Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2015)
Bibliografia consultata e consigliata
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
Venerdì,
2 gennaio
Ai margini. Etica. Quarta parte. In generale non esiste una fondazione
'sicura' dell'etica, anzi la fondazione 'sicura' dell'etica è 'insicura',
non poggia su nulla che non sia immanente e immanente non tanto nel senso
di 'umano', in quanto concentrato sull'uomo, ma in quanto prodotto della
necessaria e naturale collaborazione tra gli uomini. L'idea stessa di
umano, in Spinoza, non si costituisce sull'individuo e la sua mente presi
isolatamente, ma sul complesso degli individui e delle loro intelligenze.
Letture. Impero di Negri e Hardt. Il capitalismo è creazione immanente, la
produzione dell'essere si sposta dal teologico e dal trascendente
direttamente dentro la società. Nel rinascimento (in verità già dal XIV
secolo) si presagì questa nuova ontologia, che, però, lasciava irrisolto,
sub specie dell'autorità politica, il problema della sua
legittimità; presa così, senza mediazione, l'emergente ontologia delle
merci, del danaro e del nuovo tempo di vita (il tempo di lavoro, il tempo
dell'orologio) certamente fondava o meglio prospettava un nuovo dominio
sociale ma faticava a trovare giustificazioni per la sua fondazione. Il
pensiero del capitalismo mercantilista del XVII secolo si volse allora
indietro ma non verso una meccanica riproposizione della trascendenza
immaginata dalla scolastica medievale ma verso una trascendenza che si
fondasse sull'immanenza. Il mercantilismo, il capitalismo al suo sorgere,
possiede già una facies regressiva, non avendo il coraggio di
produrre una nuova cultura e di avanzare nuovi codici, che manifesta
superando lo sbandamento iniziale (XIV – XVI secolo). In questo contesto
vanno inquadrate la riforma cattolica e quella protestante e la guerra dei
trent'anni: in quella l'Europa si divise in due 'blocchi' belligeranti (i
riformati e i cattolici) e all'interno di quelli le componenti più progressive,
trasversali ai due schieramenti (pensiamo a Campanella, Bruno, alle comuni
catalane, per il primo blocco, a Thomas Munzer, ai Ranthers, Levellers,
mormoni, anabattisti radicali, per il secondo blocco) furono emarginati:
l'inquisizione calvinista e anglicana in Olanda, Svizzera e Inghilterra
non era diversa da quella cattolica in Spagna, Francia e Italia.
Il secondo elemento è la scoperta o l'invenzione dell'eurocentrismo,
l'idea che l'Europa fosse il continente più evoluto e l'unico capace di
dare un senso al mondo e di proporre uno sviluppo internazionale.
Negri e Hardt scrivono per il XVII di 'rifeudalizzazione', facendo
riferimento alla tradizione storiografica confermata: si tratta di una
sicura esagerazione. Ci fu qualcosa, nel seicento, che sotto il profilo
formale potrebbe essere detta 'rifeudalizzazione' ma riguardò
essenzialmente la parte latina dell'Europa e, soprattutto, fu realizzata
con strumenti nuovi, niente affatto feudali. La feudalità iniziò a
funzionare come un interessante relitto dentro una 'rifeudalizzazione' del
danaro; il sistema di proprietà feudale aveva perduto il suo ruolo
egemonico già nel XIV secolo (in gran parte della Francia e in Italia
settentrionale) MA il sistema politico feudale rimase l'unico a fondare lo
stato: di qui la feroce contaminazione tra mondo imprenditoriale e mondo
aristocratico del XVI e XVII secolo. Lo stato assoluto è lo stato assoluto
dell'aristocrazia, questo è inequivocabile, ma in quanto l'aristocrazia ha
perduto caratteri feudali, localismo e spirito indipendente: lo stato
assoluto aristocratico, che è fondato sul diritto feudale, è
la prima esperienza di diritto pubblico collettivo, indifferente in
larga misura e in tendenza ai localismi e particolarismi giuridici
signorili, dopo l'involuzione dell'impero romano.
Tornando a Negri e Hardt, l'illuminismo, che segue il seicento, è il
prodotto migliore di questo sforzo di trascendentalizzare l'immanente,
vale a dire lo stato e il diritto feudale, conciliando il passato con il
presente e recuperando continuità istituzionale: l'illuminismo risolve,
finalmente, il problema della fondazione giuridica del nuovo potere
sociale della borghesia.
Hegel precisò ancora meglio i termini della questione: proponendosi di
superare l'illuminismo e scoprendo nella storia e nella storiografia i
nuclei del nuovo sistema gnoseologico e ontologico, declinando la
centralità del pensiero scientifico, formalizzò ancora meglio,
compiutamente e intrinsecamente, l'immagine eurocentrica della storia e
della civiltà e la nazione europea come essenza del nuovo cosmopolitismo
della borghesia. Il concetto di nazione, comunque, rimase come prodotto
della surcodificazione dell'estensione territoriale, della massa
geografica e sociale, dello stato assoluto aristocratico: la borghesia,
rivoluzionaria in campo economico e politico, non lo fu in campo
istituzionale.
Sabato, 3 gennaio
Letture. Impero di Negri e Hardt. Rimango sempre dubitoso più
che dubbioso sul concetto di povero della moltitudine che sostituisce
quello di proletariato: dubito perché ci troviamo di fronte a una
'sostituzione' neppure a un'integrazione e arricchimento. La ricerca di
una metafisica, di qualcosa senza principio e fine, di incorruttibile
nell'immanenza, si svolge nel concetto di questa nuova povertà, concetto
che attraversa tutte le epoche, mentre, a mio parere, la nuova povertà è
riassuntiva e quindi epiesegetica di tutte le condizioni subalterne che si
sono date nella storia. Per usare un gioco di parole scriverei che invece
che essere ai tempi della fine (come presagiscono gli autori) siamo alla
fine dei tempi dove la fine non si manifesta perché il tempo cessa di
portarla con sé, si ferma e si cristallizza. In questa cristallizzazione
dei tempi la povertà si diffonde geograficamente e si intensifica
localmente grazie a numerosi strumenti a relazioni tra loro dissimili e
lontane ma tutte riconducibili a una regola generica, più che generale
(che forse manca poiché inutile): produzione di essere, merce e tempo come
merce di scambio. Il lavoro salariato, proprio perché generalizzato,
assolutizzato è diventato un rapporto generico, non specifico, e quindi
una morte apparente perché tutto è riconducibile al salario, perché tutto
è salario, anche quando non viene elargito come tale e si è reso
indipendente dalla contrattualistica salariale.
La mia critica a Negri e Hardt in relazione a quest'opera è rivolta contro
la messa in produzione di troppe conoscenze e troppi saperi che
comportano, spesso, contraddittorietà e disorganicità e, altre volte,
ripetitività, reiterazione e addirittura superficialità.
L'intento e l'obiettivo di Impero sono nobili: scrivere e riscrivere,
troppe volte forse, i lineamenti di Marx con la fondazione della storia
futura, della storia imperiale. Marx va oltre Marx nella storia raccontata
da Negri e Hardt. Si rischia, però, di assemblare segmenti di sapere
difficilmente assemblabili e di sacrificare all'organicità e completezza
dell'analisi, la sua profondità. Mi è parso un tentativo estremamente
anacronistico, una specie di recupero delle categorie della modernità
contro un'attualità che impedisce una sintesi. Avrei preferito (e mi sarei
aspettato) qualcosa di più specifico e mirato sulle esperienze, il vissuto
(e la loro definizione, individuazione), i saperi proletari degli ultimi
decenni del XX secolo; quando si scende nella contingenza, invece, si fa
spesso riferimento a informazioni da rotocalchi televisivi. La lettura è
interessante, l'idea buona ma l'obiettivo immane e rischia di affondare
lettura e idea.
Lunedì, 5 gennaio
Ai margini. Impero Negri e Hardt. Ancora spunti intorno alla 'costituzione
imperiale', spunti che nascono da un'analisi empirica intorno alla sua
potenziale fondazione. Direi che, in buona parte, le ipotesi degli autori
sono state rispettate anche se l'idea della costituzione imperiale appare
forzata: perché mai l'impero dovrebbe avere necessità di una fondazione
giuridica, quando ha a disposizione la istituzionalità dei relitti degli
stati nazione? L'impero non si darà in costituzione perché non ha
nessun interesse a manifestarsi come sistema politico formalizzato;
l'impero è quel tipo di capitalismo mondiale integrato di Deleuze che,
come giustamente annotano Negri e Hardt, trova interessanti riferimenti in
alcuni istituti internazionali e non (G8, FMI, Banca americana,
multinazionali e ONG, aggiungerei anche la Chiesa Cattolica il cui ruolo
di base del potere costituente imperiale è enormemente cresciuto tra
Giovanni Paolo II e Francesco) ma non riuscirà mai a darsi forma
strutturata perché anche questo complesso istituzionale è un relitto e
perché non ne ha interesse alcuno.
Seguendo Negri, sotto il profilo della politica il capitalismo mondiale
integrato si presenta non come organismo politico ma come potenza etica e
come tale guida la politica sotto la forma di un supremo e assoluto
condizionamento. Gli stati nazione, limitando il loro ruolo alla gestione
della contabilità territorializzata, funzionano perfettamente nella
distribuzione del controllo del capitalismo internazionalizzato, che
assomiglia all'impero ma non si darà mai nella forma imperiale, nonostante
molte analogie con quella esperienza storica.
Gli stati nazione, inoltre, producono sempre più spesso non tanto una
territorializzazione quanto una neo–territorializzazione, quando pensiamo
all'ex Iugoslavia o all'ex Unione Sovietica o anche a certi conati ideali
leghisti e cinque stelle di casa nostra. Pensiamo anche al ruolo che
assume, in questa ri–territorializzazione, l'antagonismo recitato del
fondamentalismo islamico. La neo – territorializzazione, come Negri e
Hardt sottolineano, è un fenomeno vicinissimo alla funzionalità del
capitalismo globale, un modo, spessissimo contraddittorio, di definire e
inventare nuove aree omogenee, oppure di disarticolare aree omogenee
preesistenti. La produzione dello sconforto, cioè l'uscita
spettacolarizzata da ogni tradizione nazionalista, è genetica del
capitalismo imperiale che rimescola le culture, le etnie e ne produce
nuove e ricombinate.
La capacità di ricombinare è il segreto in forma biologica del capitalismo
mondiale integrato: un maghrebino in Italia che vuol essere
italiano, aderire e appartenere alla nazione, un maghrebino che
vota lega, un maghrebino che resta in Marocco e che ha parenti
in Italia e rifiuta la nazione marocchina, aderendo all'internazionalismo
islamico, il maghrebino che odia i neri e non si sente
africano, ma solo arabo e mussulmano, il maghrebino immigrato
che si sente europeo e non italiano.
La neo – territorializzazione è fenomeno geografico, che coniuga entità
sovranazionali (gli Stati Uniti d'Europa) con entità nazionali e con
realtà regionali. Pensiamo ai fondi CEE che spesso, scavalcando le
competenze degli stati nazionali, hanno come obiettivo diretto aree
precise all'interno di quelli. La neo – territorializzazione è anche fatto
temporale attraverso le trasformazioni che induce tra i suoi componenti,
attori e 'cittadini', nella visione del territorio, dell'etnicità e della
socialità. All'interno di una stessa geografia possono coesistere numerose
geografie e davvero ogni realtà geografica tende a ridursi a
un'espressione geografica.
In questi spunti, lo ribadisco, riemerge dalla terza internazionale una
concezione metafisica, ontologica del proletariato – moltitudine, una
sopravvalutazione della classe (come si sarebbe scritto un tempo) che
prelude regolarmente alla sopravvalutazione dell'elemento organizzativo in
quanto prescinde dalla realtà della composizione di classe, comprese le
sue debolezze e vulnerabilità, e pone il problema dell'organizzazione solo
come fatto tattico: l'esercito, alla fine, è già pronto. Nonostante tanti
decenni siano passati da Potere Operaio, questo rischio nell'approccio di
Negri lo continuo a individuare. Non si fa cenno, infatti, in Impero alle
potenze e alle debolezze di questa ricomposizione di classe: il cenno alla
paura come forma suprema di controllo è, oggettivamente, un po' povero.
Leggerò Moltitudine e naturalmente la quarta parte di Impero (la pars
destruens) che ancora mi manca, ma se questo è l'approccio mi
faccio poche illusioni.
Annotazione. Alla fine della fiera diventa sempre più divertente il
quesito: da chi e da che cosa è ispirata la politica di Renzi o quella
della Merkel? Dagli istituti internazionali? Da relazioni informali con
gruppi di potere altrettanto informali? Da un 'congresso' delle
multinazionali che cerca di interpretare l'intelligenza collettiva del
capitalismo? Dai vecchi stati nazionali che cercano di interpretare il più
realisticamente possibile le esigenze di sviluppo del capitale globale?
Quattro domande sono queste che sono anche quattro risposte: tutte queste
cose e forse qualcosa di più, ma non a coordinare, ad aggiungere.
Renzi 'prende ordini' e segue suggerimenti da qualcosa che non è
formalizzato e che si presenta ufficialmente nei termini di un accordo
internazionale ma che è molto più complesso di un accordo.
Negri e Hardt hanno, sotto questo aspetto, ragione: di quest'ampia
informalità istituzionale è stato maestro l'impero romano che non ebbe mai
una vera costituzione, ma solo continui riferimenti alla precedente e
residuale costituzione repubblicana, perché avere una costituzione, una
formalizzazione definita sarebbe stato un elemento di debolezza.
Martedì, 6 gennaio
Ai margini (mica tanto). Ricordi di un bevitore. Siamo più o meno nel 1893
/ 1894 e basta a sottolineare la differenza che esiste tra lo scenario
italiano che portò mezzadri legati quasi indissolubilmente alla terra del
fittavolo a dare vita al movimento dei Fasci siciliani e lo scenario
californiano e americano, questa frase di London: “Lo iutificio non
mantenne la promessa di aumentarmi la paga fino a un dollaro e un quarto
la settimana, e io, da bravo ragazzo americano, libero cittadino in libero
stato, esercitai il mio diritto di libero contraente e lasciai l'impiego –
e ancora oltre - … poiché il lavoro meccanico non rendeva abbastanza,
bisognava che scegliessi una professione. L'elettricità era un vasto campo
che si andava aprendo, perché non fare l'elettricista?”.
Ed è solo questo un esempio di molti del genere che si potrebbero trarre
dal libro, se penso che in quegli stessi anni nasceva faticosamente il
Partito Socialista Italiano, mentre London aderiva alla locale sezione del
partito socialista americano descrivendola con la serenità di quello che
sceglie di entrare in un centro culturale dove si incontrano interlocutori
interessanti e buoni libri da leggere.
Nel primo brano Jack descrive una mobilità sociale e intellettuale
inimmaginabile in Italia e probabilmente nella davvero vecchia Europa.
L'immersione nei nuovi orizzonti di vita e del mercato del lavoro è in
London ventenne completa e quasi rappresentativa di un percorso; e così,
descrivendo la sua odiosa amicizia verso John Barleycorn, Jack descrive
anche, incidentalmente, il mondo del lavoro californiano di fine
ottocento. London racconta il mercato del lavoro americano solo
incidentalmente non per scelta politica o letteraria non per esigenza
narrativa, ma per fedeltà al proprio vissuto: imbarchi nelle flotte
pescherecce come momenti per sfuggire al lavoro di fabbrica e
'sospenderlo' per qualche mese, periodi di navigazione libera e autonoma
su piccole barche noleggiate e poi l'idea di orientarsi verso il lavoro
intellettuale (insegnante, impiegato o giornalista pagato a pezzo) che
viene retribuito ma, scrive London, libera solo dalla schiavitù del lavoro
fisico e manuale e la sua natura di lavoro salariato e comandato non
manca.
Anche qui idee inimmaginabili nel vecchio continente.
Jack London descrive un contesto operaio di tipo sociale, distribuito sul
territorio, mobile, nomade geograficamente e professionalmente. Nella fase
del passaggio dal legame con il lavoro manuale (iutificio, magazzino del
carbone e una lavanderia) le flotte pescherecce divengono il profilo e
momento 'liberato' del lavoro salariato, una compensazione per i periodi
della fabbrica, compensazione e perequazione anche economica, ma London
addirittura giunge a un momento di autentico rifiuto del lavoro, quasi a
confermare la coscienza della socialità e diffusione dello sfruttamento e
che anticipa comportamenti che negli Stati Uniti si dispiegheranno già in
quel decennio con gli Industrial Workers of the World (IWW o Wobblies) e
per i quali nella 'vecchia' Europa (davvero vecchia un'altra volta)
bisognerà attendere gli anni sessanta del XX secolo. A tal proposito
trascrivo dalla memorie: “Il principale risultato di questa indigestione
di lavoro [Jack aveva appena terminato, licenziandosi, un'esperienza come
fochista a dodici – tredici ore quotidiane, festivi inclusi (Nota mia)] fu
quello di disgustarmi di tutto il lavoro in generale. Non volevo
assolutamente più lavorare, la sola idea di lavoro mi nauseava. Non mi
importava affatto di farmi una posizione, tutti i mestieri [con mestiere o
professione John intende quello che era inizialmente il suo obiettivo: un
lavoro da operaio qualificato, elettricista o tecnico, con iscrizione
automatica al sindacato corrispondente (Nota mia)] potevano andare a quel
paese … E così partii di nuovo alla ventura, dirigendomi a oriente e
lavorando occasionalmente nelle ferrovie, per viaggiare più in fretta”. La
relazione con il lavoro diviene assolutamente strumentale, non costitutiva
dell'esistenza e dei suoi valori, il lavoro è volutamente temporaneo e
l'elemento essenziale di quello sta nella migrazione e nello spostamento.
Per di più questo nomadismo non è affatto trasparente e passivo alle
istituzioni disciplinari e più di una volta London si trova al centro di
azioni illegali (risse e furti) che determinano brevi periodi di prigionia
in carcere.
L'orgoglio lavorista della classe operaia europea, che si riproduceva
anche in America attraverso una migrazione proletaria 'd'élite' (tedesca,
soprattutto), era deriso, annullato e giusto ridotto al compiacimento per
la tessera sindacale che London irride. La seconda internazionale, in
America, era già superata.
Lasciamo, ovviamente, da parte un elemento contestuale importantissimo che
rese possibile questo nomadismo operaio: la frontiera americana (Klondike,
il selvaggio nord, porti di mare incontrollati, rete ferroviaria in
costruzione) era ancora aperta. E ancora ammetto un secondo elemento al
quale London fa continuo riferimento: la multietnicità delle relazioni sul
lavoro e nel quartiere (italiani, francesi, greci, svedesi e tedeschi
popolano la California dei Saloon, delle flotte pescherecce e delle
fabbriche e si va dal vino rosso – per restare con John Barleycorn – alla
birra e infine al Whiskey). 'Ricordi di un bevitore' è una miniera di
informazioni, riflessioni, stati d'animo, ideologie e dinamiche
esistenziali (mettendo l'accento sull'ultimo termine), insomma una lettura
da consigliare se non, addirittura, da prescrivere.
Letture. Ricordi di un bevitore. Per riprendere le riflessioni intorno
alla relazione con John, London descrive il momento in cui diviene un
bevitore solitario, casalingo. È questo il momento in cui finalmente (c'è
da quasi da scrivere) l'alcol diventa buono anche al palato. È la fase
dove John si innalza al ruolo di amico intimo, dove non serve più per
affrontare la convivialità o per istituirla ma per affrontare sé stessi, i
propri pensieri: dominare la mente. È questa per Jack la fase della vera
dipendenza: non solo si beve da soli ma spesso si beve di nascosto agli
altri, giungendo alla convivialità alcolica già iniziati, dando braccetto
al signor Barleycorn.
L'alcol si propone come verità sulle cose e sulla vita, più vera della
verità del sobrio perché più accattivante, più potente: la verità priva di
veli, che produce disperazione e che non può che richiedere una sola cura,
John, avendo una sola origine, John: l'alcol è causa del male e la sua
terapia. John Barleycorn si costituisce in regno, nel regno nel quale la
percezione del mondo è diversa da quella comune e non può essere condivisa
se non nell'alcol o nella malinconia clinica. La morte stessa, di fronte
allo svuotamento della vita, è un evento indifferente e la paura della
morte semplicemente assurda: John Barleycorn ha fatto in modo, infatti,
che la costituzione del suo regno sia fondata razionalmente, essenza
stessa e scopo della ragione.
Mercoledì, 7 gennaio
Annotazione. Quello che è successo in Francia, l'irruzione al giornale
satirico Charlie Hebdo, non mi spaventa ma mi preoccupa. Certamente le
immagini diffuse e montate dai media sono state costruite per
provocare timore, per fare in modo che ognuno fosse presente al racconto
televisivo che si riduceva a una storia di paura e voleva esserla, era
studiato per esserla.
Sentimento più appropriato è, invece, la preoccupazione che non il timore.
In primo luogo per l'incapacità di comprendere l'azione nella sua
terribile realtà: un giornale, la cui storia editoriale non conosco, che
si schiera apertamente contro l'ISIS e l'integralismo islamico e da quanto
mi è dato capire ha usato spesso una satira teologica molto greve, tre
franco – algerini di estrazione proletaria che appartengono allo stesso
quartiere (almeno pare) che probabilmente hanno compiuto un viaggio
politico, militare e 'patriottico' in Siria e tre kalashnikov.
I media pongono così la questione per incutere timore intellettuale, dopo
aver lavorato sulla paura fisica e sulla morte: penne e matite contro
mitra, libertà di stampa e d'opinione contro militarismo terrorista e
liberticida.
Eppure le cose dovrebbero essere analizzate e considerate in tutt'altro
modo: tre proletari francesi che fuggono la frustrazione della loro
condizione, intraprendendo un viaggio verso le loro 'radici' culturali,
seguendo lo stile di molto romanticismo nazionalista europeo ottocentesco,
e una redazione indifferente a questo spirito romantico, votata alla sua
derisione e ben allestita nel centro di Parigi.
Lo scontro costruito dai media avviene sul terreno loro più
congeniale: l'estremismo islamico e la libertà di stampa, la critica al
sistema sociale espressa in maniera puerile e il sistema sociale difeso in
modi puerili. Se la redazione è anche di sinistra e il giornale è in
bolletta ancora meglio, non ci sono ostacoli a questo assunto che diventa
ancora più lineare.
Questo scenario dello scontro preoccupa ma non solo da oggi, da almeno un
decennio.
L'islam si è trasformato in un movimento di critica pre – moderna al
capitalismo internazionale, e il capitalismo internazionale, verso
l'islam, usa un linguaggio pre – moderno, rispolvera illuminismi
anacronistici: entrambi pensano e recitano lo scontro di civiltà.
È questo che preoccupa: la critica al 'sistema imperiale' è diventata una
questione di civiltà e la difesa del sistema imperiale è una questione di
civiltà opposta. In mezzo non c'è nulla, nessun ambito dialettico: è
possibile solo un ritorno al passato, dall'una e dall'altra parte. Il
salto di qualità che viene evidenziato rispetto a altre azioni rivolte
contro le istituzioni militari o le forze di polizia, È REALE: lo stato di
guerra coinvolge la stampa, i media. Il rifiuto dei media
fa parte della dimensione pre – moderna del conflitto, da una parte e
dall'altra: il laicismo elevato a religione contro l'integralismo confuso
con il vero spirito religioso. Ogni ulteriore riflessione è bandita tanto
dalla pratica dei terroristi, quanto dall'approccio dei media
che hanno da tempo imparato a rifiutare sé stessi, la loro storia e il
simulacro di libertà che la conformava: agli uni va bene essere diventati
e dipinti mostri, agli altri va bene dipingere e creare mostri.
Questo schema preoccupa perché richiama altri schemi come in un domino
rovesciato, altre catene informative e ideologiche: la lotta come
conflitto militare, il confronto come affrontamento di verità
inconciliabili e la fine dello scontro come annullamento fisico
dell'avversario mentre l'avversario diviene ogni giorno diverso da quello
che è realmente: dieci redattori, due poliziotti, tre proletari e dei
kalashnikov.
Giovedì, 8 gennaio
Annotazione. È difficile avere idee chiare di fronte a eventi che sono
studiati per provocare disorientamento e confusione intellettuale e questo
è uno di quelli.
Alle torri gemelle, malgrado il caos esegetico iniziale, le parti furono
individuate, separate e alla fine contrapposte, mentre nel caso Charlie
Hebdo si libra il fantasma della contaminazione: il nemico è, al
contrario che per l'interpretazione dei fatti delle twin towers,
anche interno.
Che quella delle twin towers sia stata una contrapposizione ipocrita,
bugiarda e rappresentata poco qui importa, è rilevante che
nell'immaginario collettivo si consolidò; qui importa il fatto che si
istituisce l'idea, l'idea paurosa verso il nemico interno, irriconoscente
nei confronti della cultura, la nazione e più in generale la civiltà che
lo ospita.
Conosco troppo poco la teoria e la prassi degli integralisti islamici per
tracciare un giudizio veramente adeguato sul loro ruolo internazionale;
vedo solo, anche distrattamente, alcune azioni e, tra le altre cose,
attraverso gli occhi dei media. La mia impressione, sorta fin
dai tempi delle twin towers, è stata quella di una comoda, anche
se militarizzata, opposizione di sua maestà all'imperialismo globalizzato,
nella misura in cui il terrorismo islamista è uno strumento per procurare
i consensi che generano da paura e disorientamento e per provocare un
effetto di spiazzamento in quelli che sono radicalmente critici verso il
sistema capitalista globale e integrato, non nel senso che queste azioni
contribuiscano a isolarli attivamente, attraverso l'accusa di
fiancheggiamento o analoghe accuse, ma perché procurano un
isolamento passivo, una difficoltà oggettiva ad analizzare la situazione e
a conservare critica e distacco contro l'etica imperiale (come la
definisce Negri in Impero): dopo azioni di questa gravità e soprattutto
dopo campagne di rappresentazione mediatica come queste al di fuori
dell'etica imperiale dominerebbero, appunto, solo paura e disorientamento.
La trasformazione, infatti, secondo questa opposizione di comodo può
seguire una sola strada che è quella del ritorno al passato, il
rinnegamento della modernità, del laicismo e del materialismo
immanentista: la trasformazione non è un passo in avanti ma un salto
indietro.
La rivoluzione iraniana del '79, pur essendo stata l'antesignana della
politica islamista radicale contemporanea, mantenne dei legami tra uso
della forza e movimenti di massa che appartenevano a pieno diritto alla
tradizione comunista e in genere alla storia rivoluzionaria occidentale;
qui ogni legame con i soggetti politici e sociali appare sciolto, qui è
solo un gruppo, un'organizzazione anche articolata, che, per quanto
è dato comprendere, non ha alcun interesse ad assumere forme di massa, ma
solo una base di massa, secondo la più deleteria tradizione giacobina
dell'occidente, secondo il modo di rappresentare le masse, senza esserne
parte, e di organizzarne la liberazione, senza che questa liberazione le
riguardi.
Venerdì, 9 gennaio
Letture. Etica di Spinoza. E veniamo alla quinta parte dell'Etica
spinoziana.
Avevo molte aspettative; sono entusiastici, spesso, i riferimenti di molti
autori a questa parte dell'opera, come una sezione fondamentale,
illuminante e profetica rispetto a certe contraddizioni e ondeggiamenti
caratterizzanti quelle precedenti, al contrario, sarà sicuramente un mio
limite, il primo approccio è stato per me deludente. Un vizio che avevo
già riscontrato, soprattutto nella prima e seconda parte (Dio e la mente
umana) si è ripresentato: l'idea che la mente validi la sua esperienza a
partire dalla “chiarezza e certezza” nella percezione delle sue idee. Il
rischio che corre Spinoza (e la sua lettura) è quello di essere
tautologico. Sto pensando di rileggere Hume e un po' di rimpiangere Locke.
La tautologia potrebbe essere questa: un'idea è certa perché è certa,
scritta in parole povere. Spinoza adotta un metodo che potrebbe essere
definito di validazione intuitiva: la mente percepisce in sé,
come in un sentimento, in uno stato d'animo, la validità delle sue idee;
la validità è provata da uno stato emotivo che tocca la mente davanti alle
sue idee. Vi ho trovato molto Cartesio, nonostante la critica notevole e
irriverente che proprio a Cartesio rivolge Spinoza nella prefazione a
questa parte dell'etica. In questa Spinoza attacca la stoà e Cartesio,
ridicolizzando il concetto 'medico' di ghiandola pineale che, afferma
l'olandese, non si sa esattamente come funziona, come può essere raggiunta
dai nervi, ma che è presupposta come mobile e motile per seguire le
percezioni dei corpi e i comandi della volontà che, così, rende la mente
capace di dominare le passioni e gli affetti.
Giustamente, nella prefazione alla quinta parte, Spinoza dichiara di non
volersi occupare di logica né di medicina ma solo della mente umana sotto
il profilo dell'etica, (e precisa, infatti di intendere la sua analisi
limitata all'uomo e non agli altri viventi), affermando che i fondamenti
dell'etica sono interni all'etica stessa e non sono il prodotto di una
mediazione logica, di origine esterna. Spinoza pone, così, (già nella
polemica sacrosanta contro Cartesio) il fondamento della conoscenza
nell'intuizione e l'intuizione è uno stato emotivo, almeno a mio modo di
interpretarla. Anche Kant, alla fine, con le sue due intuizioni
fondamentali di tempo e spazio appare debitore di questo aspetto
del pensiero di Spinoza, di questa impostazione e matrice della
gnoseologia spinoziana; anche per Kant, infatti, le intuizioni non sono
dimostrabili e, infatti, spazio e tempo non lo sono ed esistono
semplicemente per la mente umana e per la sua misura. Kant, però, pose una
misura alla mente: spazio e tempo esistono secondo le nostre condizioni
della conoscenza, sono validi e quindi esistenti solo sotto le nostre
condizioni percettive e conoscitive, sono assiomi non verità.
In Spinoza, invece, la ragione non possiede questa misura, non è
sottoposta a un metro, precisamente come per il criticato Cartesio: anche
per Spinoza la ragione è una potenza trascendente. La
trascendenza di Spinoza non si identifica certamente in quella cartesiana:
la mente umana e la natura (i corpi), il soggetto conoscente e l'oggetto
conosciuto non si separano, appartengono, invece, alla stessa sostanza
perché la mente è solo un modo di essere della natura e della materia e
parimenti la materia può essere considerata come parte dei modi di essere
della mente, ma, e nella parte quinta dell'etica questo passaggio è
esplicitato, solo quando la mente condivide l'eternità di Dio diventa
capace di comprendere l'essere e di essere sé stessa, considerandosi e
considerando l'essere per quello che sono.
Esistono delle innegabili affinità tra Cartesio e Spinoza e sono quelle
della vulgata scolastica e del razionalismo ma ancor più profonde e
cogenti. Per Spinoza la mente umana non ha misura che in Dio e se Dio è la
natura infinita ed eterna, allora non ha misure e limiti. Anche se
Spinoza, con l'intelligenza e l'acutezza che lo contraddistingue,
introduce una precisazione, che non risolve il problema ma lo rende
intrigante: la natura e la mente umana insieme con lei devono essere
intese come un complesso infinito ed eterno di relazioni effettuali, di
eventi limitati nello spazio e nel tempo, e dunque l'eternità non si
presenta immediatamente alla mente.
L'eternità e Dio non sono una consapevolezza naturale e immediata per la
conoscenza e come tale neppure strettamente necessaria, tanto è vero che
Spinoza ritiene che sia possibile giungere alle sue conclusioni etiche
senza postulare l'esistenza di Dio, ma comportandosi intellettualmente
come se essa fosse. Spinoza, infatti, scrive nella proposizione XLI:
“Anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, considereremmo come
essenziali e primarie … tutte le cose che nella quarta parte abbiamo
mostrato attinenti alla Fermezza d'animo e alla Generosità”.
Sabato, 10 gennaio
Annotazione. Una delle domande da farsi sulla vicenda del Charlie Hebdo è
quella del 'come'. Come è possibile che alcuni giovani, immigrati di
seconda generazione, con una biografia che comprende rap, vita
di gang e qualche reato contro il patrimonio, insomma ragazzi con uno
stile di vita tipicamente occidentale, imbraccino un kalashnikov e
un'ideologia 'religiosa' assolutamente opposta? Dove si ubica il luogo di
questo 'scivolamento'? Questa è una delle possibili risposte. Certamente
non in Siria o nello Yemen ma prima, nelle banlieu stesse. I
'tradizionali' meccanismi di rappresentazione della critica nella forma
dell'estraneità sembrano essere saltati proprio lì, nella periferia
parigina. È Parigi il problema non la Siria o lo Yemen per i due fratelli
Qouachi.
Stavo pensando alle periferie in rivolta e ai casseurs degli
anni novanta; a quel tempo i Qouachi erano adolescenti. Non credo che sia
un pensiero improprio e ho fatto solo un calcolo anagrafico, nessuna
indagine biografica. In quel caso la critica, il 'disagio', si manifestò
in modi tipicamente occidentali: la lotta di piazza, la barricata, le
automobili incendiate, le molotov e i sassi contro la polizia. Ora abbiamo
tre kalashnikov. La critica passa (scivola) da un terreno riconoscibile a
uno non riconoscibile. La sensazione è che non solo la Siria venga dopo ma
che anche la Siria sia il prodotto di questo scivolamento: la fine della
dialettica, della dialettica seppur espressa in forme robuste e illegali,
e l'emergere della separazione, della divisione.
Anche la Siria e il nord iracheno hanno subito uno scivolamento tra la
prima e la seconda guerra del golfo, hanno subito una democrazia esportata
sulla punta dei fucili e un grande non – senso politico, vale a dire
qualcosa che non è più interpretabile secondo le usuali forme della guerra
e della politica: un'occupazione militare multinazionale che non propone
altro che sé stessa, che non ha uno scopo apparente e che pare non
desiderare nemmeno una via di uscita. In questo contesto, la democrazia
esportata è stata solo copertura, la democrazia esportata non tenta
neppure di relazionarsi con storie, tradizioni e culture preesistenti; è
sufficiente, per definire la democrazia in medio oriente, che si voti e
che ci siano degli eletti, precisamente come nelle democrazie occidentali.
La reazione a questo stato di cose è stata di tipo occidentale, anche se
si è presentata e continua a presentarsi come il suo opposto e la sua
negazione (l'integralismo islamico), e non in quanto prodotto della
risposta all'intervento militare, ma perché il fondamentalismo ha
un'immagine occidentale del mondo: la storia come luogo di realizzazione
dell'umanità, la storia come piena di senso e significato, di una
teleologia, anche apocalittica. L'apocalisse mussulmana non è la negazione
della storia ma la sua sacralizzazione: la lotta alla modernità degli
integralisti non è un ritorno alle origini e a un mondo privo di storia,
ma è, invece, il prodotto culturale della modernizzazione del testo sacro,
secondo la quale satana è il capitalismo internazionale, la storia è la
lotta contro satana e all'internazionalismo del capitale si contrappone
l'internazionalismo del testo sacro, mentre gli eserciti multinazionali
dell'ONU sono truppe crociate e l'ideologia del capitale è risolta come
un'ideologia religiosa, una religione nemica.
Le contraddizioni reali non sono uno strumento per abbattere e criticare
il capitalismo, ma sono solo usate in una rappresentazione critica, la
prova del dominio di satana sul mondo e sul capitalismo; in verità,
secondo questo modo di pensare, sarebbe possibile un capitalismo
internazionale islamico, una sorta di capitalismo dal volto umano.
In fondo il capitalismo non è il nemico ma solo quello che comporta:
globalizzazione, indifferenziazione, deterritorializzazione,
mercificazione della religione e dell'etica, riduzione del mondo
all'immanenza. Il nemico non è la nuova trascendenza, la nuova
religiosità, la nuova eticità astratta e generica della quale, al
contrario, il nuovo islam vorrebbe appropriarsi, egemonizzare e sulle
quali desidererebbe esercitare il comando. La nuova trascendenza islamica
espressa dal fondamentalismo ha come palinsesto, rozzamente sviluppato, la
nuovissima trascendenza capitalista contemporanea e per questo, oltre che
per moltissimi altri motivi, la 'rivoluzione integralista islamica' è
costitutivamente una rivoluzione di vertice, militarista e giacobina.
Nulla di più inattuale e proprio in quanto inattuale pericolosissimo e
preoccupante, poiché è capace di generare inutili tensioni, fobie, paure e
speranze e soprattutto per chi questo mondo, il mondo imperiale di Negri o
il capitalismo integrato mondialmente di Deleuze, vuole veramente
comprenderlo, analizzarlo, criticarlo, scomporlo e alla fine cambiarlo o
distruggerlo.
Sono sempre stato dell'idea che una falsa opposizione e una finta
rivoluzione siano i peggiori nemici dell'opposizione e della rivoluzione e
che siano più pericolose e ininfluenti di una conformistica accettazione e
di una perbenistica conservazione, poiché nascondono il problema e facendo
il verso di affrontarlo lo chiamano con nomi non suoi.
Annotazioni. Renzi come sta? Sta sempre bene. Queste riflessioni non lo
toccano. Quando scriverò di politiche sociali e di recupero sociale starà
un po' peggio Berlusconi. Insomma stanno tutti bene: come possono stare
male le marionette di nessuno?
Domenica, 11 gennaio
Letture. Etica. Quinta parte. Confesso che chiudere la lettura dell'Etica
con un giudizio negativo sulla quinta parte mi pare quasi oltraggioso,
nonostante rimanga di questa opinione e chiuderò con un giudizio, quindi,
negativo.
La terza e la quarta parte dell'opera, per il loro intento analitico,
scrupoloso, quasi psicanalitico, hanno parlato meglio; le conclusioni
della quinta parte, pur non entrando in contraddittorio con le parti
precedenti, anzi sviluppandole (soprattutto la I e II parte), sono
indipendenti da quanto svolto prima: Spinoza intende fondare l'etica e
fornirle una struttura autonoma dalla chimica degli affetti appena
analizzata, slegarla dalla materialità della dinamica dei sentimenti e
costituirla. Spinoza la costituisce come polo razionale al quale la
dinamica sentimentale deve fare riferimento e il polo si determina grazie
alla strutturazione di idee distinte e adeguate ai sentimenti;
l'adeguatezza e la chiarezza derivano, per Spinoza necessariamente, dalla
partecipazione di queste idee, o meglio del tessuto genetico di quelle,
all'idea di Dio: la mente deve partecipare alla mente divina per
sciogliersi dal dominio degli affetti. Qui risiede il potere della mente.
Dio è soprattutto un attributo, l'eternità, e lo sviluppo e la percezione
del concetto di eternità nella mente sono essi stessi, in quanto tali,
garanzie della realizzazione della partecipazione alla mente divina. Non
necessariamente teista (Spinoza tra le righe lascia assolutamente liberi
in proposito) la trascendenza che fonda l'etica si basa
sull'attributo dell'eternità, sulla comprensione di quello.
L'eternità concepita dalla mente è la forma astratta coerente con la
costituzione del polo razionale dell'etica, prima di quello l'etica si
riduce a immanente dialettica di affetti.
Per rispettare il testo e lo stile fin qui seguito scendo, brevemente, nel
dettaglio. Nello scolio della proposizione I Spinoza scrive: “l'ordine e
la connessione delle idee sono identici all'ordine e la connessione delle
cose”. Un concetto chiarissimo in base al quale Spinoza stabilisce una
specie di onnipotenza bidirezionale dalle cose sulla mente e dalla mente
sulle cose; la mente, quindi, è capace di raffigurarsi direttamente
l'ordine delle cose e tra conoscenza e ontologia la relazione è diretta.
È bellissimo il concetto quando viene applicato alle idee inadeguate
e confuse, meno bello quando applicato alle idee che Spinoza chiama
adeguate, cioè là dove la relazione si definisce perfetta e compiuta.
Questa teoria della conoscenza ci può portare ovunque, poiché non pone
limiti alla potenza della ragione e non individua in quella difetti: è il
razionalismo cartesiano svolto sotto il profilo dell'immanenza. In
verità, al contrario che 'ovunque', essa rischia di portarci in nessun
luogo, in un posto inesistente e ininfluente alla conoscenza, mentre al
contrario la critica illuminista alla ragione, quella sì, è stata capace
di condurci 'ovunque', nel bene e nel male e più spesso nel male.
L'illuminismo ha scoperto la coscienza di sé, il ragionamento sulla
ragione, l'appercezione kantiana e ha formalizzato il concetto di
coscienza con inevitabili conseguenze ideologiche: la ragione si è
liberata dalla necessità di coerenza con il mondo sensibile che, al
contrario, il razionalismo faceva sua e pretendeva. L'illuminismo indicò
la strada per la rappresentazione scientifica del mondo e della coscienza
di tale rappresentazione.
Quindi non è certamente il caso di scrivere ora il panegirico del
criticismo kantiano e illuminista e la condanna del razionalismo, solo che
il razionalismo, effettivamente, non porta che a sé stesso, chiudendosi in
sé stesso; che questa chiusura in sé, soprattutto quando il razionalismo
si arma degli strumenti dell'immanenza, possa essere utile non vi è
dubbio, che possa avere effetti etici non vi è altrettanto dubbio, come,
però, rischi di concludere sé stesso in un atteggiamento mistico.
“Bisogna … adoperarsi di conoscere … ogni affetto in modo chiaro e
distinto, affinché la Mente sia determinata dall'affetto a pensare quelle
cose che essa percepisce in modo chiaro e distinto … e perciò l'affetto
stesso sia separato dal pensiero della cosa esterna” scrive nello Scolio
della proposizione IV Spinoza. L'astrazione dell'oggetto è anche
l'astrazione della cosa ed è la via verso l'autonomizzazione dell'affetto
da sé stesso, verso la trasformazione dell'affetto in idea distinta. Ma
questo, come scritto, non basta e infatti, nella proposizione XXIII,
leggiamo: “La Mente umana non può assolutamente essere distrutta insieme
con il corpo, ma di essa rimane qualcosa di eterno” e quindi la mente è
capace di trascendere il tempo attraverso il passaggio concettuale
descritto nella successiva dimostrazione “... poiché ciò che è concepito
con una certa eterna necessità mediante l'essenza stessa di Dio è pure
qualcosa, questo qualcosa che appartiene all'essenza della mente, sarà
necessariamente eterno”. Il gioco è fatto; è un gioco profondo ma è un
gioco, purtroppo, che porta in nessun posto (che questo sia, rispetto a
quello che seguirà nella storia del pensiero, un pregio, è per me
irrilevante in questo momento). Si tratta di una dimostrazione di sapore
scolastico: l'idea stessa di Dio ne prova l'esistenza.
Più materialista, e nei fatti aperta a una concezione che non implichi
l'esistenza di Dio inteso strictu sensu, è la descrizione
dell'amore intellettuale di Dio. Qui Spinoza recupera gran parte della
genetica gnoseologica contenuta nella terza e quarta parte dell'opera, in
base alla quale si definisce un affetto, l'Amore, verso l'eternità e
natura del mondo, Dio, in una dimensione razionale che richiede una
Letizia generalizzata verso le cose e il loro ordine, dentro il quale la
morale diviene un sentimento positivo e attivo, una pratica di vita che
coltiva i migliori affetti della storia della Mente umana.
Vale, quindi, la pena di trascrivere la proposizione XXXVI: “L'Amore
intellettuale della Mente verso Dio è l'amore stesso di Dio, con cui Dio
ama sé stesso, non in quanto infinito, ma in quanto può esplicitarsi
attraverso l'essenza della Mente umana considerata sotto la specie
dell'eternità”.
Giovedì, 15 gennaio
Letture. Antologia degli scritti politici di Hume, a cura di Giorgio
Giarizzo, edito in Bologna per i tipi del Mulino nel 1961 e contenuto
nella collana editoriale I classici della democrazia moderna.
Il pensiero settecentesco mi affascina; epoca di superamento del riottoso
XVII secolo (riottoso nel senso letterale del termine, vale a dire
rivoltoso), epoca nella quale si teorizza la stabilità. Così ho anteposto
la lettura di Hume al Trattato Teologico – politico di Spinoza e alla
prosecuzione della lettura di Impero di Negri – Hardt. In verità è stata
quest'ultima opera a guidarmi verso Hume e lo spirito illuminista allo
scopo di precisare gli elementi di ricerca della sovranità per la nazione
moderna. In effetti ci sono e ben articolati. Fondamentali in questo senso
l'idea di giustizia e l'analisi della sua genesi.
All'interno del libro, inoltre, ho trovato delle postille scritte da mio
padre.
Venerdì, 16 gennaio
Letture. Antologia di Hume. Alla base del diritto positivo è il diritto
naturale, perché i piani delle due categorie sono quasi coincidenti.
L'utile individuale, l'utile più vicino all'uomo nella sua naturalità, non
può fondare la società e il diritto ma solo l'utile 'sociale', l'utile non
immediato, più lontano dall'uomo nella sua nuda naturalità, riesce a
emancipare l'uomo dallo 'stato di natura' che, però, per Hume (e qui
alberga la coincidenza tra naturale e positivo) è davvero un non – luogo,
un'utopia e il prodotto di un'astrazione. L'uomo ha fin da subito, nella
sua naturalità immediata, che pure comprende la soddisfazione rudemente
egoistica e singolare dei suoi bisogni e il perseguimento del suo utile,
necessità di stabilire delle convenzioni per evitare le crisi di violenza,
le guerre private senza soluzione che il soddisfacimento dei propri
bisogni singolari comporterebbe e per fondare un sistema di sicurezze
sociali.
Hume ritiene che la società è il prodotto naturale del superamento
dell'ordine naturale attraverso tre regole di fondo: la stabilità del
possesso, il trasferimento consensuale del possesso e il rispetto delle
promesse. Queste tre 'invenzioni' (così le definisce) sono il
palinsesto della società civile e della formazione dello stato, quindi,
tra le comunità più semplici, semplici agglomerati di poche famiglie. Il
governo è un'invenzione (Hume usa questo termine molto spesso in
riferimento allo stato e alla comunità politica) posteriore, resa
necessaria dal complicarsi della vita sociale, dall'allargarsi della
comunità e dal moltiplicarsi dei bisogni e delle esigenze.
Scritto in estrema sintesi, secondo Hume, lo stato di natura genera
naturalmente l'idea dell'utile e l'uomo persegue sempre il suo utile;
nello stato primitivo l'utile si identifica con l'utile immediato, con
l'appropriazione e l'occupazione diretta delle risorse, con la
competizione, che entra, però, subito in contraddizione con sé stesso e
forse non riesce ad affermarsi mai compiutamente. Si elabora quasi subito,
se non subito, rispetto a queste pulsioni più che realtà storiche e
giuridiche, un secondo livello di utilità fondato sulle tre
convenzioni o invenzioni che ha lo scopo di evitare i difetti e i pericoli
del primo. Questo livello non è ancora capace di elaborare il pensiero
morale, legato come è alle procedure dell'utilità immediata, ma getta i
basamenti per la nascita della morale, che altro non è, per Hume, che la
generalizzazione normativa delle convenzioni di stabilità, libero
trasferimento e rispetto delle promesse. La tendenza alla
generalizzazione normativa è, secondo Hume, una tendenza
antropologica, una caratteristica della nostra specie e grazie a
questa il genere umano acquisisce coscienza di sé e l'utile sociale genera
un meccanismo indipendente dal suo contenuto (possesso, trasferimento del
possesso e rispetto delle promesse), valido sempre, al di fuori dei
contesti e scopi concreti.
Letture. Grammatica della moltitudine: per un'analisi delle forme di vita
contemporanee di Paolo Virno, edito in Roma per deriveapprodi nel 2004,
quarta edizione, nella collana Fuorigioco al numero 5. Libro ordinato via
web e giunto via posta. Ho dato una rapida letta alla prefazione,
avvertenza e introduzione. Il testo è la trascrizione di un seminario
tenuto nel 2001 all'università di Calabria. Esordisce con l'opposizione
(un po' forzata) tra Hobbes, cantore del concetto di popolo e stato, e
Spinoza, fautore del concetto di moltitudine, o meglio erede dell'idea
rinascimentale di popolo. Il dissidio seicentesco giustifica la presenza
di Hobbes meno (almeno per quanto letto sull'Etica) quella di Spinoza.
Ai margini. Hume e Spinoza. A proposito di Spinoza ho trovato nel trattato
di Hume molti riferimenti involontari a Spinoza, soprattutto nei riguardi
alla 'chimica degli affetti' che ho trovato simile e nel concetto davvero
spinoziano secondo il quale l'utile più lontano è anche il meno forte,
quello capace di suscitare il sentimento con minore intensità,
letteralmente l'inglese scrive nel Trattato sulla natura umana (1740
circa): “ogni cosa che ci sia vicina nello spazio o nel tempo ci colpisce
con un'idea forte, e ha un effetto proporzionale sulla volontà e sulle
passioni …”. Persino la terminologia (fedeltà delle traduzioni
permettendo) è simile.
Per quanto riguarda la questione, resuscitata, dell'idea di popolo contro
quella di moltitudine (in Impero e ora anche in Virno) mantengo sempre
fortissime perplessità, rimanendo tra i due ancorati a un terzo concetto,
quello di proletariato o meglio di proletari, a dirimere l'antitesi di
queste due polarità.
Sarebbe utile riprendere la lettura della quarta e ultima parte di Impero
ma sono continuamente distratto da altri suggerimenti.
Sabato, 17 gennaio
Letture. Etica Hacker. Altro libro incrociato dalla mia curiosità nella
libreria è un'opera letta solo parzialmente qualche anno fa, dove sono
contenute interessanti riflessioni sull'idea del tempo di lavoro nella
contemporaneità e sul concetto / relazione con il denaro. Ne sospesi la
lettura per pigrizia e perché attratto da altri impegni, soprattutto
lavorativi, nonché perché investito dalla sindrome del già 'veduto e
sentito'. Si tratta de L'etica hacker e lo spirito dell'età
dell'informazione / Pekka Himanen ; prologo di Linus Torwalds
; epilogo di Manuel Castells ; traduzione di Fabio Zucchella. - Milano :
Feltrinelli, 2001 (Serie bianca). È intrigante anche solo il piano
dell'opera: nella prima parte "l'etica hacker del lavoro", il tempo è
danaro?; nella seconda parte l'etica del denaro; la terza parte è dedicata
alla netica e tra le conclusioni nell'epilogo l'informazionalismo
e la network society per la penna di Manuel Castells.
Basti questa citazione contenuta nella prima parte che si riferisce
all'opera di Edward Thompson, Time, work – discipline, and industrial
capitalism, del 1967: “Era l'idea di definire un rapporto tra
lavoro e il tempo e non con il lavoro in sé che coloro che vissero in età
preindustriale trovavano estranea, e contro la quale opposero resistenza.
Ciò che la tecnologia dell'informazione fa intravedere è la possibilità di
una nuova forma di lavoro orientato alle mansioni [com'era in epoca pre –
moderna, Nota mia]”.
All'inizio del capitalismo e della modernità era l'etica del lavoro
protestante (Max Weber) con le sue tre regole: il tempo di lavoro
concentrato nella esecuzione ininterrotta di una mansione, il desiderio di
compiere bene il lavoro indipendentemente dal suo oggetto e scopo e il
lavoro come attitudine morale, come dovere. Gli hacker criticano questa
immagine del lavoro, questa ideologia lavorista, non per scelta
individuale, non per volontà etica, ma perché interpretano positivamente i
nuovi orizzonti che il tempo di lavoro ha assunto nel capitalismo post –
industriale come liberazione del lavoro, della mansione, dal
controllo del tempo e quindi dispiegamento del lavoro sul tempo di
vita.
L'attività hacker si confronta dialetticamente e criticamente, quindi, con
un'attività lavorativa che inizia a essere svolgimento di una mansione
indipendente da luogo e tempo di lavoro precisati e anche le attività
extralavorative, gli impegni domestici e familiari, vengono affrontati in
funzione della coabitazione con il lavoro e assumono la sua morfologia,
diventano isomorfi al lavoro: il tempo della vita viene organizzato come
il tempo di lavoro (ottimizzazione delle relazioni genitoriali e
affettive, loro esternalizzazione attraverso asili nido, baby sitting
e consulenze di diverso tipo).
Eppure in questo quadro dell'ideologia hacker del lavoro, che non prevede
affatto un'automatica trasformazione del lavoro in una libera attività,
nasce, anche grazie alla così definita etica hacker (in base alla quale il
lavoro si svincola dal comando d'impresa e da una relazione coercitiva e
astratta con il tempo) la possibilità per il lavoro di slegarsi dalla
'gabbia' taylorista estesa che è, secondo Pekka Himanen, il tempo di
lavoro nel capitalismo post – industriale. Il modello produttivo hacker è
quello rinascimentale e platonico dell'accademia i cui componenti
acquisiscono la skole (termine di Platone nel Teeteto), il
governo del loro tempo, oltre che il controllo assoluto dei loro prodotti.
Interessante no?
