, a riferirsi al lavoro sotto forma produttiva ed economica è il più acerrimo nemico dei diritti del lavoro. I diritti del lavoro, se vogliono sopravvivere, devono slegarsi, emanciparsi dal lavoro.
I diritti al reddito, all'esistenza, al consumo, alla distribuzione delle risorse e dei beni, all'assistenza emotiva, affettiva e medica non devono essere diritti collegati all'esercizio del lavoro, del lavoro vivo e collegati all'uomo soltanto perchè quest'uomo è un lavoratore; non devono rimanere legati a una struttura di generazione del valore agonizzante da un secolo e morta da mezzo secolo. Se rimangono legati alla mummia del lavoro operaio ottocentesco, diverranno mummie tanto puzzolenti da far fuggire chiunque lontano da loro. I soggetti non operai, inorriditi da questo cadavere, finiranno per integrarsi ferreamente nel dominio biocapitalista, che, pure, usa quella putrefazione come un fertilizzante sociale e biopolitico. I soggetti non operai e sottoposti formalmente a relazioni di lavoro salariato potrebbero essere una pericolosissima Gironda, accompagnata alla Vandea operaia. Nella Gironda, però, è già qualcosa della futura repubblica, nella Vandea operaia, purtroppo no, è solo nostalgia per la vecchia 'repubblica borghese' tanto odiata dagli anarchici. Il federalismo della nuoba gironda è però un federalismo orizzontale e non verticale, multinazionale e non nazionale, sociale e non geografico ed è una facies dell'ideologia biocapitalistica, una delle sue numerose etiche.
Andiamo, infatti, verso una società stratificata eticamente e socialmente, dove le corporazioni superano i paesi e le popolazioni, le attraversano e non mettono in discussione il disegno generale e la composizione di una società di massa su scala planetaria, ma anzi la costituiscono. Niente Moltitudine, ma molte Moltitudini, molte folle eticamente disposte e dirette.