Un po' meno interessante della relazione con il tempo di lavoro è quella
che Himanen individua negli hacker con il danaro, che non può essere,
gioco – forza, così dirompente e diretta criticamente. Viene proposto
l'esempio di Wozniac; il socio di Steve Job lascia Apple comprandone
azioni e come azionista si fa artefice di una ridistribuzione
'democratica' dei titoli della società. Poi fonda con gli interessi di
quelli una scuola pubblica di saperi informatici che oscilla tra la sua
abitazione privata e una scuola elementare. L'esempio è certamente
paradigmatico dello spirito hacker ma anche dei suoi limiti oggettivi.
È impossibile sul terreno del reddito abbandonare le conseguenze
dell'etica protestante del lavoro descritta da Max Weber, secondo Himanen
medesimo; per scriverla con parole mie se Weber legava il capitalismo al
lavoro e meno al capitale e alla rendita derivata dal capitale finanziario
(che sono sostanzialmente due disvalori per Weber e l'etica che descrive)
e anche se il nuovo capitalismo post – industriale irride al lavoro e
accresce, invece, il potere della rendita (così come pensano anche Negri e
Hardt in Impero), il lavoro rimane lo strumento decisivo per la
sopravvivenza dentro il sistema economico e dunque su questo pianeta e,
quindi, esiste ancora la dimensione proletaria del lavoro, il lavoro come
valore d'uso per le classi subalterne, anzi le classi si posizionano tra
di loro proprio a partire dalla relazione con questo valore d'uso del
lavoro.
Riportare un po' di ironia in tema non guasta, anche perché aiuta a
sdrammatizzare proficuamente la categoria del lavoro come valore d'uso,
come necessità, e anche ad accendere una nuova luce sul lavoro nel
capitalismo in genere e nella contemporaneità soprattutto. Ho trovato
quest'ironia nelle note del testo quando si citano alcune riflessioni di
un autore cinese per il quale il lavoro NON è più uno strumento per la
sopravvivenza ma è una trappola che, mistificando la necessità di
sopravvivere, rende la sopravvivenza impossibile, facendo il verso di
andarle incontro; vale la pena di trascrivere i passi: “la civiltà
risponde al problema di procurarsi il cibo mentre il progresso è quello
sviluppo che rende sempre più difficile procurarselo … il pericolo è che
siamo diventati tanto ultracivili … che si perde ogni voglia di cibo
durante il processo di procurarselo” (Yutang, Importanza di vivere).
Annotazione. La sensazione che la tendenza a ridurre il tempo di lavoro a
tempo di vita rispetto al 2001 / 2002 (Impero e Etica Hacker sono stati
pubblicati in quegli anni) si sia approfondita è per me meno forte di
quanto mi potrebbe essere apparso allora. La tendenza c'è, è innegabile,
si è affermata nei paesi occidentali con vera potenza in alcuni settori
dei servizi (commercio, turismo, servizi alle imprese, servizi
informatici) meno in quelli della produzione materiale (dove la
'venerdizzazione della domenica', per usare Himanen, non si è compiuta)
ancora di più, invece, nei paesi di recente 'modernizzazione' che hanno
subito tra anni settanta e anni dieci una vera rivoluzione industriale
nella quale i vecchi stilemi del fordismo e dell'etica tradizionale
del lavoro si sono uniti alla nuove flessibilità richieste dalle new
economy. Il processo è disomogeneo, a pelle di leopardo, ed più
lento di quanto pensassi quindici anni fa. Questo non dipende solo dalle
innegabili resistenze degli operai e degli impiegati dei settori
produttivi e dei servizi 'tradizionali', anzi queste hanno contato la
minor parte, ma dipende dal fatto che anche al dominio capitalista una
radicale proiezione del tempo di lavoro sul tempo di vita non conviene.
Conviene, certamente, la sua messa in questione, la sua immaginazione, il
suo ingresso nell'immaginario collettivo, NON la sua realizzazione perché
questa aprirebbe delle problematiche di difficile soluzione, tanto
all'interno quanto all'esterno del sistema.
Per l'interno è ancora una trasformazione nella fruizione dei consumi
(distribuzione, assegnazione, ed elezione dei beni in vendita sul modello
del just in time) che richiede una rivoluzione culturale più che
tecnica e comunque un discreto progresso della telematica (anche se non
strutturale ed epocale) e delle sue infrastrutture. Una rivoluzione di
questo genere impone una relazione assolutamente virtualizzata con il
danaro, la scomparsa della carta – moneta, e soprattutto una radicale
rivisitazione dell'apparato di distribuzione della merce.
Per quella che ho impropriamente definito difficoltà esterna (ma sono
perfettamente consapevole del fatto che non esiste un esterno al sistema e
l'aggettivo è una comoda finzione) il capitalismo mondiale sta dimostrando
di possedere una certa (nel senso di sicura) intelligenza strategica.
Gli anni novanta hanno manifestato una primordiale forma coagulante dei
movimenti, delle istanze su scala mondializzata. Quella che Negri chiama
'Moltitudine' si è organizzata e ha originato in quegli anni qualcosa di
simile a un movimento internazionale di vecchia matrice, di stampo
classico 'socialista e internazionalista' sulle cui novità
(assolutezza da cicli di lotta specifici, proposizione di eventi
multiformi, coordinamento sporadico ed episodico, contemporaneo rifiuto
della spontaneità) ci sarebbe da ragionare a lungo.
Quel movimento (davvero contraddittorio dal punto di vista delle chimiche
classiche, marxiane) ha imposto una riflessione al capitale mondiale: ha
imposto sviluppo, cioè l'accelerazione delle nuove logiche finanziarie del
capitalismo multinazionale, la catalizzazione della sovranazionalizzazione
del dominio, l'ulteriore svalorizzazione del comando degli stati
nazionali, che è divenuto un residuo becero e inutilmente conflittuale, ma
ha determinato ripensamento dello sviluppo sul terreno del lavoro.
La riduzione del tempo di vita a tempo di lavoro significa che il tempo di
lavoro cessa di essere un distinto da sé e che il valore d'uso del lavoro
si identifica con la vita; significa un nuovo concetto di proletario che
non conosce più la separazione tra lavoro e vita, tra lavoro e attività.
Questa identificazione rischia di essere pericolosa e di generare
solidarietà e conflitti là dove prima erano inimmaginabili, oppure appena
disegnati. L'immaginazione della riduzione, l'ideologia della riduzione
senza la sua realizzazione effettiva comporta, invece, una specie di
frammentazione, un continuo riferimento al passato, alla propria
tradizione lavorativa e contrattuale e la volontà di eliminare il futuro
che viene analizzato solo sulla scorta del passato.
Per usare la terminologia di Virno, la Moltitudine sarebbe andata
rapidamente verso l'Uno. Si obietterà e mi domando anch'io: tutta questa
intelligenza nel capitalismo che, storicamente, è stato orfano dello stato
assoluto aristocratico e ostaggio dei suoi bisogni primari? Oserei
rispondere affermativamente: questa è la nuova forma del capitalismo che
non solo vive nella produzione di rappresentazioni sociali, ma vive di
qualcosa che un tempo sarebbe stato fuori dal suo nucleo fondante e che ha
imparato a rappresentarsi e soprattutto a costruire le sue
rappresentazioni; queste rappresentazioni sono, ormai, essenzialmente
vere, più vere del vero, più reali del reale, astrazioni reali, più
naturali della naturalità. Dal new deal a oggi il
capitalismo ha compiuto il salto di qualità che la feudalità realizzò tra
XIV e XVII secolo: ragionare su sé stessi per continuare a riprodursi.
Esiste un'intelligenza collettiva della borghesia in nome della quale la
borghesia, come classe, scompare definitivamente; precisamente come tra
gotico, rinascimento e barocco è venuta meno l'aristocrazia.
Mercoledì, 21 gennaio
Letture. Grammatica della Moltitudine. Riflessione sui due concetti di
paura e angoscia, risolti da Virno l'uno come timore condizionato, per
dirla con Spinoza uno stato d'animo con un oggetto, l'altro come timore
incondizionato, in assenza di oggetto, un timore indifferenziato.
Il concetto originario Virno lo ritrova in Heidegger che aveva sviluppato
l'idea di angoscia come il risultato di un non 'sentirsi a casa propria' e
questo concetto si diffonde, secondo Virno, nella società imperiale e
globalizzata, dove, sempre più spesso, a causa dell'estinzione delle
'comunità sostanziali' , i soggetti affrontano una 'comunità
indifferenziata', priva di luoghi di frontiera e di 'luoghi comuni'
specifici.
Questo stato d'animo è caratterizzato dalla percezione di un pericolo
indefinito, onnipresente, la cui descrizione mi ricorda certe pagine di
Hans Jurgen Krahl [Costituzione e lotta di classe / Hans-Jurgen Krahl. -
Milano : Jaca Book, c1973 (Saggi: per una conoscenza della transizione,
52)] quando descriveva la paura della piccola borghesia di inizio secolo
scorso che, affrontando il mercato, scopriva la sua inadeguatezza e viveva
questa relazione come fonte di uno spossessamento esistenziale e di
perdita di sé. È interessante questa analogia tra come Krahl descrive la
paura, l'angoscia, del piccolo borghese e come Virno definisce il timore
incondizionato della Moltitudine contemporanea. In entrambi i casi il
grande nemico è un soggetto anonimo, assolutamente indifferente alle
comunità e ai territori, che proietta gli individui in un contesto privo
di riferimenti e nel quale l'unico riferimento è proprio nella generalità
e genericità compresenti nel riferimento.
Ho, inevitabilmente, sospeso la lettura di Hume e non so quando riprenderò
Impero.
Giovedì, 22 gennaio
Letture. Etica Hacker. L'accademia platonica è il palinsesto
dell'organizzazione e della produzione del sapere realizzato dai
programmatori del software libero e open source.
L'accademia platonica non esigeva ruoli prefissati, docenze e presidenze,
ma prevedeva una collaborazione dove la funzione degli esperti non
escludeva i neofiti; anzi il neofita, spesso, per genuinità e innocenza
intellettuale è stimolante, individua nuove problematiche e soprattutto è
un ottimo divulgatore (volgarizzatore) delle novità acquisite nella
ricerca: sa spiegare bene perché non dà nulla per scontato e ha dovuto
faticare per apprendere e condividere. Per gli hacker l'intero progresso
scientifico è ascrivibile a questo modello conoscitivo secondo il quale
non solo non esistono, in senso stretto e letterale, maestri o discepoli,
precisamente come non esiste una verità definitivamente acquisita, ma
anche ogni soluzione e conquista sono rese pubbliche non solo nei
risultati ma in tutto il processo conoscitivo: non si condivide solo la
legge, la regola individuata e descritta ma insieme con questa tutto
quello che ha condotto alla sua elaborazione.
Qui Himanen annota una prima e importante contraddizione tra pensiero
scientifico nel suo concreto evolversi e le istituzioni che pretendono di
ospitarlo, vale a dire le università, le moderne accademie.
Gli atenei non sono altro che una riproduzione delle forme controllate e
gerarchizzate della elaborazione del sapere della scolastica medioevale,
dove la scolastica medioevale è il prodotto della disciplina monastica; il
modello della cultura ufficiale e dell'organizzazione pubblica e
istituzionalizzata del sapere è quello del monastero; il mondo
universitario ha sempre vissuto questa dicotomia: da una parte, anche
terminologicamente, ama rappresentarsi come 'accademia' sul modello
platonico, struttura aperta e orizzontale, ma dall'altra sceglie di
organizzarsi secondo figure autoritative (quando non apertamente
autoritarie) e secondo una gerarchia nell'amministrazione del sapere.
In secondo luogo il modello 'chiuso' contraddistingue il mondo accademico
moderno e contemporaneo e, nello stesso tempo, il mondo universitario è
costretto per valorizzarsi a riconoscere la validità dei modelli 'aperti',
allo scopo di evitare l'ipostatizzazione dei saperi e il loro congelamento
e quindi la perdita di senso della sua stessa istituzione.
In terzo luogo, soprattutto dove le imprese entrano nel circuito
universitario, la tendenza a privatizzare la produzione intellettuale, a
definire una proprietà intellettuale, è alta.
Il modo di produzione hacker non è immune, comunque, da queste
contraddizioni ma ha un fondamentale vantaggio rispetto a quello
universitario: si svolge in un non luogo, al di fuori di ogni
istituzione, e utilizza i canali della comunicazione telematica non per
strutturarsi ma per diffondersi, utilizza la rete informatica come media,
strumento operativo e non come architettura.
Le tre contraddizioni che coinvolgono il mondo accademico tradizionale
riescono a essere tenute agli estremi margini della produzione open
source e anche quando, su alcune scoperte e intuizioni, si
costituiscono imprese la privatizzazione del sapere non ne è parte
integrante, anzi è esclusa. Le imprese che utilizzano saperi open
source non alienano questi saperi, non pretendono di rivedere la
struttura del media che li hanno diffusi e alla fine
ritengono inevitabile alla loro stessa affermazione il modo di produzione
dell'accademia platonica, aperto e diffuso.
Annotazione. Gli autori scrivono di un comunismo produttivo
dentro il capitalismo e non mi pare affatto una scelta di termini
inappropriata. La produzione open source è in effetti una forma
comunistica di creazione, basata sulla libera e paritetica cooperazione
dei protagonisti, che non ha, però, come obiettivo il fine del movimento
comunista storico, vale a dire l'abbattimento del capitalismo, ma qualcosa
di diverso anche se tangente: l'affermazione e valorizzazione del
modo di produzione comunistico in quanto tale, senza gli attributi
politici e ideologici a quello legati, senza che venga perseguito un
confronto costante con quello capitalistico. Si mette in atto,
quindi, una netta lontananza e indifferenza rispetto a quello e spesso una
scivolosa neutralità.
La dico scivolosa perché comporta un'affermazione e valorizzazione che
possono con facilità trasformarsi in logica di impresa senza parimenti
mettere in discussione il modo di produzione comunistico adottato, anzi
sussumendolo integralmente; ancora scivolosa perché la possibilità di
intervenire sulla struttura della rete, sul media comunicativo, rimane
aperta e difficilmente individuabile, verificabile e visibile: per andare
a un riferimento cinematografico dei primi anni ottanta, alla Trade
di Blade runner, potrebbe essere, anziché una società verticale
e immediatamente riconoscibile come quella del film, una spontanea
produzione del cybespazio, la diffusione, apparentemente spontanea e non
eteronoma, di una nuova architettura informatica.
Potrebbe essere, in ultima analisi, quello che, per adoperare altri
termini e altre categorie, sarebbe un discorso sulla verità che
sostituisce non solo la verità ma anche il discorso sulla verità,
intervenendo sulla struttura intima della comunicazione, su quello che sta
sotto di quella, che la sorregge e conforma, su quello che, usando forme
filosofiche classiche e scolastiche, potrebbe dirsi sostanza, sub
– stantia autentica. I saperi telematici possiedono questa
potenzialità, perché è loro essenziale, perché lavorano sull'informazione
e determinano l'idea stessa e il perimetro dell'informazione. La verità
informatica è una verità tecnica che rende la tecnica struttura della
verità: novità assoluta rispetto alla tecnica industriale e moderna che
era capace di produrre essere o anche idee ma incapace di creare nel
medesimo tempo il loro contesto e la loro validazione immediata. Le
idee nell'epoca del post neolitico sono immediatamente e intrinsecamente
validate.
La tecnica informatica, nella versione telematica e cibernetica, è capace
di creare validando e di implicare la validazione nell'idea e deve farlo
necessariamente per sua stessa logica produttiva, anche quando adotta un
modo di produzione comunistico.
Non c'è, quindi, a priori neutralità nella telematica, pensiero
scientifico allo stato puro, proprio perché, al di là di ogni
mistificazione, non ha senso il concetto di neutralità e oggettività ma
solo, appunto, di sostanza autentica e per autentica intendo
semplicemente funzionante.
Agli autori di Etica Hacker (Himanen, Torvalds e Castells) pare sfuggire
del tutto questo aspetto.
Venerdì, 23 gennaio
Letture. Ai margini. Etica Hacker. Su questo tema il testo si limita a
esporre il problema dello spionaggio in rete, vale a dire tutti quei
programmi che lavorano per tracciare mail, contenuti e destinatari della
nostra attività telematica, transazioni bancarie, acquisti on-line e via
discorrendo. In base a questa attività è possibile creare un profilo umano
e sociale dettagliato di un utente della rete: comportamenti, preferenze,
biografia, percorso lavorativo e inclinazioni.
Più interessante è quello che, qualche volta, ho verificato personalmente:
la personalizzazione della navigazione. A determinati input sui
motori di ricerca non sempre corrispondono determinati e corrispondenti
output, come se il browser tenesse conto della personalità telematica del
navigante. Il rumore di fondo delle risposte è considerevolmente mirato e
differenziato.
Questo innegabile controllo, che gran parte della pratica hacker combatte
con la crittografia, è solo l'aspetto più visibile ed evidente del
rischio. Le mutazioni che il browser subisce conformemente al vissuto
telematico dell'utente non sono solo il segnale di un'attività di
tracciamento e sorveglianza, ma anche di un processo molto più attivo: la
strutturazione dell'ambiente telematico secondo determinate
sollecitazioni. Questa interazione tra utente e rete evidenzia quanto il
media non sia un canale neutro e immobile, ma la contrario posizionato,
flessibile e mobile. Certamente non siamo al livello della mia ipotetica
sub – stantia, dell'intimità dell'informazione, ma il paradigma è quello
di una potenziale manipolabilità dell'informazione a livello del
quanto informatico.
Lunedì, 26 gennaio
Annotazione. Precisamente come conoscevo appena Charlie Hebdo conosco
Zipras che ha vinto le elezioni in Grecia. Inutile dire che questa
vittoria è un segnale, perché lo dicono e scrivono tutti.
È da notare che insieme con il 36% di Zipras viene il 6% di Alba dorada e
questo è il segno che la critica alla strategia finanziaria europea non è
trasversale a tutti fronti, quanto, invece, capace di creare fronti,
determinando quello che i benpensanti chiamerebbero una radicalizzazione
dell'elettorato e una nuova (e per me transitoria) dislocazione
dell'elettorato. A quanto mi è dato intendere è un po' come se
Sinistra Ecologia e Libertà prendesse la maggioranza relativa di voti e
Forza Nuova il 6% di quelli: non si tratterebbe di una trasversalità ma di
una nuova composizione dell'immaginario politico e degli investimenti
ideologici. Questo è interessante perché, per la prima volta, si è fatta
avanti una critica frontale al modo di concepire l'Europa: un insieme di
stati nazionali che condividono una moneta e una serie di istituzioni di
vigilanza sul loro operato.
Il fatto che l'Europa sia un insieme di stati – nazione e non uno stato –
nazione ha consentito molte cose.
In primo luogo ha permesso il costituirsi di una gerarchia tra gli stati
membri che rispecchia la salute delle corrispondenti economie, il possesso
di eccellenze produttive, di materie prime, di capacità energetiche,
precisamente come è successo alle regioni del proto – federalismo
italiano. Il secondo aspetto è legato strettamente al primo e quasi
ne fa parte: lo 'stato' europeo ha assunto sempre più, dopo l'iniziale e
ormai quasi primordiale spirito di collaborazione paritetica, un aspetto
di controllo sulle attività dei singoli stati; in primo luogo questo è
avvenuto attraverso la costituzione della moneta unica europea che è stato
un processo che ha richiesto, fin dalla sua progettazione, la
strutturazione di una gerarchia monetaria, applicando un discernimento
pubblicamente riconosciuto tra monete forti (Marco e Franco) e monete
deboli (Lira, Dracma e Pesetas). L'accantonamento del Serpente Monetario
Europeo (S.M.E.), nella prima metà degli anni novanta, è stato
propedeutico a questo processo ed è stato la tomba dell'iniziale spirito
'internazionalista' della comunità, verso l'affermazione di uno spirito
nazionalista transnazionale; in secondo luogo il controllo della
transnazione nazionalista europea si è espresso attraverso la messa a
punto di lodi europei votati al controllo della spesa pubblica nei singoli
stati membri e del corrispondente debito pubblico. Il debito pubblico ha
sostanziato e legittimato la gerarchia composta tra gli stati – nazione
europei ed è diventato vera merce di scambio e strumento di ricatto posto
sotto il controllo dei membri al vertice della gerarchia auto – fondata.
La terza conseguenza dell'Europa come insieme di stati – nazione è nel
fatto che si è determinato proprio il contrario di quello che naturalmente
ci si sarebbe aspettati da un insieme di stati – nazione ben individuati:
una forte tendenza alla omologazione delle economie nazionali. La teoria
delle velocità molteplici all'interno delle economie dell'unione è
rapidamente naufragata, mentre si è affermata nella realtà l'integrazione
che ha imposto una sola misura di crescita, escludendo alcune aree, aree
(tengo a sottolinearlo) più che nazioni, dalla velocità dominante e il
destino di queste regioni / aree è quello di trasformarsi in bacini del
sottosviluppo, interessati da una recessione perenne, dove governa una
flessibilità del mercato del lavoro estrema, una politica di bassi salari
e una depressione dei consumi e della spesa pubblica senza alcuna
correzione o compensazione che non venga fornita, per alcune di quelle,
dalla presenza della malavita organizzata. Anche la malavita organizzata
entra in queste proiezioni e in queste contabilità: viene tenuta in conto.
Annotazione. Tanti anni fa, nella schematica e sotterrata dalla memoria
sinistra extraparlamentare italiana degli anni settanta, riguardo alla
comunità europea si era soliti affermare, in maniera volutamente rozza
(volutamente perché l'argomento era considerato marginale e ininfluente e
tale da non richiedere grandi investimenti analitici), che quella era
l'Europa dei padroni e che non era affatto il caso di aspettarsi nulla di
buono né tanto meno una sua formazione democratica e 'popolare', vale a
dire dal basso.
Quell'analisi aveva tutto il suo valore ed è stata confermata dai fatti e
dove non lo è stata non è perché, in qualche punto e aspetto, si sia
affermata una visione 'democratica' dell'istituzione europea ma
semplicemente perché i padroni europei degli anni '70 non esistono più,
cioè a dire il capitalismo è cambiato e quel capitalismo non è entrato
nella costituzione europea. L'Europa non è quindi diventata (come
immaginava quell'analisi rozza ma veritiera) una sorta di confindustria
transnazionale, priva di strutture rappresentative, parlamento e
commissioni, ma ha costituito sul serio un esecutivo transnazionale,
dotato di leggi, regolamenti e confini. Le forme con le quali i padroni
degli anni '70 determinavano la politica dell'Unione europea (quelle di un
accordo di cartello tra le diverse borghesie nazionali, come si
immaginava) sono state sostituite da quelle che nascono precisamente dal
loro contrario: la negazione delle borghesie nazionali, delle borghesie
in lingua.
Il capitalismo, non solo quello europeo, è egemonizzato da gruppi
economici e finanziari che sono intrinsecamente multinazionali (pensiamo
al vissuto imprenditoriale di Marchionne e alla parabola della FIAT da
Romiti a oggi) e che non perseguono un accordo tra nazioni (a quelli del
tutto indifferente) ma la costituzione di uno stato, un'istituzione (Negri
docet in Impero) capace di inquadrare le tradizioni economiche,
finanziarie e produttive dei singoli stati – nazione per ottimizzarle
all'interno di un contesto transnazionale che non è il risultato di una
sommatoria di nazioni ma di una riduzione a massimo comune denominatore
delle esperienze nazionali verso l'Europa e a minimo comune moltiplicatore
le esperienze dell'Europa verso il mondo capitalistico integrato
planetariamente.
Le nazioni come espressioni dei padronati nazionali non esistono più e il
capitalismo è diventato qualcosa di molto diverso dalle immaginazioni
intorno a borghesia, classe borghese come comunità contraddistinta
dall'appartenenza linguistica, da un preciso stile di vita, dal lavoro
direttamente speso nel comando d'impresa e da nomi e cognomi ben
individuati; comunità che, però, ancora, con una certa forzatura negli
anni '70, poteva essere intesa come appartenente alla nazione o meglio al
popolo e che condivideva con quello alcuni fondamentali tratti genetici e
si poteva descrivere come borghesia italiana, tedesca e via discorrendo.
Questa comunità, interna al popolo, si identificava, secondo la sociologia
marxista, in un complesso di interessi, che conduceva al profitto
personale, e in una serie di stati economici, rappresentati dalla
proprietà quasi esclusiva dei mezzi di produzione, individuandosi come una
classe. Come classe, anche l'analisi marxista lo anticipava, era
proiettata inevitabilmente oltre il profilo nazionale e tendeva a
emanciparsi da quello: la borghesia media e piccola, la piccola e media
impresa, rimaneva gioco forza legata a prospettive produttive
territorializzate e alla nazione, conservando un cuore popolare, la grande
borghesia, invece, usava l'inglese come seconda lingua, guardava alla
possibilità degli investimenti internazionali e a estendere
internazionalmente le potenzialità produttive delle sue imprese.
Il consiglio di amministrazione, semplice formalità legale per la piccola
e media impresa, paravento di una gestione personale della società,
diventava in quella grande una potenza autonoma dalla vera proprietà,
perdendo la relazione diretta con l'esistenza concreta del presidente o
dell'amministratore delegato. Come la proprietà si depersonalizzava, così
si deterritorializzava, culturalmente e produttivisticamente. Si trattò di
un passaggio verso la contemporanea forma del capitalismo che non ha
personalità, non ha proprietà personali, non costituisce una comunità
dentro la nazione e cessa di esprimere una classe nel senso marxista del
termine. La relazione tra capitale e lavoro è diventata una relazione
astratta e quasi ideale, denazionalizzata nella concretezza organizzativa
(le multinazionali) o nella delocalizzazione che insegue i vantaggi del
mercato del lavoro unificato a livello mondiale (le piccole e medie
imprese). Anche chi sapeva a malapena l'italiano e preferiva il dialetto
(pensiamo alla piccola borghesia leghista del nord est italiano) ha
abbracciato gli investimenti internazionali.
Il concetto di popolo e nazione non appartiene più al capitalismo
contemporaneo perché il capitale non si costituisce più come classe
dentro una nazione ma come un ceto, un gruppo omogeneo, un gruppo
dirigente indipendente dalla proprietà dalla quale è in parte
salariato e con la quale in parte condivide gli utili, mai legato
personalmente alla proprietà e senza nome e cognome precisato
pubblicamente, senza lignaggio: una classe operativa e quindi non una
classe, ma un gruppo contraddistinto da un particolare lavoro, il comando
di impresa.
Mercoledì, 28 gennaio
Annotazione. “Questa non è una matita”, era più o meno scritto in mezzo
alla valanga di immagini seguite all'attacco allo Charlie Hebdo. Non
sapendolo o volendolo sapere quel manifesto ripreso da Magritte diceva la
verità. Non si tratta affatto di una matita come pretende molta retorica
sulla libertà di stampa offesa, là dove la stampa non è affatto libera e
non usa la matita.
Direi che è utile soffermarsi sull'aspetto della matita perché quello
slogan, spot pubblicitario, contiene più verità di quante la sua ipocrisia
abbia mascherato, anche se usare categorie come verità e ipocrisia mi pare
inadeguato a quest'epoca ma compierò un balzo alle incrollabili certezze
categoriche, offertemi dalle medie inferiori.
Il colmo dell'ipocrisia è Magritte – dire la verità (non è una matita …
anche perché è solo un disegno di una matita) per affermare un'altra
verità (è la libertà di stampa) bugiarda.
Andiamo all'aspetto tecnico e fisico: chi usa la matita, oggi, nel
giornalismo e nelle procedure editoriali, nella 'creazione'? Nessuno più.
La matita è dunque solo una rappresentazione ideologica vale a dire la
rappresentazione della libertà di stampa occidentale.
Lasciamo da parte le considerazioni sull'esistenza del rappresentato,
concentriamoci sulla rappresentazione. Perché in qualche redazione si
sceglie di utilizzare questa metafora e perché ha avuta tanto successo? La
matita si inserisce perfettamente nel contesto pre – moderno dello scontro
che si vuole evocare. La matita è pre – industriale, artigianale,
precedente l'internazionalizzazione dell'industrialesimo, è il pensiero
che non è ancora diventato attività industriale, è il luogo precedente di
questa civiltà, la sua origine, precisamente come il fondamentalismo evoca
una civiltà che non ha conosciuto modernità.
Lo scontro, quindi, si ubica al di fuori di quest'epoca e attraverso una
trasversalità storica (della quale è traccia il riferimento a Magritte) al
di fuori della storia, il conflitto è il prodotto di due culture
contrapposte e destoricizzate e che possono essere facilmente antipodiche
proprio perché destoricizzate.
La storia della matita è stata una grande trappola (precisamente come la
'vera' pipa di Magritte), tra le altre cose di dubbio gusto estetico, per
non parlare di quello che è autenticamente accaduto, vale a dire di matite
di una libertà inesistente e della negazione di una libertà supposta,
della negazione di una cosa inesistente che collabora, in verità, alla sua
affermazione mistificata. Anche l'ultimo dei 'liberi pensatori' non crede
più alla libertà di stampa, anche se cerca di credere alla libertà di
pensiero, ma l'affermazione della sua esistenza è diventata una necessità
bellica.
rivedi
gennaio
Inizio
anno
Domenica, 1 febbraio
Sto leggendo, in parte rileggendo, Storia della lingua italiana / Bruno
Migliorini ; introduzione di Ghino Ghinassi. - Milano : Bompiani, 1997. -
5. ed, - (Saggi tascabili, 31). Opera del 1958 (se non vado errato) che
non credo troverà spazio in questi commenti e in questo diario. L'avevo
letta, nei suoi primi capitoli, con finalità strumentali (nel senso che
spesso la utilizzai come strumento, come attrezzo di lavoro, allo scopo di
conoscere la diffusione geografica del latino imperiale, la sua
evoluzione, le specificità 'regionali' e la struttura e diversificazione
del cosiddetto 'parlato') durante la stesura degli appunti sulla storia
romana.
Mi piacque l'approccio analitico mai perentorio e imperativo ma aperto,
invece, a contributi e visioni diverse e la conseguente precisione nelle
citazioni bibliografiche. In Migliorini la lingua è una struttura
reticolare, assomiglia al mercato commerciale, le parole e il loro uso
viaggiano insieme con gli uomini (i legionari, i burocrati militari e
civili, i mercanti, gli emigranti agricoli) subendo contaminazioni di
molteplici tipologie e su plurimi livelli.
Non sfugge all'autore l'importanza di Roma, della storia linguistica della
capitale nel primo secolo dell'era volgare, per la definizione di quella
del resto dell'impero, come non sfugge che dopo gli Antonini e già con
loro l'impero non è più monocentrico e sviluppa diversi centri di potere
(Antiochia, Alessandria, Lione, Arles e poi ancora Treviri, Milano,
Sirmio, Nicea, Nicomedia, Parigi e Costantinopoli) e quindi la storia
della lingua si fa policentrica e l'influenza dei sostrati provinciali
diviene importante in quella. Contemporaneamente, però, l'istituzione
imperiale rimane individuata singolarmente, rimane una sola, mentre le
parole viaggiano e si incontrano tra una regione e l'altra.
Questo ha comportato una differenziazione linguistica pre – romanza (area
gallicana, hispanica, italiciana, illiriciana,
africana) ma anche una forte omogeneità nel panorama di fondo. Il
latino parlato in Gallia era ben diverso da quello africano per moltissimi
elementi semantici, ma entrambi mantennero un'ossatura sintattica e una
base semantica comune, come analoga fu la tendenza nel rinnovamento e
nell'evoluzione, al punto da far scrivere di varianti dialettali. Più
forte si fece la diversificazione dal IV secolo in poi, dopo la
separazione amministrativa tetrarchica (le quattro prefetture e le dodici
diocesi), fino al punto di avere qualche indizio intorno alla sua
penetrazione e credito nella cultura scritta (Agostino scrisse alla madre
che non usava alcune espressioni del latino classico o di quello parlato
in Africa, perché in Italia non sarebbero state comprese). Solo allora il
latino parlato contamina il latino scritto, intendendo per quello la
lingua letteraria, filosofica e scientifica e non l'epigrafia e la
scrittura 'popolare' che già dal I secolo, fortunatamente per la ricerca
sul latino parlato, erano state influenzate dalla lingua usata nel
quotidiano.
Interessante, lo ribadisco, l'idea della lingua come struttura mercantile,
dove l'importazione e l'esportazione delle parole sono fondamentali per
definirla e dove sono anche importanti i modi e le forme di questi
'movimenti commerciali'. Agirono in questo movimento semantico i burocrati
e le alte gerarchie militari, avendo come naturali referenti le classi
agiate delle province e viceversa queste ultime influenzarono il
linguaggio della burocrazia e dell'amministrazione, dando vita a
contaminazioni elitarie e di nicchia, importanti nel latino scritto
ufficiale degli uni e degli altri. Le emigrazioni militari e agricole
determinarono un commercio di basso livello dove i nomi di piante,
animali, conformazioni geografiche, toponimi, strumenti di lavoro e
termini giuridici legati al lavoro furono oggetto di scambio.
Per il resto, con il coraggio dell'ottimismo e anche con una certa
curiosità, riprenderò la lettura della quarta parte di Impero.
Lunedì, 3 febbraio
Letture. Negri. Impero. Ma non è la teoria del crollo? Mi pare proprio la
teoria del crollo quella che viene fuori nei primi due paragrafi della
quarta parte di Impero. Negri immagina un'insorgenza 'spontanea', nel
senso di generata dalla stesso sviluppo del potere imperiale, o meglio del
lavoro sempre più socializzato, sempre più proiettato su una dimensione
comune, esistenziale, che si libera di quello che vampirizza il processo
lavorativo, il parassita, immediatamente inteso come tale. In questo
contesto l'Impero ricorda l'antiproduzione di Deleuze e Guattari
nell'Antiedipo, ma, al contrario che in quell'opera, il potere non ha la
capacità di creare investimento di desiderio su di sé ed è solo un'entità
'reattiva' che risponde alle sollecitazioni provenienti dal basso per
selezionarle al solo scopo di reprimerle.
Negri si chiede come l'impero non distrugga la moltitudine e cerca di
spiegarlo: ne ha bisogno, ha bisogno della sua negazione. La domanda da
porsi sarebbe quella opposta: come è possibile che la moltitudine,
generatrice di nuove solidarietà produttive e sociali, non decida di
liberarsi in pochi minuti del parassita antiproduttivo? La mia risposta è
semplice: perché l'impero non è solo antiproduzione anche se è anche
antiproduzione.
I termini di una relazione dialettica tra Impero e movimenti, di una
'misura', continuano, ereditati dalle forme di dominio precedenti,
nonostante Negri descriva il periodo imperiale come contraddistinto dalla
scomparsa del valore e della misura del valore del lavoro e la stessa
parabola del movimento no – global testimonia di questa continuità
dialettica (anche se di questa parabola so pochissimo, quasi nulla, poche
date e luoghi; il periodo che va dal 1995 al 2010 è stato per me un
periodo di assoluto distacco e rifiuto della politica, persino
dell'informazione politica). Il mio sincero sospetto, sempre rimasto nel backstage
durante la prima e la seconda lettura di Impero, è che il movimento no –
global sia il protagonista 'nascosto' delle teorie sulla Moltitudine e che
ci sia stata una sopravvalutazione della portata e del significato storico
di quel fenomeno, certamente importantissimo e inedito. Negri stesso
accenna alla selezione che l'Impero opera contro l'antagonismo e i suoi
movimenti, in verità sembra alludere a una divisione della moltitudine, a
una scelta e individuazione tra componenti assoggettabili e recuperabili
attraverso un investimento di desiderio sul potere e altre irriducibili a
questo processo.
Non entro sul merito della tematica (davvero datata e facilmente
storicizzabile) dell'incommensurabile, che sarebbe la forma attuale di
espressione del dominio (guerra nucleare, mercato e comunicazione, quindi
distruzione totale, sfruttamento viscerale e paura cronica) al quale si
contrapporrebbero altrettante forme incommensurabili di antagonismo,
ritengo, però, notevole la scoperta della morte del trascendente come
occasione di etica e politica; l'immanenza, il 'non – luogo', informa il
mondo globalizzato e ogni tentativo di rivalutare e riprendere una
costituzione politica fondata su concetti universali e trascendenti (i
sogni di ritornare al felice passato, al moderno se non al pre – moderno)
conduce inevitabilmente o alla dittatura, o meglio alla tirannia di massa,
o alla barbarie (a incubi, insomma, tra i quali potrei collocare l'attuale
califfato siriano e iracheno ma è un'immaginazione un po' troppo recente e
forse inappropriata).
La fine del trascendente e il trionfo dell'immanente non comportano, però,
hic et nunc, la fine della dialettica, come pensa Negri, se così
fosse l'Impero non avrebbe necessità di mascherarsi, sussumendo
istituzioni precedenti (stati – nazione, patti internazionali e in genere
il diritto pubblico internazionale); nessun impero o repubblica o
monarchia è stato solo reazione, risposta e repressione, anche se,
nell'Impero di Negri, reazione, risposta e repressione si dispongono su un
altro livello rispetto alla normale tradizione politica, un livello
antropologico, si articolano nel controllo di sé e della propria vita da
parte di ogni singolo individuo. Certamente la repressione capitalista
imperiale usa la forza molto più di prima e, novità assoluta, usa
normalmente la forza militare, quella espressa dagli eserciti, la polizia
passa in secondo piano (come magistralmente annota l'autore), ma questa
forza non è solo forza, energia repressiva, è congegnata, 'messa in un
congegno' antropologico e quindi è attiva. Non esiste più, e credo che
Negri potrebbe essere concorde, il classico discernimento tra informazione
ed energia nei componenti della repressione: informazione ed energia
costituiscono lo stesso congegno repressivo.
Ma non è la teoria del crollo? Rimane un interrogativo valido, anche se
stemperato nell'elaborazione di questa intima e breve polemica.
Mercoledì, 4 febbraio
Letture. Impero. La crisi della coscienza / cultura europea descritta
nella pars destruens dell'opera è inconfutabile: la
migrazione dell'avanguardia artistica da Parigi a New York, l'emigrazione
intellettuale che segna tutto il novecento, complice nazismo e fascismo.
Il 'doppio salvataggio' militare ed economico degli americani verso
l'Europa nella prima e seconda guerra mondiale (piano Daves e piano
Marshall) ne costituiscono l'aspetto strutturale. Infine il new deal
impose una visione 'democratica' dell'intervento dello stato
nell'economia, secondo la quale l'espansività e la libertà si alleano e
anticipano la tradizione imperiale (in sostanza una specie di futuro
anteriore rispetto a quest'epoca).
L'Impero, però, non è America, l'America non ne è il centro, l'Impero
(come l'antico impero romano al quale spesso si fanno riferimenti un po'
troppo stringenti e dunque forzati, ma gradevolmente adeguati) non è
nazionale, è transnazionale e le nazioni ne sono dei 'segmenti' più o meno
centrali, più o meno strategici; la struttura dell'Impero è reticolare.
La moltitudine è cooperazione sociale, lavoro, produzione (non uso del
lavoro), condivisione dei saperi e della scienza, valorizzazione immediata
di sé; la moltitudine prende in mano la produzione, senza appropriarsene,
perché e già sua, non è altro dall'Impero, perché non può che essere
interna all'Impero.
In questa interessante ipotesi individuo due punti critici: il valore
della produzione e il valore della scienza. Entrambi paiono neutri, fatti
in sé, non determinati da altro; se è vero che nel capitalismo
contemporaneo non esiste separazione tra produzione e rappresentazione,
tra realtà e ideologia, perché tutto entra a far parte della categoria del
produttivo (realtà e ideologia sono per certi aspetti prodotti spontanei e
naturali della cooperazione sociale e produttiva), contemporaneamente io
annoto ancora un'intelligenza attiva del dominio nel determinare la
produzione e la scienza, nel progettarla, nel fare in modo che si
manifesti in una determinata maniera anziché in un'altra, che si
perseguano alcuni risultati piuttosto che altri, che si costruiscano certi
assiomi piuttosto che altri. Il rapporto tra ideologia e produzione è
diventato tanto stretto da essere quasi indescrivibile come rapporto ma
questo non sottopone anche la produzione alle sue dinamiche intrinseche,
anzi, paradossalmente, il lavoro sulla produzione non è mai stato così
ideologico come nell'attualità. Questo significa che il capitale ha uno
strumento immediato e determinato per governare lo sviluppo, precisamente
come lo possiede la Moltitudine.
Le opportunità per la Moltitudine sono certamente molte: una scienza
parcellizzata e reticolare, la tecnologia a basso costo e
'democraticamente' distribuita, la cooperazione produttiva costitutiva
dell'intellettualità. Esistono però ostacoli notevoli: pensiamo solo alla
proprietà di gran parte del software, ai codici sorgenti inintellegibili e
al fatto che lo sviluppo e progettazione del software sono nelle
mani di grandi corporation 'imperiali,. Di contro si individuano libertà
notevoli: open source e dintorni. Ma anche qui lo sviluppo, che
è libero e si affida alla libera collaborazione tra gli individui, deve
affrontare il problema di un ambiente tecnico (standard, linguaggi, stili
di comunicazione) costruiti dalle corporation.
È un esempio, ma la strada verso la libertà è ancora una strada, alla fine
un 'luogo', un posto, da percorrere fuori dall'Impero, dentro l'Impero è
impercorribile. È necessario che si dia un esterno all'Impero affinché
l'Impero crolli, ci vollero anche solo pochi barbari (come quasi
sicuramente furono) perché la crisi dell'impero romano si manifestasse
alla storia; ci volle la crisi di consenso ma anche l'aggressione esterna.
Neutralità del lavoro e della scienza, cacciate mezzo secolo fa dalla
porta, rischiano di rientrare dalla finestra, costituendo la categoria di
lavoro professionale e professionalizzante, categoria interessantissima
per il dominio che si impegna a occultare la segmentazione semplificata
del lavoro immateriale, della quale ha estremo bisogno per governare e
predire i processi, ma che teme per le possibilità di rapida
ricomposizione della filiera produttiva che offre.
Giovedì, 5 febbraio
Letture. Impero. Alle volte ho la sensazione di una lettura pauperistica
del proletariato attraverso la Moltitudine; non tanto perché vengono
descritte nuove povertà quanto perché, nonostante l'impianto analitico
generale, quando gli autori scrivono concretamente di soggetti della
Moltitudine, per esempio dei migranti, si richiamano a categorie come il
diritto al lavoro, ai documenti d'identità (sans papiers), quindi
alla rivendicazione di diritti civili elementari, naturalmente sacrosanti;
dietro la rivendicazione di queste diritti la neutralità del lavoro e la
neutralità del diritto trovano nuova cittadinanza. Ma queste cose si
riducono veramente all'elementarità delle dinamiche del moderno e in parte
del pre – moderno.
Inoltre ho incontrato una riproposizione del pensiero dualista occidentale
(Platone, Plotino e Agostino) certamente in metafora, che, però, non aiuta
affatto a figurare una genesi dell'antagonismo dall'immanenza. Di fatto
Negri e Hardt non spiegano questa genesi, la pongono come inevitabile, la
postulano.
Venerdì, 6 febbraio
Letture. Storia della lingua italiana. La dove si tratta del viaggio delle
parole dopo la fine dell'impero romano e della difficoltà di ricostruire
questo viaggio tra recuperi, relitti, parole che potrebbe essere di
importazione franca (e quindi dell'VIII e IX secolo) oppure dei recuperi
tardo – medioevali (per influenza della cultura e legislazione feudale
francese). Pochissimo sviluppato è l'apporto di goto e longobardo. È ben
chiaro un modo di intendere la lingua come sistema, sistema aperto,
evidente soprattutto quando la dimensione linguistica si localizza, come
nell'altomedioevo: le lingue si trasformano per scambi interni, una sorta
di mutazione locale, ricollocazione non priva, mai, di contributi esterni.
La lingua è il prodotto di stratificazioni diacroniche il cui studio è
simile allo studio della storia attraverso l'archeologia, mentre la sua
storia ricorda quella che costituisce l'urbanistica. Dentro la lingua è
possibile reperire, come attraverso l'archeologia dentro la storia, quello
che la storia ufficiale, monumentale raramente e solo accidentalmente
registra: la cultura materiale, le relazioni sociali nella loro
espressione quotidiana, nel loro vissuto.
Questa concezione archeologica della lingua, come effetto del contributo
sincronico di cultura materiale, diritto privato e pubblico, attività
produttive e commerciali, quasi tutte da scavare, da tirare fuori dal
contesto linguistico oggi in uso per collocarle nel contesto originario, è
vivace e necessariamente interdisciplinare.
Penso sotto questo punto di vista alla sedimentazione linguistica del
longobardo, poverissima di apporti e sopravvivenze; lo studio di questa
rarità linguistica ha però consentito di definire meglio la tipologia
dell'insediamento longobardo nella società italiciana del VII e
VIII secolo. La toponomastica ci ha lasciato numerosi derivati della
radice sal (grande aula) che definiva luoghi di insediamento
istituzionale e fondiario: la loro distribuzione sul territorio in aree
schiettamente agricole testimonia della ruralità dell'insediamento e
dell'organizzazione territoriale longobarda in Italia. Molte altre parole,
sopravvissute nei toponimi, non fanno che rafforzare quest'immagine; si
tratta di radici votate a descrivere la conformazione del territorio e la
natura dei luoghi, come moia palude, gard giardino e
orto, gazzo pascolo. Anche le poche parole che restano del
longobardo nell'italiano (tra le quali panca e se non erro vanga)
introducono una contaminazione linguistica svolta tra le classi povere
della società e segnalano così una vicinanza sociale tra gli indigeni e i
nuovi arrivati, un'integrazione di basso profilo sociale e, probabilmente,
il fatto che i Longobardi, pur espropriando (secondo tutte le fonti
storiche ufficiali) il grande latifondo di ascendenze tardo – romane
non operarono il genocidio da quelle denunciato, ma una politica
dell'assimilazione e probabilmente una redistribuzione delle risorse
agricole anche a favore dei coloni, servi e fittavoli tra gli indigeni.
Sabato, 7 febbraio
Annotazione. Ai margini. Spinoza nell'etica e cose più in generale.
Qualche tempo fa me l'ero ripromesso e, riprendendo in mano la faccenda
per implementare il sito, mi è tornato alla mente con una certa forza:
dopo Spinoza e l'alcol, Spinoza e la politica rivoluzionaria.
L'incontro con Spinoza è stato eminentemente scolastico, avvenuto al
liceo, secondo il libro di testo e l'interpretazione del professore.
Inevitabile, a quell'età, la messa in produzione di quella nuova
conoscenza nel concreto interesse che dominava la mia attualità: la
trasformazione rivoluzionaria della società, la rivoluzione comunista. Non
parlava solo Spinoza, ma insieme con esso Cartesio, Leibniz, Berkeley e,
andando all'anno scolastico precedente, emanavano fascini Aristotele e,
soprattutto, Plotino.
In generale più che di Spinoza e la rivoluzione dovrei scrivere del razionalismo
e la rivoluzione. Il principio assolutamente interessante era
quello di causalità: le cose non avvengono per caso, ma secondo
una necessità.
Ancora più importante era, nel razionalismo seicentesco e nel pensiero
classico, l'idea che questa causalità, quest'ordine causale, conformava e
costituiva le forme del pensiero. Le cose, gli eventi, le situazioni
sociali ed economiche e la coscienza, vale a dire il pensiero,
percorrevano strade parallele: l'idea di Dio come elemento assolutamente
trascendente, ad esempio, era il risultato di una nuova astrattezza
raggiunta dalle relazioni sociali, rinforzata dalla diffusione di un
equivalente universale come è il danaro e i suoi 'derivati', che erano
prodotto e causa di questa astrazione; l'astrazione sociale si
perfezionava attraverso il danaro mentre il danaro aveva bisogno di una
sufficiente astrazione per affermarsi. Oppure l'idea stessa di Dio,
presentata nel 'movimento razionalista seicentesco' da Spinoza,
determinava la discesa del trascendente nell'immanenza, pensiamo al danaro
che entra nella monarchia assoluta, nella realtà pensata del danaro stesso
e della politica, non più come astrazione ma come concretezza.
Rimaneva, comunque, la potenza 'rivoluzionaria' della mente e della
ragione, delle loro regole (causa ed effetto) come riflesso e coincidenza
delle regole delle cose, riflesso di un ordine e di un telos nel
mondo che era quello di un rischiaramento razionale COESSENZIALE a una
liberazione concreta e materiale. Spinoza, in verità, non avrebbe
sottoscritto neanche uno di questi punti analitici, ma era lo spirito
della filosofia del seicento a invadere il pensiero rivoluzionario e a
rendere possibile, anzi inevitabile, la rivoluzione.
Lo scambio tra POSSIBILE e INEVITABILE è indicativo di una
teleologia che, in modo incauto, riproponeva il trascendente, fingendo di
occuparsi e di generare solo dall'immanente. Certo non fu, però, un
inutile esercizio intellettuale.
Il razionalismo imponeva un ragionamento complessivo, anche se nella
concretezza storica non l'aveva realizzato: toccava a noi compiere
quest'opera, utilizzando gli strumenti analitici che il razionalismo ci
aveva offerto. Potevamo farlo perché ce n'erano i presupposti proprio in
ragione delle assiomatiche del razionalismo, confortate dallo storicismo
romantico, in base alle quali gli eventi, le istituzioni, i movimenti e i
processi storici della modernità richiedevano e, in parte, spontaneamente
producevano il dominio organico della ragione sul mondo e l'isomorfo
organico (complessivo) intervento sul mondo.
Continuando a scrivere ovviamente solo per me, annoto che fu
un'ubriacatura adolescenziale non priva, però, di numerosi pregi.
L'impianto razionalistico permise di accettare, con una certa naturalezza,
la critica alla neutralità della scienza e all'idea stessa di scientifico
in quanto si presentavano solo come prodotti della ragione umana mai
inconfutabili; quest'atteggiamento critico si estendeva rapidamente anche
allo storicismo e a Marx economista, verso i quali i debiti iniziali
furono notevoli. Marx, però, con il suo vissuto (con la sua opera che era
inseparabile dal suo vissuto, dall'epoca nella quale era stata scritta)
rappresentava il culmine dell'ambito finalistico del pensiero e della
teleologia, l'incarnazione della necessità di 'saltare il fosso' dello
storicismo. Questo 'salto del fosso', però, non era per niente l'effetto
di una decisione, di un atto di volontà libero e autonomo, e andava,
invece, inquadrato in un'ulteriore necessità razionale e storica.
Il finalismo, pur conservandosi, perdeva il suo ordine, la sua simmetria
rispetto all'evoluzione del pensiero e della coscienza e si edificava un
divario, un distacco, come quello che Aristotele aveva descritto tra
potenza e atto. Il pensiero, in quest'ottica, era la potenza che, pur nata
dall'atto, desiderava produrne un altro ancora più adeguato rispetto
all'ordine finalistico e quindi interveniva in quello, modificandolo.
La lineare e meccanica relazione tra cose e pensiero veniva meno, ma,
contemporaneamente, se il pensiero diveniva autonomo dalla realtà delle
cose, autonomo non nella genesi ma nella sua evoluzione, poteva allora
scoprire una nuova indagine sulla realtà, un nuovo modo di analizzarla.
Dopo la scienza anche la realtà perdeva la sua neutralità e oggettività.
Si trattava, allora, di tornare all'illuminismo con vesti nuove,
sabotandolo: tornare al ragionamento della mente su sé stessa con lo
spirito di un razionalismo disincantato.
Il secondo pregio di questa ubriacatura intellettuale fu, infatti,
l'immediato rifiuto dell'illuminismo in quanto movimento, che non
pretendendo di spiegare il mondo, in verità, lo lasciava indisturbato e
'inventava' un nuovo mondo, limitato e compatibile con la mente che
ragiona su sé stessa, ignorando bellamente l' <<altro mondo>>.
L'illuminismo, criticando la metafisica, istituiva un precisato repertorio
per la conoscenza, piantava pali, steccati e limiti, secondo il discrimine
di quello che era intellettualmente indagabile. La critica all'illuminismo
si esercitava non tanto contro la necessità di usare un discrimine ma
contro questo discrimine; per riprendere Voltaire, criticamente, chi e che
cosa istituisce il 'tribunale della ragione', quali leggi dovrà applicare
questo tribunale e, soprattutto, come si definisce l'imputato, vale a dire
la ragione?
Innalzando nuovamente le bandiere del razionalismo seicentesco e
soprattutto riprendendo il pensiero di Spinoza (che è veramente l'unico
autore in quello capace di tener testa all'illuminismo), era necessario
stabilire una nuova relazione tra cose e ragione e porre la ragione a
cosa, a una cosa tra tutte le altre cose. Questa cosa ha, però, la
capacità di definire sé stessa come cosa tra le cose e il discrimine che
deve usare rispetto a sé stessa non deve essere determinato
aprioristicamente e fissato una volta per tutte ma dev'essere un limite
mobile, provvisorio, e come tale non un limite, ma qualcosa di simile a un
orizzonte che si sposta a seconda di come lo sguardo lo inquadra. Di qui
il successivo fascino della scoperta dello specifico nel lavoro
intellettuale, non come 'specializzazione' scientifica del sapere, ma come
strumento per definire un terreno del sapere, costituire il tribunale
della ragione e il suo imputato secondo termini cangianti: una specie di
nuovo illuminismo o neo – illuminismo.
Nonostante la distanza abissale, quasi antipodica, ho sempre pensato che
Nietzsche sia stato un prodotto molto diretto dell'illuminismo e il primo
'neo – illuminista' (prima di Foucault, Deleuze, Guattari, Baudrillard,
Barthes ma anche Bloch, Duby; quello che io chiamo neo – illuminismo è un
movimento trasversale costituito da elementi non una categoria compiuta);
il criticismo nietzschiano è votato a enucleare un preciso campo del
sapere, inteso come complesso di cose e ragione; Nietzsche rende la
gnoseologia il suo imputato e quindi il sapere sull'informazione e il
sapere come complesso di informazioni, fino al punto di individuare come
oggetto del suo tribunale particolare la ragione come complesso di
elaborazioni sulle cose, come complesso di dati, e di ridurre le cose a
dati e a interpretazioni e non a cose in quanto tali, elementi
'scientifici'.
La specificità della scienza è la generalità della ragione in Nietzsche,
generalità letta in chiave ovviamente critica. Pulito da molta
visionarietà, ma anche interpretato attraverso quella, e da molti debiti e
fascinazioni verso il misticismo orientale (anche se spesso messo con
straordinaria efficacia in competizione e relazione gnoseologica con
l'impianto del pensiero scientifico) Nietzsche è un filosofo della scienza
che diventa, proprio grazie all'orizzonte critico che si è dato, filosofia
della morale, estetica ed etica: il limite è mobile e l'illuminismo è
sepolto, ridicolizzato e sabotato.
L'orizzonte (giacché siamo in metafora visiva restiamoci) del razionalismo
scolastico rinnovato rimane legato alla conoscenza e all'uomo, come
possibile fonte di felicità per quello, operatività, azione e
trasformazione della realtà; l'orizzonte dell'illuminismo è invece quello
della definizione di un schema umano che, in quanto schema gnoseologico, è
indirizzato unicamente a registrare la realtà, producendo pensiero
scientifico, scienza economica, descrizione passiva (scambiata per
oggettiva) della realtà e brevi riforme (di breve respiro) della realtà.
L'illuminismo non esercita un'interrogazione generale sulla realtà, quindi
sull'umano e quindi sulla conoscenza.
Infine torniamo al 'pensiero rivoluzionario e Spinoza', tema iniziale. Lo
ribadisco, per me fu naturale questa relazione anche se la estesi,
arbitrariamente, a tutto il 'movimento razionalista seicentesco' e a parte
del pensiero filosofico classico. La coalescenza tra ontologia e
gnoseologia è ancor oggi per me fondante ogni sistema di pensiero che
pretenda di governare il mondo, con la consapevolezza aggiuntiva che si
sta esprimendo un 'governo', cioè un'azione autoritaria sulle cose,
abbandonando l'ipocrisia illuminista del governo come naturale prodotto
della comprensione autentica. La convinzione negli illuministi (e può
essere solo tale) di aver compreso la realtà, dopo avere ridotto e
delimitato il campo di analisi, è la proposizione della metafisica su
scala ridotta, in versione miniaturizzata.
La certezza rivoluzionaria della necessità di governare il mondo, di dare
a quello una spiegazione, che non pretende comprensione autentica, nasce e
deve nascere da specifici saperi; questi specifici saperi si devono
ricomporre. Senza usare storicismi intorno alla composizione di classe e
allo sviluppo del capitalismo (che pure sarebbero adeguati) ritengo che il
pensiero rivoluzionario deve e ha dovuto ricomporre i diversi saperi (il
grado di facilità di questa ricomposizione dipende certamente da fattori
storici e la ricomposizione stessa è un fatto storico) con una certa dose
di volontarismo, con una scelta, una decisione personale, una decisione singolare
(per usare un bel aggettivo di Negri in Impero).
Nessuno ha evidentemente in mano la sua vita e nessuno ha completa
indipendenza intellettuale, ma ricordiamoci del divario tra potenza e
atto, divario che si ubica sul terreno del possibile (non dell'utopia) e
non su quello della assoluta libertà (che sarebbe il campo
dell'impossibile); ognuno può decidere che un particolare segmento di
sé si svolga in maniera consapevolmente determinata, quasi che (e
sottolineo il 'quasi che') non avesse padri, eredità, momenti precedenti.
Indipendenza e libertà sono parole vuote, ma quando si riconosce
questo e che è necessaria un'azione di forza, un''azione di 'governo',
per comprendere la realtà, senza pretendere di comprenderla, allora si
lascia da parte la mitologia dell'indipendenza e della libertà per
arrivare vicini proprio all'indipendenza e alla libertà, acquisendo
il coraggio e anche la felicità di costruire la verità (la famosa massima
della verità come lingua dagli infiniti accenti).
Facilmente questa visione può essere etichettata sofistica. La sofistica
ha avuto i suoi meriti e la sua verità; tra i suoi meriti quello di
essersi opposta al pensiero socratico e anche quello di aver avanzato il
problema della verità non in maniera astratta ma in coerenza con la realtà
storica e politica di Atene, quindi di avere difeso la tradizionale
concezione della verità come risultato del dibattito, dello scontro e
della dialettica, intesa quest'ultima, come sistema di relazione aperto.
La levatrice di Socrate è un sistema chiuso: ha già uno scopo la nascita e
un obiettivo il bambino. La maieutica socratica è una teleologia, un fine,
non è una via. La verità in Socrate è già data, ancora prima di essere
indagata, nonostante Socrate nasconda questo dato in tutti i modi lui
conosciuti e a ragione perché si trattava di un dato scandaloso: la
mentalità ateniese, infatti, era del tutto estranea a un'idea di verità
che si trovasse al di fuori della ragione, come obiettivo mistificato di
un ragionamento apparente, che è lo scopo nascosto di Socrate. Secondo
l'accezione negativa che il termine ha assunto, il vero sofista fu Socrate
e non casualmente fu spesso scambiato per un sofista estremo.
Effettivamente Socrate fu un tipo nuovo di sofista, fu un sofista che
stabiliva la verità ma si rifiutava di dirsene produttore.
La verità è, al contrario, un prodotto, spesso ottenuto al di fuori dei
libri, è un prodotto collettivo, perché risultato di un
complesso di sistemi.
La verità è quella cosa che riesce a spiegare in un determinato tempo e
spazio quello stesso tempo e spazio, lo definisce e, appunto, lo governa.
Per farlo deve avere una relazione autentica con quegli spazi e tempi, sia
quando li costruisce, sia quando li definisce. La verità ha qualcosa di
divino: crea le cose e le idee. Sotto questo profilo la mia ipotesi sulla
verità è un'ipotesi sofista.
Spinoza e la sua chimica dei sentimenti potrebbe essere chiamato in causa
per spiegare uno dei concetti cardine della politica rivoluzionaria del
secolo passato: la coscienza di classe. Coscienza di classe è stata
un'idea precostituita, presupposta, ma mai interpretata, estrinsecata,
almeno nelle letture che ho fatto. In generale il concetto potrebbe essere
sinteticamente così riassunto: la coscienza di classe è e nasce dalla
consapevolezza dei propri bisogni e dalla consapevolezza che questi
bisogni hanno natura collettiva e sono comuni a quelli di altri uomini e,
infine, che definiscono una comunità; questa comunità è caratterizzata da
una medesima situazione di dipendenza sociale, dalla dipendenza per la
sopravvivenza e per la riproduzione dal lavoro salariato. Questa, credo,
la teoria classica intorno alla coscienza di classe. Secondo la visione
comunista, la coscienza di classe si diffonde spontaneamente tra i
soggetti sussunti al lavoro salariato, inducendoli all'organizzazione
comunista, all'organizzazione politica che, però, oltrepassa la coscienza
di classe inquadrandola in una dimensione più ampia in base alla quale
questa non è più l'elemento decisivo dell'organizzazione.
Le trasformazioni nella composizione del proletariato e nelle forme del
lavoro salariato dopo gli anni sessanta hanno messo a dura prova questa
concezione lineare, di crescita e 'maturazione' graduale dall'individuale
al collettivo per giungere al politico e infine all'ideologico.
Quel meccanismo di crescita e maturazione (questa enunciazione descrittiva
della crescita e della maturazione) ha funzionato per quasi due secoli,
bene nella prima fase del movimento comunista, molto meno bene durante
l'esperienza dei partiti nazionali e nuovamente bene dopo la seconda
guerra mondiale; dagli anni '70 parrebbe avere cessato di funzionare, o
meglio di esistere proprio, sembrerebbe essersi dissolto.
Da allora la tendenza non è più quella di realizzare una
collettivizzazione dei bisogni che risulta quasi impossibile ma quella che
partendo da alcuni bisogni individuali e singolari può seguire due strade:
la costituzione di una comunità relativa a questi, da dove la loro
originalità e specificità viene ribadita e preservata, oppure
l'affermazione di una prospettiva generale che sottintende i bisogni (che
diventano un segnale, un simbolo, di un problema più generale e non il
problema di fondo da risolvere). Nell'Italia degli anni '70 queste due
tendenze si sono manifestate prematuramente in due fenomeni ravvicinati e
imparentati: il movimento femminista e delle autoriduzioni del 1976 (per
quanto riguarda l'affermazione della individualità dei bisogni) e il
movimento del 1977 (per quanto riguarda la seconda strada, quella del
sotto intendimento).
In entrambi i casi è venuto a mancare lo spazio, il terreno di coltura del
movimento riformista e sindacale come pure quello dell'organizzazione
rivoluzionaria. Da allora in poi le lotte sono state spesso dirompenti ma
settorializzate, corporativizzate e si sono risolte in 'sé stesse', oppure
hanno assunto un aspetto generale che ha usato un problema concreto, una
tematica particolare (anti – nucleare, anti -imperialismo, ecologia,
dominio monopolistico dei mass – media) per rappresentarne molte altre,
costituendo quasi una simbologia dell'opposizione e dell'antagonismo; in
entrambi i casi ci troviamo ben lontani dalla tradizionale, anche se
generica e estremamente ambigua, idea di coscienza di classe. Per di più
questa nuova fase è stata, a mio parere, superata, dopo il declino del
movimento no – global, da un ulteriore momento, ancora più frammentato a
scomposto, irriducibile a tematiche generiche, ma anche a qualsiasi
immaginazione sul mondo, per quanto settorializzata. Questo, almeno negli
ultimissimi dieci anni.
Domenica, 8 febbraio
Annotazione. Il termine stesso 'coscienza di classe' è quasi uscito dal
vocabolario, ancora di più che 'lotta di classe'. Questo dipende dal fatto
che il concetto – base di 'classe' ha perso diritto di cittadinanza (Negri
stesso in Impero, usa raramente il termine) ma anche dal fatto che il
concetto di 'coscienza' è sempre più divenuto inviso e guardato con
cautela e sospetto (e va sottolineato con ragione) anche da chi non ha
abbandonato il termine congiunto di classe.
Insomma 'coscienza di classe' è un anacronismo, un repertorio
dell'archeologia delle idee (almeno questa è la mia sensazione che
potrebbe ovviamente essere fallace) ed è certamente un concetto debole e
svuotato: 'coscienza' rimanda a un'impostazione idealistica delle
percezione della realtà secondo la quale il soggetto si separa dal suo
oggetto, lo definisce come altro da sé e rifiuta la contaminazione con
quello, mentre 'classe' si riduce a essere un concetto sociologico,
storico, cristallizzato su una specifica fenomenologia sociale e
produttiva.
Questo è uno dei moltissimi risultati del processo che, insieme con Negri
e il suo Impero, si potrebbe definire il 'superamento della modernità'.
L'operaio professionalizzato e l'operaio dequalificato sono scomparsi ed
erano stati loro a ricostituire il concetto di classe, come complesso di
bisogni ed esigenze che si coordinavano intorno a un soggetto centrale e
trainante, capace di dare a questo una fisionomia, una razionalità e un
fine. L'idea di coscienza, portato dell'approccio romantico del XIX
secolo, si è esaurita nel conflitto con altri termini (penso a
immaginario, vissuto, consapevolezza, cultura e soggettività) ed è stata
questa una sconfitta prevedibile perché il termine aveva perduto il
significato originario di partecipazione a una conoscenza comune (cum
scire), acquisendo quello, insopportabile, di alta
consapevolezza, conoscenza scientifica di un oggetto e sapere
vero su quell'oggetto.
I due termini, la contemporanea crisi di entrambi lo prova, vivono della
stessa luce, o meglio hanno vissuto o ancora meglio sono stati collocati
nella stessa luce, e si sono presentati come inscindibili, in quanto a una
determinata classe (composizione di classe e tipologia operaia)
corrispondeva una determinata coscienza. Era un legame legittimo anche se,
manipolato (ed era facilmente manipolabile), ha prodotto molti orrori
intellettuali e politici. Fino a quando, infatti, il collegamento rimaneva
vincolato alla materialità delle lotte e degli antagonismi funzionava e
bene, ma quando (solitamente l'operazione fu ideata, amministrata e
confezionata dai grandi partiti riformisti o stalinisti e da quasi tutte
le centrali sindacali dei due secoli che precedono questo ma ha anche
affascinato qualche gruppo o frazione rivoluzionari della stessa epoca) si
allontanava da quelle, il legame diveniva quasi unidirezionale e il polo
della coscienza subordinava quello della classe, assumendo l'aspetto di
una rappresentazione della classe e non l'originaria struttura di una
percezione collettiva e costitutiva. Molto giustamente, tra gli anni
sessanta e settanta del novecento, si è sviluppata una sorta di critica
operaia all'idea di coscienza di classe, critica non scritta ma praticata
attraverso l'ovvia contestazione dei vertici sindacali e delle direzioni
dei partiti storici della classe operaia e attraverso la molto meno ovvia
critica al ruolo degli intellettuali nella società e nella militanza
politica professionale di ispirazione terzo – internazionalista che allora
era sinonimo di militanza comunista.
In verità il primo artefice della crisi del concetto di coscienza di
classe fu proprio la spontaneità operaia e proletaria (poiché la classe
seppe ricomporsi in quella) degli anni sessanta e settanta e il trapasso
dal moderno al post – moderno non fece che sussumere e riassumere in una
nuova ideologia sulla classe e la coscienza questa contestazione.
L'ideologia del capitale usò la critica operaia anche per rivedere il
concetto di classe, fortissima questa tendenza nel neo – liberismo che fa
spesso riferimento indiretto a questa 'libertà' e ostilità operaia verso
le strutture di partito e apparati sindacali.
Non bisogna, comunque, avere nostalgie (anche se, qualche volta la
nostalgia può essere utile) e quindi non è il caso di rimpiangere
coscienza e classe ma, riprendendo il filo della memoria, individuare il
vuoto (apparente o reale) che la loro scomparsa ha lasciato. Questo
insegnerebbe molte cose.
A mio parere esiste un vuoto oggettivo nel senso che la scomparsa dei due
concetti ha registrato il venir meno di alcune cose, non tanto
dell'operaio di fabbrica in occidente, quanto della capacità ricompositiva
che quel soggetto possedeva e che si dava anche in termini di 'coscienza'
e di 'classe'. Il concetto di classe, nella migliore tradizione comunista,
non è un concetto sociologico ma politico: la classe non esiste fino a
quando non si riconosce come tale, non si 'predica' come tale e non agisce
come tale. Alla base del concetto non sono determinate condizioni di
lavoro e rapporti contrattuali che rappresentano solo gli elementi
oggettivi del concetto, ma la consapevolezza che la condivisione di quelle
condizioni di lavoro e rapporti contrattuali produce comunità,
individuazione e separazione dal resto della società e del popolo, quindi
produce soggettività, la soggettività del concetto.
Nel marxismo la soggettività è oggettività e il concetto di classe è
stato, conseguentemente e giustamente, tanto soggettivo quanto oggettivo.
Se oggi, scendendo nel concreto, analizziamo i comportamenti della classe
operaia dell'occidente, quella che è impiegata nella fabbrica residuale,
ci accorgiamo che sono tutti fondati e non possono andare oltre la difesa
della propria esistenza residuale, dell'occupazione e del posto di lavoro;
l'elemento oggettivo di un eventuale e proiettato concetto di classe di
questo strato operaio sarebbe quello della conservazione del lavoro
salariato, della sua difesa e la soggettività del concetto si ridurrebbe
al diritto al lavoro salariato, spesso di un salario a qualsiasi
condizione (pensiamo al caso FIAT di Melfi). Nulla di deprecabile, è un
segno dei tempi, ma è assolutamente impensabile costruire un concetto di
classe su una soggettività che non riesce a uscire dai cancelli di una
fabbrica che chiude o che continua a voler chiudere. Se la lotta vince e
si evita il licenziamento, la lotta è finita e si è evitato il
licenziamento, la soggettività si fermerà, e si è fermata, qui. Non si può
neanche scrivere che, rispetto al passato, il meccanismo della creazione
di soggettività di classe tra gli operai si è inceppato, ma è più
coraggioso scrivere che questo meccanismo non esiste più.
Prendo un altro esempio, uno dei pochi esempi che posso annotare dopo anni
di rifiuto della cronaca e dell'informazione politica, il movimento delle
donne di Cornigliano del 1989 o quello di Taranto in sostegno
dell'iniziativa dei giudici dell'anno passato. In entrambi i casi, tanto a
Genova quanto in Puglia, i quartieri popolari vicini alle acciaierie
protestarono contro l'inquinamento provocato dalle lavorazioni
siderurgiche a caldo ed entrambi i movimenti, rivendicando una migliore
qualità della vita e una riqualificazione del territorio e dello spazio
per essa, stabilirono una priorità di valori: la difesa del lavoro
salariato (l'operaio delle acciaierie) viene dopo la qualità della vita
nel quartiere. Esigenze tipicamente 'proletarie', intendendo per quelle i
bisogni che investono la vita, il tempo libero e la tutela della salute si
anteponevano al bisogno della classe operaia residuale e addirittura si
contrapponevano, anche perché l'imprenditore ha cercato in entrambi i casi
di ricavare il massimo profitto politico dalla vicenda. Eppure, nonostante
l'embrionale e notevole proposizione di una 'scala di valori etici' nei
confronti del lavoro salariato, entrambi gli episodi si sono ridotti a
essere un momento di mobilitazione incapace di andare oltre sé stesso, una
specie di corporativismo ecologista nel quale la difesa della salute
sostituiva la difesa del lavoro salariato operaio, provocando spesso
tensione con gli operai occupati nello stabilimento siderurgico. Anche qui
il meccanismo si è fermato: le agitazioni sono rimaste limitate
territorialmente e non hanno focalizzato una problematica generale sui
rapporti tra territorio e lavoro. Il meccanismo si è fermato anche se
esisteva la possibilità di rimetterlo in moto, di costituire una
'coscienza', una generalizzazione e una comunità corrispondente; in questo
particolare caso il meccanismo c'è ancora e potrebbe funzionare ma è molto
difficile rimetterlo in produzione.
Sono stati molti i casi simili a questi di Genova e Taranto in Europa.
Soprattutto la Germania degli anni ottanta ha vissuto un notevole ciclo di
lotte 'proletarie' svolte sulla tematica della vivibilità del territorio,
del suo controllo democratico, producendo a tratti elementi di coscienza,
di soggettività spesso molto radicati localmente; ma anche qui, questa
soggettività, che spesso prendeva con sé in forma chiara il rifiuto del
lavoro salariato, non si è sedimentata e non è uscita da sé stessa, non ha
ricostituito l'immagine della classe e la sua 'coscienza'. Eppure in
questa seconda tipologia di movimenti, quelli 'proletari' sul territorio,
possiamo individuare un processo formativo e strutturante che non viene
condiviso da quelli operai, che, non casualmente, ha lasciato un più o
meno forte segno di sé a livello istituzionale ed elettorale in Germania
con la formazione della forza politica e parlamentare dei Verdi, e anche
in Italia, dove il movimento antinucleare ha certamente ottenuto un
successo ideologico e simbolico notevole, che si è realizzato, complice
l'effetto Cernobyl, complice ma non protagonista, nel plebiscito
referendario di fine anni '80.
Importante è notare che, proprio in un discorso sulla coscienza di classe
e la sua eventuale attualità, l'emergere di soggettività operaie
cristallizzate sul diritto alla conservazione del posto di lavoro e
soggettività sedimentate intorno al controllo diretto e democratico del
territorio ha prodotto paradigmi soggettivi 'liberi', per alcuni versi
orfani di una prospettiva precisata, di un progetto generale, di un telos,
il che è un bene perché ci troviamo di fronte a una soggettività
multipotente in quanto libera ma è anche un rischio in ragione del fatto
che la nuova destra sta cercando di combinarsi con questi enzimi. La nuova
destra ha costruito una sua edizione della 'coscienza di classe'; non sono
del tutto politicamente insensati e ottengono un certo credito di massa,
ambiguo e contraddittorio, gli appelli al valore del lavoro operaio
'nazionale', distrutto dalle multinazionali e dalla internazionalizzazione
del mercato delle merci e del mercato del lavoro, ma anche alla difesa del
territorio, secondo un'ideologia che lo riduce a museo proprio e privato
della comunità alla quale appartiene. Dove esistono delle contraddizioni
reali possono crescere dei movimenti reali ma nulla vieta che si diano
movimenti (coscienze) apparenti.
Il movimento di occupazione degli appartamenti che ormai è divenuto
endemico in Europa, almeno dagli anni sessanta del secolo scorso,
rappresenta un terzo genere di manifestazioni della 'classe' e della sua
coscienza.
Anticipo che conosco pochissimo il fenomeno anche perché (e questo è un
dato interessante) ignorato il più possibile dai media che sono la mia
unica fonte di informazione attuale. Si tratta di occupazioni passive
(inquilini che resistono allo sfratto) e attive, gente che si appropria di
alloggi sfitti; il fenomeno riguarda le aree metropolitane più grandi
(Roma e anche Milano). Al contrario di quanto comunemente si pensi,
protagonisti di questi episodi sono senza – casa indigeni, il più delle
volte accompagnati da homeless migranti e quasi mai solo emigrati. È la
vecchia lotta per la casa e per il reddito sul quale i costi
dell'abitazione non devono pesare. Il meccanismo, in questo caso, della
creazione di una soggettività generalizzata, se non di una tradizionale
'coscienza', pare funzionare ancora, almeno in parte e per quanto possa
conoscerlo: l'occupazione o la resistenza allo sfratto mettono in
discussione il diritto di proprietà, pongono a quello dei limiti sociali,
limiti di utilità sociale. Un'occupazione di case è molto di più
dell'occupazione di una fabbrica in chiusura, perché una fabbrica che
chiude ha perso 'virtualmente' il suo proprietario, mentre nel caso delle
abitazioni è l'occupazione di uno spazio vivo, di un luogo economico (più
spesso di rinvestimenti finanziari) e di un luogo di vita che spesso, per
logica di cose ma anche per scelta spontanea, diviene posto nel quale si
esercita solidarietà, collaborazione e condivisione di risorse ed
esperienze. Nella fabbrica occupata contro i licenziamenti questo non
avviene, si rimane ancorati, infatti, alla tradizionale esperienza
lavorativa e alle relazioni stabilite in essa e accade solo in minima
misura nelle lotte sul territorio (per come si sono fino ad adesso
realizzate e per quanto ne sono informato).
Adesso pensiamo a questo e questo potrebbe essere una metafora e il
paradigma della costituzione di una coscienza e di una classe, di un nuovo
legame tra i due termini che li rende anche diversi. Pensiamo, quindi, a
una fabbrica che chiude e licenzia gli operai, pensiamo alla sua
occupazione ma non in funzione, o non solo in funzione, della prosecuzione
della produzione e del rapporto di lavoro salariato: gli operai licenziati
prendono possesso degli spazi, come spazi, come luogo, come geografia
futura e non passata, aprendoli al quartiere e dando possibilità di
alloggio ai senza casa. È certamente una metafora, ma potrebbe non esserlo
e il mondo che viene potrebbe non essere affatto solo metaforico.
Lettura (sbirciata). La grammatica della Moltitudine. Ho dato una
sbirciatina ad alcune pagine relative alla prima giornata seminariale, al
general intellect e al concetto di Moltitudine, come al solito
illuminante; di Virno ho letto poco (articoli su Metropoli) e un saggio
sui sentimenti del moderno (I sentimenti dell'al di qua) del quale ricordo
a malapena il titolo ma mi ha sempre impressionato per la lucidità e la
chiarezza. Rimpiango di essermi tagliato fuori per quasi quindici anni dal
mondo della riflessione politica. Consideriamoli quindi anni sabbatici.
Martedì, 10 febbraio
Ai margini. Grammatica e Impero. Virno sottolinea il fatto che il concetto
di moltitudine non sostituisce quello di proletariato. Moltitudine è il
nuovo scenario nel quale si costituisce l'antagonismo e dunque la classe;
gli orizzonti del proletariato, quando si definisce in relazione allo
spazio (e forse anche al tempo storico) non sono più quelli tracciati dai
confini nazionali e linguistici (in altre opere simili a questa si sarebbe
scritto 'all'idea di appartenenza') e questo processo non si limita a
oltrepassarli, costruendo una transnazionalità (aggiungo io) ma ad
ignorali, destituendoli di ogni fondamento e credibilità.
[Piero, io, due israeliani, un ostello di Oslo e il 1978]. In forma
prosaica e in modo non completamente coerente con l'argomento, la lettura
delle esplicitazioni di Virno intorno al concetto di Moltitudine ha
sollecitato la memoria di un fatto. Vacanze in Scandinavia, estate del '78
e provvisoria coabitazione in camera di ostello con due israeliani, Piero
e io entrambi diciottenni; il primo legato molto flebilmente alla
tradizione della sinistra storica, io più o meno militante della 'nuova
sinistra'. Intraprendemmo qualche discorso con i nostri coinquilini, i
soliti scambi di facciata e cortesia nei quali, non so come, si presentò
il tema della leva obbligatoria e qui venne fuori una visione delle cose
opposta. I giovani israeliani non vedevano l'ora di servire nell'esercito
e di affrontare una ferma lunghissima (tre anni se non erro), noi
inorridivamo solo di fronte ai nostri dodici mesi; i nostri interlocutori
non amavano la naia in quanto naia, precisamente come noi non la
detestavamo in quanto tale, ma mentre per noi era un obbligo ormai privo
di significato, che faceva riferimento a frontiere e confini (una faccenda
in decadenza) e dunque si rivelava come un'attività inutile, per gli
israeliani era quello il motivo di tanto orgoglio: era il fatto di
appartenere a un popolo e a una nazione da difendere.
Ancora più chiaro, alla luce di quanto scriveva Virno sulla Moltitudine, è
adesso il fatto che io, non troppo paradossalmente a questo punto, avendo
in mente l'idea di classe operaia e proletariato all'interno del popolo,
come elemento sicuramente ben differenziato in quello ma pur sempre
'proletariato nazionale', considerai che un tale orgoglio di 'servire la
patria', seppur censurabile, era quanto meno etico, al contrario il mio
amico, assolutamente libero e innocente da stretti sociologismi di classe,
lo riteneva semplicemente patetico, idiota e posto fuori da ogni
modernità.
Il mio caro amico 'riformista' percepiva molto meglio di me quella novità
incipiente, proprio per il fatto che due concetti che io ero abituato a
coniugare con popolo (classe operaia e proletariato) gli erano del tutto
estranei. Non è affatto paradossale, invece, che gradatamente, con molta
fatica, soprattutto usando riferimenti alla tradizione internazionalista
propria del pensiero comunista, io abbia metabolizzato il declino del
concetto di popolo e di stato – nazione lungo tutti questi decenni, mentre
il mio amico, proprio perché consapevole in forma bruciante e forse
prematura di questa insorgenza, abbia recuperato la 'necessità' di
ricostituire un'appartenenza etnico – linguistica che, comunque, non si
identificava con il popolo dello stato – nazione tradizionale.
Virno ha in mano quello che io chiamo 'lo scettro del re nella scrittura':
impone e comanda dalle sue righe dapprima evocazioni, poi riflessioni e
infine ulteriori narrazioni, soprattutto il paragrafo 'Del virtuosismo: da
Aristotele a Glen Gould' è una vera sorgente di riflessioni; può darsi che
qualcuna di quelle cadrà su questo diario, magari in forma mascherata o
addirittura inconsapevole.
Venerdì, 13 febbraio
Ai margini. Grammatica della Moltitudine. Dopo decenni Virno mi
costringe a imbattermi nel concetto di lavoro improduttivo,
quello cioè che non produce essere e non produce plusvalore, anche se,
spesso, concorre a creare il profitto, definendo il quadro della
riproduzione del capitale e della forza – lavoro. È un'idea questa che nel
marxismo, per come l'ho masticato, è rappresentativa di una realtà
marginale, ignorata e ininfluente: quello che conta, sia per il capitale
quanto per il pensiero antagonista, è il lavoro produttivo. Come precisa
Virno (con riferimenti ad Aristotele oltre che ovviamente a Marx), il
lavoro produttivo si connota come creatore di un'opera determinata,
quantificabile e visibile: un'automobile, un pezzo di ricambio, un disco,
un libro o un prodotto cinematografico. Il tratto che unisce questi esseri
così diversi è la riduzione a merce, la qualità, cioè, di essere
vendibile e di possedere un valore preciso, una precisa misura sul
mercato. Tutto il lavoro vivo speso al di fuori di questo ambito può
essere considerato improduttivo: il lavoro del cameriere, del riparatore a
diverso titolo, quello del commesso, del negoziante, del commerciante,
dell'infermiere, del trasportatore, del ferroviere, oppure l'attività del
musicista (bellissima l'analisi del virtuosismo in proposito) e in genere
le attività che si limitano a distribuire, mantenere e conservare l'essere
(i prodotti) non partecipando alla sua creazione, oppure ancora tutte le
attività che sono volte a rendere possibile la produzione attraverso il
mantenimento e riproduzione della forza – lavoro necessaria (in generale
compongono la categoria dell'improduttivo coloro che esercitano le libere
professioni, avvocati, medici, le donne che partoriscono, le famiglie che
crescono i figli e il concetto può essere tranquillamente esteso per
comodità generalizzante ai lavoratori dei servizi pubblici e privati in
genere).
Annotazione. Questa discriminazione tra lavoro produttivo e improduttivo
ha tradizionalmente introdotto un'apologia del primo contro il
secondo, un'ideologia in base alla quale il lavoro produttivo aveva
contenuti progressivi determinando la trasformazione e lo sviluppo storico
e sociale mentre quello improduttivo era non solo elemento ininfluente e
di contorno ma spesso assumeva un ruolo frenante e conservatore,
regressivo addirittura. Il lavoro improduttivo era spesso confuso e
scambiato con l'antiproduttivo, con l'apparato parassitario che,
vampirizzando le risorse del mondo della produzione, aveva permesso la
costruzione e poi lo sviluppo dello stato. Aggiungendo elementi a questa
categoria, ancora più dello stato, il mondo della finanza, delle rendite
finanziarie e quello bancario erano l'antiproduttivo / improduttivo per
eccellenza. Per molti aspetti questa visione delle cose è ancora attuale e
adeguata.
È assolutamente impossibile, almeno per me, non assegnare al mondo della
finanza, delle rendite e a quello bancario un ruolo improduttivo o
addirittura antiproduttivo, come una buona parte della burocrazia degli
stati deve subire questa assegnazione.
Qualcosa, però, non funziona più come alcuni decenni fa nel campo del
lavoro produttivo, non tanto perché il suo concetto si è esteso o si è
ristretto, non tanto perché le sue pertinenze sono aumentate o diminuite,
ma perché è radicalmente cambiato il concetto di lavoro produttivo,
ovverosia di produzione. Per comprendere, almeno per il punto di vista che
ho in mente, l'idea di produttivo e improduttivo è necessario partire
dall'idea di lavoro vivo e per lavoro vivo io intendo il tempo di lavoro
che viene usato nell'intervento sulla produzione; per intervento sulla
produzione intendo quell'attività che determina concretamente e
direttamente la creazione del prodotto: caso tipico di quello è, in
agricoltura, l'uso degli strumenti di lavoro antichi (zappe, vanghe,
aratri, falci, falcetti etc. etc.) e moderni (trattori, cingolati, mezzi
meccanici in genere) e nella produzione industriale l'uso dei macchinari e
poi della robotica.
La relazione tra lavoro vivo umano e prodotto è, in entrambi i settori,
cambiata in forme rivoluzionarie. Non sono un economista né tanto meno un
esperto di nuove tecnologie industriali e agricole, ma direi che la natura
di questa trasformazione rivoluzionaria è di avere eliminato quasi del
tutto l'importanza del lavoro vivo nella determinazione del prodotto;
l'intervento del lavoro vivo NON è più giocato nel ciclo produttivo,
l'operaio industriale e agricolo non interviene più direttamente sulla
produzione e sulla creazione del prodotto, non è più né un aiutante, né un
collaboratore, né un'appendice del macchinario, come durante il
taylorismo, ma ha acquisito un ruolo completamente diverso: controllare il
lavoro della macchina, seguirlo e, solo in determinati passaggi critici,
intervenire direttamente nel ciclo. Nella grande fabbrica, come anche
nelle grandi aziende agricole, almeno nei paesi capitalisti sviluppati o
egemoni, il lavoro vivo non fa più parte della produzione, non entra nel
prodotto. Sto, ovviamente, pensando a realtà produttive come la FIAT, la
FORD e in generale la grande industria metalmeccanica europea ed
americana, come alle grandi aziende agricole di queste aree. In
agricoltura, inoltre, le tecniche utilizzate puntano non solo a rendere la
produzione indipendente dal lavoro vivo umano ma anche dai cicli
stagionali, dalle contingenze meteorologiche, in una parola dall'esistenza
della natura, come se la fabbrica di Ford e il suo capannone si fossero
trasferiti nella campagna, trasformandola in un diverso da sé stessa, non
più parte della natura ma appendice della produzione astratta. In questo
segmento particolare della produzione agricola non solo il lavoro vivo
umano non è più produttivo ma persino la natura, che ancora nel secolo
scorso, almeno fino agli anni trenta e quaranta di quello (quindi ancora
nel 'vecchio neolitico' e prima della fuori uscita da quello), era il
produttivo per eccellenza, a causa della sua ciclicità e mutevolezza è
entrato a far parte dell'improduttivo, come elemento di disturbo alla
moderna produzione di valore.
Nella fabbrica post – fordista e nella campagna – fabbrica, il lavoro vivo
umano non è più produttivo, ma fa parte della rete di controllo e
supervisione ed è quindi anti – produttivo, mentre di autenticamente
produttivo rimangono il lavoro meccanico e il lavoro delle macchine.
L'espulsione e conseguente svalorizzazione del lavoro vivo umano dalla
grande fabbrica ha avuto un ruolo strategico e ha generato un paradigma,
diffondendosi ben oltre i recinti delle fabbriche post – fordiste e delle
fattorie tayloriste. Non è questa una novità degli ultimi anni, già nella
seconda metà degli anni settanta del '900, se non ricordo male, furono
ideati cicli produttivi di fabbrica nei quali il lavoro vivo non aveva più
funzioni operative. È decisivo però il fatto che questa emarginazione del
lavoro vivo umano stia funzionando da matrice per le relazioni di lavoro
in generale, fino al punto da far dimenticare la causa efficiente di
questa matrice: l'abolizione dalla componente produttiva del lavoro umano
nella fabbrica post – fordista.
Oggi l'operaio di fabbrica è un lavoratore improduttivo, il protagonista
della ribellione degli anni '60 e '70 è diventato un soggetto che non
produce più anche se lavora, per la conoscenza empirica che ne ho, molto
di più; il suo, però, è un lavoro che non serve più direttamente alla
produzione. La critica alla produzione esercitata dal cuore vivo della
produzione capitalista è morto e il suo cadavere va considerato un
soggetto improduttivo, precisamente come nei canoni dell'economia classica
lo era un barbiere.
Mi paiono oneste banalità quelle che fin qui ho scritto in proposito; si
vedono nelle cose, con chiarezza, senza neppure avere bisogno di
illuminarle. La giornata sta per finire e dal momento che non è affatto
sicuro che io possa andare avanti in questo ragionamento, mi appunto
un'anticipazione sulle sue conclusioni che sono sostanzialmente due: non
esiste più un soggetto sociale trainante nella produzione di plusvalore e
non esiste più una classe produttiva nel senso marxista e classico del
termine (tutto questo dal lato del lavoro) come, ma non sono un
economista, non esiste più il plusvalore, inteso come fatto economico
calcolato complessivamente e su base generale e astratta e, nel
capitalismo mondiale integrato o nell'Impero di Negri, i costi generali
per la conservazione del sistema economico e per garantirne lo sviluppo
superano di gran lunga i guadagni (pensiamo ai rapporti PIL e debito
pubblico negli stati capitalisti avanzati ed egemoni), vale a dire che il
capitalismo ha perso le sue ragioni, ha perso il suo senso ed è in
contraddizione con sé stesso e dall'interno di sé stesso (questo è il lato
analitico sul capitale). Quando scrivo 'dall'interno di sé stesso' non
intendo l'interno che Negri immagina nel suo Impero come risultato
dell'impossibilità dell'essere al di fuori del capitalismo nel mondo
globalizzato, ma intendo l'interno 'intimo', l'intimità del
capitalismo, l'interno economico, il mondo del valore e del
profitto che non esiste più. Il capitalismo ha perso, quindi, senso anche
davanti a sé stesso ma è la forma di dominio del mondo; il capitalismo non
è più un sistema economico e sociale in senso stretto ma una serie di
rapporti sociali, una forma di dominio plurisecolare, e i suoi scopi
sociali ed economici sono diventati contingenze, accidenti per la sua
evoluzione. L'essenza attuale del capitalismo è quella di essere un
dominio strutturato socialmente ed economicamente ma non più un
coordinamento di scopi sociali ed economici.
Mi piacerebbe arrivare a queste due conclusioni attraverso un ragionamento
sulla metamorfosi del lavoro produttivo, sui servizi pubblici e privati e
sulle reti telematiche nei paesi capitalistici tradizionali ed egemoni,
sulla resistenza del lavoro vivo nella produzione in aree emergenti (mi
piacerebbe dirle periferia del capitale e che così fossero
chiamate) e in genere fotografando anche la dispersione estrema dei
soggetti, delle relazioni di capitale, dei rapporti di lavoro, delle forme
di lavoro e delle diverse gradienze negli equilibri tra lavoro vivo e
lavoro macchinico, la taylorizzazione dei servizi, dell'agricoltura e
della logistica per arrivare a scoprire, in parte con Negri e la sua
Moltitudine e in parte contro Negri e la sua Moltitudine, non solo che non
esiste un soggetto trainante ma che probabilmente la scomposizione e
segmentazione dei soggetti sono costitutive e ontologiche fino al punto
che appare privo di senso far riferimento all'idea di soggetto. Infine
individuare, dentro l'acclarata e riconosciuta disgregazione (disfacimento
del gregge letteralmente) un elemento positivo e un tratto unitario,
appunto.
Può darsi che ce la farò, può darsi.
Sabato, 14 febbraio
Letture. Essere figli: racconti di vita vissuta e di crescita / Laura
Musso. - Chieri : Gaidano & Mattia, stampa 2011. Un libro gentilmente
proposto dalla servitrice del CAT, del quale non ho mai scritto ma che
frequento volentieri. Non sono queste le letture che preferisco (che hanno
in oggetto un argomento specifico e non escono da quello, monotematiche)
ma lo spaccato di vita che le interviste a figli di ex alcolisti che
l'opera contiene è sufficientemente ampio per attrarre la mia curiosità e
interesse; in genere il testo assomiglia al club: descrive piuttosto che
la relazione con l'alcol, l'umanità di fronte a John Barleycorn e i suoi
effetti e non scrive di alcolismo in senso stretto, clinico. Sotto questo
aspetto, per di più, gran parte delle testimonianze registrano
l'affermazione della teoria Basaglia, la chiusura dei manicomi (dove
spesso finivano gli alcolisti che associavano a questo problema anche
disturbi nel comportamento). I club, nati nell'Europa dell'est, nell'oltre
cortina, si sono diffusi, con perfetta gradualità geografica, in Italia
dal Friuli, importati dalla Slovenia dall'energico dottor Hudolin, la cui
personalità si presenta incombente e massiccia in una delle
testimonianze e hanno trovato nei reparti psichiatrici abbandonati un
primo insediamento. L'idea del coinvolgimento di tutta la famiglia
dell'alcolista era perentoria in Hudolin, per lui tutta la famiglia
significava tutta la parentela, tutto il lignaggio in ogni sua linea e
ramo, se no, secondo Hudolin, il problema rimaneva. Così il club diveniva
un processo di ricostruzione sociale, un fatto, come lo nominava Hudolin,
biosociale perché l'alcolismo è un problema che coinvolge la vita
nelle sue relazioni con la sfera della socialità.
“Un bambino non è stupido” argomenta uno dei testimoni, mi pare Luca,
perché si accorge di un problema anche se non sa qual è il problema, ne ha
sensazione, ma non percezione precisa ed è fondamentale rivelarglielo,
eliminare il velo delle relazioni familiari che coprono l'uso sistematico
di alcolici, altrimenti cercherà da solo una spiegazione del problema,
cercandola o credendo di trovarla in sé. Beh, ringraziando il signore,
credo che questo sia stato fatto nel mio caso, quasi spontaneamente. Un
bambino non è affatto uno stupido come non lo era Eleonora che quando sua
madre riesce finalmente a smettere di bere annota: “La mamma adesso
sorride di più ed è molto più bella”. Il fatto decisivo per questa serie
di interventi non è tanto la sospensione o l'abbandono dell'uso degli
alcolici, quanto la presa di coscienza del problema, diretto
nell'alcolista, collegato nel mondo che lo circonda e con il quale ha una
relazione significativa.
Avere consapevolezza del problema è già avere smesso di bere, anche se
spesso si smette di bere prima di avere piena consapevolezza del problema,
ma la successione temporale, in questo caso, non c'entra nulla e la
narrazione storica può correre al contrario (il prima divenire dopo e
viceversa).
In verità va tutto analizzato come se fosse in contemporaneità, come un
unico e solo processo di “guarigione” (migliaia di virgolette) collettiva:
la “malattia” è collettiva e ha un unico processo.
Figli, nipoti, padri, amici, compagni di lavoro etc etc possono
partecipare al processo perché ne fanno parte a pieno diritto e perché
hanno fatto parte del problema. I bambini in tutto questo devono godere di
particolare riguardo perché sono 'soggetti deboli'? Niente affatto: devono
essere con onestà informati del problema del loro padre, madre, nonno,
nonna, fratello, sorella e via discorrendo con chiarezza: il papà ha il
mal di testa ed è nervoso esattamente come perché beve qualche bicchiere
di troppo e spiegare che come è piacevole liberarsi dall'emicrania così
sarà piacevole e utile per lui liberarsi del bicchiere.
Domenica, 15 febbraio
Annotazione. L'avanzata dell'ISIS in Libia impressiona il mondo politico
italiano per la sua vicinanza, per il fatto che lo stato islamico è giunto
ad appena trecento cinquanta chilometri dai confini nazionali. Eloquentissima la minaccia del califfato di
bombardare Roma, perché ridicolizza, forse consapevolmente, la
retorica dei confini e l'altrettanto retorica preoccupazione intorno a
quelli; eloquentissima perché, come in photoshop, restringe, allunga,
deforma e poi ricompone nel primitivo equilibrio l'immagine dei confini.
Eloquentissime, ovviamente, la retorica e la preoccupazione italiane
mentre tutti si affannano a ricordare che non sono stati favorevoli alla
pacificazione armata imposta alla Libia un paio di anni fa, fatto salvo il
fatto che, nella verità storica, vi hanno partecipato e l'hanno
appoggiata.
Per di più, ora che è stato aperto il rubinetto informativo e
massmediatico dopo un silenzio costante e sistematico, l'afflusso delle
notizie dalla Libia si è accompagnato con i fatti di Copenhagen, con il
duplice omicidio, l'attentato al vignettista, l'attacco alla sinagoga e
l'ormai scontata eliminazione fisica del vero o presunto responsabile. È
sufficientemente ovvio ritenere che questa combinazione non sia affatto
casualmente registrata dai media ma che vi sia una strategia enfatizzante.
Se fino a Saddam e alla prima guerra del golfo la logica che animava
l'opposizione nazionalista araba all'imperialismo globalizzato era
riassunta nella rivendicazione della sovranità nazionale e quando Saddam
invase il Kuwait lo fece per questioni attinenti agli interessi della
nazionalità irachena, dopo la seconda guerra del golfo, l'eliminazione di
Saddam e l'occupazione dell'Afghanistan, l'opposizione è stata
egemonizzata dal fascino del movimento religioso, dal movimento islamico,
e ha imparato (ma forse sarebbe meglio scrivere che ha interiorizzato) la
lezione impartita dall'ONU e dalle forze multinazionali: colpire oltre i
confini, dietro le linee e vanificare i concetti stessi di confini e di
linee.
ISIS in Libia, Charlie Hebdo in Francia, ora Copenhagen offrono piena
testimonianza di questa nuova logica.
Annotazione. Non ho mai digerito e accettato il termine 'globalizzazione'
e l'aggettivo globale in relazione alla politica internazionale e ai suoi
assetti. Mi sono sempre apparsi come elementi di una fraseologia
massmediatica non disprezzabile in quanto tale (cioè in quanto prodotto
massmediatico) ma per il significato che si portavano dietro e che
naturalmente poteva essere messo in produzione dai media: una terribile
semplificazione dei termini del reale (paradigmatico il concetto di
'villaggio globale' che ho sempre considerato 'vuoto' e che non
casualmente, al primo sorgere di contraddizioni nel nuovo assetto della
'globalità' e di contestazioni serie, negli anni novanta, è
misteriosamente passato di moda presso i mass media). Globale e
globalizzazione non possono essere strumenti di lavoro (almeno del mio
lavoro, quindi certamente limitato) e non significano altro che un
desiderio di semplificare. Mercato globale non ha senso; esprime un
indifferenziato che non esiste: non dappertutto il mercato globale si
presenta secondo gli stessi schemi, con le stesse informazioni, la
medesima energia e lo stesso gradiente. Paradossalmente la società
classica, l'impero romano, il regno dei regni sassanide, le confederazioni
tribali germaniche facevano parte di una globalità molto più accentuata di
quell'attuale e, per usare in veste nuova il termine tanto amato,
furono protagonisti della globalizzazione dell'era neolitica e dei
metalli. Esemplare di questa (ed esempio che divenne riferimento per tutta
la posterità politica e istituzionale, tanto di quella posta a destra del
Reno quanto di quella posta alla sinistra, tanto per la sponda destra e
per quella sinistra del Danubio e così anche per l'Eufrate e forse anche
l'Indo) fu l'incredibile e mitologica, secondo le grammatiche dell'era,
impresa e costruzione di Alessandro il macedone che unificò l'occidente e
l'oriente e per quanto possibile diede il segno della possibilità di unire
il mondo per l'eternità; per certi versi Alessandro fu un prodromo di
Cristo nella misura in cui il cristianesimo è considerato come un fatto
ecumenico, globalizzato e globalizzante.
Globalizzazione (come il globo che adornava lo scettro degli imperatori
romani e ancora di quelli bizantini, l'orbis terrarum) è un
concetto che più facilmente potrebbe essere familiare a Traiano che non a
Obama, anche se Obama lo usa spesso mentre Traiano lo ignorava e questo
perché l'imperatore guidava un impero che non aveva bisogno di dirsi
globale per il fatto che, essendo un impero (e non un regno qualsiasi) e
il prodotto di una repubblica costitutivamente cosmopolita, era già per
definizione globale.
Il fatto, invece, che il libero mercato non conosca più confini, non
conosca altro da sé, non ne fanno un'istituzione globale, anzi forse tutto
il contrario: il mercato capitalistico ma anche il dominio che lo
accompagna, non avendo limiti e confini, hanno ricostituito, su basi
nuove, limiti e confini, definendo limiti, aree, situazioni interne ma
diversificate. La deterritorializzazione e la pulsione
dell'indifferenziato, innegabili, non producono i loro effetti immediati e
attesi ma riterritorializzazioni e nuove differenziazioni.
Mercoledì, 18 febbraio
Ai margini. Impero. Negri e Hardt usano un verbo latino, in forma da loro
sostantivata, posse per esprimere la creatività, la capacità
organizzativa e l'immaginazione della moltitudine. Per immaginazione non
va intesa una categoria riflessiva ma attiva, una categoria progettuale
perché la moltitudine costituisce il mondo, è, appunto, la potenza che lo
trasforma continuamente.
È un'immaginazione magmatica ma che contiene un suo ordine, quello della
collaborazione dei produttori. Trovo quest'immagine imprecisa perché, se
da una parte afferma, marxianamente, che la produzione di plusvalore
caratterizza l'importanza di questo soggetto, contemporaneamente non
descrive a quale plusvalore si ancori l'esperienza produttiva di questi
soggetti. L'immagine è vivace, profila una nuova forma di socialità, ma
nello stesso tempo potrebbe essere disposta su molte epoche e trovarsi
coerente con quelle. Si tratta, certamente, di una proiezione, di
un'ipotesi con qualche fondamento ma a dimostrarla serve necessariamente
l'esperienza concreta del 'proletariato nella moltitudine'. Negri e Hardt
pubblicano in Italia nel 2002 e scrivono, questo lo deduco dalle note
tipografiche e dalla bibliografia citata, prima del 2000, il 2000 è l'ante
quem di gran parte della loro riflessione, prima, quindi, delle
torri gemelle, della seconda guerra del golfo e dell'Afghanistan e
certamente prima della grande e lunga depressione sorta nel 2008.
L'esperienza concreta del proletariato nella moltitudine, ma anche della
medesima moltitudine, dovrà ancora essere segnata da questi processi
storici, direi profondi. L'opera, dal punto di vista delle definizioni
storiografiche, potrebbe essere detta 'giovanile', sulla giovinezza
della moltitudine.
In secondo luogo, nella moltitudine e nel suo concetto, non si è
trasformato, in questi ultimi quindici anni, sensibilmente solo il modo di
essere del proletariato ma anche del resto del 'corpo sociale', del 'ceto
medio', che è costitutivamente e tradizionalmente il mondo improduttivo
dentro le classi subalterne. Qui so di camminare su un terreno
scivolosissimo, già l'utilizzo, che io stesso propongo, di 'ceto medio' o
'classe media' è vago perché si maneggiano concetti non circoscritti, i
risultati di una rappresentazione che la società offre di sé, della sua
composizione, quindi di un'ideologia.
Epperò questa rappresentazione ha un peso fisico, sposta la
concentrazione, seppur apparente, tra le classi ed è stata capace di
suscitare un consenso di massa verso le politiche neo – liberiste. Da una
parte il 'ceto medio' ha sposato la critica rivolta contro lo stato
assistenzialista e pianificatore, che caldeggiava e prefigurava la sua
dissoluzione, la fine della sua forma nazionale a favore di una
istituzionalità costruita per aree omogenee economicamente, socialmente ed
etnicamente e a favore di una riscrittura, in funzione di questa
costruzione, delle omogeneità culturali e qualche volte linguistiche
(producendo anche una sorta di 'anarchismo di destra' del quale la Lega
Nord in Italia, almeno quella dei primi passi, fino a Tangentopoli, è
stata corifea). Dall'altra parte, quasi nel suo contrario, il 'ceto medio'
ha, invece, appoggiato la critica rivolta contro l'Impero e la riscoperta
delle potenzialità delle nazioni in un quadro di economie localmente
assistite ma liberate dallo sperpero derivato da solidarismi verso
soggetti estranei alle comunità nazionali e da vincoli
internazionali e umanitari. Questa è stata, ed è ancora, la 'nuova
destra' che si è radicata soprattutto duranti gli anni della crisi del
2008, ma che già negli ultimi due decenni del secolo scorso ha dimostrato
capacità di presa e inventiva intellettuale. In verità esistono moltissimi
elementi di allineamento tra queste due tendenze contrapposte: in generale
domina la tendenza a riscrivere e rivedere cultura e appartenenza per
rispondere alla destrutturazione delle culture nazionali così come erano
state ereditate dal primo novecento. La regione o la 'macroarea' della
Lega Nord hanno la medesima natura della nazione riscoperta dalla destra
'tradizionale' (Forza Nuova, Fratelli d'Italia): non nutrono relazioni, se
non apparenti e ideologicamente predisposte, con i concetti primigeni
delle idee nazionali (nel caso italiano entrambi i fronti ignorano il
risorgimento e i riferimenti a esso) ma sono prodotti nuovi,
contemporanei, e sottintendono una nuova idea di appartenenza. È talmente
forte e naturale questa contaminazione tra le due destre nella
ricostruzione del concetto di nazione e di etnicità, al riparo (apparente
e recitato) della 'globalizzazione', che la Lega Nord stessa, oltre che
accettare nei suoi cortei spezzoni del nazismo nostrano di Casa Pound, pur
con le genetiche cautele, da qualche anno ha principiato ad adoperare una
retorica spiccatamente nazionalista, soprattutto quando si tratta di
denunciare l'immigrazione clandestina e gli sbarchi dei migranti.
La 'classe media', il 'ceto medio', ha, quindi, avuto una sua
rappresentazione politica secondo inclinazioni diverse e contraddittorie.
Se esiste nella rappresentazione ideologica, la classe media esiste nella
realtà?