Ai margini estremi dello Scambio simbolico e la morte di Baudrillard
[Per i diritti del lavoro]
I diritti al reddito, all'esistenza, al consumo, alla distribuzione delle risorse e dei beni, all'assistenza emotiva, affettiva e medica sono certamente nati nella fase industriale della storia del capitalismo, sono suoi figli, ma se li guardiamo bene, piuttosto degeneri e per fortuna degeneri. I diritti operai sono diritti che in gran parte si applicano al non lavoro, al mondo della riproduzione del capitale: l'operaio non chiedeva di lavorare meglio ma di lavorare di meno e di investire il salario nella sua negazione, il non - lavoro, il tempo libero dal lavoro.
Oggi, il mondo si è liberato dal lavoro, non nel senso che non si lavora più ma nel senso che la produzione non ha bisogno di lavoro, di intervento diretto dell'umano nel macchinico; la produzione è un sistema di potere ma come sistema economico non esiste più, così come la proprietà non esiste più. Oggi il dominio sociale si fonda sul controllo dell'uso delle risorse produttive, creative, intellettuali e, ovviamente, naturali e non più sulla loro proprietà diretta o indiretta. Arcaismi, ovviamente, permangono, ma quasi come mode occultanti la reale sostanze delle cose.
Il lavoro salariato generalizzato si scompone in molte forme contrattuali, che conservano il rapporto salariale come modello, e che hanno la forza di attrarre, senza
assorbirlo, il lavoro autonomo.
L'elasticità del rapporto di dominio è assoluta e abolisce la rigidità del rapporto di lavoro salariato tradizionale: non è il tempo di vita, o meglio una frazione del tempo di vita, ad essere oggetto della contesa tra le 'classi', ma la vita stessa, la vita nel suo insieme. L'elasticità del rapporto di dominio è assoluta: il salario, ormai forma economica priva di un diretto rapporto con l'economia e la creazione di valore economico, smette di essere tale, un salario, assume forme nuove, che continuano la sua funzione emblematica di governo del tempo della vita, ma esteso a tutta la vita, anche e soprattutto al tempo libero.
L'elemento economico nel lavoro è passato in secondo piano, è una struttura relazionale quella che governa il lavoro che si da in forma economica. L'importanza economica del lavoro è sul versante del lavoratore, perché la percezione di un reddito indispensabile alla sopravvivenza è legata alla prestazione lavorativa e questo continua a creare un ambito di costrizione economica intorno al lavoro che coinvolge tutti colore che per vivere hanno bisogno di lavorare; l'importanza economica del lavoro è sul versante dell'imprenditore, perché il lavoro si presenta come un costo economico e la necessità di usare lavoro altrui coinvolge tutti coloro che fanno impresa e quindi di usare la costrizione economica che sta dietro il salario. L'uso del salario e della costrizione economico non  fonda l'impresa, l'impresa si fonda su progetti, ideazioni e automatismi in larga misura indipendenti tanto dal lavoro vivo del dipendente quanto dal lavoro vivo dell'imprenditore. L'uso del salario e della costrizione caratterizza l'impresa, in quel tipo particolare di impresa.
È l'elemento politico, termine desueto ma validissimo, di una validità occulta e ragionatamente occulta oggi, è quindi il dominio a essere decisivo e a legittimare la necessità del lavoro. Il termine di comando d'impresa, inteso come un insieme di tecniche adatte a funzionalizzare e organizzare il tempo e i modi della produzione, va abolito e sostituito con quello di dominio d'impresa, inteso come insieme di tecniche adatte a funzionalizzare i soggetti produttivi. L'impresa e il suo dominio, esteso in forme contrattuali polimorfe, hanno di mira il tempo del lavoratore e non il tempo di lavoro e il lavoro, hanno come oggetto la qualità politica del lavoratore e non la qualità tecnica, lo stile di vita e non lo stile del lavoro. Meglio ancora dire che la qualità tecnica non si distingue dalla capacità di relazione, di autocontrollo, quindi politica, la qualità professionale è fatta di virtù politiche, le stesse che danno la struttura a un'etica generale di vita. In questa maniera, lavoro e produzione, aboliti come potenze economiche (quindi reali e concrete secondo la vulgata tradizionale) diventano una forma generale della società; però, come un fantasma fuori dal cimitero, si fa uscire il mito della produzione e dell'economicità, tanto da destra che da sinistra, ridando legittimità all'autoritarismo del comando, dominio dell'impresa globale.
Questo fantasma va impallinato: i diritti economici vanno conservati precisamente come il biocapitalismo pretende di governare il mondo in nome dell'economia senza che l'economia esista più come collante generale del mondo.
Se lo fanno loro, di usare una cosa morta, una mummia, perché non farlo anche noi?
Per dirla con parole plebee, è necessario criticare apertamente il dominio dell'economia nella società, non perché esso sia inumano o immorale, ma perché illegittimo, perché l'economia è un gioco piegato alle esigenze di un dominio astratto, un gioco dove chi da le carte le decide. Bisogna criticare apertamente il capitalismo perché non sa che farsene dell'economia e costringe la maggioranza dell'umanità a circoscrivere la propria esistenza in questioni economiche.
Bisogna criticare apertamente l'intelaiatura delle regole economiche che, espressione di una 'politica' superiore e irraggiungibile ai più, si è posta al riparo, da lungo tempo, dalle leggi dell'economia che, invece, riguardano e sono imposte a tutta la società. Bisogna criticare apertamente un progetto politico astratto che è solo dominio sociale.
Questa politica 'superiore', astratta e irraggiungibile ha ridotto, necessariamente, il ruolo della politica 'concreta', alla concretezza dei bilanci e delle regole finanziarie, all'amministrazione tecnico - contabile non certo del sistema, ma dell'esecuzione del consenso al sistema, all'amministrazione dell'inconscio collettivo, al controllo delle variabili e risultanti del processo generale generato altrove.
Bisogna riprendere anche ampi brani del pensiero pre-marxista e anarchico, del pensiero rivoluzionario del XVIII e XIX secolo. È  necessario tornare a delle radici troncate dall'onnipotenza dell'economico, onnipotenza svolta anche grazie alla critica all'economia.

Giovedì, 17 novembre

Letture. Monadologia di Leibniz. Un testo per l'infanzia; la filosofia con gli occhi di un bambino, nella quale l'attenzione e la curiosità è pari solo all'ingenuità e innocenza. Leibniz non pubblicò quasi nulla in vita, ma la sua opera venne edita nel XIX secolo, nella primissima parte di quello.