Il terreno di questa analisi è mobilissimo: non è affatto un mistero che
buona parte dell'elettorato del Partito Comunista Francese, avviato dagli
anni settanta a un lento declino elettorale e di consenso sociale, sia
passato al Front National, oppure che molti elettori comunisti italiani
siano passati alla Lega Nord, soprattutto dopo lo strappo di Ochetto dalla
simbologia 'comunista' del partito.
Alla base di entrambi i fenomeni è stato il fatto che l'allontanamento
definitivo da ogni 'facciata comunista' e 'rivoluzionaria' dei due partiti
comunisti ha fornito l'occasione a segmenti elettorali di quelli di
giustificare, in perfetta buona coscienza e quasi in una specie di
coerenza etica, l'adesione a una più decisa difesa dei diritti del posto
fisso 'nazionale', dell'assistenza sociale rivolta esclusivamente ai
cittadini e a una lotta contro i costi della politica e dello stato (la
polemica contro la 'casta') che i discorsi di Le Pen e Bossi
rappresentavano meglio della 'rinnovata' sinistra comunista o ex
comunista, prigioniera di tatticismi dubitosi e soprattutto poco disposta
a lasciarsi andare a retoriche in materia.
La critica alla tradizionale ideologia operaia e impiegatizia della
certezza del reddito da lavoro salariato, ideologia legatissima alla
storia dei partiti comunisti, socialisti e laburisti, che veniva messa in
atto, anche se in maniera leggera e non frontale, dalla 'nuova sinistra
riformista' (DS e poi PD in Italia), ha portato non pochi, grazie alla
contemporanea crisi della residua e putrefatta identità comunista, verso
non soltanto il voto ma anche una 'simpatia', quasi pre – politica, nei
confronti della nuova destra, nazionalista e non. Il timore, che i nuovi e
oggettivi caratteri del mercato del lavoro hanno suscitato, ha condotto
buona parte della classe operaia di fabbrica a rifiutare questa
predestinazione imposta dal potere mondiale. Questo timore ha favorito
negli operai residui, ricattati continuamente e per decenni (almeno dalla
seconda metà degli anni '80 per quanto riguarda l'Italia) dalla
dismissione degli stabilimenti e dalla delocalizzazione produttiva, un
riconoscimento della positività dei valori del 'ceto medio'; il timore non
ha provocato solo questo: la classe operaia ha iniziato a vivere sé
medesima come un pezzo del 'ceto medio', ad assorbire valori per essa fino
a quel momento secondari (ma comunque già presenti in quella) del
localismo, della comunità rinnovata localmente, della gente simile e
affine per storia cultura e lavoro: al posto del capitalismo, tradizionale
e ormai simbolico avversario, è divenuto antagonista lo statalismo
corrotto, al posto del popolo si è collocata la gente dell'area e della
regione, al posto dell'irraggiungibile socialismo il nuovo fine di una
democrazia di base strutturata localmente. Buona parte della residuale
classe operaia ha aderito alla concentrazione fisica del 'ceto medio'. Il
ceto medio negli anni ottanta e novanta si è allargato.
Ancora di più il 'ceto medio' si è allargato attraverso il grande
movimento di autoimprenditorialità che ha recuperato mansioni
tradizionalmente operaie e impiegatizie alla libera impresa, dove la
proprietà dei mezzi di produzione non è decisiva per stabilire il comando
sull'impresa che invece si esprime attraverso nicchie controllate del
mercato, capaci di mobilitare, in forma indiretta, rilevanti
quantità di manodopera. Questi nuovi soggetti formano, soggettivamente, un
ulteriore settore di 'classe media' / 'ceto medio'.
Si è scritto spesso che il 'ceto medio' si è proletarizzato: non è del
tutto vero. Credo, al contrario, che si sia costituita una nuova
morfologia di ceto medio, che di 'medio' ha ben poco, perché porta
con sé una capacità di reddito tipicamente proletaria, mentre, però, non
ha una relazione proletaria con il mercato del lavoro, non subisce un
comando direttamente esercitato sul suo lavoro (per virtù e coerenza
contrattuale), anche se produce per altri, vive di quello che produce e
quello che produce gli appartiene ma solo virtualmente e solo fino a
quando non è prodotto.
Il ceto medio nella moltitudine è molto diverso da quello del vecchio
paradigma della classe media: non ne ha l'agiatezza e la spensieratezza
relativa ed è un ceto proletario senza subire una relazione di comando
diretto sul proprio lavoro. Ma soprattutto il ceto medio manifesta un
nuovo carattere della società: la fine della relazione di lavoro
salariato come forma egemone nelle relazioni tra capitale e forza lavoro.
Questa tendenza a destrutturare la tradizionale concentrazione sociale si
è, per quel poco che ho seguito delle vicende di questi ultimi tempi,
accelerata enormemente negli ultimi sei – sette anni e cioè dalla
depressione del 2008. Sempre più il concetto di ceto medio è passato in
secondo piano persino nelle analisi sociologiche o nelle calibrature dei
sondaggi statistici, sostituito spessissimo da altre categorie, generiche
allo stesso modo che non possiedono nessun riferimento a una posizione e
condizione sociale (colletti bianchi, colletti blu, tute blu).
Il ceto medio è scomparso sostituito da categorie di appartenenza
geografica, culturale o specialistica (gli imprenditori, le partite IVA,
le piccole imprese, i lavoratori dipendenti etc. etc., spesso associate
tra loro). Nello stesso tempo la sinistra, anzi proprio la sinistra,
intesa come l'erede dei vecchi apparati storici del riformismo operaio, si
è collocata, abbandonando timidezze e tatticismi, all'avanguardia di
un'idea del mercato del lavoro nella quale la sicurezza del reddito
vincolata alla stabilità della relazione di lavoro è diventata inadeguata
a seguire e favorire lo sviluppo sociale ed economico. E dal momento che
nulla ha sostituito il concetto e l'immaginario relativo al 'ceto medio',
così come nulla ha sostituito il concetto di lavoratori o classe operaia,
è oggi la destra, alla ricerca di strutture immaginarie semplici, a
recuperare questi concetti, queste immagini sociali, in un curioso
ribaltamento.
Un elemento di continuità rispetto alle vecchie terminologie / categorie
rimane, comunque: la società viene rappresentata e, sotto un certo punto
di vista, è sul serio un amalgama indifferenziato di soggetti
profondamente diversi tra loro, privi di una relazione cardinale con il
mercato del lavoro e con il lavoro, esclusi l'uno dall'altro da un
orizzonte univoco; quindi la concentrazione sociale generale ha
assunto i caratteri tipici di una NON – concentrazione, di un gruppo
coeso solo in base ad alcuni elementi della sua soggettività, che un
tempo era il tratto saliente, il segno di riconoscimento, del 'ceto
medio'. Viene quasi voglia di scrivere che, in maniera
diametralmente opposta rispetto a quanto sostenuto da Marcuse quasi un
secolo fa, oggi il proletariato non esiste più perché è ceto medio
allargato, disteso su tutto il mercato del lavoro, e il ceto medio è una
nuova forma di proletariato che nulla ha a che fare con il proletariato
tradizionale e nulla con la 'classe media' del passato.
Rimane aperto il problema se il lavoro esista oggi e sia riassumibile
nella categoria del plusvalore e pluslavoro, ovvero se sia possibile
individuare uno o più soggetti produttivi trainanti, capaci di costituirsi
come lavoro davanti al capitale. Non sono un economista e non
posso affrontare il problema da economista, ma ho un presentimento: la
ricerca del soggetto del plusvalore è una falsa ricerca; Negri
stesso, nel suo paragrafo di Impero intitolato posse, profila il
problema anche se sembra schivarlo; per Impero il soggetto produttivo
trainante è quello che disegna la trama dell'organizzazione produttiva nel
suo lavoro, con il suo lavoro e partecipando a quella, è un soggetto che,
sincronicamente, crea, disegna, collabora e organizza.
Questo nuovo soggetto ha, però, caratteristiche che Negri e Hardt non gli
riconoscono: non è affatto libero ed è del tutto lontano da presentire la
sua libertà (come a tratti invece gli autori paiono credere) e non è solo
un produttore immateriale. In terzo luogo è un soggetto esponenzialmente
scisso e frantumato, fino al punto di non essere riconosciuto come tale e,
forse, non deve affatto essere riconosciuto come tale. Spesso, inoltre, è
un soggetto squisitamente improduttivo, e non produce sicuramente
plusvalore in modo diretto e in maniera distinta e misurabile. Nel trionfo
del profitto, il profitto non è più di moda.
Infine questo 'soggetto', che eredita in parte le caratteristiche sociali
delle società classiste precedenti (mi pare Francesco Berardi abbia
argomentato questo nel suo Exit), continua a vivere in una miriade di
forme la relazione dialettica con il capitale, mentre la forma della
separazione antagonistica non gli è naturale, anche se, certamente,
per alcuni episodi e qualche segmento questa si è data e si dà. Mi viene
in mente il Chiapas o il Curdistan o alcune opere collettive in telematica
per esemplificare questa separazione, che è attiva e produttiva in sé, la
logica stessa della produzione la comporta (e in questo hanno ragione
Negri e il coautore di Impero), ma non è naturale, decisiva e implicita.
La dialettica generalizzata isola queste esperienze e spesso le erode,
includendone frazioni e segmenti in sé; la tendenza alla separazione è più
forte, slegata dalla 'rivendicazione' e dalla dialettica rivoluzionaria
della classe operaia di fabbrica e dei proletari di quartiere dell'epoca
appena passata o delle tradizionali guerre di popolo. La separazione,
però, anche se tende a compiersi sul terreno della produzione (in
telematica soprattutto), ha necessariamente bisogno di ragionare sulla
produzione e quindi di assumere tratti anti – produttivi, esterni al
processo, tratti etici. Che quest'etica sia materialisticamente fondata,
che sia un'etica della produzione (non del lavoro, ma del processo
produttivo ovviamente) è una questione che riguarda il pensiero sulla
produzione mentre produce e dunque un atto libero dentro un flusso
determinato che non esce da quel flusso ma cambia il flusso (e questa è
oggettivamente una nuova potenzialità di questa epoca inimmaginabile
prima, che discende dai settori creativi strategici e può investire anche
quelli più periferici e tradizionali). Quindi nel trionfo della
produzione il momento produttivo non è più di moda ma è il momento
riproduttivo a diventare il cuore della produzione e l'appello alla
pulsione verso una nuova moda.
Giovedì, 19 febbraio
Annotazione. Per riallacciarmi a quanto scritto ieri sera tardi, la
matrice sociologica (come uso malvolentieri questo aggettivo) del nuovo
soggetto proletario è la classe media mentre alcuni elementi della
tradizione operaia sono penetrati nella soggettività della 'classe media'
attuale. Dell'operaismo della classe media e della declinazione
essenzialmente soggettiva di questo concetto sarebbe meglio precisare; ci
proverò.
La classe media, forse, non è mai concretamente esistita, il termine non
corrisponde a un modo di essere ma a un insieme disparato di modi di
essere che in sociologia sono stati riassunti nel termine; epperò ha avuto
una certa concretezza, un insieme di soggettività storiche e pesanti
storicamente. A partire dagli anni '70 l'area sociologica della classe
media si è gradatamente avvicinata alla sua essenza, si è, per usare un
termine informatico, virtualizzata e ha perduto le relazioni con la sua
origine, che era quella di essere una classe di mezzo sotto il profilo del
reddito e di non essere legata direttamente al lavoro produttivo, per
mantenere solo l'aspetto apparentemente improduttivo. Negli anni ottanta e
novanta ha inaugurato un processo di 'proletarizzazione' sotto il profilo
del reddito che si è confermato dopo la crisi del 2008: gli standard
retributivi del lavoro impiegatizio, i ricavi dal lavoro autonomo nel
commercio e nell'artigianato e anche nella produzione immateriale si sono
drasticamente abbassati e all'interno di essa si sono verificate delle
divaricazioni non risanabili, anche perché insistevano su diversità di
partenza, strutturali.
Dopo il duemila, inoltre, è accaduto qualcosa di nuova ma non inatteso: la
progressiva gravitazione e integrazione del lavoro intellettuale intorno
al lavoro produttivo. Le specificità dell'organizzazione del lavoro
industriale sono state esportate nella logistica e nei servizi, venendo a
delineare una specie di taylorismo nei servizi, nella logistica, nel
magazzino e nella distribuzione commerciale e questa 'esportazione' si è
rapidamente accompagnata al lavoro per obiettivi e progetti, al contrario
apparente dell'organizzazione taylorista. Anche il negoziante al minuto
(vale a dire il relitto testimoniale della libera iniziativa e del libero
mercato, della libertà dell'imprenditore nel definire il suo lavoro) è
stato costretto, dove resiste e resisteva, ad adeguarsi a questo nuovo
modo di organizzare il lavoro: cambiare scenario, scegliere una
specializzazione merceologica, votarsi a quella, seguirla per poi,
rapidamente, seguirne un'altra.
Domenica, 22 febbraio
Annotazione. [L'impero e la malavita organizzata] È da molto tempo che
considero la lotta contro la malavita organizzata come una finzione
retorica, inconcludente sotto l'aspetto dei risultati concreti tolti
alcuni successi che non influiscono sulla struttura organizzativa che ha
assunto la malavita. Si tratta, per questi ultimi risultati, di
carcerazioni, di condanne sempre limitate alla bassa, media e alta
manovalanza; l'alta manovalanza è, secondo la mia analisi, scambiata con
la vera amministrazione di questa organizzazione commerciale e produttiva.
Qui la rappresentazione mediatica è decisiva per nascondere la verità
delle cose ma, paradossalmente, sgombrato il campo dalla sua retorica,
proprio questo occultamento rivela la verità, rivela la nudità del re.
L'occultamento mediatico applica la usuale legge secondo la quale il
culmine dell'impresa malavitosa, quello che non subisce i rigori della
legge, è perfettamente legale e registra una realtà in base alla quale la
malavita organizzata è parte integrante del mondo politico e finanziario
del capitalismo mondializzato ed entra a far parte dell'autentica
struttura del comando economico – finanziario.
Indicherò schematicamente gli elementi nuovi della malavita organizzata
che un tempo era corretto nominare mafia e camorra; oggi, dal punto di
vista dell'analisi storica, (e non della storia delle culture e
delle tradizioni) non è molto significativo scrivere di mafia e camorra,
anzi, per certi versi, è fuorviante. Come nei titoli di coda delle
opere televisive e cinematografiche elencherò questi elementi nuovi, in
ordine di apparizione.
1 - La scoperta del mercato clandestino degli stupefacenti (anni '30 del
novecento). 2 - La conseguente internazionalizzazione di mafia e camorra
(anni '50). 3 - Assunzione dell'assoluto monopolio e controllo, diretto e
indiretto, sulle attività illegali e conseguente scomparsa della malavita
tradizionale e 'indipendente'. 4 - L'approccio a nuovi bersagli di mercato
(mondo bancario, istituzioni pubbliche e mondo della finanza). 5
-Integrazione con il sistema economico mondiale e formazione di un grande
'sindacato' malavitoso negli apparati dei singoli stati nazionali. 6 –
Formazione di una 'borsa internazionale' della malavita. Alla fine di
questo processo, mafia, camorra e ndrangheta sono diventate imprese tra le
altre: fatturato, manodopera, distribuzione del reddito, formazione delle
professionalità e costituzione di una struttura organizzativa che va dai
servizi all'impresa alla produzione di impresa. Il modello è quello del
coordinamento finanziario di tipo monopolistico con una ricaduta su molte
piccole e medie imprese (le famiglie e le gang); il modello è quello di un
comando finanziario sulle imprese che compongono il monopolio e di una
ricostituzione di questo comando finanziario attraverso l'attività delle
singole imprese.
Annotazione. A chi mai capiterà di leggere questo diario in movimento,
scritto ai margini dei libri, in velocità e nei ritagli di tempo e di
spazio giungerà a una definita conclusione: “non si leggono così i libri
né tanto meno si commentano”. Non potrei dargli torto: ho troppo rispetto
e al contempo poco rispetto di quello che leggo, ho premura poi calma fino
al punto di abbandonare lettura e commento, sono fedele alle parole e poi
terribilmente infedele, le rimescolo rendendole altre e facendone un'altra
cosa. Ma ancora di più temo i testi che maneggio, come se la copertina
prendesse fuoco e poi mi infondono coraggio come se li avessi scritti io.
Ritengo che la mia relazione, che dura da quasi una vita, con il pensiero
di Antonio Negri sia esemplificativa di questa passione e immediata
ritrazione, amore spassionato e subito dopo disprezzo dell'amante deluso.
Qui sono brani, pezzi di vita intellettuale, una vita qualsiasi, comune,
superficiale e profonda come sono le esistenze spese nell'assoluta
normalità, in un lavoro, una famiglia, i problemi più o meno grandi e i
bilanci più o meno ricchi. Qui è una geografia di aree, territori
costituiti da stati d'animo, passioni, percezioni, sensazioni,
considerazioni e, alla fine, quando vengono, comprensioni (quelle che dico
tali; conquiste intellettuali, punti fermi che si muovono in modo
proporzionale ed equilibrato tra loro in una geografia in continuo
movimento). Le 'comprensioni', che nulla hanno a che vedere con il
sentimento imparentato con tolleranza, sopportazione e immedesimazione e
con l'uso comune del verbo 'comprendere', ma sono invece imparentate con
il verbo 'aver trovato', sono scoperte dell'io dentro il non – io, il
momento NON di congiunzione ma di comprensione, di reciproca cattura, il
momento in cui quello che è fuori di te entra in te e quello che era
dentro di te esce da te e va a sedersi fuori.
Martedì, 24 febbraio
Letture. Grammatica della moltitudine. Ho ripreso la lettura, seconda e
terza giornata del seminario, ed è quindi troppo presto per avanzare
giudizi definitivi. Virno ha una grande capacità di mettere in produzione
discipline diversissime (psicologia, antropologia, sociologia, filosofia e
musicologia) per focalizzare e polarizzare la categoria della moltitudine
e una chiarezza espositiva grazie alla quale è abbastanza naturale
coglierne il concetto, soprattutto in relazione a quello di popolo; mi
rimane, però, un dubbio del quale, quasi sicuramente, l'autore
inorridirebbe. Virno adopera moltissimi processi culturali, innegabili e
chiari, per conformare, pezzo dopo pezzo, i caratteri della moltitudine e
del post – fordismo, ma la sua fondazione è egemonizzata dagli elementi
che un tempo si sarebbero detti sovrastrutturali. Anche se è vero che oggi
la struttura e la sovrastruttura si identificano, lo scrive Negri in
Impero e lo conferma Virno e questo, insomma, è un comune modo di sentire,
non riesco a trovare proprio la parte destinata al concetto residuale di
struttura: i rapporti e i modi di produzione. Questo non per ridonare a
quelli una centralità analitica ma per spiegare il successo storico del
post – fordismo. Per fare un esempio la diffusione di servilismo,
opportunismo e cinismo sono interpretati con il dominio del general
intellect, l'intelletto astratto ma reale; l'egemonia del general
intellect, però, da dove origina? È davvero solo il prodotto delle
relazioni generali che pervadono e strutturano il sociale, dell'impatto
che subiscono gli individui nei confronti di un'astrazione totalizzante
che viene fuori non tanto nel modo di produrre quanto invece nelle culture
che lo circondano? Anche se potrebbe essere vero che la produzione
immateriale è oggi egemone e che dunque naturalmente il general
intellect si allinea a quella, la relazione si fa stretta e
immediata, mi pare, però, che manchi un passaggio, manchi un ingranaggio,
un collegamento decisivo dopo il quale cinismo, opportunismo, paura,
angoscia e servilismo sarebbero ulteriormente rischiarati. Non si tratta
di ridefinire una struttura, ma di trovare un nuovo accento in un
complesso di relazioni che deve rimanere orizzontale e non gerarchizzato
tra elementi decisivi e non decisivi; non patisco l'assenza di una
gerarchia analitica, anzi la condivido, ma di una visione integrata tra i
diversi aspetti che tanto Virno quanto Negri enucleano.
Sono consapevole del rischio: una visione 'integrata' è di per sé chiusa,
completa, una veduta che ha definito i suoi orizzonti, ma il rischio deve
essere cinicamente calcolato, senza di quello si corre verso una fedele
descrizione della realtà, che è inutile ed è un'illusione. La sensazione
che ho derivato tanto dalla lettura di Grammatica della moltitudine che di
Impero è stata quella di un generale desiderio di non assumersi rischi, di
non affermare cose che poi non potessero essere rimisurate e riviste,
concetti irrevocabili; questo è un pregio, perché descrive in maniera
perfetta il modo di produrre sapere nel post – fordismo (e non si scambi
questo con una facile ironia) e quindi descrive il post – fordismo, è lui
implicito, è il punto di vista di una singolarità compresa nella
moltitudine, quindi un punto di vista orizzontale, aperto, privo di
confini e con orizzonti mutevoli. Questo, però, è anche un limite
implicito, poiché nello stesso tempo in cui descrive e pretende di
descrivere si concede all'illusione della verità, di una verità che, però,
non può costituirsi ma è soprattutto un limite esplicito, posto al di
fuori dell'analisi, che ha conseguenze esterne, 'etiche': non generando un
prodotto integrato, quindi una verità che palesemente si dichiara
incompleta e bugiarda, si finisce, paradossalmente, per perdere di vista
l'ottica della moltitudine e quindi le dinamiche della produzione spese
sul terreno della liberazione. Questo manca.
Non è il caso certo di riscrivere oggi il Manifesto del partito comunista,
sarebbe più appropriato scrivere il poema del comunismo, un'opera
collettiva che deve trovare la sua metrica, quindi una res gesta
(come da Negri sugli intellettuali in Autonomi) più che una res vista.
Mercoledì, 25 febbraio
Annotazione. Ai margini. Impero e Grammatica della moltitudine. Per essere
sintetici ho trovato molta onestà intellettuale ma poco coraggio
intellettuale. Soprattutto Virno offre una ricchezza analitica
indimenticabile e non si può prescindere dal suo testo se si desidera
ragionare di post – modernità da un punto di vista di classe.
Per Negri urge la lettura di Moltitudine, d'altronde questo diario è un
attrezzo orientato dalla lettura, senza quella non sarebbe.
Giovedì, 26 febbraio
Ai margini. Grammatica della Moltitudine. Nonostante le critiche, e
certamente non per perdonarmele, l'opera di Virno, questo seminario un po'
scoordinato, è bellissima, evocativa e quasi toccante. Molto più che
Impero di Negri e Hardt mi ha chiarito il concetto, che è poi una vera
categoria, di moltitudine. Mi ripropongo di renderle questo onore con una
serie di citazioni che meritano di essere estrapolate e brevemente
commentate, anche se sto rileggendo il testo (come al solito tra treno e
metrò) per coglierne nuovi fascini, altri angoli e altre visuali che
conserverò per me, memorizzerò, sposterò, costruirò e distruggerò per
ricomporle, secondo un processo metabolico che, se descritto, mi
costringerebbe a scrivere un'intera agenda e che, invece, preferisco
'liberare dall'autore' e mettere al servizio di altri orientamenti e di
altri autori.
Le dieci tesi sulla moltitudine, la quarta giornata, sono un decalogo a
tratti scontato, certamente datato, ma davvero quello coraggioso e spero
di trovare le righe giuste per scriverne. Non stasera, però, che è troppo
tardi.
Annotazione. Lasciando da parte la sera e il troppo tardi, ho notato
quanta confusione l'affermazione del fondamentalismo islamico ha
determinato nel pensiero 'laico'. Qualcuno si fa vanto di professare
l'ateismo, addirittura; qualche d'un altro in America ha tradotto in
atteggiamento combattente questa professione.
L'ateismo non può essere una posizione, una presa di posizione e una
convinzione, ma un atteggiamento filosofico e una sensibilità.
Negare l'esistenza di Dio è come professarne l'esistenza, confrontarsi con
l'indimostrabile: seguendo la scolastica, Dio non è dimostrabile,
analogamente, non è dimostrabile la sua non esistenza. Entrambi i
ragionamenti si collocano nell'incondizionato kantiano e Kant aveva
semplicemente ragione in proposito: la conoscenza certa dell'esistenza o
della non – esistenza di Dio è impossibile, non esistono le condizioni
intellettuali per eseguire questa attività. Si può certamente giungere a
conclusioni sicure sulla natura dell'universo, se esso sia eterno e
infinito o finito e provvisorio; si può giungere a descrivere l'idea di
Dio, a immaginare Dio, come, ad esempio, l'infinità ed eternità che sta al
di fuori della eventuale finitezza della materia e dell'energia (se si
segue la relatività di Einstein); l'esistenza di Dio non è
incommensurabile, non è al di fuori della nostra misura, anzi questa idea
appartiene alla nostra migliore misura che, se applicata coerentemente,
può venire traslata sull'immanenza e aiutarci a concepirla come sostanza
sensata in sé (qui alcune belle letture di Dio in Spinoza sono da
seguire). Ma se l'esistenza di Dio o la sua non – esistenza sono nella
nostra misura, non sono nelle nostre condizioni, sono al di fuori di
quelle (esattamente come l'eventuale eternità e illimitatezza posta al di
fuori delle condizioni dell'universo relativistico); le condizioni che
regolano l'eventuale trascendenza non sono raggiungibili e sono influenti
solo nella misura in cui formano un paradigma, una matrice valida per
definire il condizionato. Mi spiego meglio. Non è detto che
l'incondizionato esista o non esista, l'esistenza o non – esistenza
dell'incondizionato in quanto tale e per sé stessa ci è assolutamente
indifferente, non è detta e non è affermabile; l'idea, invece, di
incondizionato è interessante e funzionante per definire la complessità e
totalità del condizionato, non solo per dare a esso forma ma per disporci
in un atteggiamento analitico verso di quello, che, altrimenti, sarebbe
impossibile. Per essere uomo, autentica conoscenza, l'uomo deve
immaginarsi più grande di sé stesso e vivere al di fuori della sua misura
proprio per rimanere fedele alle condizioni sue proprie; d'altronde non si
diceva un tempo che l'uomo è un Dio all'uomo?
Venerdì, 27 febbraio
Annotazione. [Le statue di Mosul e Renzi] Militanti dell'ISIS abbattono le
divinità assire nel loro museo. Lo scandalo è notevole e giustificato,
anch'io in un primo momento, emotivo, ho rabbrividito. I giacobini, però,
la nostra storia, non hanno riservato lo stesso trattamento ai portali
splendidi delle chiese gotiche francesi? Al di là delle sventure che le
maledizioni degli Assiri porteranno al califfato, cioè a dire una doppia
razione di bombardamenti, e lasciando da parte il crimine contro il
patrimonio dell'umanità, (ma allora i bombardamenti di Ninive nella
seconda guerra del golfo?) direi che l'ISIS ha realizzato una messa in
scena ideologica perfetta: ostilità verso un passato pagano che è anche il
presente (la cosmopolita museificazione della storia, il conseguente
flusso turistico protetto dall'odiato diritto internazionale), ostilità
verso l'occidente e propaganda a favore dell'edificazione di un nuovo
cosmopolitismo, costituto dal mondo 'popolare' mussulmano che più volte ha
dimostrato (Il Cairo e Bagdad) una forte estraneità all'idolatrato passato
pagano e soprattutto alla sua rappresentazione museale.
D'altronde che valore può avere in mezzo a gente che vive spesso senza
acqua corrente ma di molti espedienti una così alta rappresentazione
del suo passato che, tra le altre cose, non le appartiene, della quale non
è protagonista? Il museo si riduce a essere un'attrazione per stranieri o
per turisti e possiede una natura che anche in occidente si manifesta. Il
museo istituisce una separazione tra quello che contiene e le possibili
relazioni esterne del suo contenuto. I muri, le brochure, il taglio delle
mostre rendono i musei una edificazione ideologica; insomma non mi
stupisco troppo della loro devastazione, anche se comprenderei
maggiormente il loro saccheggio, vale a dire la trasformazione delle
vestigia del passato in transitoria fonte di reddito; certamente non
ordinerei mai di sparare su degli esseri umani, impazziti quanto si vuole,
per difendere alcune pietre egregiamente lavorate, a meno che quelle
pietre non siano qualcosa di più di semplici pietre egregiamente lavorate.
Annotazione. Tutto posso dire di Renzi tranne che mi sia antipatico. Renzi
è certamente bugiardo, truffatore e astuto come l'altro figurante al posto
del quale è riuscito a farsi assumere, ma solo come controfigura, il
signor Silvio Berlusconi, ma non è ipocrita. Renzi se la ride della
democrazia rappresentativa e non recita rituali piagnistei sul suo
declino, in verità denuncia apertamente la fine di un mondo politico e
costituzionale e ammette il suo cinismo: non vede alternative a quello.
Nessuno se ne è accorto ma Renzi è un punk senza cresta, senza
disperazione e senza nostalgia per il cadavere del futuro. Oggettivamente
il vero cadavere maleodorante, che sa proprio di morte, oggi è il futuro e
insieme con quello tutti gli stati d'animo, i progetti e le idee che si
connettono e costituiscono sul futuro.
Letture. Grammatiche della moltitudine. Veniamo a questa rilettura citata
di un'opera che mi prepara a prendere in mano Moltitudine di Negri e
Hardt. È singolare, ma questa è una curiosità, che Virno nella
bibliografia pubblicata in calce al suo seminario non faccia riferimento a
Negri, senza contare che non ho trovato letture di Berardi, di Bologna e
addirittura alcune opere di Virno stesso che, se fossi stato l'autore,
avrei citato.
“Il general intellect o intelletto pubblico, se non diventa repubblica,
sfera pubblica, comunità politica, moltiplica all'impazzata le forme di
sottomissione” (p. 29) e poco oltre “ … la segmentazione delle mansioni
non risponde più a criteri oggettivi, 'tecnici', ma è esplicitamente
arbitraria, reversibile, cangiante” (p. 30). Da una parte, dunque, la
possibilità nell'epoca dell'astrazione dell'intelletto da contenuti
particolari, tipica del post – fordismo (il general intellect
recuperato da Marx dei Grundisse), di generare un percorso di liberazione
(la repubblica da contrapporsi all'Impero, anche se Virno non usa
quest'ultimo termine), dall'altra parte il venir meno di una forma di
sfruttamento (sottomissione) egemone, mancanza che innalza numerosi
ostacoli a questo percorso, soprattutto, aggiungo io, se inteso in maniera
classica (ma credo che Virno concorderebbe). In ogni caso (p. 32)
“L'intelletto pubblico … può costituire un diverso 'principio
costituzionale', può adombrare una sfera pubblica non statale”. Oserei
poco da aggiungere.
Senza entrare nel merito dell'interpretazione critica che Virno offre di
un'opera di Hanna Harendt (La condizione umana, del 1958) dove si denuncia
lo schiacciamento dell'attività politica sul lavoro e che Virno ribalta
specularmente, per cui è l'arte della politica, il virtuosismo della
parola, la comunicazione in quanto tale a determinare la nuova forma delle
relazioni di lavoro, si scrive questa verissima e modernissima
constatazione: “Nessuno è così povero come colui che vede la propria
relazione con la presenza altrui, ossia la propria facoltà comunicativa,
il proprio linguaggio, ridotti a lavoro salariato” (p. 55). Avrei esteso
questa condizione a tutto il lavoro comandato oggi, ma ben poco da
aggiungere anche qui. Magistrale e terribilmente vero è il momento in cui
la relazione servile pervade la società e il lavoro salariato, come nuova
condizione introdotta dalla post – modernità: “Poiché lo 'spazio a
struttura pubblica' aperto dall'intelletto è ridotto ogni volta da capo a
cooperazione lavorativa, cioè a una fitta rete di relazioni gerarchiche,
la funzione dirimente che ha la 'presenza altrui' in tutte le concrete
operazioni produttive prende la forma della dipendenza personale. Detto
altrimenti, l'attività virtuosistica [l'arte politica e il lavoro privo di
prodotto sussunto o cooptato dentro il lavoro produttivo, Nota mia] si dà
a vedere come universale lavoro servile. L'affinità tra il pianista e il
cameriere … trova una inopinata conferma nell'epoca in cui tutto il lavoro
salariato ha qualcosa dell'artista esecutore. Solo che a prendere le
sembianze del lavoro servile è lo stesso lavoro produttivo di plusvalore”
(p. 61).
Molto interessante la quarta giornata del seminario dedicata alle tesi che
davvero invito a leggere integralmente, qui solo scampoli.
Nella tesi 2 [Il post – fordismo è la realizzazione empirica del
'Frammento sulle macchine' di Marx] “ … Marx sostiene una tesi ben poco
marxista: il sapere astratto … si avvia a essere … la principale forza
produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una
posizione residuale” (p. 97) e tutto questo conduce e realizza nel post –
fordismo il paradosso filosofico del marxismo: “Anziché focolaio di crisi,
la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente
importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di
dominio [la riproposizione del lavoro servile. Nota mia]. La radicale
metamorfosi dello stesso concetto di produzione si è iscritta pur sempre
nell'ambito del lavoro sotto padrone” (p. 98). Questo concetto era già in
Negri di Marx oltre Marx (primi anni ottanta, circa) ma qui è chiarito
magistralmente e con una bella audacia espositiva.
Nella tesi 3 [La moltitudine riflette in sé la crisi della società del
lavoro] basti questa lapide: “il tempo di lavoro è l'unità di misura
vigente, ma non più vera” (p. 99).
Nella tesi 5 [Nel post – fordismo sussiste uno scarto permanente tra
'tempo di lavoro' e un più ampio 'tempo di produzione'] leggiamo: “Secondo
Marx, il plusvalore scaturisce dal pluslavoro ossia dalla differenza tra
lavoro necessario … e l'insieme della giornata lavorativa (…) In epoca
post – fordista è determinato soprattutto dallo iato tra un tempo di
produzione non computato come tempo di lavoro e tempo di lavoro
propriamente detto” (p. 103).
Nella tesi 10 basti solo il titolo: il post – fordismo è il 'comunismo del
capitale'. Ancora annoto come compreso da Negri agli inizi degli anni '80.
Direi che è il caso di dedicarsi a Moltitudine.
rivedi febbraio
Inizio
anno
Domenica, 1 marzo
Dopo tutto quello che ho scritto a febbraio credo che mi riposerò un po' a
marzo. È comunque risultata interessante in questo periodo la lettura del
Migliorini, che va avanti lentamente, la sera. Avrei una mezza idea di
riprendere Spinoza nel 'Trattato teologico – politico' e anche il Trattato
sui principi della conoscenza di Berkeley sul quale mi è caduto l'occhio e
ho sfogliato. Ma mi attende Moltitudine e la mia 'tematica principale'.
Letture. Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale /
Michel Hardt, Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2004. - 1.ed. - (Collana
storica Rizzoli). - Tit. orig.: Moltitude. - Trad. di Alessandro Pandolfi.
All'epoca mi ero fermato alla prefazione, che ho ripreso oggi. Sono
risalito anche alla data esatta di acquisto, il 2006, grazie a un ritaglio
di giornale che avevo l'intenzione di usare come segnalibro; nel ritaglio
una recensione sugli inediti di Foucault (raccolte di lezioni tenute tra
il 1977 e il 1979) scritti insieme con la Storia della sessualità.
La prefazione registra subito la necessità di storicizzare, con lo scopo
di precisare meglio, e quindi gli autori presentano il libro come
prosecuzione di Impero secondo un percorso che è diametralmente opposto a
quello adottato da Hobbes, che prima scrisse il De Cive e poi il
Leviatano (1642, 1651) e ancora di più si legge testualmente: “Questo
libro è stato scritto, in gran parte, sotto le nubi della guerra: tra l'11
settembre 2001 e il conflitto in Iraq del 2003”. Due forti parametri di
storicità.
Nella prefazione si anticipano due centralità dell'opera a seguire: il
problema / necessità / possibilità della costituzione di una democrazia
globale e il nuovo concetto di Moltitudine, rispetto ai quali, e terzo
argomento, quello della guerra imperiale costante, è elemento di disturbo,
vero ostacolo. La guerra impedisce alla Moltitudine di estrinsecarsi e
alla democrazia globale di realizzarsi.
Questo è, quindi, il trilogico piano dell'opera. Limitandomi a questa
breve premessa noto che viene introdotta un'idea di Moltitudine diversa da
quella di Virno (differenza presagita nella comparazione tra
Grammatica della Moltitudine e Impero); Moltitudine non è un paradigma ma
è per certi versi un elemento sociologico; è la realizzazione, allargata e
inclusiva, del concetto di classe operaia ben espressa in un brano: “A
differenza della borghesia e di tutte le limitate ed esclusive formazioni
di classe, la moltitudine è capace di formare autonomamente la società,
come vedremo, questo è il punto centrale delle sue attitudini
democratiche” (p. 16). Moltitudine è, alla fine, un soggetto politico e
sociale.
Lunedì, 2 marzo
Letture. Storia della lingua italiana. L'anomalia italiana ama
manifestarsi in tutte le epoche e nelle discipline più disparate; così
Migliorini non poté evitare di notare che la letteratura in volgare si
affermò con estremo ritardo in Italia, rispetto alla Provenza e alla
Francia settentrionale e, inoltre, ancora di più la prosa faticò a essere
riconosciuta come fatto linguistico indipendente dal latino, rimanendo
spesso legata a variabili dialettali. Fu dunque la poesia a porsi
all'avanguardia della letteratura in volgare, tra la Sicilia e la Toscana,
assumendo un modello 'mediano', percorrendo una mediazione lessicale e
morfologica tra le diverse ispirazioni / sostrati regionali. Dopo un forte
ritardo si configurò, al contrario, un'operazione culturale
raffinatissima, secondo la quale il mercato linguistico, il commercio
delle parole, fu sottoposto a un comando selezionante: il 'dolce stil
novo' riassunse questo processo.
L'italiano nasce come lingua d'arte, segnatamente arte lirica, che ricerca
un equivalente lessicale e morfologico, un elemento comune, tra le diverse
tradizioni regionali; scrive in proposito l'autore: “Non si mira insomma a
una lingua comune, si mira a una lingua bella e nobile, la quale eliminerà
i particolarismi e sarà perciò anche comune”.
Mercoledì, 4 marzo
Letture. Moltitudine. Simplicissimus. Sulla guerra moderna, nel
senso di nuova, precisando assai meglio quello che è stato scritto in
Impero.
I concetti base sono:
1 – l'indeterminatezza della guerra: non ha riferimenti a precise
situazioni geografiche e istituzioni politiche e non ha limiti temporali.
2 – si presenta come operazione di polizia internazionale: fa riferimento
al diritto internazionale della seconda metà del XX secolo, che ha bandito
la guerra e l'uso della forza dentro e fuori gli stati – nazione e ha
annullato la sovranità nazionale in materia. Questo precedente storico e
ideologico ha una ricaduta concreta in ragione del fatto che, annullando
la forza giuridica degli stati nazionali, lascia la possibilità di
fare e nominare la guerra in un contesto squisitamente internazionale.
3 – la giustificazione della guerra, la definizione di una guerra giusta,
non è un a priori ma un a posteriori; vale a dire che la definizione viene
validata dai suoi risultati.
4 – anche se Negri non lo scrive, non è più il diritto internazionale ma
una morale massmediatica (una morale di impatto massmediatico) a mettere
in moto il meccanismo della creazione e nominazione dell'evento bellico.
5 – si è passati dalla guerra di difesa alla guerra di sicurezza. Anche
questa trasformazione si coniuga con il declino dello stato nazione in
virtù del quale l'immagine del confine si restringe all'interno dello
stato (pensiamo alle 'contaminazioni' etniche) o si estende all'esterno
(pensiamo alla 'guerra preventiva' in Iraq). In quella particolarissima
fase, però, fu uno stato – nazione (gli USA) a riassumere le esigenze
internazionali, costituendo o un'anticipazione 'imperiale' o un relitto
del vecchio imperialismo, forse entrambe le cose.
I fondamenti strutturali del nuovo scenario bellico sono certamente da
individuarsi nella crisi dello stato – nazione che è stata a sua volta
determinata dalla definitiva internazionalizzazione dell'economia e del
mercato per la quale i confini nazionali sono semplicemente un ostacolo
allo sviluppo. Questo ha generato l'indeterminatezza dei conflitti e la
loro transvalorizzazione da fatti eminentemente provocati da
contraddizioni nazionali, da contrapposizioni tra entità ben definite
istituzionalmente, a operazioni di ordine pubblico internazionale. Le
fenomenologie ai punti 3, 4 e 5, al contrario, dipendono dal declino
strutturale dello stato – nazione e si intersecano, collaborando, in
maniera incessante tra loro. La potenza 'morale' della giustificazioni a
posteriori dell'impresa bellica si può realizzare solo attraverso una
proporzionalmente forte persuasione mediatica, come, al contempo,
quest'ultima ha necessità di fatti e risultati concreti per istituire la
sua teoria giustificatrice e 'nominare' la guerra. L'accantonamento
dell'idea della guerra di difesa collabora con la morale della guerra come
risultato, come evento che costituisce i valori morali e politici oltre
che essere, ovviamente, prodotto dell'internazionalizzazione e del declino
degli stati nazionali.
Per la prima volta, dopo la lettura di questo concretissimo primo capitolo
di Moltitudine, si è insinuato il dubbio dell'adeguatezza del termine
'Impero', che almeno nelle forme belliche si dà nei modi di un cartello di
stati ormai multinazionalizzati nelle intenzioni e a tratti subisco la
tentazione di analizzare di conseguenza il 'mondo imperiale', come, cioè,
un gruppo di stati nazionali che ha perso la sua connotazione originaria
per multinazionalizzarsi: insomma l'impero potrebbe essere descritto
coma una nuova forma degli stati nazionali.
Lascio spazio alla trascrizione di alcune estrapolazioni dal testo che
sottolineo come particolarmente interessanti.
“Attualmente la guerra civile non si inserisce più all'interno di uno
spazio nazionale, dato che quest'ultimo non costituisce più l'unità
effettiva della sovranità, bensì in un ambito globale” (p .19).
“La specificità del nostro tempo … è il passaggio della guerra da elemento
terminale della catena del potere – la forza letale come ultima risorsa –
a fattore primo e primario della politica stessa” (p. 39).
È fondamentale quest'ultimo brano: “Nel momento in cui le funzioni
fondamentali dello stato nazionale declinano insieme al monopolio della
forza legittima, i conflitti iniziano ad aumentare sotto la copertura di
un'infinità di simboli, ideologie, religioni, bisogni e identità. In tutti
questi casi la violenza legittima, la criminalità e il terrorismo tendono
a diventare indistinguibili …. Tutte le violenze tendono a sfumare nel
grigio” (p. 51).
Giovedì, 5 marzo
Letture. Moltitudine. La guerra. Sarò sintetico: per quello fin qui letto
il testo è bello e concreto, vivo e vivace. Proprio perché vivo è in parte
datato ma generoso di proiezioni e analisi; ne sta valendo la pena.
Moltitudine non disegna una verità indissolubile, prestabilita e
perfettamente configurata: tutto è nuovamente configurabile.
Venerdì, 6 marzo
Letture. Moltitudine. Contro insurrezione. Paragrafo dove si tratta della
'lunga marcia' dell'organizzazione militare verso la struttura 'imperiale'
e reticolare. I prologhi di questa marcia sono, ovviamente, da ubicarsi
nella crisi dello stato – nazione e alcune anticipazioni di questo cammino
sono state introdotte già lungo la guerra fredda dove “ … era già
diventato perfettamente chiaro che la guerra si era trasformata in una
faccenda ordinaria e che la cessazione delle ostilità potenzialmente più
letali non comportava la fine della guerra ma solo un temporaneo
cambiamento della sua forma” (pp. 57 - 58). Fu, infatti, l'accordo
bilaterale USA – URSS del 1972 sulla limitazione dei missili balistici a
mettere in crisi l'idea moderna di guerra come scontro frontale e di
massa, anche se ormai svolta sub specie atomica, e a far
emergere una nuova idea del conflitto come una serie di eventi
diffusi e mai decisivi, come uno strumento per controllare la potenza del
nemico senza annientarlo. Conseguentemente l'immagine bellica che aveva
dominato il settecento, l'ottocento e gran parte del novecento naufragava,
poiché inadeguata alla nuova essenza del confronto. Paradossalmente fu il
comune riconoscimento del grave rischio comportato dalla guerra atomica a
determinare il tramonto dell'idea stessa di guerra tra nazioni, di guerra
tradizionale: la scomparsa concettuale di uno degli opposti (la
guerra nucleare globale) provocò la fine del suo opposto (la guerra
convenzionale tra stati).
Furono così possibili la 'politica delle cannoniere' adottata dagli Stati
Uniti in America Centrale (Grenada, Panama e Nicaragua) insieme con
l'invasione sovietica dell'Afghanistan (1980): episodi, a seconda dei casi
e dei momenti, di alta, media o bassa intensità bellica, ma tutti ben
delimitati e circoscritti al di fuori di un contesto nazionale e
dell'ideologia o rappresentazione della guerra tra nazioni.
Il mutamento dello scenario politico e militare nel confronto USA – URSS
registrato nel 1972 fu, probabilmente, provocato dall'inizio delle grandi
trasformazioni dell'economia mondiale, segnate dallo sganciamento del
dollaro dal valore dell'oro (1971) e dalla crisi petrolifera del 1973.
Il tramonto dell'opportunità del conflitto bellico ad alta intensità e
svolto su larga scala (pensiamo alle due guerre mondiali) portò con sé una
trasformazione tecnica e implicita: la radicale riorganizzazione degli
eserciti e in primo luogo quello degli Stati Uniti che funzionò come
nazione – guida di questo cambiamento. In estrema sintesi l'esercito
diviene professionale e con componenti addirittura mercenarie (anche
l'Italia rinunciò definitivamente alla componente non professionale
dell'esercito nella seconda metà degli anni '90) e con una ossatura non
più rappresentativa di un 'popolo in armi', ma, al massimo, di alcuni
settori del popolo (negli Stati Uniti segnatamente gli afro – americani e
i latini, in Italia, nel suo limitato orizzonte etnico, la gente del
meridione e delle isole) e spesso aperto al contributi di terze parti,
ingaggiate a diverso titolo e con compiti e competenze specifiche e
limitate temporalmente. La tradizionale gerarchia militare piramidale,
formata da una truppa dequalificata, una cerchia intermedia
professionalizzata e professionalizzante e un comando centralizzato che
plasmava l'esercito di massa e 'multipotente' della modernità
(multipotente poiché la stessa professionalità, proprio perché generica e
massificata, veniva usata in contesti bellici diversi e doveva adattarsi a
esprimere potenze di fuoco differenti tra loro) fu sostituita da una
struttura articolata in reparti specializzati fin da subito ad affrontare
particolari missioni o eventi bellici e da un comando distribuito e
destinato al coordinamento più che all'inquadramento della truppa, mentre
la tradizionale centralità della fanteria e dell'artiglieria venne
rimpiazzata dall'egemonia dell'aviazione e delle unità specialistiche
della marina. In un quadro organizzativo così disaggregato si è affermata,
naturalmente, l'importanza del circuito informativo del comando, dei
servizi e della logistica e contemporaneamente il raffinamento delle reti
di comunicazione digitale ha permesso di immaginare prima e realizzare poi
una simile disaggregazione operativa e mansionaria, in un processo del
tutto biunivoco e interattivo. Questa trasformazione è quella
contraddistinta dall'adozione del R.M.A. (rivoluzione nell'azione
militare) alla fine degli anni novanta nell'esercito statunitense.
Per riprendere il testo: “ … l'apparato militare post – moderno possiede
molte caratteristiche di quella che gli economisti definiscono la
produzione post – fordista … l'apparato militare è basato sulla
flessibilità e mobilità …” (p. 60).
[Il corpo del soldato] Interessantissima, inoltre, è la descrizione della
nuova immagine, autenticamente accostabile a quella della fabbrica
toyotista e all'immagine dell'operaio che lavora nella produzione
automatizzata, che la guerra post – moderna offre di sé; la guerra è
diventata, ovviamente nell'immaginario 'imperiale', sul lato egemonico e
vincente dell'evento bellico cioè, un FATTO INCORPOREO, dove il soldato
perde la fisicità, diviene appendice dell'arma e dell'attrezzo bellico (o
addirittura viene sostituito completamente da quello come nel caso degli
attuali droni). Questo modello bellico, autenticamente perseguito e
inseguito dalla nuova organizzazione militare (e per certi versi
idealizzato dai massmedia e dalla sua rappresentazione massmediatica)
tende a ridurre davvero e non in modo mistificato il rischio della morte
per il soldato 'imperiale' vicino allo zero, mentre, in una violenta e
crudele contrapposizione etica, psicologica ed emotiva la morte diviene
quasi esclusivo repertorio del nemico e anonima, insignificante, neppure
degna di essere conteggiata e contabilizzata. Emblematica nei miei
ricordi, a questo proposito, la presa diretta del 'tiro al tacchino'
operata e commentata da alcuni aviatori americani contro un gruppo di
soldati iracheni in ritirata e disarmati, durante la prima guerra del
golfo, il disprezzo genetico verso il nemico, il 'tacchino', e la
sensazione di infallibilità e di immortalità che la accompagnava,
sensazioni riportate ed enfatizzate dalla conseguente cover
massmediatica di quell'orribile vigliaccata ('vigliaccata' usando le corde
della tradizionale 'etica bellica').
Questa DECORPOREITÀ del soldato si realizza per motivazioni a un tempo
intrinseche ed estrinseche rispetto all'evento bellico. Intrinseche perché
il soldato 'imperiale' è un professionista altamente specializzato,
possiede un alto valore aggiunto e ha in custodia e in uso una
strumentazione raffinata e costosa (un alto valore aggiunto di capitale
fisso per dirla con Marx); tanto il soldato quanto le sue armi non
possono, quindi, essere utilizzate come nelle guerra tradizionale, di
massa e 'dequalificata' professionalmente dove armi e militari erano
continuamente esposti al rischio di morte e distruzione, di cattura o
sequestro da parte del nemico per via del continuo e reiterato contatto e
scontro ravvicinato con quello. Un altro complesso di motivazioni
intrinseche all'incorporeità del soldato imperiale si trova nel
potenziamento della scienza balistica e dell'aviazione che allontanano il
campo di battaglia dai combattenti di terra, dai combattenti umani, e
rendono il campo di battaglia il più possibile inanimato e virtuale.
Le motivazioni estrinseche risiedono nella stessa ideologia bellica
'imperiale' che impone, quantomeno a livello di rappresentazione mediatica
e di resoconto politico, l'annullamento della violenza fisica e della
forza dei corpi in battaglia verso un immagine di una guerra
tecnologicamente e igienicamente perfetta. Altra categoria di
motivazioni estrinseche in ordine al successo dell'immagine incorporea
della guerra del soldato 'imperiale' (del rappresentante armato delle
politiche internazionali egemoni nel capitalismo, preciserei) è una
relazione di analogia, un isomorfismo, con i modi di produzione, le
forze produttive del capitalismo post - moderno e globalizzato: il
soldato incorporeo è perfettamente coerente con la tipologia della
produzione capitalista dominante post – fordista che pone al suo centro,
nel suo nucleo qualificante, la produzione immateriale e l'immaterialità.
La costituzione del 'nuovo modello militare', basato sulla netta
superiorità tecnologica (missilistica 'intelligente', aviazione
trasparente alle rilevazioni radar, capacità informativa espressa in tempo
reale, uso di robot e di droni, possibilità per la fanteria di operare in
notturna e in generale di ignorare e aggirare gli ostacoli naturali, solo
per ricordare alcuni elementi di questa innegabile superiorità bellica
dell'esercito 'imperiale') determina un rapporto militare asimmetrico tra
l'Impero e i suoi nemici; quello che gli autori definiscono GUERRA
ASIMMETRICA.
La guerra asimmetrica incontra solo nella guerra di guerriglia un vero
ostacolo, anche se le caratteristiche dell'evento bellico attuale rendono
lo sforzo di guerriglia molto più arduo che negli anni '20 – '70 del
vecchio secolo, che possono venir considerati come gli anni dell'acme
della guerriglia e degli eserciti popolari e di liberazione nazionale. Le
potenze imperiali, infatti, gestendo una guerra 'immateriale', che procura
pochissime vittime nelle loro schiere, possono permettersi il lusso
(economia permettendo) di renderla interminabile. “Senza gli orrori della
guerra ci sono meno incentivi a terminarla e una guerra senza fine …
rappresenta l'estrema barbarie” (p. 67). Per di più il problema della
guerriglia, che è per definizione una resistenza reticolare e quindi quasi
analoga e di egual struttura a quella degli eserciti degli stati
imperiali, non è sconosciuta al dominio internazionale che ha imparato ad
affrontarla già nel secolo scorso, ai tempi degli eserciti nazionali che
si contrapponevano agli eserciti popolari (pensiamo alla sconfitta subita
dagli statunitensi in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan) e proprio i
fallimenti patiti hanno portato gli strateghi politico – militari
dell'occidente egemonico a trasformare il 'vecchio' esercito nel 'nuovo'
esercito.
Moltissimi elementi dunque (politici, economici, sociali, tecnologici
oltre che strettamente militari) hanno concorso al delineamento
dell'esercito cibernetico, semi – robotizzato, altamente
professionalizzato e 'immateriale'.
Due, ancora una volta, interessantissime parole sulla relazione
conflittuale ma dialettica tra Impero e imperialismo, ovvero tra dominio
internazionalizzato e dominio nazionalizzato. Vale la pena di citare,
estrapolando. “Da una parte, ogni singolo impegno militare e
l'orientamento complessivo della politica estera [degli Stati Uniti in
particolar modo ma anche dei singoli stati alleati (nota mia)] sono
espressione degli interessi nazionali e devono essere giustificati in
questi termini [presso l'opinione pubblica interna (nota mia)] …
Dall'altra parte, però, ogni singolo impegno militare statunitense …
implica … l'adozione di una logica imperiale la quale viene giustificata …
in nome dell'umanità in quanto tale … Non bisogna giudicare la retorica
umanitaria e universalistica … come una mera facciata che maschera la
logica degli interessi nazionali. I diritti umani e gli interessi
nazionali sono reali nella stessa misura” (pp. 82 – 83).
Infine vengono precisate, in maniera plausibile e in metafora storica, le
relazioni tra stati – nazione dentro il contesto 'imperiale' (e questa
precisazione è oggi da rivedere, ma adeguata al 2004): “Gli Stati Uniti
sono nella stessa posizione del monarca che non può finanziare le sue
guerre da solo e deve perciò ricorrere alle risorse dell'aristocrazia. Gli
aristocratici a loro volta replicano: Nessuna tassazione senza
rappresentanza” (p. 84). Dopo la grande depressione del 2008 credo che la
'monarchia' sia divenuta sempre più collegiale e si stia trasformando in
un'oligarchia repubblicana dove gli stati – nazione europei e nord
americani riscoprono, per certi versi, la loro 'dignità' nazionale. Ma è
solo un'impressione.
Annotazione. Gran parte delle cose lette fin qui in Moltitudine sono
condivisibili. Ho una certa riluttanza, però, a condividere un nesso
troppo lineare e diretto tra modo di produzione e tipologia militare.
Certamente esiste una prossima parentela tra fabbrica fordista, operaio –
massa ed esercito massificato e dequalificato, strutturato, come la
fabbrica delle catene di montaggio, secondo un comando piramidale alla cui
base stava un soldato / fante indifferenziato bellicamente, la cui dote
principale era l'adattamento agli ordini, l'obbedienza in battaglia e
spesso quelle che che viene comunemente detto 'coraggio', vale a dire la
rassegnazione a una morte altamente probabile. Esiste anche una relazione
tra il toyotismo, il post – fordismo, le conseguenze produttive della
quarta rivoluzione industriale, la crescita del valore della produzione di
beni immateriali e l'esercito orizzontale, specializzato, disaggregato del
post – moderno. Non è affatto impossibile, però, che si dia
dell'asincronicità: reperire, per esempio, gli antesignani dell'esercito
di massa della modernità, che veniva formato attraverso una leva generale
obbligatoria, già nella rivoluzione francese, dai battaglioni sanculotti
alla grand armee napoleonica, e in tutta l'Europa
dell'ottocento; alcune sporadiche anticipazioni le troviamo addirittura in
epoca pre – rivoluzionaria (nella stessa Francia e in Prussia se non vado
errato). In questo caso l'organizzazione militare ha anticipato i tempi
dell'organizzazione economica e produttiva, ideando un modo certamente
taylorista di concepire la guerra e la milizia: artigiani e contadini
furono inquadrati nelle file dell'esercito come quasi un secolo più tardi
gli unskilled saranno inquadrati in fabbrica.
Ipotizzo che sia accaduto il contrario di quanto sostenuto da Negri e
Hardt: il mondo militare ha fornito suggerimenti e fascini a quello
produttivo.
Non conosco bene la materia, ma l'esercito americano ha cessato di essere
un esercito massificato e di leva già dopo la seconda guerra mondiale ed
ha affrontato la guerra di Corea e la parte iniziale di quella del Vietnam
usufruendo di volontari e di militari di professione. Questo non significò
già allora la trasformazione delle tecniche belliche ma, soprattutto in
Vietnam, alcuni reparti dell'aviazione e delle truppe di terra subirono
una specializzazione spinta, fino al punto di essere impiegate solo in
determinate e speciali occasioni.
Nel campo delle tecniche operative, infatti, è da escludere la sfasatura
temporale rispetto allo stato dei modi di produzione individuata per
l'organigramma e la struttura dell'esercito tra esercito – massa e
fabbrica taylorista, ma come il militarismo nazionalista dell'ottocento
seppe, per certi versi, anticipare i tempi della disciplina e del comando
sociale nel suo esercito, così la crisi del militarismo nazionalista e
l'emergere dell'esercito di tipologia decentrata e disaggregata
anticiparono, anche se di poco, (e questo solo in alcune realtà nazionali
come gli Stati Uniti e l'Inghilterra) la trasformazione sociale ed
economica per poi allinearsi, coniugandosi, con quella.
Domenica, 8 marzo
Letture. Moltitudine. Resistenza. Niente da aggiungere a quello che viene
scritto; bastino alcune citazioni. Quello che amo in questo testo è il
fatto che, nonostante si proponga come un'opera filosofica in quanto non
intende rispondere a domande come “che fare?” (si legge nella prefazione
che “il nostro libro non può rispondere a domande del tipo 'che fare?')
(p. 15), mette in campo un'analisi militante. L'analisi militante, come
scritto proprio nel primo paragrafo di 'resistenza', intitolato non
casualmente “La resistenza viene prima”, parte dal basso, dalla nostra
esperienza del mondo, per giungere all'esposizione; che, poi,
l'esposizione venga prima nella stesura dell'opera, vale a dire il
risultato si anteponga al suo presupposto (nel nostro caso la
fenomenologia della guerra 'imperiale' prima della Moltitudine, la contro
– insurrezione prima dei caratteri dell'insurrezione) è poco importante.
Analisi militante coincide per me con la costituzione di una
soggettività che esige di darsi in oggettività, che è tutto il
contrario della centralità scientifica che rappresenta la finzione
della neutralità oggettiva che 'naturalmente' si trasforma in
soggettività, in sapere vero, come se esistesse un rapporto
causale, una causa – effetto, tra oggettivo e soggettivo.
A proposito di causa ed effetto sarebbe più onesto parlare e fare
riferimento alla relazione tra motivazione e risultato e su quella
costruire la causalità e interpretarla in noi e negli altri. Sarebbe un
discorso molto lungo che forse un giorno affronterò.
Analisi militante (che in Impero, nonostante si volesse realizzarla, non
ho trovato) si dispone anche verso l'individuazione di un quadro operativo
e quindi etico, non solo di un nuovo scenario, di una nuova oggettività
quanto anche in un nuovo modo di vedere e chiamare le cose, in una nuova
soggettività.
Veniamo al testo al quale, lo ribadisco, c'è poco da aggiungere.
Sulla Moltitudine come anticipazione analitica dentro l'esposizione in
atto della guerra che è la grande nemica della Moltitudine si scrive: “Gli
scenari attuali della produzione e del lavoro … sono in via di
trasformazione sotto l'egemonia del lavoro immateriale (…) Questo non
significa che la classe operaia … sia scomparsa, e neppure che siano
scomparsi i lavoratori agricoli (…) Non significa neanche che il loro
numero sia diminuito in termini assoluti (…) Quello che vogliamo dire è
che le qualità e le caratteristiche del lavoro immateriale stanno
trasformando tutte le forme del lavoro” (p. 88). Il lavoro immateriale è
quindi la matrice e volano dello sviluppo delle forze produttive nelle
forme negative dell'estensione dell'attività lavorativa al tempo di vita,
della precarietà delle relazioni contrattuali e della flessibilità dei
mansionamenti. Lo è, però, anche nelle forme positive della formazione di
tipologie di vita sociale e della reticolarità e orizzontalità del
processo produttivo. Il lavoro 'biopolitico', reticolare e orizzontale è
una possibilità concreta di democrazia che nasce dalla produzione stessa.
Per tutte queste cose l'approccio della soggettività della Moltitudine al
potere e alla guerra imperiale cambia radicalmente, anzi la soggettività
stessa si trasforma rispetto ai canoni della militanza politica,
l'organizzazione e l'instaurazione del governo rivoluzionario (movimento →
organizzazione → presa del potere): “La pratica insurrezionale oggi non
può più suddividersi in quelle fasi; dal momento che essa le attiva
simultaneamente” (p. 91).
È un bel rompicapo, ed è un attualissimo rompicapo e un'analisi militante
ha proprio il compito di porre i problemi e non certo quello di
risolverli. In verità, in altre opere abbondantemente precedenti a questa,
scritte tra gli ultimissimi anni settanta e i primi anni ottanta, che
lessi a suo tempo (penso, andando a memoria, a 'Marx oltre Marx' e alla
'Guerra e il comunismo'), Negri anticipò un approccio analitico come
questo e una teoria dell'antagonismo analoga. Lo fece, però, in maniera
molto meno determinata e con la mente volta ancora indietro,
all'esperienza insurrezionale dell'operaio – massa e pur introducendo un
nuovo soggetto, l'operaio – sociale, alla fine lo rappresentava
attraverso quello che l'operaio – massa non era potuto essere. In
quella particolarissima fase della vita politica italiana mi parve che
Negri cercasse nella vecchia dimensione analitica elementi che
producessero consolazione rispetto all'innegabile sconfitta politica e
sociale subita dal movimento comunista e antagonista, piuttosto che
l'apertura di un nuovo scenario analitico.
La teoria sull'operaio – sociale, nel 2002 / 2003, attraverso Moltitudine
si svolge al futuro e non al passato e diviene determinata e precisa.
L'operaio – sociale descritto da Negri quarantacinque anni fa era un
soggetto magmatico, quasi il composto di un mosaico di tessere conformato
dall'operaio dequalificato, dall'operaio professionalizzato e
consigliarista e, addirittura, da tratti di somiglianza e analogia con
l'artigiano sanculotto, per alcuni aspetti. Tutti questi elementi,
compresenti, non si coniugavano nell'intelligenza e nella soggettività di
una figura produttiva, ma si affiancavano gli uni agli altri senza avere
relazioni organiche tra loro. Nella Moltitudine (ma già in Impero e, per
uscire dalla biografia intellettuale di Negri, anche nella Grammatica di
Virno) l'operaio – sociale riassume tutte le forme produttive e di
sfruttamento precedenti e assume una fisionomia sua propria, un'egemonia
su quelle.
Annotazione. [Una cover radiofonica e l'operaio – sociale].
Durante la presentazione radiofonica di un libro, il suo autore, Angioni,
ha annotato che un mondo che non sa valutare l'entusiasmo dei giovani e
l'esperienza degli anziani è destinato a produrre orrore e barbarie. Il
suo libro descrive liberamente la nascita, nel 1258, in mezzo alla guerra
interminabile tra Genovesi e Pisani e tra Pisani e indigeni, guerra sorta
per il predominio sulla Sardegna, di una comunità di profughi isolani su
un territorio occupato da un lebbrosario e perciò inospitale anche alla
guerra. La comunità riesce a definirsi, a scrivere uno statuto,
separandosi dalla guerra che imperversa tutto intorno; ne è il prodotto
(la guerra ha provocato la fuga dalle città e campagne circostanti e il
lebbrosario era stato svuotato per via di essa) ma anche la negazione. Gli
emigrati costituiscono una società che non guarda indietro, per certi una
comunità priva di memoria, dove convivono in ragione di questa assenza
donne e uomini, agricoltori e artigiani, profughi bizantini e mussulmani e
dove ognuno giunge con la sua conoscenza e la mette in comunione. Santa
Gia (mi pare sia questo il nome del 'non – posto' come lo etichetta
l'autore medesimo) riqualifica tutte le conoscenze e le inclinazioni ed è
il luogo dove l'entusiasmo e l'esperienza collaborano liberamente. Le
relazioni umane, gli stati d'animo e le stagioni della vita diventano
motori dell'economia e della produzione. Storicamente l'esperienza di
Santa Gia terminò e in malo modo, per mano dei Pisani, ma l'idea di
un'economia come risultato di un programma che si costituisce
nell'entusiasmo e nell'esperienza e prodotto di una separazione dalla
guerra e da una particolare struttura della memoria, la considererei
particolarmente attuale.
Lunedì, 9 marzo
Letture. Moltitudine. Resistenza. L'esposizione prende le mosse dalle
guerriglia contadina di epoca pre – moderna, giunge all'esercito popolare,
ritorna alla guerriglia riscoperta nella seconda metà del novecento e
infine identifica la nuova dimensione e formalità reticolare
dell'opposizione al dominio post – moderno.
Tutte queste tipologie possono corrispondere a una particolare fase dello
sviluppo sociale ed economico anche se “ … non vogliamo dare l'impressione
di ritenere che le forme della resistenza si sviluppino seguendo il filo
di una sorta di evoluzione naturale … anche il parallelismo che abbiamo
articolato tra l'evoluzione delle tipologie della resistenza e i modi di
produzione economica è ancora troppo astratto” (pp. 118 – 119).
Sia le forme dell'esercito popolare che quelle della guerriglia sono coeve
al modo di produzione di fabbrica, anche se, nella stragrande maggioranza
dei casi, è il mondo contadino a essere stato protagonista della
resistenza armata (dalla Cina di Mao, a Cuba di Castro, ai Sandinisti e a
Sendero luminoso) ma soprattutto esigono una centralizzazione politica e
militare, nell'esercito popolare (Cina, Russia e Vietnam), e militare,
nella guerriglia (Cuba e Nicaragua). In entrambi i casi fu un'autorità
gerarchizzata a decidere per il movimento e l'obiettivo era quello di
fondare un nuovo governo e un nuovo stato, facendo riferimento alla
legittimazione popolare e al concetto di popolo.
Per le forme organizzative della post – modernità abbiamo solo elementi di
passaggio dalla struttura guerrigliera a quella reticolare che corrisponde
alla resistenza al dominio produttivo costituito secondo modi post –
fordisti: l'intifada (1987 e 2000) e l'Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale (EZNL) del Chiapas. Ma si tratta di ibridi, di passaggi,
appunto, dove la compresenza di tre elementi che vengono ritenuti dagli
autori indispensabili a qualificare questa nuova forma di resistenza non
si danno ancora: “Il primo principio è quello del grado di efficacia in un
determinato contesto storico … Il secondo principio è la necessità di una
forma di organizzazione politica o militare adeguata ai modi della
produzione sociale ed economica … Infine … la democrazia e la libertà sono
i punti di riferimento che guidano lo sviluppo delle forme organizzative
della resistenza … In molti momenti storici questi tre principi si sono
trovati in conflitto tra loro … Oggi i tre principi possono finalmente
coincidere” (pp. 111 – 112).
L'esempio per questa concezione organizzativa è un esempio etico, è
l'etica della cooperazione tra gli individui che ha una matrice
nell'etica della rete telematica. Tutte le vecchie strategie, tattiche e
forme di resistenza rivoluzionaria sono inadeguate, “ … tutti questi
interrogativi risultano vecchi, logori e per molti aspetti già dissolti”
(p. 113).
Ci sarei andato sinceramente un po' più cauto, ma direi che davvero la
parola ora spetta all'analisi e definizione della moltitudine, del
sostrato vivente di questa nuova forma organizzativa e dunque naturalmente
si sviluppa la seconda parte dell'opera. Concordo, in ogni caso, sul
fatto che il primo segno del proletariato nella dimensione della
moltitudine è stato il movimento 'no global' da Seattle fino al 2003, come
convergenza non determinata autoritariamente di gruppi diversi, spesso
anche in conflitto tra loro su alcune questioni, ma coordinati da
un'esigenza autoritativa generale: la pratica della democrazia e la lotta
per la democrazia contro la guerra 'imperiale'.
Fin qui, comunque, è stata un'analisi 'morfologica' della resistenza alla
guerra imperiale, ora ci si ripromette un approccio di indagine
ontologico.
Giovedì, 12 marzo
Annotazione. Sospetto che la 'rivoluzione' sia impossibile da almeno un
paio di decenni. Ho trovato conferme, dirette e indirette, di questa
impossibilità tanto nell'ultimo Negri quanto in Huwey Newton e ancora in
molti altri. Dunque questa è un'idea comune e diffusa. Rimane, però,
aperto il problema del comunismo che è stato concepito, inizialmente, come
il prodotto di una fase rivoluzionaria che, senza determinarlo
direttamente, lo introduce. Si tratta della fase della 'dittatura del
proletariato' o, secondo altre lezioni, del 'socialismo'. È possibile il
comunismo senza di quelle, ovverosia senza rivoluzione? E se così fosse
come potremmo figurarci questo periodo storico che dovrebbe allora nascere
da una transizione non rivoluzionaria, intendendo il lemma rivoluzionario
nel senso tradizionale e marxista del termine? Sarà un altro comunismo
rispetto a quello appena tratteggiato da Marx?
O ancora di più. Che tipo di transizione rivoluzionaria può generare il
comunismo, considerato secondo la definizione di un sistema sociale nel
quale lo stato e le classi sociali si estinguono? Certo è che la
concezione della 'conquista del potere', della trasformazione
dell'apparato statale e dell'instaurazione di un governo del
'proletariato' sotto la forma di una democrazia diretta, allargata, non
rappresentativa e costruita per distruggere definitivamente la classe dei
capitalisti, attraverso l'esercizio di una 'dittatura democratica' (per
usare la terminologia di Troskij), è davvero inadeguata in tutti i suoi
punti, nessuno escluso.
È inadeguata sotto il profilo sociale, perché il 'capitalismo reale' non
si invera in una classe specifica, e lo è sotto il profilo politico,
perché non esistono più (almeno nei paesi egemoni e 'sviluppati')
organizzazioni e gruppi degni di questo nome e capaci di avere un certo
consenso, muovendosi verso la costituzione di una dittatura del
proletariato e verso la conquista dello stato; lo è ancora sotto il
profilo storico, perché gran parte degli elementi del socialismo sono
stati realizzati, e da lungo tempo, dal capitalismo (il welfare,
il seguente warfare, la democrazia allargata e anche le ultime
forme di democrazia non rappresentativa), e lo è, infine, sotto il profilo
economico, perché l'obiettivo socialista dello sviluppo industriale,
tecnico e scientifico esteso a tutto il mondo, internazionalizzato o
addirittura mondializzato, è stato anch'esso raggiunto dal capitalismo.
Meno certo ed evidente è che il capitalismo abbia eliminato l'attualità e
l'urgenza del comunismo, anche se il passaggio dal fordismo al post –
fordismo ha comportato un superamento di quello che potrebbe essere detto
il 'socialismo del capitale' verso un 'comunismo del capitale' neppure
troppo occultato. Comunismo del capitale è il luogo storico dove è il
capitalismo a farsi protagonista della critica allo stato, della critica
all'omologazione sociale insieme con il contemporaneo elogio alla
diversità sociale, sessuale ed etnica. È un paradosso che mi è famigliare,
ormai: lo sviluppo del capitalismo dopo la grande depressione del 1929 ha
percorso, sotto il suo punto di vista, le fasi storiche previste dalla
teleologia marxista classica.
In questo contesto il discorso sopra la rivoluzione e il comunismo è
diventato non solo difficile ma scivoloso, perché non comporta solo il
ragionamento su molteplici elementi storici ma richiede anche un'analisi
dipanata su diversi piani e soprattutto espressa in maniera pluriforme che
impedisce, implicitamente, di recuperare e utilizzare un linguaggio
univoco. Il comunismo richiede un nuovo linguaggio, o meglio una
serie incredibile di linguaggi. Il comunismo, cioè, non può essere,
al contrario del socialismo e della dittatura del 'proletariato', una
dimensione culturale e ideologica unificante (per dirla con Negri e Hardt:
una nuova sovranità) e un discorso unitario, organico sotto il profilo
politico. Insomma il comunismo è tutto il contrario del prodotto di
un processo rivoluzionario inteso in senso tradizionale.
Alla domanda, per me fondamentale, su dove si ubica il punto di rottura
tra il 'comunismo del capitale' e il 'comunismo dei proletari' si può solo
fornire una risposta parziale che risolve una piccola parte
della domanda. È inevitabile prevedere, per questa rottura, non un singolo
punto, ma moltissimi punti, che si trasformano in segmenti e linee, e non
un unico momento, una contemporaneità, ma numerosi momenti, un'eternità,
quasi. Come credo avesse pensato anche Marx, nel passaggio dal socialismo
al comunismo la lotta politica si arricchisce di due aspetti rispetto a
quelli che avrebbero contraddistinto la transizione dal capitalismo al
socialismo, l'aspetto antropologico e quello filosofico: il comunismo è
una 'rivoluzione' nella quale quella che veniva, ancora nel socialismo,
detta 'sovrastruttura' decide della 'struttura'.
Immagino che questo confronto, oltre che non addensarsi temporalmente, non
conoscerà figurazioni 'geografiche', cioè avanzate e ripiegamenti, ma solo
nuove attestazioni, nuovi scenari, ma nulla che possa essere riferito ai
concetti di avanzata e ritirata, ai tradizionali effetti delle lotte e
alla consuete reazioni contro le lotte. Se, comunque, dovessi adottare
delle figurazioni spaziali e delle semplificazioni geometriche oserei
affermare che il 'comunismo dei proletari' non può che presentarsi come
un'avanzata su tutti i livelli e su tutti i 'fronti', a patto di cambiare
davvero radicalmente il modo di conoscere i livelli e i fronti.
Stavo ripensando a un'antologia di Rosa Luxembourg (Scritti scelti / Rosa
Luxembourg ; a cura di Luciano Amodio. - Torino : Einaudi, 1976. (NUE:
nuova serie ; 2)) e in quelli 'Riforma sociale e rivoluzione' (1899), 'La
rivoluzione russa' (1918) e 'Assemblea nazionale o governo dei Consigli'
(1918). Ripensavo, soprattutto, a quei contributi nei quali si critica
davvero aspramente la metodologia bolscevica in rapporto alla gestione
centralistica e verticistica del partito comunista russo e si pone la
democrazia alla base dello sviluppo del processo rivoluzionario, intesa
come momento interno, implicito e necessario per lo sviluppo di quello,
mentre si polemizza e si prendono le distanze dal gradualismo e dalla
mitologia della democrazia sposata dai riformisti (Kautky e Bernstein).
Questi concetti sono ancora, assolutamente, interessanti oggi, ma,
paradossalmente, quello in apparenza meno attuale lo è più di tutti gli
altri: in buona sostanza, sostiene infatti la Luxembourg, nel capitalismo
imperialista da lei analizzato e conosciuto, solo la rivoluzione può
garantire il riformismo, o meglio la riforma sociale; questo modo di
rileggere la tradizione riformista e rivoluzionaria può essere molto
utile, come punto di partenza e null'altro, per tracciare scenari a
venire. La classica separazione tra 'purezza rivoluzionaria', proiettata
costantemente oltre il presente, e cinismo riformista, dominato invece
dalla necessità di costituire spazi e avanzate nel presente, si può, per
situazione oggettiva (se siamo davvero nel 'comunismo del capitale' e
questo concetto ha qualche verità), trasformare in una fortissima
contaminazione, un una coincidenza, come se l'economia e le sue leggi
potessero realizzarsi solo attraverso l'etica in centinaia di punti di
rottura.
Sabato, 14 marzo
Annotazione. Si tratterebbe, ribaltando l'ipotesi della Luxembourg, di un
riformismo rivoluzionario, che azzera l'immagine tradizionale del
riformismo quanto quella della rivoluzione. Se la rivoluzione è
impossibile, perché non è possibile individuare un punto di rottura
univoco, un crinale oltre il quale si apre un altro mondo, a maggior
ragione è improbabile, anzi ancora più improbabile, una marcia graduale
verso il crinale, che già nell'ipotesi classica (per rimanere legato
all'opera di Rosa farei riferimento a Bernstein e Kautky) doveva
addirittura costituire, attraverso una serie di passaggi scientificamente
e positivisticamente determinati, il punto di rottura, il momento
rivoluzionario. Anche il pensiero riformista, infatti, almeno in
quell'epoca, non abbandonava la prospettiva rivoluzionaria e non si
discostava dalle ipotesi del manifesto del Partito Comunista di Marx ed
Engels, ma me dava un'interpretazione deterministica e meccanicistica.
Nell'ipotesi rivoluzionaria il momento della rottura era dato e stabilito
dalla crescita e radicalizzazione della coscienza e della soggettività e
non era oggettivisticamente prevedibile, nell'ipotesi riformista invece
era il risultato dello sviluppo armonico ed equilibrato del capitale che
avrebbe determinato, ineluttabilmente, una naturale crescita della
consapevolezza nella classe operaia, dei legami di classe e, in fondo, era
l'economia e non la soggettività a rendere possibile la rivoluzione.
Oggi l'impossibilità di discernere un punto di rottura e di focalizzarlo
comporta la necessità di immaginare molteplici piani e numerosi percorsi
che potrebbero essere associati al riformismo del movimento operaio
tradizionale, un riformismo, però, scisso, frantumato e molteplice, che
non avanza perché non ha mete, ma organizza spazi e li mette in
comunicazione, elabora culture e costituisce istituzioni e organizzazioni
funzionali alla conservazioni di quegli spazi. Anche gli spazi sono da
intendersi non come territori liberati e conquiste ma come spazi etici e
intellettuali, momenti di cooperazione che possono sedimentare istituzioni
e realtà organizzate provvisorie, trasversali e spesso 'contaminate' con
altre situazioni e spazi etici e intellettuali, altri saperi insomma.
Bisogna immaginare un'immensa officina non unificata da alcun comando, che
si è costituita con pezzi e attrezzi presi qui e là, che è segmentata in
molti settori; questi settori sono a loro volta dispersi dentro una
fabbrica ancora più grande, che è costitutivamente e ontologicamente
sottoposta a un comando unificato, quello capitalistico. Questo dominio
unificato, però, non può fare a meno di quei pezzi dispersi nella sua
grande fabbrica. Si tratta di un riformismo che si presenta senza il volto
della riforma e con quello della collaborazione e cooperazione.
Domenica, 15 marzo
Annotazione. Le pagine di questi giorni sono tesi, tesi nel vero senso
della parola, che si basano su altre tesi come quella della relazione tra
riforma e rivoluzione di Rosa Luxembourg e sull'inattualità della
tradizionale visione rivoluzionaria dell'organizzazione e del potere, tesi
questa molto più recente ma che nutre insospettabili parentele con la
prima. La possibilità di un riformismo che, per forza di cose, per
necessità, deve assumere una facies rivoluzionaria e
contemporaneamente l'idea che la rivoluzione è impossibile e la parola
stessa, per continuare a essere adoperata, deve assumere nuovi significati
(altrimenti è meglio non usarla) sono due tesi complementari. Questi due
tesi comportano l'idea di un antagonismo puntiforme, disperso e di un
analogo sviluppo del capitale.
Quello che è accaduto dal 2003, anno della stesura di Moltitudine (per
lasciare perdere quanto è accaduto dai tempi della militanza della
Luxembourg) è molto importante per comprendere quanto queste due tesi, che
nascono da queste letture, sono verificabili e attuali. La mia sensazione,
necessariamente empirica (e per empirica intendo massmediatica, poiché
come molti altri non ho altre fonti di informazioni e materiali da
analizzare) è che, dopo il movimento contro la globalizzazione capitalista
degli anni novanta, si sia prodotto un grande riflusso e l'area della
critica radicale sia stata investita da un profondo disorientamento e
disarticolazione.
D'altronde anche il movimento no global si è presentato con un aspetto e
una strategia massmediatici, ogni sua componente ha inteso proporsi ai
media secondo diverse sensibilità e strategie; non intendo l'inevitabile
massmediatizzazione con questo, ma il fatto di pensarsi anche in funzione
della rappresentazione dei media. È inevitabile mettere in relazione certe
pratiche militari delle 'tute nere' o black blocks a Genova con
il calcolo dell'impatto giornalistico e televisivo, anzi come azioni
studiate in funzione della loro rappresentazione televisiva, come è
ugualmente inevitabile prendere in considerazione sotto questo particolare
aspetto il pacifismo programmatico di Agnoletto o la posizione
'intermedia', ma altrettanto perdente, delle 'tute bianche'.
Più in generale il movimento dei movimenti si è mosso in relazione ai
media, seguendo l'esempio di alcuni episodi di lotta del decennio
precedente.
La fine del movimento potrebbe essere scambiata con la sua uscita dai
palinsesti televisivi e dalle pagine dei giornali e dei notiziari.
Questo è un primo grande problema: non esiste, allo stato attuale delle
mie conoscenze, un canale informativo strutturato sulle forme di critica
radicale e non, spontanea e organizzata, delle classi subalterne o, se si
preferisce il termine, della Moltitudine.
Pur con tutti i suoi limiti e le deteriori inclinazioni, il movimento
comunista tradizionale, la terza internazionale, aveva garantito,
nonostante censure e disconferme, la diffusione delle informazioni su
agitazioni, conflitti e forme di lotta. Quella che allora veniva
considerata informazione 'alternativa' poteva confondersi e strutturarsi
su quel retroterra organizzativo che oggi, semplicemente, non esiste
più. Ergo abbiamo pochissime informazioni su quello che accade
nel mondo, ma anche nel nostro paese, nel campo delle organizzazioni ed
esperienze 'alternative' o anche solo banalmente sindacali, come se non
succedesse nulla o quasi nulla e la sensazione della nullità, della
mancanza di critica e di una passività quasi assoluta della società è
dominante.
Non si tratta, io credo, solo di un problema di visibilità: è un dato di
fatto che il peso specifico delle azioni antagoniste e dell'organizzazione
critica dei proletari sia diminuito drasticamente. In secondo luogo
è probabile che questo peso, per le radicali trasformazioni avvenute, sia
disposto in maniera diversa e in ragione della sua nuova distribuzione
molto meno evidente e misurabile.
L'impressione generale è che entrambi questi fattori, la riduzione del
peso e il cambiamento del peso, stiano lavorando verso questa
invisibilità dei comportamenti alternativi al capitalismo.
La crisi del 2008 non ha aiutato a rendere visibili i bisogni dispersi,
anzi mi pare il contrario. La sensazione generale, quasi inconscia, almeno
nei paesi del 'centro dell'impero', che un tratto tipico del capitalismo
fordista, vale a dire l'economia basata sull'abbondanza dei beni,
tramontava definitivamente, dopo aver subito, comunque, una lunga, lenta e
tenace destrutturazione dagli anni settanta in poi, si è diffusa ed è
divenuta convinzione rassegnata, un nuovo dato di fatto con il quale
misurarsi. Non esiste una relazione naturale tra bisogni ed economia, la
relazione dell'uomo con il mercato è mediata sempre dall'ideologia, è, in
gran parte, una relazione ideologica. I bisogni dipendono dall'immaginario
dei protagonisti dei bisogni.
Questo non significa che nel caso italiano si stia ritornando,
meccanicamente, a esigenze e ad aspettative anteriori all'affermazione del
welfare state, e a un'analoga struttura della domanda di beni e
merci, che si stia tornando, insomma, agli anni cinquanta del secolo
scorso; l'automobile, la settimanale e quasi rituale spesa al
supermercato, la vacanze sempre più breve e i passatempi pubblici e,
soprattutto, privati sono ancora beni e occasioni commerciali disponibili,
egemonizzando ancora il paesaggio sociale, ma con delle notevoli e ultime
novità. Innanzitutto (e sarebbe un argomento complesso e articolato) la
rete telematica ha permesso la fruizione di alcuni passatempi e un
modo di impiegare il tempo libero estremamente più economici e frugali, in
secondo luogo quei beni, seppur 'proletarizzati', diminuiti, non sono più
garantiti ad ognuno, rimanendo come situazioni di massa, resistendo come
opportunità generali che, però, non devono essere necessariamente
condivisi. Anche nell'apparato pubblicitario e nell'immaginario costruito
dai media è venuto meno l'obbligo della condivisione che, invece,
caratterizzava i bisogni e le aspettative qualche decennio fa: la mancata
condivisione di alcuni di quei beni e opportunità non è più motivo di
emarginazione ed esclusione ed entra a far parte della normalità, anche se
disposta in una gerarchia subordinata.
Si è abbassata, in buona sostanza, la soglia di percezione per la povertà:
quella che un tempo sarebbe stata detta 'miseria' (e per un tempo intendo,
limitatamente all'Italia, gli anni che vanno dal 1960 al 2000) oggi è
diventata una condizione abbastanza diffusa, prodotta anche dal lavoro
salariato e non, dal reddito da lavoro. Insomma la miseria oggi connota
chi non ha il danaro sufficiente per affrontare l'intero mese, mentre
prima era disposta a individuare chi, pur arrivando tranquillamente a fine
mese, non possedeva un automobile o non si concedeva una vacanza in
albergo, passando l'estate e le ferie in città o in paese. Si sono
bruciati molti tesoretti generazionali nei bilanci proletari.
Analogo abbassamento della soglia di percezione si è verificato sul
terreno, importantissimo, dell'assistenza sanitaria, dove si è introdotta
una vera penuria del prodotto sanitario e un suo impoverimento secondo i
quali l'uso di convenzioni e di assistenza privata è diventata in certi
casi obbligatoria, per via dei tempi di risposta delle strutture
ospedaliere pubbliche; a questa si è aggiunto il depennamento di
moltissime convenzioni con fornitori di assistenza privati e
l'allargamento delle fasce soggette al ticket. L'assistenza sanitaria
pubblica e gratuita non è scomparsa ma è divenuta più rara, meno efficace
e terribilmente più povera in tecnologie e capacità operativa.
Il passaggio definitivo e, a mio sindacabilissimo parere che, però, si
sposa con una convinzione abbastanza diffusa, irreversibile da un quadro
economico dominato dall'abbondanza a uno scenario di penuria ha provocato
una vera rivoluzione nella 'teoria dei bisogni' della Moltitudine dei
paesi occidentali, soprattutto nella gerarchia delle priorità tra quelli.
Anche i bisogni si sono impoveriti e anche il discorso sui bisogni,
l'ideologia e la loro rappresentazione, sono diventati assolutamente più
essenziali, proiettandoci in una specie di ombra povera del
consumismo.
Due parole sull'iniziativa di Maurizio Landini. Attraverso di lui il
sindacato (meglio scrivere una piccola parte, anche se significativa, del
sindacato) ha compreso che qualcosa sta accadendo da almeno trent'anni sul
mercato del lavoro, e che le organizzazioni sindacali hanno finto di non
accorgersene o peggio (e sarebbe un sindacato di ebeti) non se ne sono
accorte: sono accadute entrambe le cose e gli avveduti si sono tirati
dietro gli idioti, nascondendosi dietro la loro ebetudine.
Questo processo di mistificazione di sé medesimi, risultata trasparente e
programmata dai vertici, dai quadri intermedi e anche da parte della base
sindacale, soprattutto da quella non operaia ma pubblica e
statale, è quello che si registra in questi appunti e che da decenni
descrivono, marginalmente, uomini come Bologna, Virno, Negri e molti altri
politicamente 'corretti'. Fuor di correttezza, lo stesso premier, Renzi,
ha usato questo ritardo per criticare apertamente il sindacato e
delegittimarne il ruolo politico e naturalmente per codificare (abbozzare
la codificazione della) la nuova realtà del mercato del lavoro, aggirando
qualsiasi opposizione pretestuosa oppure legittima del complesso
sindacale.
Cosa ha scoperto Maurizio Landini? Quello che tutti sapevano già senza
neppure aver bisogno di avere la tessera sindacale anzi a maggior ragione
conoscevano proprio perché non l'avevano e non potevano averla: il lavoro
proletario non è più un lavoro eminentemente operaio, le relazioni di
sfruttamento sono anche al di fuori della fabbrica e il rapporto di lavoro
salariato non più è l'unica forma di retribuzione del lavoro dipendente e
comandato.
Nonostante l'abissale ritardo (mezzo secolo, quasi), che certo non sarà
privo di conseguenze anche nella strategia che Landini e la FIOM dovranno
adottare, questa presa di coscienza è importante, anche solo per un fatto:
impone un rinnovamento radicale, nelle forme organizzative e nella ragione
di essere del sindacato italiano. In futuro avremo occasione di ragionarci
sopra.
Martedì, 17 marzo
Letture. Moltitudine. Classi pericolose. La Moltitudine non è una nuova
classe sociale ma il contenitore di un insieme di classi sociali molto
differenziato. La Moltitudine non si limita a essere un concetto passivo,
una nuova dimensione spazio – temporale, una nuova categoria sociologica,
anzi non è proprio questo, secondo Negri e Hardt è un nuovo paradigma, un
nuovo modo di vivere delle classi o soggetti sociali e quindi non tanto
una nuova dimensione spaziale e temporale quanto, invece, una nuova
dimensione collettiva. In questa dimensione le diversità (sociali,
produttive, culturali ed etniche) convivono e si esaltano; la Moltitudine,
quando si è espressa come tale, ha rivendicato le differenze nel suo seno,
le ha presentate come costitutive si sé medesima. Tutto questo ricorda, e
non troppo vagamente, l'intercomunitarismo di Huwey Newton, del quale ho
letto qualche mese fa. “Quando affermiamo di desiderare un mondo senza
differenze etniche o di genere – scrivono gli autori - [ … ] in cui cioè
non determinano le gerarchie di potere, un mondo in cui le differenze
possono esprimersi liberamente, questo desiderio è un desiderio della
Moltitudine” (p. 125).
Lo sviluppo della Moltitudine in contrapposizione al popolo è il risultato
dello sviluppo capitalistico: a un dominio esercitato
internazionalmente corrisponde una costituzione del lavoro internazionale
ma, soprattutto, a un comando che si realizza anche al di fuori della
produzione dei beni materiali corrisponde un lavoro che si estende al di
là della fabbrica, nella riproduzione del capitale, nella distribuzione e
che produce infrastrutture tecniche, saperi necessariamente collettivi,
logistica, stati d'animo e sentimenti. Il target produttivo della
produzione post – taylorista è quello della produzione immateriale. In
questa maniera il capitalismo, sia sotto il profilo geografico che
sociale, tende a occupare tutti gli spazi, escludendo e annientando ogni
esterno da sé e divenendo, perciò, un non – luogo.
Il vecchio concetto di classe operaia esce irrimediabilmente sconfitto e
reso inadeguato da questa trasformazione; non tanto perché nei paesi
sviluppati, nelle economie egemoni, la produzione materiale, la fabbrica,
è divenuta fatto residuale ed è stata esportata, è emigrata, verso la
periferia capitalistica, non tanto, dunque, perché l'operaio è scomparso
(in realtà sopravvive in altre forme e in altre aree geografiche), ma in
quanto il rapporto di lavoro salariato, centrale nel capitalismo
industriale, ha perduto gran parte della sua polarità e la relazione di
lavoro che conformava (salario espressione diretta della produttività
oraria e l'idea stessa di produttività oraria) è entrata in crisi.
Posto il fenomeno al minimo, la produttività oggi si quantifica in altri
modi che l'orario di lavoro o la produttività oraria, posto il fenomeno al
massimo, oggi la produttività non è sorgente del valore ed esiste un'altra
idea di produttività che riguarda quello che un tempo era repertorio del
'lavoro improduttivo', della sotto – occupazione e dei lavori saltuari;
conseguentemente flessibilità e mobilità investono anche il lavoro operaio
e il lavoro salariato contrattualizzato in generale perché i paradigmi
egemoni e conformanti del modo di produzione capitalistico attuale
richiedono flessibilità ed elasticità, continua ridefinizione produttiva,
secondo il modello tipico della produzione immateriale e 'intellettuale'.
Questa innegabile dispersione e frantumazione delle classi e delle
relazioni di lavoro dentro una stessa classe subalterna “ … fa sì che il
concetto di proletariato guadagni la sua definizione più piena,
comprendendo tutti coloro che lavorano e producono sotto il comando del
capitale” (p. 131).
Nella stessa misura in cui il lavoro produttivo di beni materiali perde il
ruolo stellare nella definizione del valore economico e quindi il valore
economico perde la sua unità di misura nel tempo di lavoro non necessario
alla produzione del valore di scambio, come voleva la teoria marxista
classica, la determinazione del plusvalore e del profitto si
autonomizzano dal lavoro produttivo materiale e dai suoi schematismi e
insieme con essi si rende indipendente quella che è l'astrazione reale
(secondo un'espressione più volte ripresa da Marx) del valore
produttivo, il danaro. È quest'ultimo un postulato
interessantissimo e che certamente descrive con efficacia l'ultima
fenomenologia del capitalismo e anche quella della recente crisi, in base
alla quale si può tranquillamente denunciare il definitivo tramonto
dell'economia come scienza, o, meglio, come viene evocativamente
chiamata, “scienza triste”. La moneta acquisisce un potere e una vita
autonomi, loro propri che meglio degli autori non avrei saputo scrivere
(pur mantenendo necessarie alcune verifiche meno empiriche e percettive
delle mie): “Solo il potere della moneta può effettivamente rappresentare
la generalità dei valori di produzione e nel momento in cui divengono
espressione delle moltitudini globali” (p. 184). Ammetto che questo modo
di concepire la moneta è quasi metafisico, assolutamente non dimostrato
nell'opera, ma va ribadito che l'analisi è e deve essere militante. Direi
che la tesi di Negri e Hardt sul danaro è fortemente probabile.
Sono passato dall'incipit al prologo di questo capitolo non per
indolenza ma per coerenza critica: la descrizione del proletariato nel
paradigma della Moltitudine richiede e si esaurisce nel suo opposto, il
capitalismo nella fenomenologia imperiale. Per la sintesi è inevitabile
far riferimento ai Lineamenti di Marx che, infatti, sono
continuamente citati nel capitolo (che è quasi un'opera conchiusa, quasi
una monografia). Lo scenario della liberazione è soprattutto un percorso
interno al lavoro, alla cooperazione, al 'comune', all'intelligenza
collettiva che il capitale vampirizza e comanda come accade da più di un
secolo, ma che ora per logica di cose e per la logica del suo stesso
sviluppo non può controllare autenticamente.
Come all'interno del concetto di proletariato si articola la categoria del
'povero' o meglio dei 'poveri' (senza salario, migranti e precariato
occidentale) così all'interno del lavoro si articola il concetto di una
cooperazione tra gli individui e le 'singolarità', che entra in
contraddizione con il comando del capitalismo SENZA esserne esterno,
un'alternativa conclamata ma un'alterità praticata e citando i Lineamenti:
“È il lavoro non come oggetto ma come attività, non come valore esso
stesso, ma come sorgente viva del valore” (p. 180). Ancora una bellissima
citazione su questa sintesi tra capitale e lavoro operaio che non ha più
nulla a che vedere con il lavoro operaio e dunque anche con la sintesi
immaginata da Marx: “Una volta cancellata la limitata forma borghese, che
cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei
godimenti delle forze produttive [ … ]? Che cosa è se non
l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative … che rende fine a sè
stessa questa totalità dello sviluppo … non misurato da un metro già dato?
[ … ] Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento
assoluto del divenire” (Lineamenti citati a p. 177). Questa cosa
io la chiamo comunismo: al comunismo del capitale corrisponde il comunismo
dei proletari.
Mercoledì, 18 marzo
Letture. Moltitudine. Classi pericolose. Il concetto di povertà, dentro
questo quadro sintetico, è nuovo, nuovo rispetto alla tradizione marxista
e anche rispetto al pensiero, ormai classico, dell'antagonismo italiano.
Eppure la condizione del povero, è scritto in più punti nel capitolo, è
condizione unificante, la vera condizione riconoscibile come 'comune',
frazione caratteristica della comunità dei proletari. Povero è da
intendersi colui che è privo di un lavoro stabile, il prestatore d'opera
non necessariamente sottoposto al regime del lavoro contrattualmente
salariato e il migrante. La povertà acquisisce una visibilità che prima
non le veniva concessa nelle analisi e nelle rappresentazioni televisive e
ideologiche e quindi la povertà offre la possibilità di costituirsi in
comunità.
Una tesi è questa che va approfondita e verificata. In generale tutto il
lavoro di Negri e Hardt andrebbe verificato, riempito di dati, di fatti,
ed essendo il prodotto di un'analisi militante, verificato attraverso la
lotta di classe di quest'ultimo decennio. Questo mettere alla prova non
significa arricchire il testo ma riscriverlo e la riscrittura è imposta da
un'analisi militante.
Venerdì, 20 marzo
Letture. Moltitudine. De corpore. Il titolo è un debito della
filosofia politica sei – settecentesca che iniziava le proprie trattazioni
con la descrizione dell'analogia tra corpo umano e corpo politico. Secondo
questa teoria il corpo politico è la rappresentazione sociale del corpo
umano, la fisiologia descrive la società che è costituita da un complesso
di organi equilibrato e dominato dalla ragione. Alla guida, o meglio alla
testa, di questo corpo politico è, secondo le inclinazioni ideali di
ciascun autore, o il monarca o un istituto repubblicano ma in entrambi i
casi non si sfugge a questa visione organicistica della società, intesa
come un complesso che origina dalla collaborazione armonica tra i diversi
organi. Questa visione, che non considera nulla al di fuori di questo
corpo ben formato, è stata conservata tanto dal romanticismo e dal
positivismo quanto dal pensiero novecentesco ed è il modo di vedere lo
stato e il popolo (sempre considerato come espressione della nazionalità)
dell'intera modernità. Poco importa se lo stato e il corpo sorgono dalla
fine dello stato di natura (come in Hobbes e nel pensiero assolutista) o
da un contratto che si fonda su una correzione dello stato di natura
(Locke, Hume e Rousseau), l'elemento basilare rimane nella totalità
inclusiva di questo corpo sociale, al di fuori del quale non è concepibile
altro che la natura e gli altri animali.
Questo corpo, secondo gli autori, è definitivamente tramontato insieme con
l'ideologia che lo accompagnava poiché il nuovo concetto e realtà del
corpo politico non può più costituirsi in una unità organica, nel senso
moderno del termine, ma si presenta, rispetto all'apparato ideologico
della modernità, come privo di forma, soprattutto perché ha perduto quel
principio formale che era la nazionalità e il parallelo concetto di
popolo. Così si legge: “Il corpo politico globale non è il corpo nazionale
cresciuto smisuratamente [come viene trattato da buona parte della
sociologia contemporanea (nota mia)]. Il corpo politico possiede una nuova
fisiologia” (p. 190).
Non casualmente e appropriatamente apre il capitolo una citazione di Marx,
a segnare l'auspicabilità della fine di quest'armonia basata sugli stati -
nazione: “In generale ai nostri giorni il sistema protezionista è
conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso
dissolve le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo tra
borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà di
commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso,
signori, che io voto a favore del libero scambio”.
I passaggi di fondo e schematici nella transizione (che secondo Negri e
Hardt era ancora in atto nel 2004) da un mondo contrassegnato dalle
nazionalità e dagli stati – nazioni verso un mondo 'globalizzato' o
integralmente internazionalizzato sono tre: la denazionalizzazione, la
costituzione di una gerarchia internazionale o meglio globale e la
scrittura di una nuova geografia del potere. I tre fenomeni sono
interconnessi e l'uno presuppone l'altro, costituendo le tre facce del
medesimo processo.
Denazionalizzazione (secondo l'accezione di Sassen) non significa la morte
dello stato nazionale ma la sua trasformazione in un'istituzione che
collabora sempre più spesso e con maggiore intensità con il nuovo ordine
mondiale; gli stati nazionali non scompaiono ma “le loro azioni sono
sempre meno sistematicamente orientate verso gli interessi nazionali e
sempre più verso la nuova struttura di potere ...” (p. 191). Le gerarchie
internazionali non si basano più sul confronto tra nazioni, delineando
quindi nazioni egemoni e subalterne, sviluppate e sottosviluppate, un
primo e terzo mondo o, infine, un nord e sud del mondo, come secondo la
classica analisi critica terzomondista e maoista, questo impianto
analitico è inattuale perché la divisione non passa più tra le nazioni (o
meglio non passa più solo tra le nazioni) ma anche all'interno delle
nazioni, definendo aree e addirittura zone urbane diversificate
socialmente ed economicamente: la diversità tra nord e sud, tra
capitalismo egemone e capitalismo subalterno e sottosviluppato, è
interiorizzata nel corpo delle nazioni. La gerarchia internazionale divide
ancora le nazioni ma anche l'interno degli stati – nazione. Vale dunque la
pena di trascrivere che “i differenziali del costo della forza – lavoro
creano processi di dumping biopolitico, di modo che il lavoro di
determinati lavoratori ha più valore, quello di altri meno … Parlando in
termine generali, ci sono ancora alcune importanti differenze tra nazioni
e le maggiori aree geografiche … ma non ci sono più zone omogenee” (pp.
192 – 193).
La gerarchia non si fonda sulla geo – politica della modernità dove Europa
e Nord America erano il modello dello sviluppo e il regno incontrastato e
incontaminato del capitalismo evoluto e delle economie dell'abbondanza
mentre Africa, America latina e quasi tutta l'Asia erano territori
privilegiati della povertà e dello sottosviluppo, la nuova gerarchia,
invece, si basa sulle relazioni mutevoli imposte alla forza – lavoro.
Pensiamo alla 'stagione dei pomodori' nel mezzogiorno d'Italia
retribuita con salari di uno o due euro all'ora per dodici ore di lavoro,
eseguita quasi esclusivamente da lavoratori stranieri e alla contemporanea
sicurezza contrattuale degli operai agricoli italiani che operano nella
medesima area. Qui un pezzo notevole di quello che un tempo sarebbe stato
detto sud del mondo si è incuneato, insediandosi transitoriamente, nel
nord del mondo. La gerarchia produce una nuova geografia che è mobile e
transitoria precisamente come tendono a esserlo i rapporti di lavoro,
tanto nei braccianti a giornata senegalesi nell'agro pontino, quanto per
gli operai campani alla Fiat di Melfi.
Non sono più le nazioni e i rapporti tra nazioni a disegnare la geografia
ma le nude relazioni sociali imposte ai lavoratori a fare di un'area
terreno dello sviluppo o del sottosviluppo. Gli stati – nazione,
attraverso la loro storia e la loro tradizione, attutiscono o amplificano
(a seconda dei casi) il processo, ma ne sono irrimediabilmente
attraversati.
Al termine dell'esposizione della nuova geografia, gli autori individuano
il concetto geografico per eccellenza dell'attualità con un aggettivo
verso il quale io ho una certa idiosincrasia e nutro diffidenza, il
termine 'globale'. Globale è preferibile a internazionale perché
quest'ultimo aggettivo implica e si articola sul concetto di nazione,
mentre globale prescinde da quell'unità di misura e da quel termine
di paragone, ignora la nazione e introduce, appunto, l'idea di una
geografia politica in continuo movimento.
Questa geografia ha un'istituzionalità concreta e gli autori invitano a
fare un salto a Davos e al World economic forum, luogo di
incontro tra esponenti del mondo finanziario, dirigenti e amministratori
delle multinazionali e di alti burocrati dell'ONU e degli stati nazionali.
A Davos si riunisce in assemblea l'oligarchia politico – finanziaria del
capitalismo globalizzato. Questa oligarchia è il risultato della
cooptazione di elementi degli istituti internazionali (FMI, Banca
mondiale) e della continua migrazione da attività finanziarie a politiche
e viceversa dei suoi componenti. Davos, delle cui riunioni ben poco
conosco, è la quintessenza della necessità di confronto e coordinamento
del capitalismo libero – scambista e della necessità persistente
dell'intervento politico e 'statale' nell'economia.
FMI e Banca mondiale, seguendo le nuove logiche monetariste così ben
individuate dagli autori nel capitolo precedente, intervengono
sull'economia mondiale, esercitando forza e coercizione attraverso la
persuasione determinata dalle strette monetarie e creditizie, nate dagli
accordi di Bretton Wood del 1944, tese a organizzare la crisi del secondo
dopo guerra, le due istituzioni sono, per gli autori, il vero cuore
strutturante il nuovo ordine mondiale e ne rappresentano il supremo
livello.
Le intese tra stati – nazione, periodiche o permanenti (penso all'Unione
Europea o alla comunità economica – finanziaria nel sud America) ne
gestiscono il secondo livello. Un terzo livello sono le strutture di authority
e di autoregolamentazione delle multinazionali che ereditano,
stravolgendola, la tradizione della lex mercatoria medioevale e
moderna.
Al di là della concretezza e della ricchezza di riferimenti storici,
risultano oggettivamente piuttosto maldefinite le relazioni tra Davos,
FMI, stati – nazione e multinazionali; era più chiara, sotto questo
aspetto, l'analisi sviluppata in Impero, anche perché qui è difficile
intendere chi decida e che cosa decida e soprattutto non si spiegano i
meccanismi reali che permettono il ricorso alla guerra che è una delle
caratteristiche di un potere, anche se costituente. La guerra, tra le
altre cose è una delle fenomenologie più importanti del nuovo potere
imperiale. Insomma annoto un paradossale 'vuoto di potere' in questa
analisi.
Per rimanere nell'apprezzabile concretezza viene ricordato il
permissivismo monetario del FMI a favore della Turchia, nazione strategica
per l'economia globalizzata a causa della sua frontiera medio orientale, e
la quasi coeva inflessibilità verso l'Argentina della quale si provocò, a
ragion veduta, il fallimento.