Sabato, 19 novembre

[Biocapitalismo e storia] L'attacco ai diritti del lavoro è un attacco ai diritti civili tradizionali della modernità (lo comporta naturalmente) ma soprattutto è un attacco ai diritti umani. In che senso?
È un attacco all'immagine dell'uomo secondo la quale la nostra specie non ha l'obbligo o il dovere del vivere associato, ma ha la possibilità e libertà di associarsi. La produzione, divenuto schema sociale, ha associato all'uomo l'obbligo della cooperazione: l'uomo deve essere un animale sociale.
Questo attacco è talmente profondo e viscerale, antitetico, e motivato eticamente, che ha provocato alcune rivisitazioni storiche, spesso intellettualmente notevoli e certo curiose, anche sopra i periodi precedenti il capitalismo e la manifattura industriale.
Lasciando da parte la poliedrica forma di queste rivisitazioni, la censura dei diritti del lavoro cerca di associarli alle istituzioni egoistiche, localistiche e corporative del medioevo europeo. E spesso con un fondo di ragione, chiamamolo oggettivo riscontro.
Questo accade, ma i motivi di questo richiamo ad altre epoche sono numerosi e disposti su diversi livelli, perché il biocapitalismo si sente protagonista di una nuova epoca, che ha poco a che vedere con quelle precedenti. Il biocapitalismo non sa che farsene della storia, il suo deve essere un eterno presente e il segno delle epoche precedenti è il fenomeno di un'infanzia dalla quale ci si vuole emancipare e ci si sente emancipati. Non nel senso che ci si è liberati da quelle epoche, ma nel senso che ci siamo distaccati da quelle, nel senso che viaggiano su un'altra dimensione. La storia, nel biocapitalismo, è un fatto museale.
L'estrema libertà di descrivere la storia, di rimescolare e combinare gli elementi del passato, dipende dal nuovo senso storico eternizzante del capitalismo contemporaneo.
Il biocapitalismo, pur non abolendo la storia dal suo orizzonte analitico e non tornando a una dimensione arcaica dell'interpretazione dell'umano, si avvicina all'assenza della storia e al pensiero arcaico; attua un'eterna e mai conclusiva fine della storia, una lunghissima e niente affatto apparente morte della storia e della prospettiva storica. Rimane una visione del passato che non è prospettica.
Per certi versi ben venga! Liberiamoci della storia come eterno presente, come museo dell'umano, per andare verso la prospettiva di una storia al contrario, una storia come eterno futuro.
In verità, il biocapitalismo sta rendendo inefficace una delle sue armi più potenti: la complessità sistemica e la velocità evolutiva. La perdita del lavoro e della storia determina, infatti, una potenziale immobilità del sistema, dentro la quale la complessità non ha il valore del complesso, ma di una serie indifferente di linee evolutive, non comunicanti, indifferenti le une alle altre. La velocità evolutiva diventa rappresentazione, ma è immobilità. Solo la mummia dell'economia mantiene in vita la rappresentazione.
Se, al contrario, rimaniamo affascinati da complessità e velocità, rischiamo di farci dominare dalla paura del presente e dalla nostalgia, dal ritorno al semplice e al lento, che in realtà sono e potrebbero essere altrettanto veloci e complessi, dal recupero del locale e della tradizione, che in realtà sono altrettanto indefiniti e contemporanei, in una parola rischiamo di farci affascinare dal passato, che è solo, ormai, una rappresentazione museale.
La storia è diventata quello che per gli antichi era l'età dell'oro, tanto per i profeti dell'eterno presente, quanto per i critici. L'eterno presente esige il mito dell'età dell'oro per criticarlo, vuole il desiderio del passato per biasimarlo, ama il premoderno per poterlo criticare.
L'eterno presente, la fine della storia, istituisce una cultura e ideologia, una condizione, paradossali: idolatra la storia per distruggerne gli idoli. Una comunicazione paradossale è la fonte di una relazione autoritaria: il biocapitalismo istituisce una relazione visceralmente autoritaria nei confronti della storia.
La censura ai diritti del lavoro non passa solo attraverso un'ideologia critica verso la storia, ma una chirurgia storica concreta che comporta la rivisitazione, il rimescolamento e la combinazione di relazioni sociali e di rapporti di produzione precapitalistici. Il nuovo capitalismo guarda al di fuori di sè, recupera i sistemi sociali precedenti, ma non come elementi del passato, come da un museo, ma come se fossero ancora nel presente, nel suo eterno presente.
Il lavoro comandato diventa un'attività preindustriale e il salario viene elargito in maniera personalizzata, singolarizzata. Il rapporto di lavoro si personalizza e la personalizzazione si serve di categorie generali che riguardano lo stile di vita dell'individuo: la bottega artigiana risorge, in maniera virtualizzata e post industriale. Le relazioni astratte tipiche del lavoro salariato manifatturiero di specificano in categorie di classi di individui. È come se l'artigiano medioevale producesse in nessun / ogni luogo. È un artigiano astratto, con un padrone astratto e con una relazione personalizzata con l'astrazione.
Il soggetto indimostrabile è questo: l'operaio si umanizza, l'operaio diventa uomo, lavorando astrattamente; il capitalismo si umanizza, sostituendo al lavoro l'umanità.