Lo ribadisco: il nesso tra potere costituente mondializzato – capitalismo
globalizzato – politiche belliche non è affatto chiaro nell'analisi di
Negri e Hardt. Ciononostante gli autori individuano una fondamentale e
innegabile contraddizione che percorre questo nesso non ben definito: se
l'uso della forza militare non è più subordinato agli interessi nazionali,
al vecchio refrain protezionista, ma all'esigenza ben più
generale di rendere possibile la realizzazione del nuovo potere mondiale,
e quindi alla nuova veste del libero scambio, proprio l'uso della guerra
deve, con vero paradosso, fare nuovamente riferimento ai vecchi confini
nazionali e spesso agli eserciti delle diverse nazioni, finendo per
“ostruire i circuiti globali della produzione e del commercio – ossia le
fonti dei macroprofitti” (p. 207).
Potrebbe questo essere il prodotto di una malattia giovanile del
capitalismo mondiale integrato o globalizzato ma anche un dato strutturale
e non solo strutturante: l'uso della forza impone riferimenti al moderno,
al pre – globale e in questo senso le istituzioni nazionali sono destinate
a sopravvivere, magari in regime di farsa e in simulacro, ma a resistere.
Credo che la percezione del 2015 confermi quella del 2004: il capitalismo
mondiale dà l'impressione di essersi fermato a questo livelli di
evoluzione. Come nel caso della sussunzione reale, dell'intero tempo di
vita, è per me innegabile che una pausa simile si è verificata nella
'rivoluzione geografica'. Così come la conservazione della separazione tra
vita e lavoro è ancora utile al funzionamento dell'economia e alla
realizzazione della sicurezza sociale, il mantenimento dell'ossatura della
geografia tradizionale ha un ruolo nell'affermazione della 'nuova
geografia'.
La costituzione del diritto globale incontra un secondo ostacolo che è
costituito dai nuovi orizzonti della proprietà privata. La produzione del
capitalismo contemporaneo è in larga parte, come veduto, immateriale,
riguarda i saperi, le conoscenze, gli stili di vita, gli stati d'animo, la
propensione al consumo, l'informazione, la telematica e le tecnologie. Le
tecnologie soprattutto, al contrario che nel passato, intervengono su
settori produttivi immateriali nel loro stesso svolgersi: produzione di
procedure informatiche, telematiche, genetiche che hanno innumerevoli
campi di applicazione nell'agricoltura, nell'industria, nella medicina e,
naturalmente, nella tecnologia stessa. La tecnologia, cioè, come da sempre
contribuisce ad aggiornare sé stessa con una novità notevole: cambia la
sua posizione dentro la società e l'economia poiché trasforma non solo i
mezzi di produzione ma i saperi che stanno dietro la costruzione dei mezzi
di produzione (non individua soltanto un nuovo utensile ma soprattutto un
nuovo modo di usarlo, un nuovo contesto operativo).
Il sapere tecnologico è diventato, molto più di prima, il motore dello
sviluppo sociale ed economico, il controllo del sapere tecnologico si può
esprimere attraverso la sua privatizzazione, equiparandolo a qualsiasi
altro prodotto del lavoro, a tempo di lavoro, che si può monetizzare e
comprare. La privatizzazione dei saperi, però, come ben descritto in Etica
Hacker di Himanen, non aiuta la loro crescita e la loro riproduzione,
anzi, precisamente come il confine e la dogana nel commercio, lo inibisce.
Il sapere scientifico e tecnico nasce dalla cooperazione e collaborazione
di molti soggetti, dal lavoro di una comunità di forza – lavoro nella
sincronicità come nel corso del tempo. Il sapere scientifico è il
risultato di un processo sociale e storico, una collaborazione tra
generazioni (Euclide ha collaborato con Einstein), il cui filo si è
dipanato più o meno liberamente, è stato legato a istituzioni più o meno
autoritarie ma non è stato vincolato alla proprietà privata. Il rischio
della privatizzazione sta nella rottura di quel filo e nella perdita di
quel legame, alla fine spontaneo, tra interesse dello scienziato o
dell'istituzione di ricerca ed esigenze sociali. Certo è che 'esigenze
sociali' non è una locuzione 'neutra', lo scienziato indirizza la sua
ricerca verso la parte più visibile e legittimata dall'apparato economico,
la parte 'dominante' di quello ma, lo ribadisco, mantiene con quella una
relazione spontanea e genuina. Nel momento in cui il sapere dello
scienziato si trasforma in proprietà, il sapere informatico, genetico,
bioingegneristico si codifica, il concetto si 'cripta' e si inserisce in
una contesto specifico e limitato. Le esigenze sociali vengono sostituite
dalle esigenze imprenditoriali. In un contesto simile diventa ancora più
difficile esercitare quel controllo democratico sulla ricerca (soprattutto
in campo genetico e medico) che Negri e Hardt auspicano in una società e
una biologia integralmente artificiali come sono quelle contemporanee, che
lasciano immaginare lo scenario dell'artificiale come il vero scenario
naturale dell'umano.
Martedì, 24 marzo
Letture. Moltitudine. Tracce della Moltitudine. E che tracce! Ci
sarebbe da scriverne per giorni e non per ore.
In questo paragrafo ci si imbatte in alcune tracce della Moltitudine che
sono molto più che orme. Queste orme sono concetti vecchi ma recuperati e
nuovi ma coerentemente messi in relazione con altri preesistenti.
L'abitudine e l'atto performativo, oppure quelli di privato, pubblico e
comune sono i concetti entro i quali si può spiegare il 'movimento',
l'evoluzione della Moltitudine e le coordinate del suo spostamento nella
storia.
L'abitudine spiega la possibilità del cambiamento senza che si debba far
riferimento a una soggettività libera e a un approccio idealistico; il
concetto, ripreso dal pragmatismo di Dewey e James, descrive la
possibilità di immaginare il cambiamento e la trasformazione nella
coscienza, nell'immaginazione e negli stili di vita, rispettando un
impianto materialista. È fondamentale questo sforzo per individuare una
dimensione materialista in un contesto, come quello descritto intorno alla
Moltitudine, per il quale la 'scelta' e l'eticità divengono, per certi
versi, strategiche. Il pericolo di cadere in un'ottica 'volontarista', o
peggio velleitaria, in un appello esclusivo alla libertà di scelta degli
individui slegata dalla vera ed effettiva possibilità di operarla, pur
presente, è evitato. La Moltitudine è strutturalmente produttiva, la
produzione è la sua essenza, quindi inevitabilmente produttrice di scelte
che sono però interpretabili come abitudini, cioè di quella cosa che “sta
così a metà strada fra la stabilità delle leggi della natura e la libertà
dell'azione soggettiva ( … ) dell'enorme volano della società, che
fornisce stabilità e l'inerzia necessarie alla riproduzione sociale della
vita quotidiana” (p. 230). L'abitudine, di per sé conservatrice, è
un'esperienza sociale che ci viene comunicata dagli altri e che noi
comunichiamo agli altri; il cuore dell'abitudine è la comunicazione
sociale e l'interazione e quindi una caratteristica progressiva. Ancora
più chiaramente si legge: “Le abitudini sono come una seconda natura, allo
stesso tempo prodotta e produttiva, creata e creativa – un'ontologia della
pratica sociale portata avanti in comune” (p. 231). L'atto
performativo nasce nel momento in cui la componente progressiva
dell'abitudine viene esaltata, fino al punto di suscitare una nuova
abitudine e una nuova visione dei problemi, delle relazione delle
interazioni sociali.
Non vorrei sbagliarmi ma abitudine e atto performativo costituiscono il
paradigma di un gradualismo rivoluzionario: il cambiamento di
relazioni, passioni, desideri, dall'interno, a partire da relazioni,
passioni e desideri precedenti che raggiungono un nuovo grado.
Annotazione. [Tunisi e Torino] Tra confini e loro deformazione è quasi un
lapsus freudiano pensare, come mi è capitato, l'attentato di
Tunisi come l'attentato di Torino. Torino è stata a Tunisi, come Tunisi è
entrata a Torino. È come se le due città si fossero incontrate, fossero
entrate l'una nell'altra; il pensionato del Comune ucciso da un disperato
della barriera, il museo del Bardo come il museo egizio. L' ISIS non è
affatto capace di organizzare certe 'contaminazioni' transnazionali, di
comprenderle e teorizzarle, ma è capace di cogliere, in maniera plebea e
necessariamente rozza, sanguinaria e folle, l'impatto sull'immaginario di
questa tattica, che è un prodotto spontaneo, non misurato. La non
preordinazione, la spontaneità armata, produce il più forte impatto che si
possa calcolare: è saltata l'organizzazione verticistica di Al Qaeda, la
sua fine è stata realizzata, secondo il metro televisivo, dall'uccisione
di Bin Laden nella squallida stamberga – rifugio nella quale è stata
rappresentata la sua esecuzione capitale, ora è l'orizzontalità del
califfato, ora è la rete telematica piuttosto che la verticalità del
sistema televisivo, a essere usata nella rappresentazione dell'antagonismo
islamico.
I confini da sorgenti di benessere (tutela protezionistica del mercato del
lavoro interno e delle sue regole, della legislazione sociale delle
diverse nazioni, delle garanzie nazionalisticamente distribuite del welfare
state) in ragione del protezionismo sociale sono diventati sorgenti
e fonti di malessere: non garantiscono più la struttura nazionale del
mercato del lavoro che si è reso permeabilissimo alla
transnazionalizzazione e servono esclusivamente a legittimare e
sperimentare l'armamento del nuovo capitalismo mondiale. I confini sono e
saranno sempre più armati, saranno sempre più confini di guerra senza più
essere confini nazionali e 'tradizionali'.
Mercoledì, 25 marzo
Annotazione. Non tutti i confini sono e saranno di guerra, ovviamente, ma
solo quelli che passano e passeranno ai bordi della tettonica a zolle
imperiale. Non esiste stabilità geologica in materia: il nuovo scenario
del capitalismo globale integrato è dominato proprio dalla mobilità
geografica. Pensiamo a come sia diventato una linea bellica il confine tra
Ucraina e Russia, o quello mauretano oppure quello tra Tunisia e Libia. Le
aree di crisi si ridislocano con una velocità impressionante.
A proposito di malessere e benessere, la permeabilità, invisibilità e
superamento dei confini nazionali e tradizionali sono elementi capaci di
provocare ricchezze e comunicazione e un radicale rimescolamento delle
tutele e delle regole del mercato. Questo fenomeno non è, però, libero e
dunque lineare, non si svolge secondo la linea di una generale
compensazione economica e neppure in una prospettiva naturale di
un'elevata comunicazione e socializzazione. Avviene, invece, quasi il
contrario rispetto a queste linee, tendenze e prospettive che, alla fine,
si presentano come repertorio dell'utopia. I flussi migratori, i movimenti
delle merci e le dinamiche del mercato del lavoro insistono sulla
preesistenza nazionale o ancora di più sulle nuove geografie
transnazionali (Unione Europea, CSI), creano gerarchie in quelle e
producono, invece che socializzazione, una produzione, su scala mondiale,
delle discriminazioni sociali che assumono sempre più spesso un aspetto
etnico (per esempio in Campania l'operaio migrante non per il suo lavoro
ma per il suo stato di straniero è pagato un quinto di quello indigeno) ma
non solo e necessariamente.
Questo non significa che, per evitare questo innegabile malessere uguale e
contrario a quello provocato dalla conservazione dei confini, bisogna
affidarsi alla nostalgia, sognando o peggio progettando un impossibile
ritorno al passato: il passato non ritorna precisamente come non
arriva il futuro arriva. Certamente non sarebbe una buona politica
abbracciare le tesi di chi (come la Lega nord in Italia o il Front
National in Francia e le svariate concentrazioni neo – naziste ungheresi,
tedesche e inglesi) vuole fortificare e usare il malessere generato dalla
permeabilità dei confini per il semplice motivo, semplice e anche
banalissimo, che, nel contesto del capitalismo mondiale integrato (secondo
la felice accezione usata e individuata da Deleuze), ricostruire i confini
sul modello giuridico e costituzionale degli stati – nazione
significherebbe chiudersi in una comunità di autoconsumo economico,
sociale, culturale e comunicativo e non riuscirebbe a ripristinare lo
stato – nazione. Lo stato – nazione, infatti, presupponeva la comunità
internazionale mentre oggi la comunità internazionale, quella che era
capace di creare moderata e misurata permeabilità dei confini, non esiste
più.
Se la tesi del benessere come possibile prodotto della definitiva
affermazione del mercato mondiale integrato (sia come mercato delle merci
che della forza – lavoro) è utopica, la tesi contraria, la teoria del
ripristino, lo è altrettanto.
È comunque più grave e pericolosa la prima utopia che è, va aggettivata e
qualificata, l'utopia del capitalismo imperiale. Esiste un'innegabile
pulsione ideale, un'ideologia, del capitalismo contemporaneo, che si fonda
su alcuni elementi, genetici e viscerali di quello. 1- Il capitalismo è
l'unico sistema sociale possibile, la sua storia particolare coincide con
la storia generale e la sua ontologia particolare con l'ontologia
generale. 2 – Il capitalismo è l'unico sistema di dominio capace di
governare la complessità delle forze produttive. 3 – Il capitalismo è
l'unica dimensione realizzata dell'umano e dunque fonte indiscussa
dell'etica, la relazione sociale che impone è naturale.
È chiaro che ai nazistelli nostrani ed europei, che hanno fatto di una
recitata e demagogica opposizione al capitalismo globale (calcando la
matita sulla parola globale, molto meno sulla parola capitalismo), questi
tre assiomi provochino uno sturbo psicopsichico perché è ciò che
vorrebbero ottenere, amare e sublimare del capitalismo senza, però,
l'odiatissima globalizzazione.
Al contrario di questi interpreti della lotta al capitalismo segnata dalla
nostalgia e dalla versione populista e demagogica del positivismo e
nazionalismo ottocentesco, i teorici del capitalismo mondiale integrato
non sono affatto classisti, razzisti o sessisti, anzi tutto il contrario;
il capitalismo non propugna le discriminazioni etniche, sessuali o
sociali, anzi, ne proclama l'abolizione quando non afferma addirittura di
averle eliminate. I teorici del ripristino, insieme con il loro amato
stato – nazione o stato – 'sottonazionale' (dipende dalle simpatie
geografiche), allora, vogliono restaurarle e sono stati, sono e saranno
capaci di provocare danni sociali e politici immensi ma mai, mai neanche
per un istante, di controllare e governare (come promettono
demagogicamente) il processo di sviluppo sociale ed economico.
Il capitalismo, scrivevo, non propugna discriminazione ma la applica e la
applica perché la deve applicare. Il sistema capitalistico è una relazione
sociale di dominio: il suo stato è un relitto dello stato assoluto
aristocratico e la proprietà privata dei mezzi di produzione, insieme con
il concetto di possesso esclusivo privo di competitori, deriva dal diritto
feudale (nemmeno da quello romano dove la proprietà, il praedium,
era subordinata al diritto di prelazione dello stato: si possedeva a meno
che, a determinate condizioni). Una tale generazione della proprietà
privata, sia essa anonima o personalizzata (ma meglio la prima ai fini
della sua completa libertà di azione e di espressione) richiede un
apparato coercitivo strutturato tanto verticalmente quanto
orizzontalmente; verticalmente perché la proprietà si concentra in alcune
strutture decisionali, orizzontalmente perché si diffonde e segue lo
sviluppo dell'apparato produttivo. Molte altre riflessioni
potrebbero essere aggiunte, ma qui interessa la base, la genesi e le
viscere del sistema, del complesso capitalista. E sono queste poche, alla
fine.
La potenza dei flussi orizzontali, della crescita della produzione, impone
l'esercizio della proprietà su quelli e quindi la continua sostituzione
dei principi di utilità sociale e delle strategie che ne deriverebbero. Il
capitalismo continua, quindi, a esercitare un controllo sulla crescita e
sulla sua complessità e questo controllo non può, però, rimanere vincolato
all'orizzontalità degli elementi produttivi e sociali e deve imporre una
semplificazione gerarchica e una verticalità. Il mondo della produzione
viene, così, segmentato in categorie qualitative (produzione d'eccellenza,
di massa, ad alto contenuto tecnologico, a bassa tecnologia etc. etc.), il
mondo della comunicazione in settori adeguati e inadeguati, il mondo delle
etnie in gruppi o popolazioni sviluppate e arretrate. Si tratta di
diversità oggettivamente determinate, mai di differenze oggettive e
sostanziali: le diversità possono rimescolarsi e cambiare il loro stato
qualitativo (oggi l'arabo è in fondo, ieri lo era l'emigrato del
meridione, domani sarà l'asiatico; oggi è il commesso del supermercato a
lavorare nella bassa tecnologia, ieri era il bracciante agricolo, domani
potrà invece esserlo l'impiegato dei servizi pubblici e privati) e
non sono mai date a priori ma sempre a posteriori. In questo senso il
capitalismo è egalitario: la sua eguaglianza è l'intercambiabilità dei
ruoli.
Ma proprio così il capitalismo rinnega i suoi tre punti utopici: di essere
l'ontologia della storia, di saper governare la complessità che produce e
di essere il rappresentante dell'uomo davanti alla storia. L'apologia del
capitalismo contemporaneo rispetto a questo momento critico è vecchia e
semplice: la perseveranza del sessismo, la continuazione del classismo e
la conservazione del razzismo non sono presentati come prodotti naturali
del sistema, ma come il risultato di difficoltà storiche e di resistenze
(arretratezze culturali ed economiche, opposizioni nazionalistiche e
arcaicizzanti) perché il sistema sarebbe, altrimenti, democratico ed
egalitario.
La potenza di fuoco dei massmedia, sulla quale è superfluo e noioso
soffermarsi su questo taccuino, guidata da questa ideologia, secondo le
sue numerose declinazioni, ne ha sotterrato l'elemento utopico e ne ha
fatto un elemento impropriamente realizzato, ma ancora di più la
configurazione della rete telematica e della telefonia offrono la
percezione e l'impressione, spesso la concreta esperienza, di questa
democrazia ed eguaglianza come propositi non utopistici ma realizzati,
almeno a tratti e parzialmente. Mentre i massmedia a comunicazione
verticale analizzano e rappresentano il reale in funzione di questa
utopia, quelli a comunicazione orizzontale e paritetica rappresentano la
realtà di questa utopia.
L'utopia del capitale è, però, doppia. Da una parte si manifesta (o meglio
si nasconde) nello sviluppo naturale e ontologico del sistema economico e
informativo globale, dall'altra parte nello sviluppo comandato e
teleologico, là dove, cioè, il capitalismo si organizza come potenza
cosciente per il controllo del processo sociale, che è cosa ben diversa
dal controllo 'naturale e implicito' che contraddistingue il primo livello
dello sviluppo. Qui il capitalismo ha percezione di quello che Hardt,
Negri e Virno chiamano “Moltitudine”, come potenza dell'evoluzione e di
un'evoluzione che si fa 'aliena', che applica l'ontologia, il governo e
l'etica che non vengono applicate dal capitalismo, che, quindi, occupa gli
spazi lasciati liberi, in questo ambito, dall'ideologia del capitale. In
questo livello del confronto, piuttosto drammatico (e drammatico anche
perché nel capitalismo contemporaneo è divenuto quotidiano), il capitale
si oppone e fa resistenza, assumendo un ruolo frenante, rispetto a quelle
che sono le sue componenti ontologiche e naturali: perseguendo il suo
sviluppo, cioè la tendenza alla socializzazione dell'economia,
all'allargamento della comunicazione, all'estensione coeva della
comunicazione fino a negarne i limiti, all'interazione sociale sconfinata,
è costretto a porre limiti a tutte queste bellissime e rivoluzionarie
tendenze e deve, quindi, istituire limiti al suo sviluppo. Non mi
stancherò mai di pensarlo: la patologia del capitalismo è la schizofrenia.
È una contraddizione, questa, antica come il capitale stesso, scoperta da
Marx un secolo e mezzo fa, ma che ora assume veste nuova perché il
rappresentante dell'umano (il capitalismo si è sempre pensato sotto questo
aspetto) per continuare a essere rappresentante dell'umano deve
distruggere l'umano, come l'etica, per essere affermata sotto il suo
dominio, è necessario che si ridicolizzi. Siamo entrati in una nuova e
terribile fase del capitalismo durante la quale è un'immedesimazione
organica e empatica tra umano e capitale, tra antropologia ed economia
politica.
Il disorientamento, la paura, le indecisioni e la percezione del rischio
divengono struttura dell'ideologia del capitalismo mondiale integrato:
pensiamo all'incessante rimescolamento massmediatico, alla propaganda di
alcuni effetti ed eventi e subito dopo di altri effetti ed eventi, stati
d'animo e subito dopo stati d'animo opposti, immagini che vengono unite
con la tesi dell'evoluzione naturale, utopica e globalizzata del sistema
economico e sociale e subito dopo le stesse immagini sono invece coniugate
con la paura e l'angoscia e con la necessità del ripristino e del ritorno
al passato: disorientamento, paura, indecisione sono elementi casualmente
presentati e mescolati dentro una strategia molto precisa.
Il capitalismo è un'intelligenza collettiva che non è più il prodotto
della mediazione tra gli interessi individuali, perché il capitalismo ha
superato l'individualità, le classi e i componenti, segmenti e frazioni
di classe, ha superato anche la classe dei capitalisti; la sorgente
della sua intelligenza collettiva è già essa stessa collettiva e quindi
l'intelligenza e la sensibilità non può avere riferimenti con il
collettivo (che è pur sempre un insieme di individualità, di ecceitas)
ma con il generale. Il general intellect di Marx e la strategia
del dominio del capitale sono la stessa cosa, o meglio fanno parte dello
stesso processo intellettuale. Anche il dominio nelle forme politiche si
presenta subito come intelletto generale.
Giovedì, 26 marzo
Annotazione. Devo spiegarmi meglio il concetto di transnazionale
nell'accezione da me utilizzata, che è perfettamente concorrente a quella
che contraddistingue quella di globale. In breve l'etimologia ragionata è
trans (oltre, al di là) nationem (nazione, comunità
linguistica). La nazione è un limite ubicato nel passato, che è stato
superato, ma che rimane presente nella contemporaneità, continuamente
evocato.
Letture. Moltitudine. Tracce della Moltitudine. Privato, come
proprietà privata dei mezzi di produzione, dei prodotti e delle idee; pubblico,
come proprietà privata dello stato, proprietà privata collettivizzata; comune,
come momento particolare in cui i mezzi, i prodotti e le idee non hanno
proprietà, non sono né privati né pubblici, come, secondo Marx, le merci
del negoziante in attesa di essere vendute.
Sabato, 28 marzo
Letture. Moltitudine. La lunga marcia della democrazia. Si svolge una
rassegna sulla storia del pensiero in materia di democrazia: dal
superamento della concezione antica della democrazia come governo dei
'molti', verso un'idea della democrazia come espressione istituzionale dei
'tutti', sottolineando che anche questo allargamento di epoca moderna
richiese delle significative esclusioni (donne e uomini privi di
sostanze).
La democrazia si manifesta, al contrario che nell'antichità, come
problema. In primo luogo si presenta un problema organizzativo poiché la
base territoriale della democrazia, in quanto governo di tutti, si
estende, coincidendo con i nascenti stati nazionali, per i quali la
tecnica assembleare usata nella polis greca o nel municipium
dell'antichità romana, tipici del modello democratico della classicità,
non sono applicabili. In secondo luogo la democrazia moderna pone un
problema politico e nasce da un problema politico: la necessità di
superare le guerre civili del XVII secolo (la guerra civile inglese,
quella olandese e la terrificante guerra dei trent'anni in Germania) a
causa delle quali la fondazione del potere sovrano su base democratica
diviene fondamentale al fine di recuperare a un disegno collaborativo
energie e processi sociali e politici altrimenti ingovernabili; secondo
quanto scrivono gli autori: “La violenza dello stato di natura … è in
realtà il distillato filosofico della guerra civile, proiettato nella
preistoria o nella stessa natura dell'uomo. Alla sovranità moderna venne
assegnato il compito di porre fine alla guerra civile [in nota è un
riferimento a Hobbes]” (p. 276). In terzo luogo la democrazia è, nel XVIII
secolo, tolte alcune eccezioni nel pensiero rivoluzionario francese
(Giacobini, Cordiglieri e Sanculotteria), sostanzialmente minoritaria e
l'istituto democratico viene veduto come una necessità, certamente, ma una
necessità temuta.
Questi tre fattori (estensione territoriale, guerra civile e timore
pregiudiziale) comportano una radicale revisione delle tecniche
democratiche dell'antichità (basate più o meno su una democrazia diretta e
un mandato imperativo nella rappresentanza) e anche delle riflessioni
sull'argomento di Spinoza. A parte la breve (formidabile e commovente)
parentesi giacobina, il modello democratico egemone fino al punto di
essere oggi sinonimo di democrazia è quello che Max Weber definisce di
rappresentanza libera, contrapposto a quello appropriativo e vincolato.
Nel modello rappresentativo libero, il rappresentante viene periodicamente
eletto dal rappresentato, ma nell'esercizio della sua magistratura è
completamente libero dal corpo elettorale: ha completa autonomia di azione
di giudizio (al contrario che nel modello di democrazia vincolata, il cui
riferimento può essere il mandato imperativo richiesto e a tratti
praticato da alcuni gruppi giacobini e dagli arrabbiati durante la grande
rivoluzione).
La democrazia 'globale' ha il compito, secondo gli autori, precisamente
come la democrazia nazionale del XVII – XVIII secolo, di affrontare la
guerra e di risolverla, ma si tratta di ben altro tipo di guerra e di
fondazione. Il problema è che non si trovano idee precise in merito, né
tra i detrattori residuali, ma consistenti e lo ripeto dannosisssimi,
della transnazionalizzazione (che si limitano a propugnare il ritorno alla
dimensione nazionale della politica e delle istituzioni costituzionali) né
tra i fautori dello sviluppo della globalizzazione. Il rischio
oggettivo è che, per usare le categorie costruite da Max Weber, la
democrazia 'globale' si avvii a essere un'istituzione a rappresentanza
appropriata e patriarcale (cioè non elettiva ma cooptativa sui precedenti
istituiti elettivi).
Letture. La Moltitudine. Le richieste globali di democrazia. Si registra
l'estrema debolezza, se non la completa illusorietà, della costituzione di
strutture di potere globali che siano espressione di una legittimazione
democratica. La formalizzazione di istituzioni di diritto internazionale
(le thrue commissions, i tribunali internazionali e il tribunale
penale internazionale) vivono due contraddizioni, una implicita e
l'altra esplicita. Sotto il profilo implicito e ontologico queste
istituzioni non hanno un diritto univoco al quale fare riferimento ed è
spesso la contingenza a dettare le forme del giudizio. Sotto il profilo
esplicito questi istituti e il loro operato non possiedono un
riconoscimento obbligato, ma presuppongono solo un'adesione volontaria
alle loro delibere dei singoli stati – nazione. Caso emblematico fu quello
del contenzioso sorto tra il Nicaragua sandinista e gli USA, nel quale il
tribunale condannò gli Stati Uniti ma l'amministrazione USA non riconobbe
legittimità alla sentenza e al tribunale.
Questi istituti, inoltre, finiscono per essere solo uno strumento per
registrare i rapporti di forza tra gli stati nazionali, legittimando il
ruolo egemonico a livello transnazionale di alcuni stati e a posteriori
l'uso della forza da parte degli immancabili vincitori.
Banca Mondiale e FMI sono ben lontani dall'essere strutture di
rappresentanza democratica come pure l'Assemblea Generale dell'ONU con un
voto concesso a ogni singolo paese, indipendentemente dal suo volume
demografico o, aggiungo io, dalla considerazione, almeno formale, della
effettiva democraticità del suo governo. Alla fine, secondo Negri e Hardt,
che scrivono nel 2004, ma anche secondo me che penso nel 2015, decisiva è
stata l'esportazione 'imperiale' di alcuni istituti giuridici statunitensi
allo scopo di preservare lo 'stato di diritto' della globalizzazione. In
questo contesto la 'democrazia globale' rimane una chimera lontanissima e
una mistificazione vicinissima e concreta. La richiesta magmatica,
scoordinata ma autentica di democrazia globale da parte dei movimenti
degli anni novanta del secolo passato è, solo per questo, stata
dirompente; una richiesta che non si può, ancora una volta, legare al
rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali ma al loro
superamento. Gli stati – nazione assumono ormai, in qualsiasi punto
gerarchico si collochino, un freno alla possibilità dello sviluppo della
democrazia.
In primo luogo sono necessariamente un freno in quanto “ Uno degli effetti
della globalizzazione è che alcuni leader nazionali, indipendentemente dal
fatto che siano o non siano stati eletti, acquisiscono sempre più potere
al di fuori dei loro stati …” (p. 314). In secondo luogo “Gli stati si
adeguano alle istanze del capitale … per paura di essere declassati
all'interno del sistema globale” (p. 324).
Se consideriamo democrazia il contesto parlamentare ed elettorale
sviluppato, bene o male, nei paesi capitalistici egemoni, la sua
globalizzazione è decisamente lontana, come l'esempio offerto nel XVII e
XVIII secolo dai parlamenti feudali era ben lontano dal paradigma di
democrazia al quale si ispirava la borghesia. Per di più l'11 settembre
2001, la guerra del golfo e, aggiungo io, l'implosione del capitale
finanziario e la conseguente grande depressione del 2008 hanno spento la
forza propulsiva del movimento 'no global' nel campo delle richieste
democratiche, come in molti altri terreni politici. Persino le iniziative
ispirate dai paradigmi ecologisti e informativi, centrali negli anni
novanta, sono rifluite, localizzandosi nuovamente e perdendo il necessario
e costitutivo orizzonte transnazionale. Anche se gli autori, andando
contro a quasi tutta la tradizione marxista, riconoscono un carattere
'progressivo' e profetico alla finanza, che sarebbe stata capace di
immagazzinare, astraendole all'ennesima potenza, le risorse produttive e
attraverso questa astrazione di progettare il futuro, dopo il 2001 / 2003
il segno della 'globalizzazione' si è fatto radicalmente regressivo e
apertamente repressivo, apertamente sospettoso verso il suo stesso
progresso, vincolato alla supremazia militare di alcuni stati – nazione
(USA capofila) e in molti casi volto a una sorta di de – globalizzazione
di facciata, che, in parte, sembra dare ragione ai nuovi nazionalismi e
alle riterritorializzazioni neo – naziste.
Dentro questo nuovo contesto è, però, ancora valido ciò che scrivono gli
autori a proposito della trasformazione possibile: “Al giorno d'oggi non
c'è alcun conflitto tra riforma e rivoluzione. Ciò non significa che
riforma e rivoluzione sono la stessa cosa, ma che nelle condizioni attuali
non possono essere separate … È inutile romperci il capo per capire se una
proposta è riformista o rivoluzionaria ...” (p. 336).
rivedi marzo
Inizio anno
Mercoledì, 1 aprile
Letture. Moltitudine. Le richieste globali di democrazia. La costituzione
di una forma di rappresentanza democratica su scala globale non è solo
illusoria ma in contraddizione con i principi della democrazia.
L'estensione della democrazia elettiva e parlamentare dalla dimensione
nazionale a quella mondiale comporterebbe necessariamente la costituzione
di circoscrizioni elettorali forti di decine di milioni di elettori,
secondo una distrettazione difficile da disegnare e in generale la
rappresentatività degli eletti sarebbe, davvero, bassa. È quindi
necessario immaginare altri modelli rispetto a quello elettorale –
distrettuale – rappresentativo. In buona sostanza gli spazi per la
democrazia in un contesto globalizzato, gli spazi per una democrazia che
sia rappresentativa della globalizzazione secondo le forme tradizionali
per gli stati – nazione, sono veramente esigui e rasentano la
fantapolitica ovvero la fantascienza.
Epperò per Negri e Hardt il problema della democrazia e della lotta per la
democrazia globale è fondamentale. La sua importanza non risiede solo nel
'bisogno' di democrazia espresso dai movimenti transnazionali degli anni
novanta ma nel fatto che, come in più punti affermato, lo sviluppo
economico e produttivo del capitalismo globalizzato presuppone e richiede
procedure democratiche su molteplici livelli. A livello elitario, le
'aristocrazie globali' (le grandi multinazionali, gli stati nazionali
egemoni) richiedono una condivisione amministrativa delle istituzioni
globali o meglio fanno richiesta della loro formazione. A livello 'di
base', le popolazioni che, a diverso titolo e secondo una diversa
gerarchia, sono coinvolte nella globalizzazione, propongono la necessità
di un controllo democratico su quella e sulla distribuzione delle risorse,
che spesso può essere tangente alla necessità di condivisione avanzata
dalle nuove élite dell'epoca 'imperiale'. Sotto questo profilo Negri e
Hardt ipotizzano anche la possibilità di un'alleanza tattica tra
aristocrazia imperiale e Moltitudine: l'allargamento della rappresentanza
dentro la costituente imperiale (il passaggio, per esempio, dalla formula
del G8 al G20) può essere un transitorio momento di comune aspirazione.
Il grande ostacolo alla definizione di una struttura giuridica imperiale,
però, è l'unilateralismo americano che usa le politiche e le economie
transnazionalizzate per rivendicare la guida del processo costituente.
Nello stesso momento in cui lo fa attenta alla costituzione imperiale: la
guida rinnega la sua direzione. L'opposizione aristocratica propone, al
contrario, una guida multilaterale che sarebbe più adeguata (e anche
necessaria perché gli Stati Uniti non sono in grado di amministrare il
processo da soli) alla struttura reticolare dell'impero e alla sua
direzione.
Le contraddizioni esistenti (ancora oggi) tra USA e UE, tra Russia e Cina
rappresentano bene questa opzione multilateralista, come, su un altro
livello (quello delle élite), la critica di gran parte del mondo
finanziario ed economico a certe intraprese unilaterali statunitensi
(soprattutto in occasione della seconda guerra del golfo). Insomma quelle
che, un tempo, sarebbero state definite contraddizioni interimperialiste
sono tutte riconducibili alla contrapposizione sorta intorno alla forma
che dovrà assumere il governo imperiale, ovverosia la guida politica del
capitalismo mondiale integrato. E se alle nazioni imperialiste si è
sostituito un insieme nazionale integrato, secondo logiche unilaterali o
multilaterali (questo, tutto sommato, è un dettaglio di grandissima
rilevanza storica ma sotto il profilo dell'analisi generale del processo
ininfluente), allora questo insieme nazionale integrato deve affrontare
non più il complesso dei popoli ma un insieme integrato di popolazioni, di
diversità e di singolarità, la Moltitudine.
Secondo Negri e Hardt inoltre l'unilateralismo statunitense (stanno
scrivendo nel 2004) non può riassumere e governare la complessità dei
problemi, così il multilateralismo via via propugnato da parte dell'Unione
Europea (emblematico ancora oggi il caso tedesco) non risolvono la
complessità della sfida imposta dalla 'globalizzazione' del capitalismo.
Alla fine sia unilateralismo che multilateralismo sono relitti del passato
e fanno riferimento a tradizioni geo – politiche, a punti di vista di
comodo, incapaci di descrivere autenticamente l'implosione dei confini
nazionali, il declino della loro stabilità, il venir meno della loro
verità: “Oggi la geopolitica imperiale non ha né un centro né un fuori: è
una teoria delle relazioni interne al sistema globale” (p. 374).
C'è qualcosa, quindi, che il dominio capitalista medesimo su questo
processo denuncia: l'irriducibilità del nuovo assetto economico e
produttivo agli schemi della politica classica e quindi della democrazia
classica. Da una parte le aristocrazie imperiali lavorano per un
allargamento degli organismi collegiali e della decisionalità secondo un
modello che è solo lontanamente affine a quello della democrazia
rappresentativa, nella sua versione appropriativa (secondo lo schema di
Max Weber), dall'altra parte le forze produttive sviluppate nel nuovo
paradigma della Moltitudine acquisiscono una nuova immagine della
democrazia: la democrazia come necessità, come base naturale della nuova
forma della produzione sociale. Citando Spinoza, gli autori scrivono,
infatti, che: “La grande maggioranza delle nostre interazioni politiche,
economiche, affettive, linguistiche e produttive sono sempre basate su
relazioni di natura democratica. Talvolta queste pratiche vengono
caratterizzate come formazioni spontanee, altre volte le intendiamo come
tradizioni e abitudini, ma in verità si tratta dei processi di scambio,
comunicazione e cooperazione democratica che sviluppiamo e trasformiamo
giorno dopo giorno … È proprio questa la ragione per cui, secondo Spinoza,
le altre forme di governo sono distorsioni e limitazioni della socialità
umana, mentre la democrazia è il suo solo e unico compimento naturale” (p.
362).
Annotazione. Se nel 2004 certamente era predominante l'unilateralismo
statunitense dentro il quadro geopolitico imperiale, oggi, per la mia
personalissima impressione, è il multilateralismo a prevalere, complici
molti fattori.
In primo luogo elementi 'strutturali' quali il sostanziale fallimento
(ormai registrato anche a livello massmediatico) dell'occupazione di Iraq
e Afghanistan che hanno frantumato i relativi stati – nazione, generando
nuove 'nazioni' fondate sul riconoscimento etnico e/o religioso, e gli
effetti della depressione del 2008 che ha reso insostenibile il peso
economico della guerra in medio oriente per gli Stati Uniti.
In secondo luogo un elemento 'ideologico', vale a dire, la presidenza di
Obama, che ha saputo prendere atto dell'esistenza di questi due fattori e
ha agito di conseguenza. Gli Stati Uniti stanno ripercorrendo e
rivalutando gli strumenti di una gestione multilaterale delle
problematiche globali.
In questo contesto l'Unione Europea ha recuperato una dimensione 'globale'
attraverso una simmetrica collaborazione con gli Stati Uniti, simmetria
che la seconda guerra del golfo aveva interrotto, che si fonda (secondo i
vizi di fondo della 'costituzione materiale europea') in un'adesione alle
strategie politiche del FMI e della Banca mondiale, che sono condivise
dagli Stati Uniti. Russia, Cina e India possiedono un ruolo di
superpotenze con raggi che si estendono sul medio ed estremo oriente.
Dentro questo contesto inizia a delinearsi embrionalmente un'unità di
intenti sovranazionale in medio oriente (Egitto, Siria e Giordania) alla
quale si contrappone il desiderio egemonico sull'area espresso dall'Arabia
Saudita e dall'EAU. Qui per via della Russia (che ha costituito un suo
asse di interesse geo – politico tra Siria e Iran), degli Stati Uniti (che
hanno costituito un asse Egitto – Giordania – Arabia Saudita) abbiamo la
sovrapposizione e compenetrazione delle alleanze secondo un gioco
sistemistico.
Nel 2015, rispetto al 2004 descritto in Moltitudine, la tettonica a zolle
geo – politica si è dispiegata quasi pienamente. Non esistono più le
condizioni per l'unilateralismo statunitense e il multilateralismo,
affermandosi, enfatizza la mancanza dei suoi presupposti, vale a dire aree
di interesse geo – politico stabilmente delineate.
È chiaramente un'interpretazione basata su pochi dati empirici.
Giovedì, 2 aprile
Ai margini. Moltitudine e Impero. La costituzione imperiale sembra essersi
congelata. Dopo una prima fase di sviluppo segnata dal crollo del muro,
dalla prima guerra del golfo e dalle operazioni nei Balcani e in Africa
orientale (Somalia) e contrassegnata dal multilateralismo e dopo una
seconda fase, distinta dalla seconda guerra con l'Iraq e l'invasione
dell'Afghanistan e contrassegnata dall'unilateralismo statunitense, la
costituzione si è fermata, fermata fino al punto di indurre il sospetto
che lo stesso processo di costituzione imperiale fosse apparente e quasi
un prodotto di un'ideologia e di una costruzione narrativa massmediatica
della quali Negri e Hardt rappresenterebbero, allora, la versione critica
e antagonista. Senza abbracciare tesi generali e definitive potrebbe
essere legittimamente individuata quantomeno una combinazione tra fattori
storici e valutazioni politiche che hanno fermato l'innegabile processo di
transnazionalizzazione governata e determinata politicamente, vulgo
globalizzazione politica, inauguratasi in forme conclamate negli anni
ottanta del secolo scorso.
Si è, inoltre, venuto a delineare uno scenario paradossale e, per certi
versi, 'schizofrenico'.
Da una parte il processo di globalizzazione ha continuato a lavorare alla
delegittimazione della sovranità nazionale, subordinando sempre più
rigorosamente le politiche economiche e finanziarie dei singoli stati –
nazione alla validazione degli organismi internazionali (Fondo monetario
internazionale e Banca mondiale), dall'altra parte, però, l'unilateralismo
statunitense, espressosi pienamente nel primo decennio di questo secolo,
ha puntato, per sua stessa natura, alla diminuzione delle prerogative
dell'ONU e del Consiglio di Sicurezza, percepiti come inutili ingombri e
relitti del passato.
Infine l'insorgenza della grande depressione dell'anno otto ha imposto il
ridimensionamento del protagonismo statunitense ma la profondità e
ampiezza della crisi economico – finanziaria hanno impedito la
ricostituzione di un autentico piano multilaterale, poiché alla crisi
americana ha corrisposto la crisi finanziaria mondiale: nessuno stato –
nazione è passato indenne da quest'esperienza eccezion fatta per la
Germania. Se la Germania ha quasi ignorato la crisi in quanto stato –
nazione, certamente, però, non l'ha potuta ignorare in quanto stato
sovranazionale: la capacità tedesca di pilotare l'economia dell'Unione
europea ha evitato l'impatto della crisi alla Germania come stato –
nazione, ma ha colpito l'economia del resto dell'Europa e, quindi, alla
fine anche quella tedesca. La Germania ha evitato i danni diretti ma non
quelli indiretti della pessima congiuntura economica degli ultimi sette
anni: per così dire la Germania ha virtualizzato la crisi.
In un contesto simile gli anni dieci di questo nuovo secolo paiono
dominati, in geo – politica, da un multilateralismo debole, debole in
ragione del fatto che sono venuti a mancare a quello due sponde basilari:
una definizione forte dello stato – nazione e istituzioni legittimate a
livello internazionale. Gli stati – nazione hanno continuato a
subordinarsi agli istituti internazionali, mentre gli istituti
internazionali, delegittimati, non possono offrire garanzie agli stati –
nazione.
Lo scenario, ribadisco la clinica, è schizofrenico: lo stato – nazione non
riesce più a vivere di luce propria ma non esiste altra luce alla quale
attingere.
Questo genere di multilateralismo, allora, rischia di tradursi in
un'estrema frantumazione e friabilità, dove le gerarchie imperiali e la
tettonica a zolle geo – politica si compenetrano in maniera confusa e
scoordinata. A mio pare si tratta di una malattia di passaggio, come molte
altre analoghe nella storia. Non so se la mia analisi possa dirsi corretta
ma spero sia sufficientemente chiara.
Venerdì, 3 aprile
Ai margini. Moltitudine e Impero. Un'ultimissima considerazione intorno al
congelamento dell'evoluzione imperiale, almeno sotto il profilo
istituzionale. Se esiste (ed esiste) isomorfismo tra forze produttive,
rapporti di produzione e sistema politico, allora va introdotta un'altra
causa per questo rallentamento nella costituzione del capitale
transnazionale, la sua 'intelligenza' e progettualità. Come scritto
altrove in questi appunti, il capitalismo, giunto a questo punto del suo
sviluppo, lo teme coscientemente; non può fare a meno di svilupparsi ma
proporzionalmente è consapevole dei rischi, relativi alla sua stessa
sopravvivenza, di questo sviluppo. Il capitalismo mondiale integrato si
contrappone al suo stesso sviluppo, obliterandolo attraverso la guerra e
la crisi. Il capitalismo, quindi, si sviluppa nella guerra e nella crisi
economica, perché non può fare altrimenti che così.
È ovviamente una mia ipotesi o meglio una tesi confortata da pochissimi
indizi: il capitalismo mondiale integrato, insomma il mondo imperiale di
Negri e Hardt, pur detestando i limiti e avendoli concretamente dissolti,
li ricrea, interiorizzandoli, nella forma della guerra e della crisi
economica e finanziaria. Secondo questa tesi, la crisi e la guerra da
strumenti tradizionali dello sviluppo, da motori del progresso sistemico,
sono diventati i freni alla briglia del cavallo. In questo contesto i
confini nazionali, inutili e dannosi sotto il profilo dello sviluppo
economico, ritornano a essere utili, non riuscendo, però, a essere 'gli
stessi confini'. Come il limite è diventato un'illusione e una
mistificazione, così i confini non si basano su di un'esigenza reale e una
concreta diversità quanto, invece, sulla volontà di rappresentarli.
Il capitalismo globale ha bisogno di riterritorializzare, di
inventarsi una nuova tradizione geografica, geopolitica ed etnica e di
ricombinare continuamente la storia delle etnie e delle popolazioni.
Tutto questo apre nuove geografie ma produce nuovi limiti, più deboli, non
più 'strutturali', ma pur sempre limiti.
Il capitalismo è come la schizofrenia: l'inclinazione a essere ciò che non
si deve essere e dentro alla lotta e alla resistenza verso “ciò che non si
deve” vengono fuori, inevitabilmente, elementi paranoici e ossessivi. La
paranoia del capitalismo è quella di subire la persecuzione da sé medesimo
e di costituire religioni, etnie e storicità rappresentate che riproducano
il limite e allontanino definitivamente l'illimitatezza, cioè a dire, la
libertà. Il fatto di rivedere la storia, interpretare le radici etniche,
rileggere il territorio, riconfigurando tutte queste cose, è nel
patrimonio genetico del capitalismo che ha sempre inteso di ridiscutere il
mondo e di rimodellarlo. Lo ha fatto non in maggior misura dei sistemi
sociali precedenti ma in maniera diversa. Mentre nelle epoche pre –
capitaliste l'attualità in sé stessa era una serena prosecuzione del
passato, anche a costo di mistificarlo, nell'epoca moderna il passato è
un'altra cosa e l'attualità è rottura consapevole con la storia
precedente. Il capitalismo è stato e si è pensato come sorgente della
storia. Anche se ha ereditato moltissime istituzioni politiche, sociali e
giuridiche dalle epoche precedenti, forse ancor di più di quanto quelle
non avessero fatto a loro volta, e dunque si è presentato alla storia come
una forza tradizionalista e conservatrice, ha, però, inteso prendere
possesso della storia e del mondo e di fare di ciò che era prima di lui
qualcosa di radicalmente differente.
Quindi l'aspetto schizofrenico è costitutivo: reinventare il passato, la
storia e il mondo, rimescolare le tradizioni e le istituzioni; ma lo è
anche quello paranoide che desidera legare queste tradizioni al presente,
non compiendo opera mistificatoria ma reinventandole, donando a quelle
nuove forme che devono essere scambiate con quelle originali. Il
capitalismo ha sempre infatti preteso di esprimere la verità sulla storia,
sulla società e sulla politica.
Quello che rende assoluto l'aspetto schizofrenico e paranoico del
capitalismo contemporaneo sta nel fatto che il suo raggio di azione
economica si è esteso alle relazioni umane, come già Debord e i
situazionisti prima di Negri avevano intuito. Alcuni di quelli chiamarono
tutto questo 'capitalismo reale' termine che si congiunge con la
'sussunzione reale' del lavoro profetizzata da Marx. Il capitalismo reale
è la fase in cui nulla, neanche le emozioni, gli stati d'animo, gli
affetti e le relazioni umane sono esterne e sconosciute al dominio del
capitale.
La schizofrenia e la paranoia del capitale, allora, si sciolgono dal
capitale medesimo, dal capitalismo come fatto economico, vivono quasi al
di fuori di quello, guardandolo come un altro da loro, come un oggetto. Il
flusso massmediatico, tanto quello monocratico, quanto quello policratico
descrivono il sistema capitalistico non più come sistema sociale e
politico, esigono di andare al di là della sua determinazione storica e
spesso la criticano per affermare un'assolutezza che si manifesta,
naturalmente, al di fuori del sistema, che è l'elemento fondante del
vivere associato. Il lavoro attuale dei media, vecchi e nuovi, è compiuto
in maniera indipendente dai rapporti di produzione, che suscitano spesso
fastidio, è assolutamente dipendente, invece, dalle relazioni umane e
sociali, da tutto quello che allontana la visione del sistema come
sistema. Gli atteggiamenti schizofrenici e paranoici insieme con le nuove
ideologie a quelli collegate divengono, allora, prodotti naturali delle
relazioni sociali e umane e vengono rappresentati e descritti come il
risultato di una malattia comunicativa e relazionale e non come il
risultato della sovradeterminazione dello sviluppo da parte del dominio e
delle gerarchie e delle discriminazioni tra popolazioni e geografie. Il
sistema non esiste e anche gli eventuali nemici non hanno un sistema:
tutto è determinato dalla casualità delle combinazioni umane. Lo
spettacolo dell'umano sotterra la realtà dell'umano, lo spettacolo di un
mondo privo di sistema di comando, nasconde la concretezza del comando,
dandone una rappresentazione apparentemente concreta.
Proprio perché, come gli autori di Moltitudine e Impero, sono persuaso di
una definitiva estensione del campo d'azione del sistema capitalistico,
sono ugualmente convinto del fatto che lo 'spettacolo del capitalismo'
come rappresentazione di un sistema senza sistema e dunque di un complesso
di umanità, di relazioni sociali e interazioni sociali abbia un fondo di
realtà, anzi sia innervato dalla realtà delle cose, cioè dalle relazioni
concrete stabilite dagli individui o dai gruppi di individui nel corso del
ciclo produttivo. Il versante schizofrenico del capitalismo, qualora sia
liberato dalla sua paranoia e quindi dal timore di sé stesso, è anche il
versante lungo il quale si può sviluppare il movimento del valore d'uso,
anzi quello sul quale il capitalismo è già diventato, con orrore dei suoi
strateghi e filosofi più avveduti, il movimento del valore d'uso.
Per riprendere la terminologia usata in Moltitudine il concetto di
'comune', mistificato come 'pubblico' e ridotto a rappresentazione
massmediatica delle relazioni sociali, cessa di essere un luogo del 'non
privato', abbandonato dal privato ma non appropriato dal collettivo, un
terreno, quello del comune, sospeso che preconizza la libertà nella
proprietà, per poi riportarsi verso l'antica libertà della
proprietà, un terreno neutro, una zona grigia, che ammanta di
libertà il seguente momento di appropriazione privatistica e lo giustifica
in tal senso (con le parole della libertà imprenditoriale); smette di
essere il luogo di una 'comunità' potenziale, svelando la sua attualità
attraverso la critica alla privatizzazione del comune.
Il movimento del valore d'uso, continuamente ricondotto allo scambio,
resiste e permane come momento d'uso, evitando, inoltre, la trappola della
sua trasformazione in proprietà pubblica, del suo 'farsi stato'. Il
movimento del valore d'uso non è pubblico né privato, non si avvicina né
al diritto pubblico né al diritto privato, non costituisce un diritto e
una giurisprudenza (malgrado se ne serva) ma afferma una pragmatica
comunicativa, distributiva e creativa. Il sistema, allora, davvero non
esiste più perché tutto è diventato cooperazione, collaborazione e
produzione di cooperazione e collaborazione.
La schizofrenia è stata oltrepassata, il capitalismo non teme più
l'illimitato, non ha più limiti: non è più capitalismo.
Sabato, 4 aprile
Annotazione. Mi pare appropriato descrivere una critica definitiva
all'idea tradizionale di rivoluzione e soprattutto di 'percorso
rivoluzionario', riprendendo alcune riflessioni di qualche giorno fa e la
memoria di alcuni appunti perduti (sull'umanesimo comunista e, non a caso,
su qualcosa che all'epoca, a metà degli anni ottanta chiamai, certamente
con dubbio gusto, “riformismo rivoluzionario”), riflessioni emerse proprio
nel corso della lettura di Moltitudine e nel tentativo di dare a questa
un'interpretazione valida oltre la contingenza, al di là, cioè, del 2004 e
del dispiegarsi del 'movimento dei movimenti'. È necessario mettere
definitivamente al bando (e so che questo disgusterà molti come me) l'idea
di una trasformazione della società eseguita attraverso tecniche
rivoluzionarie. Per tecniche rivoluzionarie intendo quelle composte da tre
momenti e / o componenti: la costruzione di un partito, la strutturazione
di un contro – potere istituzionale e il finale abbattimento dello stato.
Questi tre costituenti sono sempre stati considerati come fasi storico –
politiche precise e momenti ben individuati della lotta politica e la
lotta politica è stata pensata sulla loro base.
Oggi, però, la politica è un'altra cosa, come ben descritto da Negri e
Hardt in Moltitudine “Nell'orizzonte dell'Impero … la guerra, la politica,
l'economia e la cultura diventano un modo di produzione unificato della
vita sociale della sua globalità … Avvalendoci di un lessico diverso,
potremmo dire che, nell'Impero, il capitale e la sovranità tendono a
sovrapporsi” (p. 385). Ancora più illuminante, specifico e diretto è Virno
nella 'Grammatica della Moltitudine' quando registra il fatto che la
politica è diventata il repertorio di un esercizio virtuosistico, un'arte
da solisti della retorica, giacché le decisioni politiche non sono più un
prodotto della politica ma nascono altrove nella produzione e cooperazione
sociale. La politica, allora, aggiungo io, diviene sempre più la
rappresentazione mistificata della decisionalità, la spettacolarizzazione
e rappresentata personalizzazione (secondo la 'individualizzazione e
umanizzazione' massmediatica e televisiva) delle risoluzioni adottate dal
complesso economico e produttivo. Se, continuo ad annotare, in epoca
moderna la politica aveva determinato e suscitato la nascita e la
creazione degli organi informativi di massa (dalle numerose tribune a
stampa giacobine alle televisioni di stato), già nell'ultima fase del
capitalismo industriale e a maggior ragione nella post – modernità
la relazione si è rovesciata: sono i media, oggi, a suscitare e sostenere
l'apparato politico che, senza di quelli, non esisterebbe più e sarebbe
privo di qualsiasi senso compiuto. Prima, cioè, il senso della politica
era una complessità che proveniva dalla società e che generava, comportava
e informava i media e la comunicazione di massa, ora, invece, il senso dei
media, lo spettacolo, informa e compone la politica che è, in massima
parte, un prodotto massmediatico; lo spartiacque storico di questo
processo fu, in Europa, l'esperienza in materia di comunicazione di massa
maturata da nazismo e fascismo e, negli Stati Uniti, dal new deal
roosveltiano. È un fatto innegabile che questo rovesciamento si sposi alla
perfezione con l'indebolimento della sovranità nazionale e della
rappresentanza politica a quella connessa.
La fine della politica non provoca solo il tramonto dell'ipotesi
rivoluzionaria e dei suoi percorsi ma anche e, forse ancor di più, di
quella del riformismo tradizionale, ipotesi nelle quali sovranità e
rappresentanza cambiavano di segno, perché oggi non esiste una possibilità
di esprimere una sovranità e una rappresentanza in senso tradizionale.
Buttare a mare Lenin non significa, però, glorificare Bernstein, proprio
perché l'ipotesi riformista, con i suoi riferimenti continui alla
rappresentanza e alla sovranità nazionale o anche sovranazionale, esce
ancor di meno da una rappresentazione della politica come riduzione del
molteplice all'unità, che, almeno, nel pensiero rivoluzionario si
presentava come necessaria ma non costituiva. Non si tratta, quindi, di
rivalutare la trama di strategie e mediazioni (necessariamente e spesso
ipocritamente illusorie) che hanno innervato il pensiero riformista fino
(per rimanere vincolati ad esempi italiani) a Nenni, Togliatti, Berlinguer
e De Martino.
C'è un'ulteriore valutazione in proposito. Nel tardo capitalismo
industriale e ancora di più in quello contemporaneo, per sua stessa
struttura, lo sviluppo del capitale non concede margini di mediazione e
oscillazioni dentro una forbice di opportunità di sviluppo perché non
esiste più la forbice e lo sviluppo si volge secondo una retta – limite e,
inoltre, il contesto dell'azione politica si è spostato in due direzioni e
cioè o verso la rappresentazione massmediatica o verso la concretezza del
vivere sociale, e in una sempre più profonda contaminazione tra
rappresentazione e concretezza, tra unicità e molteplicità, tra semplicità
e complessità. In un contesto simile, il punto di riferimento di tutto il
pensiero riformista tradizionale, l'autonomia della politica dalla
società, la possibilità di progettare attraverso la politica la società, è
venuto meno, determinando il declino del potere delle tradizionali
istituzioni in cui si esprimeva (parlamenti, organi di rappresentanza
regionali e comunali, ma anche sindacati e persino il famigerato 'sistema
dei partiti' italiano).
Il riformismo e la rivoluzione oggi non possono più individuarsi come
processi differenti per un medesimo obiettivo, l'emancipazione politica
e sociale dell'umanità, non sono più interni a quell'obiettivo e non
possono più essere processi storicamente credibili.
Anche in questo campo, nel campo della liberazione e dell'emancipazione
politica e sociale dell'umanità, la paranoia del capitalismo deve essere
oltrepassata e bisogna dare via libera alla sua schizofrenia, liberare la
briglia al cavallo del capitalismo: come il capitalismo non deve avere
limiti per realizzarsi, ma ha bisogno di limiti per organizzarsi e
conservarsi, così il pensiero comunista non deve legarsi ai limiti del
capitalismo (come facevano le tradizionali teorie rivoluzionarie e
riformiste quando pretendevano di rappresentare veramente i popoli e di
possedere la verità sul popolo) poiché significherebbe sposare la paranoia
del capitale in forma inversa, costituire un delirio antagonista, una
contro – società che immagina la società reale, relegandosi
inevitabilmente a un'attività testimoniale e a un auto – esclusione dallo
sviluppo. Non solo, alla fine sarebbe inevitabile defluire, magari in
maniera inconscia, verso ipotesi e politiche profondamente
conservatrici, quando non apertamente reazionarie, secondo le quali
l'autonomia del politico è l'unica garanzia e sinecura contro lo sviluppo
capitalistico e ritrovarsi a condividere i modi di sentire della nuova e
vecchia destra demagogica e populista per la quale il futuro, lungi
dall'essere visto quale effettivamente è, cioè, un cadavere in
putrefazione, tra investimenti tattici e strategici viene considerato come
il corpo resuscitato e purificato dell'ordine politico e culturale del
passato.
Il rinnovamento del passato attraverso la sua proiezione nel futuro è
stato un meccanismo valido fino a mezzo secolo fa, come, certamente, aveva
senso fino a quel tempo fare riferimento e usare, strumentalmente, i
limiti e i difetti nello sviluppo del capitale per costituire
l'alternativa politica (riformista o rivoluzionaria) al suo dominio. Oggi,
al contrario, è necessario essere più capitalisti del capitale e
sotterrare l'autonomia del politico per affermare l'autonomia del sociale
e della produzione.
Annotazione [Fascismo, nazismo e new deal]
Quando scrivo di fascismo, nazismo e new deal come spartiacque
(e lo sono stati insieme con gli anni trenta del secolo scorso sotto
molteplici aspetti) nella relazione tra media e potere, introduco
un'esagerazione. Nel modo di amministrare l'informazione dei tre 'sistemi
politici' si può leggere, al contrario, il trionfo della
sovradeterminazione della politica sui media: le emissioni della radio di
stato in Italia iniziano proprio nei primi anni venti, i discorsi
radiofonici di Roosvelt (i famosi 'discorsi dal caminetto') sono di metà
dei trenta e, in genere, Mussolini, Hitler e Roosvelt usarono, in forme
diverse, secondo eredità storiche, sensibilità culturali e capacità
tecniche differenti, radio e cinematografo.
Tanto, però, nell'esperimento 'straccione' e 'popolaresco' italiano, ma
per questo non meno profetico, quanto in Germania e soprattutto negli
Stati Uniti si segnalano i primi segni di un'indipendenza dei media.
Questa autonomia origina direttamente dalla loro specificità; il loro
linguaggio coinvolge direttamente l'affettività e l'emotività del pubblico
e partecipa, autenticamente, alla produzione di affetti e stati d'animo,
rivelandosi come più efficace del linguaggio politico tradizionale che si
basava sugli stilemi comunicativi della carta stampata. La filmografia
americana degli anni trenta è emblematica in tal senso: senza mai citare e
mettersi in relazione diretta con il nuovo corso economico e con
l'assistenzialismo statale, una serie notevole di produzioni
cinematografiche evidenziarono l'umanità ed eticità che riposavano dietro
la limitazione degli effetti negativi del capitalismo sotto il profilo
sociale e umano imposta nel new deal. L'intelligenza collettiva
del capitalismo veniva messa in pellicola sotto forma di un complesso di
relazioni umane rinnovate e ravvedute (Frank Capra ne è stato il migliore
interprete). Questa libera interpretazione dell'intelligenza del capitale
è il primo segno di un cammino verso l'indipendenza dei media, al termine
di questo processo l'intelligenza collettiva del capitale, lungi
dall'essere ancora considerata come un prodotto della politica, come la
prova dell'intervento vincente della politica sulla società, diventa la
naturalità dell'umano, la rappresentazione (è davvero il caso di scrivere
questa parola) della sostanziale armonia sociale e anche là dove si
raccontano i conflitti e le contraddizioni la stessa struttura narrativa
impone la loro soluzione, anche nel caso sia drammatica. La prossimità tra
opera e prodotto massmediatico (e mi sto riferendo anche al singolo
notiziario televisivo) e romanzo ottocentesco è, per me, impressionante.
Il potere massmediatico (il famoso 'quarto potere') offre la possibilità e
descrive la necessità della riconciliazione armonica delle contraddizioni
e frantumazioni sociali, che sfugge il più delle volte alla retorica
della politica (istituendo una retorica sua propria), ma non solo che si
scopre capace di rappresentare meglio e di stimolare essa stessa lo
sviluppo sociale ed economico, poiché, al contrario della politica, del
suo mondo e dei suoi apparati ideologici, lo segue con passione, essendo
divenuto, invece di quello politico, il detentore di un linguaggio
produttivo. La relazione di capitale investe più profondamente i
media che non la politica.
La scomparsa del capitalismo personalizzato e privatistico e la
definizione politica di un'intelligenza collettiva del capitale, cose che
fascismo, nazismo e new deal affrontarono, processo che vide
compiersi il trionfo della politica, dello stato e della sua autonomia,
paradossalmente è stato il presupposto della crisi definitiva,
esistenziale, della politica e dello stato come funzione della politica e
della rappresentanza politica.
Domenica, 5 aprile
Letture. Moltitudine. Democrazia delle Moltitudine. Epilogo di Negri e
Hardt necessariamente vago, proprio per il taglio e il proposito
dell'opera, un epilogo che non è conclusivo, dunque. La democrazia è un
prodotto naturale della nuova forma produttiva ma non è un prodotto
spontaneo: la democrazia sarà una conquista.
Gli autori non scendono nel dettaglio di questa conquista e si limitano a
stabilire alcuni assiomi e alcune caratteristiche di fondo e rigorosamente
potenziali.
È impossibile immaginare la democrazia della Moltitudine come la
proposizione di una nuova sovranità, della riduzione a unità del complesso
delle relazioni e nella costituzione di un nuovo corpo sociale e politico.
Si legge letteralmente: “ … la Moltitudine non è un corpo sociale per
questa precisa ragione: la Moltitudine non può essere ridotta a unità e
non si sottomette al potere dell'uno. La Moltitudine non può essere
sovrana” (p. 380). Questo ha effetti diretti sul concetto della democrazia
che dovrà affermarsi e che si afferma: “la democrazia, che Spinoza
definisce assoluta, non può essere considerata una forma di governo nel
senso tradizionale del termine, poiché essa non riduce la pluralità delle
differenze di ciascuno alla figura unitaria della sovranità” (p. 380). In
verità l'unitarietà della sovranità, espressa nella storia sia in forme
monarchiche, aristocratiche o democratiche, è stata una finzione, una
rappresentazione: in ogni sua forma il potere è stato bipolare, da una
parte il governo dall'altra i subalterni. Sempre e in ogni caso il potere
ha dovuto suscitare da un minimo a un massimo di consenso e non è mai
esistita una forma statale che si sia sostenuta solo con la forza bruta.
Per dirla in altri termini e vedendo la questione dal punto di vista dei
'dominati' e dei cittadini o sudditi, la sovranità ha sempre suscitato
investimenti di desiderio nei suoi soggetti, immedesimazione e
riconoscimento: il potere non è mai stato trascendente (lo è solo
nell'ideologia) ma è un prodotto immanente e condiviso nell'immanenza.
Chiarissimi, a questo proposito, gli autori che scrivono: “La forza
militare può essere utile per la conquista e per il controllo a breve
termine ma la violenza, da sola, non può stabilizzare il potere e la
sovranità. La forza militare, dato il suo sbilanciamento unilaterale, è
infatti la più debole forma di potere: è dura, ma anche fragile” (p. 382).
È, inoltre, chiarissimo che la democrazia globale non è riconducibile alle
forme di democrazia che nascono nella sovranità nazionale e nutre verso di
quelle una lontanissima parentela: la democrazia non è un fenomeno
istituzionale ma immanente alla produzione e alla vita sociale. Questo può
accadere perché “ … il fatto che i prodotti del lavoro non siano beni
materiali, bensì relazioni sociali, reti comunicative e forme di vita,
mostra chiaramente che la produzione economica implica immediatamente una
sorta di produzione politica o la produzione della società stessa” (p.
383). Al punto attuale dello sviluppo del capitalismo, dunque, la
produzione è politica e l'organizzazione produttiva può trasformarsi in
organizzazione politica senza perdere la sua natura ed entrare in
conflitto con sé stessa. Le forme della democrazia avranno, dunque, le
forme della produzione. Virno, nella 'Grammatica della Moltitudine' sotto
tutt'altro punto di vista denuncia questa intromissione della politica nel
mondo del lavoro; per lui il virtuosismo retorico, la capacità di giocare
sugli stati d'animo, l'opportunismo e il servilismo, doti squisitamente
politiche, sono entrate con forza nel mondo del lavoro. In Virno
l'intromissione si è verificata sotto il segno negativo della politica
deteriore, in Negri e Hardt tutto il contrario. Probabilmente gli autori
scrivono del medesimo processo, ma Virno lo analizza sub specie
del capitale, del comando che viene espresso sul processo, mentre Negri e
Hardt sotto la specie della Moltitudine, del libero sviluppo del processo
produttivo. Innegabilmente, sotto diverse forme, la politica è entrata nel
lavoro.
Ci troviamo davanti, comunque, non solo una nuova visione della democrazia
ma anche della politica. La democrazia e la politica non sono più un
prodotto mediato del sistema sociale, una sua espressione, ma un prodotto
immediato, per certi versi uno dei tanti beni immateriali, e, per come è
conformato l'apparato di produzione, la sua dimensione politica non può
che essere democratica.
Questa immagine lascia due punti da chiarire criticamente. Alla base di
questa immagine della democrazia e della politica è un'idea della
tecnologia, del sapere scientifico e dei processi produttivi (già
manifestata in Impero) sostanzialmente 'neutra', presentata come sequenza
ideale e operativa indipendente, nella sua essenza, dal comando del
capitale. È certamente vero che “le istanze dell'innovazione in rete
possono essere ricondotte all'immagine di una orchestra senza direttore”
(p. 389) ma è anche vero che la produzione open – source non è
un paradigma egemone nella produzione informatica e che la democraticità
dei saperi scientifici non si risolve nel carattere collettivo della
ricerca, che garantisce solo la sua bontà, la sua efficacia ma non la sua
funzionalità; per la sua funzionalità democratica sono necessari dei
codici di rispetto che rimandano a qualcosa di esterno al naturale
sviluppo della comunità e alla volontà e determinazione di quella comunità
di costituirsi in comunità. Ci deve essere qualcosa che si contrappone al
comando del processo, imponendo una distanza da quello in ragione di un
altro ragionamento su di esso. Se certamente lo sviluppo del capitale ha
aperto la strada alla rete comunicativa orizzontale e se
fenomenologicamente questa rete si presenta come autenticamente
reticolare, non è affatto scontato che lo sia. Non bisogna dimenticare che
il capitalismo ha messo in produzione l'antropologia (la comunicazione,
l'interazione, gli affetti e il tempo libero) e quindi la determinazione
stessa dell'umano. Il 'comunismo del capitale' non è la liberazione
dell'umano, ma un dominio espresso direttamente sull'umano, qualcosa che
nella storia dell'umanità non si era mai realizzata.
Analogo approccio critico è necessario verso il concetto di democrazia,
che viene pensato come il prodotto della neutralità della scienza perché,
come scrivono gli autori, “nella misura in cui la distinzione tra la
produzione economica e il potere politico si sta decomponendo, la
produzione comune da parte della Moltitudine anima contestualmente
l'organizzazione politica della società” (p. 390) e poco oltre, ribadendo
la centralità del modo di produzione informatico in questo assunto
“Possiamo quindi raffigurarci la democrazia della Moltitudine come una
società open – source, una società il cui codice sorgente è
pubblico, così da permetterci di lavorare insieme per sistemare i suoi bug
e per avere nuovi e sempre migliori programmi sociali” (p. 391).
Anche qui tutto assolutamente vero, e lo scrivo con autentico entusiasmo,
ma al contempo tutto potenzialmente falso. Il pregio di questa
impostazione sta nel concetto della democrazia come fatto operativo,
attuativo, auto – realizzante che mette alla berlina le incartapecorite
forme di rappresentanza borghese e liberali, ma il rischio è quello di
abbracciare una concezione formalistica della democrazia, come forma,
appunto, del processo produttivo e, quindi, ancora una volta come
strumento e prodotto 'neutro'.
La democrazia, invece, non è neutrale né implicitamente perché non esiste
una perfezione nella rappresentanza degli interessi ma sempre
inevitabilmente si devono compiere discriminazioni e scelte, né
esplicitamente perché la tradizione democratica è costituita sull'eterna
ideologia del governo della maggioranza e mai della totalità.
Proprio a partire dalla notevolissima intuizione degli autori, vale a dire
dall'apparente ma solo potenzialmente autentica (secondo la mia
correzione) coincidenza tra produzione e politica e tra modo di produzione
immateriale e democrazia, preferirei collocare il concetto di democrazia
in un contesto costitutivamente dinamico (roba da rivoluzione permanente
di Troskji); amerei e riterrei adeguata l'idea della democrazia come
processo e come procedura del processo democratico. Una volta che il
sistema produttivo si struttura come un sistema democratico, la
democrazia rimane solo una scelta, non una necessità, non un automatismo
e non una conseguenza meccanica del modo di produzione. Il sistema
produttivo richiede collaborazione e cooperazione ma non collaborazione
e cooperazione democratica; richiede un lavoro collettivo e addirittura
la determinazione di un luogo 'comune', cioè di uno spazio collettivo né
privato né pubblico, né personale né sociale, uno spazio privo di
proprietà, ma non la trasformazione del lavoro da collettivo a comune e
del comando sul lavoro da collettivo a comunista.
Si individua, insomma, una tendenza verso la democrazia e un comando
sociale democratico e diffuso ma può solo essere una 'decisione', un
intendimento, a produrre una procedura che intervenga sul flusso
produttivo e che 'paradossalmente' ignori il suo carattere collettivo in
quanto tale ma nel flusso produttivo sappia individuare alcuni elementi,
selezionandoli ed eleggendoli a struttura, e altri elementi, tagliandoli e
rimuovendoli dalla struttura. La valutazione alla base di queste
selezioni, elezioni, tagli e rimozioni dovrà essere la funzionalità e
non l'efficienza e l'efficacia, la bontà sociale e non la bontà tecnica,
o meglio tenderà continuamente a comparare le due cose (funzionalità ed
efficienza, bontà sociale e bontà tecnica) e ad accrescere realmente la
partecipazione alla produzione e alla costruzione dei saperi.
Ancora una volta la critica alla produzione e ai saperi, soprattutto
espressa contro la loro neutralità, potrà essere fonte di nuova produzione
e di nuovi saperi: non possiamo accontentarci di sicuro della libertà
schizofrenica del capitalismo, credo. La novità dell'oggi è che questa
critica potrà essere svolta in forma democratica, o meglio è essa stessa
un processo che costruisce la democrazia e la sua procedura.
Da questo punto di vista, almeno il mio punto di vista, il problema
dell'uso della forza nell'affermazione della democrazia e della lotta
politica si risolve in modo naturale.
Vale la pena di appropriarsi di una citazione tratta dal testo: “Che la
vittoria rimanga a quelli che avranno fatto la guerra senza amarla” (p.
395, citazione di Andrè Malraux, Antimemorie). È per me questo un a priori
irrinunciabile: i comunisti non devono amare la forza, se la amano non
sono comunisti. In altra epoca, Rosa Luxembourg descriveva l'uso della
violenza come una triste necessità per il movimento socialista, nella
lotta verso la democrazia sociale e politica e verso l'emancipazione della
maggioranza dei subordinati dell'umanità.
Non starò a dilungarmi sul motivo per il quale, purtroppo, le grandi
trasformazioni sociali e politiche sono state accompagnate dall'uso della
forza contro le persone e che questo uso è stato qualche volta necessario
altre volte gratuito. Farò un esempio semplicissimo e introdurrò, inoltre,
una forte semplificazione, giacché le cose, in verità sono state molto più
complesse, anche per l'esempio 'semplicissimo' che espongo: nelle giornate
dell'agosto 1792, durante la rivoluzione francese, fu un atto necessario
arrestare Luigi XVI, condannarlo al silenzio politico, relegarlo nella
prigione del Tempio e togliere lui ogni possibilità di comunicare con gli
emigrati e gli aristocratici di Metz, e fu un atto ancora più necessario
proclamare la repubblica, dimissionare in blocco le alte gerarchie
militari ed espropriare l'aristocrazia di ogni residua proprietà
fondiaria, assegnando il comando dell'esercito ai sanculotti e
distribuendo le terre ai contadini poveri, fu un atto solo necessario
ideologicamente e politicamente, ma non sotto il profilo del concreto
sviluppo del processo rivoluzionario, invece, condurre il re sul patibolo
ed eliminarlo fisicamente e conseguentemente mandare alla ghigliottina
l'aristocrazia come classe sociale. Furono, sotto il profilo etico, atti
assolutamente gratuiti: l'omicidio politico non è mai necessario
politicamente e la pena capitale non è una condanna ma una semplice e
primitiva vendetta. La neutralizzazione dell'avversario non può passare
attraverso la sua eliminazione fisica, quando la si compie significa che
qualcosa nel processo rivoluzionario non sta funzionando più.
Diversissimo ma non dissimile è il caso delle battaglie di strada e delle
fasi di guerra civile che, spesso, accompagnarono i processi rivoluzionari
e per questi valga davvero il detto appena proposto sulla vittoria
che arride a chi non ama la guerra.
Perché non si deve amare la forza ed è giusto e profondamente
rivoluzionario considerarla una triste e inevitabile necessità che va nei
limiti del possibile evitata? Per il semplice motivo che se il nostro
obiettivo è la liberazione dell'uomo e quindi l'uomo è il nostro fine,
usare l'uomo come mezzo è la negazione stessa del nostro fine. L'uso della
forza impegna l'uomo come mezzo: nel carnefice che diventa mezzo,
strumento, di morte, di qualcosa che non gli appartiene, che è al di fuori
di lui e della vita, e nella vittima che diventa strumento e mezzo di
testimonianza dell'inattualità della sua esistenza. In maniera pragmatica
e niente affatto moralistica, molti anni fa si era soliti dire che ogni
omicidio politico, anche quello compiuto ai danni del peggiore nemico, era
una sconfitta per il movimento della liberazione sociale, perché si
rinunciava a una vita, a un'intelligenza in potenza per la costruzione
della società comunista. Questo argomento, ovviamente, non sgombra il
campo al problema della forza, ma il fatto che il 'comunismo del capitale'
ha prodotto un complesso di relazioni 'biopolitiche' nel mondo della
produzione rende questo approccio etico al problema della forza e della
violenza politica attuale.
Esiste, inoltre, un aspetto strategico nella problematica dell'uso della
forza e della violenza che non va sottovalutato: la violenza richiede e
impone forme organizzative che si oppongono a una pratica democratica e a
una procedura democratica. È sempre stato difficile coniugare la forza con
la democrazia. La militarizzazione dei movimenti è sempre stata la loro
tomba anche quando la vittoria sorrideva, perché a ottenerla non era
stato più il movimento e il processo rivoluzionario nel loro insieme, ma
il sostituto militare del movimento e del processo (pensiamo, per rimanere
alla rivoluzione francese, al Comitato di Salute Pubblica contrapposto
alla convenzione repubblicana e democratica o come ben sottolineato da
Negri e Hardt nel testo in questione per il caso cubano e vietnamita).
L'uso della violenza e dell'organizzazione militare deve essere
occasionale, sporadico, limitato e governato da pregiudiziali etiche ma,
soprattutto, non deve essere determinante nella struttura del movimento e
del processo. Per ripulire ulteriormente il campo da macerie molto
ingombranti in materia, la pratica della lotta armata e di qualsiasi
struttura clandestina è un palese controsenso, o meglio un non – senso dal
punto di vista comunista e lo è sempre stato in qualsiasi fase storica e
politica (non solo oggi perché siamo di fronte al 'comunismo del
capitale'). Esistono certamente situazioni nelle quali l'azione
democratica non può che darsi in clandestinità e spesso rigida, ma anche
in assenza della possibilità di agire alla luce del sole, anche sotto una
dittatura militare ad esempio, non si giustifica il ricorso pregiudiziale
alla lotta armata e, soprattutto, all'omicidio come pratica politica. Si è
spesso affermato che, di fronte a stati autoritari, fascisti e anti –
democratici, autentiche tirannie, l'unica opzione fosse quella della
resistenza armata, proprio allo scopo di evitare un gran numero di vittime
innocenti tra gli oppositori che, altrimenti, sarebbero stati sacrificati
inutilmente. Purtroppo i numeri hanno dimostrato che la militarizzazione
dell'opposizione non ha certamente aiutato a salvaguardare i militanti
'civili'. Anche dal punto di vista degli effetti pratici l'opposizione
armata non è mai riuscita a essere decisiva: gli scioperi del marzo '43
hanno contribuito più di cento attentati a determinare le dimissioni del
luglio di Mussolini. Altro discorso sugli stati, terribili, di guerra
civile ma questo aprirebbe un argomento immenso. In generale, però, si
possono scrivere almeno due cose: che è sempre meglio e più produttivo non
cadere nell'usata trappola della guerra civile perché là dove è guerra
civile è molto lontano l'orizzonte del comunismo, i linguaggi si sono
semplificati, si sono disposti intorno a due poli, hanno messo in campo la
finzione della diversità e hanno sostituito alla politica e alla socialità
la guerra. Spesso si è stati costretti a partecipare alla guerra civile,
come è stato per moltissimi in Italia tra 43 e 45, ma i primi sconfitti,
fin da subito e costitutivamente, sono stati coloro che pensarono che
dalla guerra potesse scaturire una grande trasformazione e liberazione
sociale, perché la guerra è implicitamente la negazione della liberazione,
la guerra è uso massificato della condanna capitale.
Per tornare a Rosa Luxembourg e concludere questa riflessione ai margini
di Moltitudine è meglio ricordare con lei che anche la democrazia attuale,
quella 'realizzata', elettorale e rappresentativa e in vigore negli stati
capitalistici egemoni e 'sviluppati', esercita normalmente la forza e la
violenza, la coercizione e la persuasione coatta verso i 'cittadini';
scriveva Rosa che se noi vedessimo un uomo chiuso a chiave in una stanza
di cinque metri quadrati per l'intera durata della sua vita o anche solo
per qualche anno, chiameremmo la sua situazione orrenda e cercheremmo di
liberarlo dal sadico che lo ha costretto in questa condizione, ma se sulla
porta chiusa a chiave è scritto 'Real carcere prussiano', allora riterremo
questa condizione legittima.
In generale, come annotava ancora Rosa, i comunisti preferiscono lasciare
al capitale armi, soldati, polizia, galere e il monopolio dell'uso della
violenza perché tutto questo deve far parte del suo spettacolo e non
entrare a far parte del loro.
Naturalmente buona Pasqua.
Lunedì, 6 aprile
Letture. Moltitudine. La democrazia della Moltitudine. Per Negri e Hardt
esiste un nesso tra uso della forza e affermazione della democrazia: la
nuova forma della democrazia, infatti, non comporterebbe solo la
costituzione di un 'sistema politico', ma anche di un modello sociale,
produttivo e comunicativo. È inevitabile, dunque, attendersi una
resistenza da parte del dominio: lo stato di guerra interminabile
che gli autori hanno individuato ne è un aspetto. I problemi dell'uso
della forza e della democrazia vivono insieme e devono convivere proprio
in ragione della natura del movimento verso la democrazia globale che non
è solo un movimento politico.
Ieri mi 'sono seduto sul testo' e ho posto delle pregiudiziali rispetto
all'uso della forza che in quello non sono contenute: sono pregiudiziali,
infatti, che vengono ancora prima di quelle esposte da Negri e Hardt. L'ho
fatto soprattutto per via della pesante eredità che la scelta della lotta
armata ha lasciato alle generazioni seguenti gli anni '70, soprattutto
quando i 'tribunali del popolo' delle Brigate Rosse o di Prima Linea
emisero sentenze di morte e le eseguirono e quando le organizzazioni
combattenti pretesero di essere la quintessenza dell'antagonismo. Fu una
terribile e fallimentare esperienza sia dal punto di vista politico quanto
umano.
In Moltitudine si propongono tre pregiudiziali rispetto all'uso della
forza che sono tutte politiche e strategiche e perseguono lo scopo di una
coerenza con l'obiettivo democratico. Sarò schematico.
Come prima cosa l'azione militare, ovviamente quando si rende necessaria e
vedremo quando, deve essere subordinata alla politica. Il riferimento alla
pratica guerrigliera del Chiapas è esplicito. Là dove, dunque, la
democrazia è attaccata militarmente la risposta democratica deve tenere
conto dei soggetti della democrazia e della loro volontà politica:
l'esercito guerrigliero è in primo luogo un organismo politico e solo dopo
militare. Una risposta esclusivamente militare alla guerra imperiale è
perdente in partenza: il volume di fuoco che l'Impero è in grado di
esprimere è incommensurabile. Inoltre “la subordinazione della violenza
alla politica non è ancora una ragione sufficiente perché l'uso della
violenza possa dirsi democratico” (p. 395).
Il secondo principio di un uso democratico della violenza è quello in base
al quale il suo uso deve essere difensivo. Si tratta di difendere gli
spazi conquistati e costituiti dall'aggressione militare ma anche qui, nel
secondo postulato sulla 'violenza democratica', si pone il problema delle
forme di questa violenza che non deve essere necessariamente quella del
fucile, inadeguata a fronteggiare la superiorità tecnica del nemico e
spesso funzionale alla sovradeterminazione organizzativa dei movimenti. Il
problema della violenza non è quello della scelta dell'arma alla quale,
invece, si sono vincolati i movimenti rivoluzionari del passato (nel testo
diretto il riferimento alle black panthere) ma la consapevolezza
che l'arma e l'uso della forza, armata o no, “ … non crea nulla, ma può
solo preservare ciò che è stato creato” (p. 396). La logica secondo la
quale solo l'uso delle armi e solo la lotta armata sono garanzia del
movimento e del suo corretto sviluppo è negata. Quella logica, spesso e in
maniera perversa, ha stabilito una relazione tra la 'pesantezza'
dell'armamento e la profondità del processo rivoluzionario. Ebbene questa
logica non deve appartenere ai movimenti quando sperimentano l'uso della
forza.
Questa seconda pregiudiziale è estremamente limitata, costitutivamente
limitata. Precisamente come per il sapere, la scienza, il lavoro e la
democrazia, gli autori presuppongono una 'neutralità' nella forza. L'uso
della forza non è mai neutro, sia nella versione difensiva che offensiva.
(ammesso che quando si entra nella logica dello scontro violento si possa
distinguere tra difesa e offesa, tra attacco e contrattacco, poiché,
solitamente, quando si entra nella dimensione bellica non c'è mai nessuno
ad ammettere di essere stato l'aggressore ma tutti si reputano e
proclamano aggrediti) rispetto allo sviluppo dei movimenti: quando un
movimento sceglie o è costretto a scegliere l'uso della forza, compie un
atto che avrà delle conseguenze inevitabili sulla struttura e sul
ragionamento su sé stesso e anche quando dovesse rispettare le
pregiudiziali etiche di conservazione della vita umana. L'uso della forza
è una scelta che deve essere sempre associata alla consapevolezza della
sua gravità e alla creazione di anticorpi rispetto all'uso della forza e
alla sua mitizzazione (ironia, distacco, assenza di autoglorificazione
militare e via discorrendo). Insomma il limite di questa seconda
pregiudiziale introdotta e adottata dagli autori di Moltitudine sta
nell'essere solo un elemento strategico, secondo un'idea dell'azione
politica molto tradizionale e nel aver ignorato il 'miracolo incompiuto'
della lotta armata del Chiapas e le decine di passamontagna con i quali il
subcomandante Marcos finge di mascherarsi il volto.
Il terzo principio è abbastanza semplice ma onestamente vago: “l'uso della
violenza deve essere organizzato democraticamente” (p. 397). Io preciso
questo principio con quello che scrisse Troskij nella sua 'Storia della
Rivoluzione russa', descrivendo la giornata insurrezionale dell'ottobre.
Di fronte agli autentici bagni di sangue che avevano accompagnato le
rivoluzioni precedenti (quella inglese, francese e americana) a
Pietroburgo i proletari avevano occupato il potere senza un morto, al
termine di un'azione sempre più democratica, estesa e unanime che aveva
sciolto gli argini e polverizzato i bastioni del nemico. Quando gli operai
e i soldati armati giunsero al palazzo, dunque, non c'era più nessuno al
quale sparare e nessuno che lo difendeva, perché tutti avevano disertato.
La base della democrazia e di un processo rivoluzionario come quello
appena descritto non dipende solo da un dato 'strutturale' e 'oggettivo',
vale a dire dalla conformazione 'biopolitica' della società “nella
produzione della Moltitudine, la distinzione tra economia e politica tende
a sparire e … la produzione dei beni economici tende a identificarsi con
la produzione delle relazioni sociali e, in ultima analisi, con la
produzione della società stessa” (p. 403) ma anche da un dato
'sovrastrutturale' e 'soggettivo', l'amore e il realismo politico.
Quindi oggettività biopolitica e relativa soggettività, amore e realismo
politico, sono le due strutture del movimenti democratici globali.
L'azione politica “capace di far convergere in un tempo e in uno spazio
determinati il potere comune” (p. 404) è dunque fondata su due stati e
disposizioni dell'animo.
L'amore governa il momento progettuale, strategico della Moltitudine, è il
riconoscimento del nostro agire comune e della sua necessità: “l'amore è
la base stessa dei nostri progetti politici in comune e della costruzione
di una nuova società. Senza questo amore non siamo niente” (p. 405). Si
tratta, facendo riferimento a un'opera di Negri degli anni '80 (mi pare
fosse Anomalia selvaggia), dell'amore come legame tra gli individui che
cooperano e lavorano insieme, convivono le stesse contraddizioni,
presentato in un'edizione nuova ed estesa. Amore come solidarietà,
partecipazione, immedesimazione, potenza etica e sociale che è il motore
stesso dell'organizzazione democratica contemporanea.
Poi viene il realismo politico che governa la prassi, la tattica e segue
l'amore per realizzarlo, perché: “Questo processo non ha nulla di
spontaneo e improvvisato. La distruzione della sovranità deve essere
organizzata in parallelo con la costituzione di nuove istituzioni
democratiche” (p. 407). E la dote del realismo politico è proprio quella
di rendere possibile l'amore della Moltitudine come potenza politica, il
realismo politico è la capacità di confrontare l'amore con la situazione
concreta. Questo, come annotano gli autori, ha sempre fatto accomunare il
realismo politico con il pensiero conservatore e reazionario, ma il
realismo politico sussunto dalla strategia dell'amore propone un nuovo
genere di realismo “I rivoluzionari non devono essere meno realisti dei
reazionari: a Valmy Saint Just non era meno realista di Metternich” (p.
410).
Il realismo politico diventa soggettività oggettiva, rilettura della
realtà, scommessa sulla realtà: “Possiamo già renderci conto di come oggi
il tempo sia diviso tra un presente che è già morto e un futuro che è già
vivente – l'abisso che li separa è enorme. Un giorno, un evento ci
proietterà come una freccia verso questo futuro che già vive. Questo sarà
il momento di un vero atto d'amore politico” (p. 411). Nuovamente un po'
vago ma evocante e un bel epilogo. Non credete?
Buon lunedì dell'Angelo.
Mercoledì, 8 aprile
Letture. Arte e Multitudo / Toni Negri ; a cura di Nicolas Martino. - Roma
: Deriveapprodi, 2014. - 1. ed. (Doc(k)s)
È una raccolta di lettere sull'arte scritte alla fine degli anni '80,
alcune alla fine dei novanta e infine nel 2001 e 2014. L'editore ha
raccolto anche dei brevissimi saggi e pamphlet.
Si legge bene. Le lettere degli anni ottanta sono pervase da uno spirito a
tratti davvero romantico (nel senso storico e filosofico del termine) che,
pur essendomi estraneo e non appartenendomi, mi induce alla riflessione.
La sconfitta del movimento degli anni settanta, la 'contro – rivoluzione'
è un'ombra che si insinua ovunque in questi testi e fa ricordare e fa,
sinceramente, ancora adesso soffrire. Essendo laureato in Storia dell'Arte
ed avendo l'approccio accademico e storicista in uso nei primi anni '80,
spesso fatico, non tanto paradossalmente, a comprendere quell'entusiasmo
di Negri verso il fenomeno artistico che, per me, è un fatto produttivo
come un altro che magari diverte solo un po' di più chi lo mette in atto e
chi lo incontra. Letteralmente 'diverte solo un po' di più' perché nella
produzione artistica c'è la libertà di creare e la libertà di trovarcisi
in mezzo e coinvolto, anche se il termine 'libertà' è inappropriato e
bugiardo: l'arte non è una fabbrica, non è un laboratorio artigiano e non
è uno studio professionale, ma è una particolare fabbrica, laboratorio e
studio. L'arte non è produzione metalmeccanica, informatica o scientifica
ma lo è anche.
L'arte non è lavoro comandato ma ha una relazione con quello, anche perché
se non ci fosse lavoro comandato non esisterebbe lavoro artistico e non
avrebbe nessun senso distinguerlo dal resto del lavoro. Trasferirei, alla
fine, (e l'ho sempre fatto anche a costo di figurarmi arido) il fatto
artistico nella vita quotidiana, collocando l'arte in un posto che non
abbia più senso chiamare arte e l'eccedenza dell'essere là dove deve
esprimersi. Sto descrivendo e chiedendo la fine dell'arte? Credo di sì.
Non si tratta di proclamarla in funzione della banalizzazione della vita
quotidiana, come si è fatto in passato (penso alla retorica fascista e
nazista contro l'arte che non fu casuale, comunque per decretarne la
definitiva massificazione secondo l'equazione niente arte, niente
desiderio, niente 'eccedenza dell'essere', per usare la felice espressione
di Negri), ma per mettere in campo un circuito di trasformazioni
molecolari, lievi ma essenziali, per spostare leggermente l'orizzonte,
stabilire una potenza che si accumula. L'arte diviene, allora, un prodotto
che si distribuisce, irriconoscibile come prodotto specifico e come fatto
merceologico.
Sabato, 11 aprile
Annotazione. [Senza prendersi troppo sul serio. Altri mondi]
Altri mondi è solo un punto di vista che è cosciente di esserlo, un punto
di vista che viene fuori da quella che Negri, Hardt e Virno nominano come
Moltitudine. Non esige e impone severità e rifiuta categoricamente un
discorso sul futuro. L'ho scritto e continuerò a scriverlo: ogni discorso
sul futuro puzza di cadavere e il futuro è il cadavere del quale ci
dobbiamo liberare. È buona politica lasciare il ragionamento e la
progettazione sul futuro ai bilanci contabili dei residuali e patetici
stati – nazione perché il futuro si è ridotto a faccenda di
amministrazione economico – finanziaria. È necessario liberarsi dall'idea
del futuro che è stata la fonte dell'attività politica in occidente dal
XVII secolo in poi. In nome del futuro si è suicidato il presente: si
pretendono rinunce, sacrifici e cinismo nell'oggi per gioie, felicità e
illusioni nel domani, deroghe alla morale in ragione della futura morale e
abrogazione delle libertà per libertà future. Alla fine quando il futuro
viene è già vecchio, non essendo altro che il presente inumato e
travestito.
Il pensiero rivoluzionario (e anche il pensiero comunista) è stato la
quintessenza di un modo di affrontare il presente in funzione quasi
esclusiva del futuro; senza esserne consapevole ha interpretato, in
maniera davvero seria, l'esigenza di governare il tempo (e quindi anche il
tempo storico) che è essenziale nel capitalismo. Ho l'impressione che
il capitalismo sia spesso andato a lezione di conservazione presso i
rivoluzionari e le rivoluzioni.
Qualcuno obietterà che il problema del futuro è una costante della cultura
dell'umanità. In effetti va ammesso che, almeno dall'affermazione del
cristianesimo (si badi bene che il mio ragionamento è limitato al mondo
'occidentale'), il destino dell'umanità è diventato una tematica morale e
politica importante. La percezione della contraddittorietà del presente e
dei suoi limiti è una conquista dell'epoca alto – imperiale, dominata
dalla formazione, in Europa, di una grande istituzione 'transnazionale' e
dalla crisi delle primitive magistrature repubblicane che avevano ancora
relazioni con la cultura tribale, seppur molto indirette, tutta orientata
all'amministrazione di contraddizioni tra apparati, culture e lingue
etnicamente affini.
La res publica romana, nella sua versione imperiale, nella sua
versione inter – tribale, affrontava problemi del tutto nuovi (pensiamo
all'emergere del concetto, probabilmente nuovo, di nationes nel
III secolo e il passaggio da repubblica a impero contiene certamente delle
concordanze con il recentissimo passaggio da moderno a post – moderno). Si
fece strada l'esigenza di una nuova lingua, un nuovo annuncio (che fu di
Augusto e, sotto tutt'altra veste, di Cristo) da proporre al mondo, inteso
come repubblica universale, che teneva nelle mani il governo dello spazio,
la geografia, insieme con quello del tempo, perché l'unificazione dello
spazio dell'orbis terrarum richiedeva l'unificazione del tempo o,
meglio, la permetteva.
L'unificazione del tempo predisponeva la creazione di misure unitarie:
passato, presente e futuro. Come la visione augustea usciva dal localismo
italiciano, così l'ottica cristiana si emendava dal nazionalismo ebraico.
Nasceva, quindi indiscutibilmente, non solo l'idea ma il discorso sul
futuro e sul destino dell'umanità; non nasceva, però, la pretesa di
progettarlo e di determinarlo, l'idea del futuro come risultato di una
trasformazione progettata nel presente; il futuro si limitava a essere il
prodotto di 'buone opere' eseguite nel presente, nel miglioramento del
presente, un po' come in tanti contratti d'affitto medioevali in cui
l'affittuario si impegnava a meliorare lo stato e le
infrastrutture del podere ma certamente non a farlo divenire un altro
podere. Quindi, alla fine, l'idea del futuro come entità separata dal
presente, come oggetto di una trasformazione cosciente e finalizzata, di
una teleologia immanente, non esisteva. Sia per Augusto che per i
cristiani la nuova epoca nasceva rigorosamente nel presente e lo stesso
pensiero apocalittico (pagano e cristiano indifferentemente) collocava il
trionfo finale della giustizia non nella storia ma nella fine della
storia: l'avvento del futuro era la fine stessa del futuro.
L'epoca moderna (soprattutto l'illuminismo) ha del futuro tutt'altra
immagine: è il prodotto di una trasformazione scientifica del presente
(scientifica intesa in senso allargato) che dispone il futuro con un'altra
dimensione temporale in radicale opposizione a quella attuale.
Paradossalmente, però, affinché il futuro sia configurabile, è necessario
che per esso siano validi gli stessi assiomi del presente, che rendono
autenticabile il presente, idea che né Augusto né i discepoli di Cristo
avrebbero mai sottoscritto: nell'epoca che ha idolatrato il futuro, esso
nasce già vecchio. La critica alla tradizionale forma dell'attività
politica non può che discendere dalla critica a questa immagine della
configurazione del futuro che la post – modernità ha certamente
depotenziato, limitandola in buona sostanza alla scienza economica e alla
gestione contabile degli stati. Questo è, a mio parere, un grandissimo
passo in avanti che l'umanità (parola terribile ma non riesco a trovare
un'altra) ha compiuto: il futuro per quello che è, scienza contabile e
tecnica del dominio.
E allora il futuro è definitivamente 'in crisi'?
Non organizzerei troppi trionfi o funerali in proposito. Se la teleologia
scientifica e immanente si assottiglia e rivela, così, la sua paternità
autentica (la scienza contabile, l'economia, la finanza e l'astrazione
reale del danaro), dall'altra parte, per quanto la progettazione del
futuro si riduca a essere economia, l'economia assume un tale livello di
astrazione, di assolutezza dalle concretezze sociali e produttive, da
essere una filosofia politica attuale, inverata e effettiva: l'unica
filosofia possibile, con tutta la severità del caso.
Precisamente come la teleologia immanente, cacciata dalla porta alla fine
del capitalismo moderno e manifatturiero rientra dalla finestra, così
l'attività politica, come critica al finalismo immanentista del capitale,
deve rientrare obtorto collo tra le necessità della liberazione
sociale? Risponderei così: la teleologia immanentista si ripropone come
necessità ma patisce lo stesso depotenziamento dell'immanenza
capitalistica. Ho un solo timore a questo proposito (lo ribadisco, però,
questi appunti non vanno letti con troppa serietà) che come il capitalismo
ha assolutizzato il suo essere, il suo futuro, il suo 'fuori dalla storia
e dal tempo', ci sia un'isomorfa tentazione nel fronte critico, attraverso
l'assolutizzazione di concetti come Moltitudine e Comune; il rischio è
quello di porre alla base dello sviluppo analitico e di inventarsi una
vecchia scienza con vecchi assiomi e nuovi concetti da articolare,
percorrendo, insomma, un cammino solo in apparenza opposto o meglio
inutilmente opposto a quello dello sviluppo del capitalismo.
Oggettivamente sento ben pochi diritti di tracciare giudizi severi e
conclusivi (e il riferimento precedente alla serietà limitata è
necessario) dopo anni di radicale rifiuto della politica e dell'analisi
politica, che non fosse quella che mi portava alla constatazione
dell'inutilità di entrambe, e sto scrivendo questo taccuino in movimento
con un certo imbarazzo: per me è davvero molto difficile pensare
l'attività politica e non ricordo affatto con nostalgia quella della mia
adolescenza, lontana, ormai.
Sono ovviamente consapevole del fatto che dalla fine degli anni settanta e
per tutti gli anni ottanta si è sviluppato un processo di trasformazione
repressiva impressionante, che ha coinvolto centinaia di migliaia di vite,
alcune in forma brutale e diretta: quasi un'intera generazione politica
(quella nata grossomodo nel secondo lustro degli anni cinquanta e nei
primissimi anni dei sessanta) è stata eroinizzata, incarcerata e chiusa in
una grandissima riserva e ghetto intellettuale dove è stata indotta al
silenzio e spesso all'abiura e all'apostasia, il più delle volte
assolutamente spontanee. Anche l'Italia come Cile e Argentina ha avuto una
generazione di desaparecidos, soltanto che è stata la potenza
dell'informazione e dei meccanismi sociali e non l'esercito e l'energia
militare e poliziesca a provocarne la scomparsa. In molti come me, credo,
ci siamo detti “mi terrò le mie idee ma non le userò mai più, né le dirò
mai più”, un po' come il protagonista del 'Rosso e il nero' di Stendhal.
Questo affetto che non è stato né di delusione né di pentimento ma di
disincanto si è però accompagnato al suo contrario: a quello
dell'innocenza. Siamo stati una generazione di innocenti, nel significato
etimologico di quelli che non nuocciono, che si sono tirati da parte e che
rifiutano ulteriori entusiasmi e investimenti, una generazione grigia e
silenziosa che non ama esprimersi.
L'idea di riaprire l'animo all'attività politica induce il timore di
perdere entrambi questi stati d'animo soprattutto se si associa a quella
la persuasione, non assoluta ma forte, dell'inutilità dell'agire politico,
inteso come agire politico tradizionale, con le bandiere distese sul
futuro e la convinzione di essere l'unico futuro umanamente sostenibile.
Immaginare, però, una nuova forma di agire politico appare un'impresa
dagli esiti improbabili, destinate a farci muovere tra relitti del passato
e macerie, riverniciature dei ruderi e nuove architetture che rimangono
invisibili.
Ai margini. Arte e Multitudo. Il testo continua a leggersi bene e io lo
sto leggendo bene non per quello che si scrive intorno all'arte (che non
condivido con assoluta radicalità: troppo romanticismo, troppe ispirazioni
a me del tutto estranee) ma ciò che Antonio Negri scrive dietro l'arte, mi
si perdoni l'interpretazione dicotomica, che è al contrario molto
interessante. C'è un'idea dell'arte e del Comune, io scriverei dell'arte
come fenomenologia sociale, che è fertilissima.
Giovedì, 16 aprile
Annotazione. Ho spesso ragionato, come tutti credo, sulla televisione e il
suo ruolo, nell'ordine (ordine d'importanza e d'impatto) culturale,
sociale, politico ed economico.
Il sistema televisivo ha avuto quindi una rilevanza antropologica e questo
sotto due punti di vista: uno sostanzialmente in linea con i sistemi di
comunicazione di massa antecedenti, che sta nella sua diffusione
capillare, che investe, in tendenza, ogni individuo con un messaggio
omogeneo, il secondo, ben più importante e caratteristico del mezzo, del
media, che inerisce al suo stesso linguaggio, che è quello di fare
riferimento all'umano utilizzando quasi tutti gli strumenti della sua
biologia, della sua sensitività e di suscitare una nuova sensitività e
percezione della biologia. Il linguaggio televisivo interferisce con gli
individui come un linguaggio naturale, immediato e fisico che coinvolge
gli organi percettivi: parla alla ragione e all'emotività (come la carta
stampata o le forme artistiche del passato) ma in maniera 'biologica' e
fisica. Il linguaggio televisivo istituisce una 'seconda realtà fisica' e
quindi una seconda realtà percettiva. Lo scopo del linguaggio televisivo,
come quello dei sistemi di comunicazione di massa precedenti, è quello di
formare stati d'animo ed emozioni oltre che elementi discorsivi e logici,
ma un programma televisivo è esso stesso uno stato d'animo, un'emozione e
un'informazione, molto diversi da una copertina di un libro e da una
testata giornalistica: il programma televisivo non introduce
l'informazione e l'informazione è già introdotta, implicita, nel
programma.
Per linguaggio specifico intendo quel complesso di tecniche comunicative
che dipendono dalla tecnologia usata per costruire l'informazione e per
diffonderla. La costruzione e trasmissione che, contemporaneamente, danno
forma alla fruizione, non sono indifferenti alla tecnica usata. La tecnica
televisiva prevede una fruizione immediata dell'informazione, senza
un'interpretazione intermedia, al contrario di quanto accade per la stampa
che richiede una decodificazione della scrittura, l'assemblaggio delle
parole e infine la ricostruzione del senso. Il linguaggio televisivo
annulla questo spazio intellettuale, questo lavoro sul testo che impone
l'edificazione dell'informazione, preliminare ineliminabile
dell'informazione a stampa. Un po' come per il cinema e teatro,
l'esercizio intellettuale viene dopo o, al massimo, in corso d'opera. Due
cose, però, separano il teatro dalla televisione: il fatto che il teatro
impone la condivisione di uno spazio fisico, la presenza in quello dello
spettatore e uno spazio comunicativo geometricamente determinato; il
teatro richiede la partecipazione dei corpi al passaggio
dell'informazione, nello spettacolo televisivo questo passaggio
informativo avviene in uno spazio incorporeo, in uno spazio non
precisamente delimitato e percepibile con i sensi.
Già il cinema ha emancipato il passaggio dell'informazione dalla
spazialità concreta, ma la sala cinematografica, come luogo nel quale
siedono gli spettatori, rimane lo strumento di trasmissione della tecnica
cinematografica, che è indifferente alla fisicità della platea ma non può
prescindere da quella, a rischio di non essere cinema. Il cinema è solo un
antenato tecnologico della televisione per tutto ciò che riguarda
l'ottica, ma non lo è affatto per la tecnica informativa: il cinema non è
l'antenato linguistico della televisione.
La radio per modo di costruire l'informazione, di trasmetterla e di
disporne la fruizione è il vero antenato linguistico della televisione:
come quella va verso l'individuo, predisponendo una fruizione singolare e
indifferente al suo luogo. Entrambe, inoltre, condividono un elemento
tecnologico che è decisivo per la loro stessa struttura informativa e
narrativa, quindi linguistica; cinema e teatro basano le loro finzioni, i
loro trucchi e stratagemmi informativi sulle leggi della meccanica,
dell'ottica e dell'acustica, cioè sulla fisica classica (esempio migliore
di questa subordinazione tecnico – scientifica è negli spettatori
che fuggivano la locomotiva dei fratelli Lumiere, o il dubbio in teatro
sulla verità degli spazi e sull'omicidio dell'attore), televisione e radio
fondano, invece, la distribuzione delle informazioni sulle leggi
dell'elettromagnetismo e dell'elettronica.
La finzione teatrale e cinematografica è palese, conclamata, fa parte
dello spettacolo, può anche giocare con quello, la finzione radiofonica e
televisiva è nascosta, impercettibile e l'informazione si presenta,
apparentemente, per quello che è, priva di veli. Le leggi della fisica
classica rendono possibile l'illusione ma facile lo smascheramento e la
disillusione, le leggi della fisica quantistica sono del tutto trasparenti
alla nostra percezione: le informazioni giungono immediate, tanto da non
essere informazioni, elaborazioni, ma dati di fatto. Per questo sia il
linguaggio radiofonico sia quello televisivo 'doppiano' la realtà e,
doppiando la realtà, finiscono per doppiare loro stessi: l'informazione
diviene un dato di fatto che nuovamente diventa informazione, una volta
guardando al dato di fatto, una volta all'informazione.