Per definizione, tutte le società sono state società di massa. Quel che è radicalmente cambiato negli ultimi cento anni è la sostanza della massa. La massa non è più un insieme di tipologie, di abitudini e di credenze, quella che gli antichi chiamano folla o moltitudine, capace di coalizzarsi a tratti e con intermittenza intorno ad alcune delle sue tipologie, abitudini e credenze. La massa va oltre le sue specifiche abitudini, ma è tale perché pensa che in quanto tale si riconosce in quelle: la massa, quando è massa, si pensa come massa, come gruppo non omogeneo ma con alcune omogeneità decisive per la sua stessa sopravvivenza. Nella massa, le particolarità e singolarità si pensano in funzione di una forza collettiva, che le cancella nell'essenza (l'essenza della massa è di non essere particolare e singolare ma generale), ma le rispetta nella forma e addirittura le garantisce (il singolare e particolare morirebbero senza il supporto del generale).

Rivedi novembre
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Bibliografia consultata e consigliata
:


L'America / Jean Baudrillard - Milano : Feltrinelli, 1987.

L'anima al lavoro: Alienazione, estraneità, autonomia / Franco Berardi Bifo. - Roma : Deriveapprodi, 2016. (Operaviva)

Che cos'è la filosofia? / Gilles Deleuze, Felix Guattari ; a cura di Carlo Arcuri. - Torino : Einaudi, stampa 2016. 9. ristampa, - (Piccola Biblioteca Einaudi, Nuove Serie, Filosofia ; 209

Convenzione e materialismo : l'unicità senz'aura / Paolo Virno. - Roma : Deriveapprodi, 2011. - 2. ed. rivista e corretta. - 1. ed.  1986

Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo / Pierre Dardot, Christian Laval ; prefazione di Stefano Rodotà
; postfazione di Antonello Ciervo, Lorenzo Coccoli, Federico Zappino. - Roma : Deriveapprodi, 2015
 
Eneide / Virgilio ; nella versione poetica di G. Vitale. - Milano : Ceschina, [1971]

Iliade / Omero ; a cura di Maria Grazia Ciani ; commento di Elisa Avezzù. - Venezia : Marsilio, stampa 2016 (Grandi Classici. Tascabili Marsilio)

Internazionale situazionista : 1958-69 / Internazionale situazionista ; [traduzione di Andrea Chersi et al.]. - Torino : Nautilus, 1994

Islam / Khaled Fouad Allam, Claudio Lo Jacono, Alberto Ventura ; a cura di Giovanni Filoramo. - Roma ; Bari : Laterza, 2015. - 4. ed. (Economica Laterza, 437)

Lavoro e tecnica nel medioevo / Marc Bloch ; prefazione di Gino Luzzato. - Bari : Laterza, 1987 (Universale Laterza, 103)

Monadologia e Discorso di metafisica / Gottfried Wilhelm Leibniz ; introduzione di Massimo Mugnai. - Bari : Laterza, 1986. (Universale Laterza, 690)

Per la critica dell'economia politica / Karl Marx ; Introduzione di Giulio Pietranera. - La Spezia : Club del Libro Fratelli Melita, 1981. (saggistica, 27)

Lo scambio simbolico e la morte / Jean Baudrillard ; traduzione di Girolamo Mancuso - Milano : Feltrinelli, 2015. - (Universale economica, Saggi)

Storia degli Stati Uniti : la democrazia americana dalla fondazione all'era globale / Giovanni Borgognone. - Milano : Feltrinelli, 2016. - 2. ed. - (Universale economica Feltrinelli : Storia)

Trattato sui principi della conoscenza umana / George Berkeley ; introduzione di Paolo Francesco Mugnai. - Roma ; Bari : Laterza, 1984. (Universale Laterza, 655)

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