Ovviamente non intendo ridurre la diversità tra radio e TV e gli altri
sistemi di comunicazione di massa (cinema, teatro e carta stampata) a una
questione tecnologica: moltissimi sono gli elementi che costituiscono tale
discrimine. La costruzione e trasmissione dell'informazione quantistica,
però, permette la realizzazione di una manipolazione qui e ora, subitanea
e istantanea, dell'informazione, trattata come il fatto reale che si
conforma nel tempo reale. Se questo imparenta radio e televisione, quello
che le separa è la fisicità, ovvero la possibilità di creare una seconda
realtà per la percezione, adeguata alla prima, quella concreta e vissuta
'naturalmente'. Nella televisione l'artificiale diviene naturale e il
fittizio reale; nella radio questo processo, seppur abbozzato, non riesce
a compiersi, anche se di questo tratto genetico è testimonianza il fatto
che, mentre teatro, stampa e cinema nacquero come eventi 'liberi' e
liberamente disposti sul mercato, la radio nacque come istituzione
pubblica e statale, nella stessa maniera della televisione. La possibilità
di rendere reale e fisica, biologica e dotata di vita di un'esistenza
propria e antropomorfa l'informazione interessò fin da subito il potere
politico che trovava in Tv e radio la realizzazione in quintessenza della
sua rappresentazione: essere informazione, rimanendo con l'aspetto di un
dato di fatto, esercitare il potere nascondendone l'esercizio.
Nella decodificazione dell'informazione, scrivevo prima, la stampa
richiede uno sforzo intellettuale e biologico e un esercizio preventivo:
la scoperta delle parole, la sequenzialità dei concetti e infine la
visualizzazione dell'immagine informativa. Anche la TV richiede un
esercizio intellettuale ma estremamente abbreviato: chi legge un
notiziario televisivo è un corpo che parla, nel presente, e l'informazione
si genera antropomorfa. Quasi mai, leggendo un giornale, immaginiamo il
giornalista mentre lo scrive, la verità del suo lavoro, che, invece,
rimane un'attività svolta dietro le quinte, nascosta dai caratteri di
stampa, lontana dalla fisicità e dall'umanità. La visione del
giornalista rimane una questione per gli addetti ai lavori e questo fa
parte della gerarchia in cui è organizzato il linguaggio giornalistico.
“Uccide la moglie perché non gli fa vedere San Remo”, questo fu un
titolone esemplificativo di un certo tipo di giornalismo scandalistico e
'popolare', dove il dato di fatto inequivocabile che l'omicida abbia
commesso il delitto per poter vedere il festival di San Remo (ed è un dato
di fatto, confessato dall'omicida) diviene un'informazione sul mondo
familiare, per poi tornare a essere occasione di cronaca. La televisione
fa uccidere sempre la moglie per futili motivi, si interroga anche sul
futile non per negarlo ma per rappresentarlo meglio; per sua logica
non esce dall'occasione immediata di un evento. Questo è il suo paradigma
anche quando rivela il futile oppure quando lo nega e lo indaga e
approfondisce, anche quando, e lo fa sempre più spesso, racconta sé
stessa, anche quando si analizza e si siede sul lettino
dell'autocoscienza.
Lo scenario televisivo, anche quello più complesso, ha bisogno di contesti
semplici, o di molti contesti semplici concatenati, che sono gli unici a
costituire complessità in TV, ma mai profondità.
La radio, che pure è distribuita verso l'individuo e ha una trasmissione
incorporea e uno spazio scenico imprecisato, non riesce a recuperare
questo sdoppiamento tra fittizio e reale nella rappresentazione dell'unità
tra informazione e dato di fatto, se lo facesse cadrebbe immediatamente
nel ridicolo, nella rudezza propagandistica o informativa direttamente
percepita. La televisione, invece, può essere semplice e semplificare, la
semplificazione è nelle sue tecniche comunicative e nelle sue tecnologie.
Venerdì, 17 aprile
Annotazione. Dopo gli sproloqui di ieri, annoterei, in estrema sintesi,
che è un dato di fatto che radio e televisione e il loro spazio non
euclideo (l'etere) sono diventati, in Italia, proprietà privata dello
stato. Nessun organo di stampa o casa di distribuzione cinematografica
sono stati controllati così strettamente dallo stato come l'etere e la
tecnologia radio – televisiva. Si è instaurato un regime di monopolio che
è durato mezzo secolo per la radio e venticinque anni per la televisione.
Questo è stato un prodotto della specificità storico – politica italiana
ma anche un dato che sottolinea la forza comunicativa che radio e
televisione possiedono. Insomma l'anomalia italiana c'entra eccome ma
denuncia una generalità e normalità: i linguaggi di radio e televisione
sono terribilmente efficaci e preziosi, fino al punto che il potere
politico ha cercato di non condividerli con altri.
Gran parte di quanto annotato finora si riferisce all'Italia e a quella
che si potrebbe storicizzare come la prima fase del linguaggio televisivo,
quello dei grandi canali nazionali, rigorosamente espressi in lingua
nazionale, orientati all'informazione politica e agli interni e
soprattutto canali unici, senza competitori. La semplificazione qui era
palese ed esplicita e la televisione si è manifestata per quella che era e
aveva ottenuto un'enorme successo proprio in ragione del suo linguaggio
rudimentale: un media semplice, univoco e non multimediale, una banalità
fatta a immagine dell'uomo, antropomorfa.
Anche il teatro e poi il cinema, quando passavano in TV, cessavano di
essere quello che sono e diventavano un racconto sull'opera, inquadrature
sull'opera teatrale e interpretazione filmografica di quella; per il
cinema lo svuotamento è più sottile e meno evidente: le televisione
riduceva alla sua dimensione lo schermo ideale del cinematografo, lo
appiattisce e interviene sui tempi della proiezione. La televisione
rappresenta gli altri media, imprimendo loro la sua univocità e
semplicità, a polivocità e complessità può solo alludere. Questo sempre
anche oggi. Già allora, però, possedeva questa forza e potenza
comunicativa nell'essere antropologica e antropomorfa, un inveramento
artificiale dell'umano e una seconda realtà fisica non più euclidea e
quindi uno stato d'animo e sensitività fini da subito. Questo è stato ed è
la struttura atomica del linguaggio televisivo, che poi combina molecole e
costituisce elementi molari.
Domenica, 19 aprile
Annotazione. Negli anni cinquanta e sessanta il movimento critico contro
la comunicazione televisiva, moralista e trombonesco, colse e prese a
pretesto questo carattere semplificatorio. Ergendosi a difensori della
carta stampata, questi critici sottolineavano la banalità e semplicità
congenite del linguaggio televisivo: la televisione non sarebbe mai potuta
essere un buon media ed era condannata a un ruolo sottoculturale. La
televisione lo è stata e lo è: tutte le altre espressioni culturali (la
stampa, il cinema, la fotografia, il cinema, la musica e le arti visive)
sono nella TV ma perdono la loro autenticità, sono schiacciate dentro la
dimensione unimediale del mezzo televisione che abolisce le differenze,
anziché sottolinearle, e che le ha consentito di essere il mezzo di
comunicazione per eccellenza. Proprio il fatto di usare un linguaggio
semplificato e sottoculturale, di non voler elaborare una cultura
indipendente, ha reso la televisione una potenza culturale, una seconda
realtà democratica e una specie di Pier Paolo Pasolini nel suo contrario.
Nonostante la parentela, questa operazione non poteva realizzarsi
attraverso la radio, che pure, come la televisione, scende tra gli
individui in maniera non spazializzata e non asincrona. Anche la radio è
una presenza e si configura come una scena diffusa e reale, come l'unità
che si diffonde. Alla radio mancava però l'aspetto della visualità, la
finzione della presenza fisica.
Più le banconote sono ben imitate, più i falsari imitano il reale, più il
danaro è falso. La televisione, nella sua prima fase, costruiva una
seconda realtà, denunciandone, però, il carattere: palinsesti rigidi,
divisi secondo spazi tematici, rivelavano l'edificazione del prodotto,
informavano lo spettatore del fatto che quello era un messaggio
televisivo. La finzione della presenza fisica rimaneva manifesta, mentre
la costruzione dell'informazione televisiva si teneva ben lontana
dall'importare e mettere in scena la realtà quotidiana, gli stati d'animo
e gli affetti. I programmi televisivi che sono naturalmente confezioni di
stati d'animo uniti con informazioni, in quanto il media è antropomorfo e
riproduce antropometricamente la realtà, nella prima fase della
comunicazione televisiva, teneva a distanza la realtà fisica e
l'immaginario come potenze da non utilizzare. Questo contribuiva a
rinforzare le critiche contro la banalizzazione e semplificazione
televisiva, anche se quei critici oggi inorridirebbero sperimentando i
nuovi orizzonti della televisione che si confonde con la realtà e la
produce.
Nella sua prima fase il sistema televisivo si limitava a rappresentare la
realtà e si guardava bene dall'entrare nella realtà, provocando eventi in
quella; questo è un passaggio che in Italia si realizza nei primi anni
ottanta e che curiosamente è analogo e anche coevo con la trasformazione
che subì la chiesa cattolica sotto il pontificato di Giovanni Paolo II,
che passò da un atteggiamento di critica registrazione morale dei tempi e
da un appoggio esterno alle forze politiche conservatrici a un
comportamento attivo e 'politico' sui tempi storici, un comportamento che
fu equiparato a quello di un partito politico. Sia il sistema televisivo
che la chiesa cattolica ebbero percezione del fatto che il corpo sociale
stava perdendo quell'autonomia energetica e produttiva sulla quale avevano
lavorato e che la semplice rappresentazione della realtà rischiava di
svuotare le loro istituzioni e di privarle di funzione: il corpo sociale,
infatti, si stava svuotando e stava cessando di essere un corpo,
rappresentabile come un insieme di organi. Le trasformazioni sociali, il
passaggio dal welfare state al warfare state hanno
avuto un'influenza fortissima su entrambi questi processi, sia la chiesa
cattolica sia il sistema il televisivo sono sistemi di comunicazione di
massa che hanno percepito la perdita di terreno e di significato della
socialità nel corpo sociale che le politiche neo – liberiste
determinavano; si disegnava uno 'spazio vuoto' nelle relazioni sociali che
imponeva e rendeva anche produttivi economicamente gli interventi diretti
dentro la società allo scopo, prima, di ricostituire fittiziamente quel
corpo di relazioni, poi, di sostituirle con altre (pensiamo alla parabola
che parte da 'Profondo nord' e finisce con Samarcanda e poi ancora con
Anno zero).
Nella prima fase della sua storia, così, il sistema televisivo subiva la
concorrenza di quello radiofonico, anche perché quello, non avendo la
potenza imitativa della realtà propria della televisione, e pur rimanendo
vincolato (come quello televisivo) allo stretto controllo del potere
politico, poteva con maggiore spregiudicatezza estendere il suo linguaggio
e in due direzioni (estensione che rimarrà nel codice genetico del sistema
comunicativo radiofonico): una volta verso un'apertura alla realtà
quotidiana e agli stati d'animo (pensiamo alla celeberrima trasmissione
radiofonica degli anni sessanta 'Chiamate Roma 3131', a programmazioni
come 'Alto gradimento', Superonic, Per voi giovani e moltissime altre),
l'altra volta verso la cultura e lo specifico radiofonico (la linguistica,
la letteratura e soprattutto la musica e la sua storia) e in genere a un
ragionamento, a volte implicito ma spesso esplicito, sulla radio, cose che
mancarono completamente al sistema televisivo della prima fase.
Già allora, comunque, scrivere di televisione significava scrivere di un
aspetto significativo della società e della vita sociale ma non, come sarà
per la seconda fase della storia della televisione, della vita sociale
stessa, dell'esplosione dei palinsesti, della commercializzazione
dell'etere, della produzione di una realtà fisica, emotiva, passionale e
affettiva parallela, dove la banconota del falsario è quasi identica a
quella corrente, dove il falso è tanto falso da entrare a far parte del
reale ed è più potente del reale, dove la moneta cattiva scaccia e
nasconde quella buona e dove si mettono in discussione i parametri di
verità e realtà; una fase questa inaugurata dopo il 1976 e andata avanti
fino alla vigilia del nuovo millennio. Dopo, la proliferazione della
realtà virtuale, della comunicazione telematica, delle reti dei dati e la
strutturazione del cyberg – spazio hanno imposto alla seconda realtà
fisica, al mondo parallelo televisivo di sperimentare nuove tecnologie e
nuove strategie e di avviare una nuova fase sviluppo.
Se la prima trasformazione ha accompagnato il passaggio dal welfare
al warfare e il temporaneo rafforzamento degli stati – nazione
come potenze militari, quest'ultima ha assistito il parto di un
altrettanto apparente istituzionalità internazionale; entrambe, comunque,
condividono un mondo del lavoro transnazionalizzato e un modo di
produzione demassificato nel quale la progettazione è tutto, la produzione
solo una conseguenza della progettazione e gli eventi, intesi come
risultati di progetti particolari, sono il cuore della produzione
generale.
In questi nuovo contesti, il monocratismo e la confezione rigida della
prima generazione televisiva rimane come vezzo, richiamo erudito, evento
particolare esso stesso, ma non è più essenza, modo di essere e attributo
della produzione televisiva.
Giovedì, 23 aprile
Annotazione. La televisione costruisce una 'seconda realtà fisica', che ha
un impatto emotivo simile alla prima e che tende a coincidere con quella.
Desidera coincidere in primo luogo perché, molto semplicemente, entra a
far parte di quella, precisamente come qualsiasi altro sistema di
comunicazione; a differenza di quelli, però, la presenza televisiva
suscita il noto e non casuale luogo comune secondo il quale: “entra nelle
case”. La televisione è, quindi, invasiva ed invasiva per sincronicità,
fisicità ed emotività, queste tre condizioni conformano la componente
passiva dell'invasività televisiva, quella, appunto, che 'entra nelle
case'.
Esiste, però, una seconda componente della invasività televisiva, che,
ovviamente, dipende dalla prima e cioè dalla presenza diffusa e sincrona,
secondo la quale, usando un motteggio altrettanto banale, “dove è
televisione è casa”. La presenza televisiva, quindi, non si limita a
entrare nelle case ma anche a istituire una socialità della casa, non
mettendo in relazione i singoli spazi domestici ma facendo in modo che le
case si assomiglino tutte, partecipando allo stesso tessuto
comunicativo. Luoghi comuni, per quanto banali, sono, a proposito
del sistema televisivo, veri proprio perché, e non si tratta solo di un
gioco di parole, il sistema televisivo è un luogo comune.
Al contrario di stampa, cinema e teatro la televisione definisce alla
stessa maniera tutti i luoghi, qualsiasi luogo, come possibile platea,
uditorio e convegno di spettatori; anche un gabinetto, anche una baracca,
anche una capanna costruita secondo le tecnologie del neolitico, possono
essere (invasività passiva) e trasformarsi (invasività attiva) in
televisione, in luoghi di fruizione televisiva. La seconda realtà
percettiva entra, così, prepotentemente nella prima.
È ozioso il tentativo di distinguere tra mondo delle relazioni reali,
magari configurandole come 'autentiche', e mondo delle relazioni
televisive. La televisione e gli eventi televisivi istituiscono una
comunità che attraversa quella reale, anche se, certamente, la comunità
televisiva della prima fase ha delle caratteristiche molto diverse da
quelle posteriori; in verità la struttura della comunità televisiva segue
molto da vicino quella della comunità reale, anche perché il prodotto
televisivo è il prodotto della comunità reale che, come molti altri
prodotti, interviene in quella, ritornandoci.
Il 'potere' della televisione sta nell'impatto di questo ritorno che, per
le ragioni legate allo specifico linguaggio televisivo, è molto forte e
incisivo. Su questo aspetto, però, cercherò di soffermarmi più avanti; ora
mi preme sottolineare gli elementi distintivi del linguaggio televisivo al
di là delle sue diverse fasi, al di là della sua storia e del suo
sviluppo, e nella sua essenza.
Il primo carattere è quello di un non luogo, come la seconda
caratteristica è quella di essere una forma si spettacolo e comunicazione
distribuita capillarmente, con omogeneità e sincronicamente. Il terzo
elemento è quello di essere antropomorfa e antropometrica, cioè di
costituire una seconda realtà visiva, percettiva, sensoriale ed emotiva.
Questi elementi costituiscono l'involucro dell'informazione che permettono
di conformare gli eventi mediatici secondo una struttura particolarmente
efficace. In televisione non è messa in rappresentazione la realtà, come a
teatro, al cinema o in radio, ma qualcosa che pretende di essere la
realtà.
La struttura narrativa dell'informazione è offerta in tempo reale, nella
contemporaneità e nel concreto svolgersi del tempo storico che è il
contenitore dell'evento e degli eventi televisivi che, quindi, accadono
nella realtà. L'involucro del linguaggio televisivo consente e impone
questo sbilanciamento del tempo della realtà, storico, verso il tempo
televisivo.
Per descrivere gli altri elementi della struttura narrativa televisiva ho
ritenuto interessanti alcuni concetti che la psicanalisi associa
all'interpretazione dei sogni e anche ad alcune patologie: spostamento,
condensazione e rimozione. La realtà onirica ben si adatta a fornire gli
elementi analitici per la seconda realtà televisiva: la parentela tra
sogno ed evento televisivo è per me evidente. Tanto nel sogno, quanto
nella realtà, inoltre, la trama del tempo è analoga, sogno e realtà
intrecciano il tempo nella stessa maniera, anche questa, mi pare, un buona
parentela.
Sabato, 25 aprile
Annotazione. Questi tre elementi, pur essendo costitutivi della struttura
narrativa usata dalla TV, ne hanno movimentato la storia, nel senso che la
loro mescolanza, il peso reciproco, non è stato uguale nelle diverse fasi
storiche del mondo televisivo. C'è un secondo elemento che ha contribuito,
cambiando, a determinare la storia del sistema televisivo: l'invasività.
Sinteticamente l'invasione televisiva ha sempre più assunto caratteri
attivi, di determinazione degli spazi che investiva, attraverso la
definizione 'sociale' della platea, là dove la fruizione definiva anche il
fruitore, facendo in modo che divenisse qualcosa di diverso da quello che
era prima di assistere all'evento televisivo. Questo modo di coinvolgere
lo spettatore è certamente condiviso da cinema e teatro, ma solo con radio
e televisione diventa un fatto privato, individuale e intimo,
un'esperienza e contatto, per di più, continuato.
L'invasività televisiva non si limita, però, all'aspetto della fruizione,
ma anche a quello della costruzione e progettazione. Qui la struttura
narrativa della cultura televisiva investe il reale, direttamente. La
televisione 'monocratica' si limitava a registrare (utilizzando gli
strumenti di condensazione spostamento e rimozione) la realtà e gli eventi
arrivavano al fruitore come sorpresi, commentati e riassunti dalla realtà
concreta; si presentava, in un aggettivo, come passiva rispetto alla
realtà.
Contemporaneamente la generale pervasività tanto passiva che attiva
nell'ambito della fruizione entrava far parte del linguaggio televisivo
nella sua interezza, nel senso che non esiste un elemento senza l'altro e,
soprattutto, l'invasività passiva nella fruizione del prodotto / evento /
stato d'animo rende possibile proprio perché tale, perché interviene
continuamente e individualmente sull'emotività e la relazione sociale,
l'invasività attiva.
Ancor di più il discorso è valido se passiamo dal livello della fruizione
a quello della costruzione del prodotto, evento e stato d'animo. La
fruizione passiva e attiva dei prodotti televisivi conferma un sostrato,
una sorta di pavimentazione o asfaltatura, distribuito omogeneamente
nell'immaginario; questo sostrato è un'attitudine generalizzata a
percepire la realtà anche attraverso la mediazione televisiva e a credere
a quel tipo di percezione. Credere non significa affatto condividere,
lasciarsi convincere e confondere le informazioni televisive con quelle
acquisite 'naturalmente', credere è sinonimo di un confronto intimo,
quotidiano ed emotivo con una media informativo antropomorfo e
antropometrico, è la stessa cosa che avere davanti a sé, costantemente,
una persona, sentirne la presenza, i sentimenti, le angosce e le paure, le
azioni e e le reazioni.
La fruizione passiva e attiva costruisce quel sostrato sul quale il
sistema televisivo ha sperimentato per la prima volta di intervenire
direttamente nella realtà: vale a dire non solo di rappresentare gli
eventi e di determinarne contesto e scenario ma addirittura di suscitarli.
L'avvento della televisione polifonica, avvenuto in Italia tra la fine dei
settanta e i primi anni ottanta, una televisione che non esercita una sola
narrazione ma più narrazioni, è segnato dal passaggio conclamato dalla
costruzione passiva e registrante (rappresentativa) a quella attiva. Se
vogliamo le professionalità necessarie alla realizzazione del linguaggio
televisivo nella TV monofonica e monocratica erano più alte e raffinate:
condensazioni, spostamenti e rimozioni andavano attentamente progettati e
la confezione del prodotto più elaborata perché secondo quel modello la
televisione non poteva interferire direttamente nella verità e quindi
doveva nascondere e occultare la sua interpretazione linguistica. La
televisione polifonica e policratica banalizza l'operazione culturale e
rappresentativa, la semplifica, lavorando sulla quantità, sul complesso
informativo e non sulla qualità e sul singolo evento narrativo.
Sto usando, ovviamente, termini inappropriati che, comunque, espongo. Per
monocratica e monofonica intendo la televisione come diretta espressione
del potere politico e da quello controllata e sorvegliata (i famosi canali
unici italiani fino al 1976 ne sono un esempio) e quella governata da
palinsesti rigidi, formalizzati, che scandiscono con costanza e uniformità
la narrazione, e infine quella nella quale la linea editoriale è coerente
e non prevede contraddittori e dialettica, che possano mettere in
discussione quella linea narrativa. Per policratica e polifonica intendo
la televisione nella quale la programmazione cessa di essere diretta
espressione del potere politico e quindi è consentita la proliferazione
dei canali pubblici e privati, e dove i palinsesti si differenziano
notevolmente e mutano di frequente e la linea editoriale e narrativa è
dominata dall'incoerenza (quanto meno recitata e rappresentata) che
comporta contraddittori, confronti, contributi eterogenei e programmi
apparentemente contrapposti e in contrapposizione.
Non si fraintenda: la democrazia non c'entra nulla. La TV è, in verità,
tutta monocratica, non prevede la costruzione dell'informazione attraverso
contributi esterni e sotto l'aspetto del processo produttivo non conosce
esterni da sé. Questa caratteristica è condivisa anche da altri sistemi
massmediatici, ma il fatto di essere un complesso informativo chiuso e
isolato è rappresentativo in modo bio – psichico (biologico, percettivo ed
emozionale) della realtà ha delle conseguenze profonde: la realtà viene
offerta in una semplificazione informativa ed emotiva. Questa
semplificazione vale tanto per l'epoca monocratica quanto per la fase
policratica: nella prima la semplicità è unica, nella seconda è
molteplice, secondo una giustapposizione, però, di numerose semplicità. La
semplificazione, modo di essere che tanto fece inorridire i primi critici,
è rimasta la fenomenologia fondamentale della comunicazione televisiva. La
televisione ha la forza di proporre la realtà in maniera semplificata, il
linguaggio del reale si semplifica, perde ricchezze e contaminazioni,
diventa asettico, selezionato, televisivo, appunto.
Visualità, sincronicità, aspazialità e antropometria permettono alla
televisione di proporre la semplicità e subito dopo la semplicità concorre
alla forza dello strumento comunicativo. Questa interazione è resa
efficace e piena di effetti comunicativi perché la complessità percettiva
offerta dalla televisione (occhio, orecchio, spazio antropometrico, stati
d'animo, passioni) nasconde la sua semplicità e la rende accettabile. La
televisione offre una forma di piacere, di godimento, produce emozioni,
trasmette informazioni senza richiedere sforzi interpretativi e
costituisce una realtà, spesso drammatica e spaesante ma mai pericolosa e
offensiva: concede il piacere di essere nella realtà senza partecipare ai
rischi di questa presenza. Lo spettatore televisivo è uno spettatore
inesistente, è colui che sta dentro la realtà senza esserci: lo spettatore
ha l'illusione dell'invulnerabilità.
Questo aspetto della televisione come piacere è emerso nella seconda fase
della sua storia, quando la corsa verso la realtà e la discesa verso la
realtà è diventata distintiva e l'uso di spostamento e condensazione è
diventata preminente rispetto alla rimozione degli elementi del reale.
Giovedì, 29 aprile
Ai margini. Arte e Multitudo.
Avevo annotato sul libro, a matita, e ai margini di un intervento sulla
transavanguardia che la transavanguardia era tutto ciò che non avrei
voluto dall'arte se mai ho chiesto qualcosa all'arte.
Per me è qui il punto: Negri spiega l'arte e la spiega come 'eccedenza
dell'essere'. Mi può star bene. Il problema è perché quest'eccedenza piace
o è piaciuta, perché ha avuto spazio. La risposta rischia di essere
metafisica. L'eccedenza copriva una mancanza? O come scrive Marx da
qualche parte l'arte ha avuto la funzione di ripulire la coscienza delle
classi dominanti o di nascondere la loro cattiva o falsa coscienza? Temo
che oggi il tema di eccedenza, mancanza e coscienza sia del tutto fuori
luogo e sgombrerei il campo da qualsiasi considerazione 'metafisica'
perché la storia lo ha fatto.
Non è più possibile scrivere oggi né, credo, domani di eccedenza, mancanza
e coscienza e quindi di arte. Se mai è esistita l'arte, oggi non esiste
più. Non si tratta di una affermazione potenzialmente neo – romantica che
presupporrebbe una nuova avanguardia artistica, nascondendola anche a sé
stessa come si nasconde un amore che non può che essere clandestino, ma
della fredda e realistica registrazione della realtà. Se l'arte non esiste
più, bisogna inforcare nuovi occhiali per spiegare l'arte del passato o
meglio quello che veniva inteso come arte nel passato.
Questi nuovi occhiali ci provocheranno dolori agli occhi ma non terribili
visioni, anzi serene visioni: non ha più nessun senso separare l'arte dal
sapere e questa separazione appartiene solo al linguaggio del mercante e
alle sue terribili visioni, le forze del mercato.
rivedi
aprile
Inizio anno
Venerdì, 1 maggio
Letture. Che cos'è un popolo / Alain Badieu, Pierre Bordieu,
Judith Butler [et al.]. - Roma : Deriveapprodi, 2014. (Fuori gioco, 46).
Da qualche giorno sto leggendo, piuttosto distrattamente, 'che cos'è un
popolo' di alcuni autori francesi dei quali non so nulla. Mi ha
avvicinato al libro la curiosità sul concetto di popolo, depotenziato e
nei fatti criticato da Negri e Hardt. Non ho trovato nulla nel testo che
giustifichi il suo reintegro, anche nell'analisi espressa nel primo
contributo “24 glosse sull'uso della parola popolo” di Alain Badieu.
Badieu recupera una visione marxista del concetto, ma fatica
notevolmente a collocarlo; convengo con lui che il sostantivo seguito
dall'aggettivo di appartenenza ('popolo italiano') assume immediatamente
un significato 'di destra', rimandando all'identità nazionale, ai valori
dello stato e della nazione e a un'unità popolare mistificata.
Più controverso l'uso dell'aggettivale 'popolare', che nel caso di
'esercito popolare', 'guerra popolare' può richiamare un'idea
progressiva e NON unitaria del popolo e identità particolari costruite
in seno al popolo. Scrive a tal proposito Badieu che “popolo è un
termine che acquisisce il suo valore o nelle forme, transitorie, delle
guerre di liberazione nazionale o in quelle, definitive, delle politiche
comuniste” (p. 11). Seppur quando ragiono da internazionalista nel senso
storico, anarchico e comunista del termine posso sottoscrivere quanto
affermato da Badieu, ho la chiara sensazione che rispetto
all'elaborazione, davvero interessante e illuminante, di Virno e Negri
il problema sia riproposto anche bene, ma su un terreno ormai
sorpassato.
Anche l'internazionalismo comunista ha perduto gran parte della sua
grammatica perché, per dirla in un motto, come il capitalismo ha perduto
le nazioni, così il comunismo ha perduto i popoli, ed entrambi non hanno
più la possibilità di individuare un coordinamento tra i rispettivi
riferimenti geografici (cioè appunto nazioni e popoli). Questa
confusione in materia coinvolge tutti, anche le ideologie della destra
che sbandano pericolosamente tra momenti regionalisti e localistici
(rinnegando e non usando l'idea di popolo e delle nazioni tradizionali,
pensiamo ai 'padani' e alla 'padania' della Lega nord) e momenti
nazionalistici e populisti (sempre la Lega nord sotto la 'direzione
strategica' di Salvini); qui addirittura si creano popoli e sotto –
popoli a seconda delle occasioni politiche. La confusione coinvolge
anche le ideologie dell'internazionalismo neo – liberista e le
oligarchie finanziarie multinazionali.
Sabato, 2 maggio
Letture. Che cos'è un popolo. Popolare. Pierre Bordieu introduce la
definizione o meglio usa (sostituendo / scomponendo i termini di lingua
nazionale e popolare) la definizione di lingua legittima o dominante e
lingua dei dominati o illegittima. Il concetto 'popolare' viene
ulteriormente scomposto in gerghi regionali e locali, secondo una
visione nella quale la lingua si frantuma in molti insiemi e
sottoinsiemi che corrispondono a diversi tessuti delle relazioni sociali
e a diversi luoghi di uso ed elaborazione della lingua.
C'è il bar, la scuola, il lavoro e via discorrendo. Della realtà
linguistica non si prende in considerazione solo il lessico ma anche gli
argomenti utilizzati, la politica al bar e 'da bar', il linguaggio
femminile (quello che si stabilisce nelle relazioni tra donne,
soprattutto tra casalinghe), solitamente orientato all'amministrazione
della casa e ai rapporti con la sanità e le istituzioni scolastiche, e i
linguaggi giovanili orientati a descrivere il tempo libero, il
divertimento e i sentimenti. Mi pare che la grande frattura linguistica
passi tra la lingua legittima e codificata (scolasticamente e
mediaticamente) e tutte le altre, ma è una frattura morbida che si
realizza secondo gradienze diverse. Nella lingua femminile è minima,
perché le donne cercano di emulare il linguaggio delle istituzioni,
essendo uno dei compiti delle casalinghe mantenere le relazioni con il
mondo burocratico e con l'assistenza pubblica destinata alla famiglia.
Più forte la separazione con la lingua da bar dove spesso le parole
comuni e lessicalmente perfette sono caricate di nuovi significati che
così si avvicina alla lingua della malavita, con i suoi modi di dire
specifici. Netta, per l'analisi tutta francese di Bordieu, la distanza
tra la lingua giovanile dei banlieu popolati da immigrati di
prima o seconda generazione e la lingua dominante; anzi proprio lì la
lingua legittima si presenta come immagine del mondo, come un estraneo
che costringe, in alcuni contesti specificati dalla presenza del potere
linguistico e dell'ufficialità, la lingua dominata, parlata e
colloquiale al silenzio, poiché la priva di qualsiasi legittimità.
Scrive Bordieu in proposito: “ … che li condanna a uno sforzo più o meno
disperato verso la correzione o al silenzio” (p. 30).
Domenica, 3 maggio
Letture. Che cos'è un popolo. Noi, il popolo (Judith Butler). Questo
contributo inizia con un'analisi semantica di 'noi, il popolo' come
momento di dichiarazione che include e parimenti esclude gli altri. Non
è questo che mi ha felicemente impressionato quanto, invece, l'idea, o
meglio il tentativo di elaborare l'idea, di sostituire tutto quello che
concerne l'umano e i suoi diritti con un nuovo fondamento conoscitivo ed
etico. L'idea di uomo si è ormai profondamente legata alla metafisica
dell'umano che in antropologia e filosofia si sostanzia nel concetto
storico di stato di natura e in giurisprudenza e in scienza morale nei
diritti umani inalienabili e imprescrittibili, mentre la Butler propone
l'idea di corpo organico.
Il corpo organico non si riduce alla biologia ma è inerente alla
psicologia, che è vista come una funzione dell'organico biologico e con
la fisica poiché il corpo occupa un spazio. Attraverso i corpi organici
e la loro disposizione si comunicano e manifestano programmi e idee
politiche; i corpi costituiscono lo spazio politico.
Il corpo organico è un complesso di bisogni e di esigenze nella stessa
proporzione nella quale non è autofondante e autosufficiente ma fondato
e generato e ha, quindi, bisogno del sostegno e della collaborazione di
altri corpi. Come il concetto di umano, lo stesso concetto di popolo,
che pure performativamente può ancora essere usato, va
ricondotto a questa materialità organica, che non si risolve in un'idea,
diritto e principio conclusivo, ma è necessariamente relazionale: nessun
corpo basta a sé stesso come nel no man is an island di Berkeley.
La Butler cerca (ribadisco che mi pare un tentativo) di
ricostituire l'umano senza pagare il dazio del passaggio all'ontologia
metafisica dell'umano e cerca di ricostituire un'immagine della
mobilitazione e azione politica che si allontani dagli schemi delle
mobilitazioni e contemporaneamente le spieghi. Spiega molto, a mio
parere, questo passo secondo il quale la manifestazione, l'aggregazione
dei corpi in quanto tale, è già un programma politico: “Quando
supportiamo diritti quali la libertà di riunirci, di costituirci in
popolo, li affermiamo secondo le nostre pratiche corporee. Possono
essere enunciati, ma l'enunciato sta già lì nell'assemblea …” (p. 60).
Altrove e in più punti l'autrice denuncia la 'crisi' della corporeità,
dell'espressione corporea in politica e nella vita sociale e, aggiungo
io, l'astrazione dell'umano, che è la descrizione di un umano dove il
corpo è un accidente, una questione estetica e di presenza e percezione
idealizzata. Il corpo stesso è rimasto coinvolto nell'astrazione
idealizzante dell'umano, come oggetto accidentale della mercificazione,
del messaggio televisivo, dell'azione pubblicitaria e della umanità del
mercato.
Il corpo è un oggetto accidentale, non un valore ma un problema, un
limite per la teoria della metafisica dell'umano ma, contemporaneamente,
questa componente accidentale dell'umano trova una sua nuova
collocazione, e per certi versi un riscatto, nell'idealizzazione del
corpo come fonte di una corretta estetica, presenza e bellezza. In
questo caso, allora, a questo livello della rappresentazione, il corpo,
emancipato dalla sua accidentalità, diviene necessario.
La metafisica dell'umano, proprio perché odia l'accidente e ricerca il
necessario da istituire e su cui istituirsi, odia anche il corpo, i suoi
bisogni e la sua vulnerabilità; ha necessità, quindi, di rendere il
corpo, l'accidente, un'altra cosa, un diverso da sé, che si elevi a
essere concepito come sostanza, come verità e a quella si lega. Questo
processo ha molti aspetti e uno di quelli riguarda certamente il metro
contemporaneo ma anche moderno della bellezza: secondo questo metro,
ormai quasi tradizionale, il modello fisionomico occidentale si associa
a caratteristiche morali ed etiche e determina e prova le diseguaglianze
economiche, sociali ed etniche.
Sabato, 9 maggio
Annotazione. La televisione si è banalizzata dopo la sua prima fase, i
giochi raffinati di rimozione e condensazione si sono semplificati. Il
non detto elemento predominante della prima televisione in base a una
maniera produttiva che imponeva il silenzio su gran parte degli eventi,
rispettando una censura politica, etica, una selezione dell'emotività,
degli stili di vita e che adottava la rappresentazione di una realtà eletta
è venuto meno o è stato fortemente circoscritto.
Faccio un esempio relativo alla cronaca politica: una grande
manifestazione che degenera in scontri di piazza veniva rappresentata
con qualche fotogramma commentato brevemente. Nelle foto non si coglieva
mai l'elemento della battaglia di strada, ma si proponevano immagini
d'insieme; nel commento, breve, le motivazioni della dimostrazione e il
suo andamento venivano entrambi riportati con poche parole concise. Il
peso specifico delle parole usate era altissimo: “alcuni elementi della
non meglio definita sinistra extraparlamentare hanno provocato incidenti
ai margini del corteo” era quasi un topos.
Alla rimozione delle informazioni (in questo caso il numero dei
dimostranti violenti, le loro parole d'ordine, i loro obiettivi e i
dettagli delle armi usate) faceva riscontro un'altissima condensazione
informativa e nessun tipo di spostamento. La descrizione del corteo non
lasciava spazio a nessun elemento immaginifico e imponeva un
ragionamento al di fuori del televisivo sull'evento. Qui la televisione
passava la palla alla stampa politica, alla cronaca locale oppure ad
alcune rubriche specializzate del suo palinsesto che, solitamente non
preannunciate, a giorni o settimane di distanza, si occupavano
analiticamente dell'evento.
Se si pensa alla cronaca etica, ovverosia al costume, le relazioni
interpersonali si riducevano a due categorie: le relazioni sul lavoro e
quelle matrimoniali. I temi dell'amicizia e delle relazioni
extraconiugali erano poste in assoluta minorità, presentati entrambi
come momenti della vita sociale che avevano poca o nessuna influenza.
L'omosessualità maschile vagamente accennata attraverso meccanismi
di autentico spostamento (solitamente, infatti, l'omosessualità e altre
'devianze' come alcolismo, tossicodipendenze e malattie mentali venivano
affrontate nella cronaca giudiziaria e nera e lo stesso concetto di
'devianza' non era ancora emerso rispetto a quello di 'normalità', era
un concetto pressoché privo di cittadinanza) l'omosessualità femminile
ignorata in ogni sua forma, manifestazione e risultato. Tutto quello che
richiamava alla conflittualità dentro le relazioni interpersonali era,
quindi, o rimosso o condensato o spostato in altro.
Dentro il linguaggio televisivo la cronaca nera era fortemente
supportata dalle immagini in movimento ma seguendo delle regole ben
precise: ci si limitava a interessarsi a fatti di sangue e ad episodi in
cui era stato fatto uso di armi da fuoco, le immagini escludevano
qualsiasi possibile ed eventuale 'presa diretta' dei fatti, anche se
disponibile, ed erano circoscritte allo scenario dell'evento (l'esterno
della banca, del negozio o il portone dell'edificio). Raramente,
inoltre, si scendeva in dettagliate descrizioni dei fatti, la dinamica
rimaneva vaga, il ruolo dei protagonisti non veniva mai precisamente
individuato e anche per questi particolari si passava la palla agli
altri mezzi di informazione di massa.
La rappresentazione della realtà offerta dalla prima televisione era
estremamente selettiva e seguiva meccanismi di scelta abbastanza rigidi
e preordinati fino al punto che era abbastanza facile prevedere se un
determinato evento sarebbe o no arrivato in televisione.
Lunedì, 11 maggio
Annotazione. Il capitalismo è un sistema complesso che negli
ultimi quarant'anni ha reso la complessità sinonimo di impenetrabilità.
La complessità economica e sociale è, infatti, presentata come un
fenomeno governabile, esclusivamente, dal dominio del capitale, la
ricchezza informativa e relazionale si tramuta, così, nel suo contrario:
povertà e disorientamento, che non possono essere altro, se posti al di
fuori di quel dominio, segmentazione, parcellizzazione, disaggregazione
e solitudine. Da quarant'anni a questa parte, rispettando e nello stesso
tempo usando questa complessità, il capitalismo ha elaborato un
messaggio semplice, costante e proposto in maniera complessa (sotto le
forme del complesso e della complessità).
La prima parte di questo messaggio, costruito in forme articolate,
trasmesso in maniera indiretta e spesso contraddittoria, volutamente
contraddittoria, è riducibile alla svalutazione degli standard di vita
delle classi subalterne nei paesi capitalistici egemoni. Se nella
precedente fase del capitalismo il punto di riferimento per la qualità
della vita proletaria era lo standard operaio inglese
(professionalizzato, otto ore al giorno, il tardo pomeriggio al pub, il
sabato e domenica festivo, la partita di calcio ogni fine settimana e
una gita fuori porta, che usufruisce di servizi buona qualità nei
trasporti e nella sanità) e dopo il 1945 lo standard dell'operaio –
massa americano (ugualmente sindacalizzato, immerso nel tempo libero,
navigante tra eventi televisivi e sportivi) e in genere il 'vitto e
alloggio' era escluso dalle problematiche esistenziali, dopo Reagan e la
Thatcher e gli anni ottanta il giro di boa è stato notevole, anche se
presentato come graduale, rappresentato gradualmente e come graduale,
nulla di rivoluzionario, qualche piccolo passo specifico e limitato.
Lo spettro dell'economia della penuria ha iniziato ad aggirarsi tra gli
stati a capitalismo sviluppato e l'economia della penuria e la sua
necessità sono state introdotte e presentate utilizzando ogni paradigma
disponibile, in primo luogo, ovviamente, quello economico, poi quello
sociale e addirittura quello ecologico: tutto ha contribuito a
dimostrare che lo sviluppo non poteva più darsi in forma libera,
anarchica e lineare, ma che comportava necessariamente crisi (paradigma
economico), individualismo e isolamento (paradigma sociale) e
sostenibilità (paradigma ecologico). Gli schemi ecologici sono stati in
gran parte esportati in economia e sociologia: la sostenibilità è
diventata il sostantivo fondante l'ideologia dello sviluppo.
Giovedì, 14 maggio
Annotazione. Il modello di vita speso sul lavoro si è spostato dapprima
verso il Giappone e la Corea, stravolgendo il concetto stesso di
produzione in serie e provocando un rivoluzionario cambiamento delle
forme e forze produttive, ma non uno stravolgimento del modello nel suo
complesso, il paradigma preso a prestito dall'ecologismo, la
sostenibilità, non ha cambiato radicalmente la relazione tra reddito e
lavoro e mutato le aspettative sulla qualità della vita dei lavoratori
subalterni. Si è trattato di una serie di aggiustamenti, di una graduale
mutazione delle vedute che, facendo spesso riferimento diretto alle
teorizzazioni ecologiste intorno a uno sviluppo sostenibile verso
l'ambiente, non ha prodotto un abbandono degli stili di vita precedenti;
siamo grosso modo tra anni ottanta e novanta. Scomponendo questo dato
negli anni ottanta (Reaganeconimcs e Thatcherismo) si
privilegiò l'elemento della regressione economica, la rappresentazione,
cioè, di un ritorno a un passato nella spesa delle famiglie, negli anni
novanta, al contrario, emerse l'elemento 'progressivo': una delle tante
facce delle poliedriche ideologie della globalizzazione faceva
riferimento al problema ambientale e al problema economico come elementi
di un unico processo, l'elemento regressivo, la 'crisi', passò in
secondo piano e propagandisticamente anche l'impostazione neo –
liberista venne posta in una prospettiva secondaria: decisiva era la
razionalizzazione dello sviluppo secondo paradigmi di sostenibilità
ambientale che richiedevano, ovviamente, compressione di spesa, consumi
e domanda.
Dopo il 2003, dopo Afghanistan e Iraq si è iniziato ad abbandonare
questo terreno ideologico e rappresentativo andando, però, in una
direzione che è volutamente ignota e mal definita. È venuto fuori in
tutta la sua potenza il carattere cadaverico del futuro.
Nessuno nei paesi capitalistici egemoni (anche questa definizione è
ormai inadeguata, forse meglio scrivere 'capitalistici tradizionalmente
egemoni') ha il coraggio e l'interesse oltre che il coraggio, di fare
riferimento a Cina, Malesia, India o Romania e al loro modello di vita
speso sul lavoro nella relazione con il reddito che produce per chi
lavora. Cina , Malesia, India e quelli per essi rimangono come un'ombra,
spesso un ricatto non voluto e non preordinato ma reale, che sta nelle
cose, un problema di concorrenza sleale ma efficace e legittima.
Muoversi verso quegli standard di vita e forme organizzative della
produzione significherebbe abdicare al concetto stesso di sviluppo
capitalistico (come storicamente si è dato in epoca moderna e tardo
medioevale) e quindi rinunciare proprio all'egemonia tradizionale:
affermare che il capitalismo non ha più un centro, che è realtà assodata
da almeno un secolo, ma neppure un polo privilegiato che è novità degli
ultimi tre – quattro decenni, affermare, dunque, che mezzo millennio di
storia dello sviluppo capitalistico non ha più continuità. Il
capitalismo mondiale integrato non ha ancora la forza intellettuale,
politica e costituzionale per compiere questo passo: è necessaria una
ridefinizione generale del modello di sviluppo e delle relazioni tra i
diversi corpi del capitalismo transnazionale, ridefinizione che alle
volte fa immaginare una guerra in senso quasi tradizionale, un conflitto
che va oltre le singole specificità e aree regionali, dove le
contraddizioni possano emergere in maniera sincronica e non, come
adesso, diacronica.
Bisognerebbe individuare meglio la natura di queste contraddizioni. Non
possiamo dirle interimperialiste in senso compiuto: ogni stato -
nazione, per quanto potente, non cerca di esportare i suoi rapporti di
produzione, anche perché non è davvero più possibile scrivere di
borghesie e padronati nazionali come di capitalismi nazionali, ma,
invece, utilizza rapporti omogenei, per certi versi neutri, e certamente
transnazionali. Non è tutto così lineare, però: Cina e India spesso
esercitano un ruolo imperialista che faticosamente si integra con quello
'imperiale' descritto da Negri e spesso le vestigia ancora notevoli
dello stato – nazione funzionano da surrogato, da rappresentazione (e
non rappresentanza) della borghesia nazionale.
Il cammino verso la costituzione di un organismo politico mondiale
integrato è lungo e forse non è neppure un cammino interessante per chi
dovrebbe esserne il naturale effettore. In questo senso il rischio della
guerra quasi tradizionale è ancora presente, precisamente come in piena
epoca moderna era ancora necessario risolvere le grandi contrapposizioni
feudali e di lignaggio ereditate dal medioevo.
Mercoledì, 20 maggio
Annotazione. Ai margini. Che cos'è un popolo. La definizione di popolo è
un succedaneo, una conseguenza, di quello di nazione. Non è stato il
popolo a costruire la nazione, ma la nazione a determinare il popolo,
inteso come comunità etnica e linguistica. Quando, molti anni fa, Rosa
Luxembourg criticava il principio leninista di autodeterminazione dei
popoli, lo definiva vuoto e utopico. Utopico perché un popolo, inteso
come noi intendiamo popolo, non avrebbe avuto interesse a costituirsi in
nazione, vuoto perché una comunità etnica e linguistica allo stato puro
non si è mai realizzata nella storia.
La comunità linguistica ed etnica, che poi si è riconosciuta
storicamente in una nazione, ha avuto principalmente riferimenti
geografici: le scienze geografiche, grazie alla loro capacità di
descrivere i nodi amministrativi e politici, di circoscrivere le
varianti regionali e fornire dei contorni alle specificità storiche e
linguistiche, hanno fornito il palinsesto per la costituzione dell'idea
di nazione. La definizione dei confini e della trama distrettuale
attuata nella Francia durante la grande rivoluzione emblematizzano
l'aspetto fondamentalmente geografico della nazione. La geografia del
XVIII e XIX secolo ha metabolizzato le esigenze amministrative, le
varianti dialettali, le minoranze linguistiche e le tradizioni storiche
in un organo che si caratterizza attraverso dei confini eterni ed
immutabili ed è di per sé stesso pensato come eterno e immutabile: il
popolo e la corrispondente nazione. Questi confini eterni e immutabili
separavano la nazione da un'alterità che annullava le diversità interne,
privandole di statuto ontologico.
La nazione, come complesso geografico, distrettuale, militare e
amministrativo costituisce il concetto di popolo a sua immagine e
somiglianza, che non è mai stato, neppure in epoca giacobina, un
concetto rivoluzionario a patto di non esaltare e fare riferimento alle
differenze in seno al popolo, e dunque alla separazione e alla
divisione, che nell'indivisibilità produce logicamente frattura e
alterità.
Se la nazione non si è fondata sulla comunità etnico – linguistica, non
si è neppure basata su una comunità economica: la nazione ha invece
fatto sue e usato alcune omogeneità linguistiche ed economiche,
spingendole verso un'astratta, forzata ed esogena coincidenza: la
comunità linguistica è stata estesa verso il limite del confine
nazionale (pensiamo alla lotta contro i dialetti, all'emergere stesso
del concetto di dialetto e all'ostilità contro le minoranze
linguistiche), così come la comunità economica (pensiamo alla lotta
contro i dazi interne e le tradizioni monetarie particolari).
Venerdì, 22 maggio
Annotazione. Rimango legato alla vecchia tesi secondo la quale la genesi
della nazione e del popolo è un prodotto dei rapporti di produzione
capitalistici e di una combinazione tra le esigenze centralizzatrici
della monarchia assoluta tardo – medioevale e gli istinti dell'emergente
classe borghese. La monarchia aristocratica e il suo mercantilismo
lavoravano sul versante istituzionale e geografico, costituendo la
nazione, mentre l'economia di mercato su quello delle relazioni
linguistiche, sociali e culturali, costituendo il popolo. L'economia si
faceva popolare, mentre lo stato si faceva nazionale.
L'indifferenza feudale nei confronti delle diversità etniche e
linguistiche era superata (esemplare il fatto che la Francia medioevale
poté svilupparsi per interi secoli pur separata in un'area occitanica e
un'area d'oil). Questo superamento non avvenne in funzione di un
riconoscimento delle comunità etniche e linguistiche, ma in funzione
della costruzione di una nuova comunità (per restare in Francia si deve
scrivere di un'unificazione linguistica sulla langue d'oil, favorita dal
fatto che la principale divisione delle grandi pertinenze feudali non
corrispose al confine linguistico). La costruzione della nazione si basò
certamente su un elemento 'popolare', come quello linguistico, ma l'idea
di lingua nazionale fu il prodotto e non il presupposto di quel
processo: rimane comunque importantissimo e genetico il fatto che la
nazione per costituire il suo popolo usò politiche linguistiche, usò la
lingua.
Sabato, 23 maggio
Annotazione. Il fatto che si usi la lingua non è indifferente alla
natura del processo storico, anzi la rivela.
La lingua per come la descrive Bordieu in 'Che cos'è un popolo', ma
anche Migliorini in un'opera completamente diversa (Storia della lingua
italiana) è il risultato di un mercato, anzi è un mercato. In questo
mercato distinguiamo ufficialità, vale a dire valore di scambio, che
Bordieu identifica nella lingua 'dominante' e 'legittima' e che
Migliorini risolve nel concetto di lingua nazionale, e un complesso di
valori d'uso, che si intersecano e contaminano vicendevolmente con
l'ufficialità: questi sono i gerghi, lo slung e le varianti
dialettali e regionali.
Come nel mercato, almeno sotto il profilo strettamente fenomenico, è
indifferente la presenza di un oggetto in quanto valore di scambio o
d'uso, ma è il valore di scambio a decidere della sua oggettualità,
della sua effettiva esistenza, anche nella lingua il lessico e la
struttura lessicale vengono decisi a livello 'metalinguistico',
costruiti secondo la confluenza di moltissimi lessici e strutture,
valori d'uso linguistici che, validati, costituiscono il valore di
scambio, la lingua 'dominante e legittima'. L'operazione è, precisamente
come per l'economia di mercato, politica: si stabilisce che la
circolazione degli oggetti è sottoposta a una valorizzazione esterna a
quelli.
La formazione di un mercato nazionale è isomorfa alla costruzione di una
lingua nazionale, c'è una fortissima analogia anche se, mi preme
sottolinearlo, non una coincidenza perfetta. È, dunque, abbastanza
semplice e parimenti vero affermare che alla formazione di un mercato
transnazionale (o globalizzato che dir si voglia) corrisponderà
l'istituzione di una lingua 'isomorfa' con le immancabili varianti
regionali, dialettali e gergali, i residuali valori d'uso obliterati,
comunque, dal valore di scambio, protesi anche quelli a una somiglianza
verso la lingua legittima e dominante.
Ma non è questo il punto capace di spiegare il successo dell'elemento
linguistico nella formazione del complesso di popolo e nazione: la
similitudine è più profonda.
La lingua e gli oggetti sono in una relazione più profonda: la lingua è
un modo di descrivere gli oggetti. Per oggetti non intendo solo le cose
fisiche ma anche quelle immateriali (sentimenti, stati d'animo, stati
sociali, figure sociali e situazioni economiche); sempre e in ogni caso
la lingua ha una relazione con gli oggetti e impone per sua stessa
funzione un'interiorizzazione di quelli, per certi versi è un ponte tra
oggetti esterni e oggetto interno (l'uomo che parla dell'oggetto e lo
chiama). Attraverso la lingua gli oggetti entrano in noi.
In estrema sintesi (tutto questo in realtà imporrebbe un ragionamento su
memoria, ricordi e loro associazioni e poi sulla lingua e il lessico in
relazione con i gesti e la gestualità) la lingua ci definisce rispetto
alla realtà esterna a noi e ci colloca dentro quella come un oggetto in
mezzo agli altri oggetti.
Per usare una terminologia 'retrò' la lingua è viscerale intima e il
primo fattore del nostro riconoscimento, della nostra 'appercezione', è
il fattore più immediato e primitivo di quella. In epoca tardo –
medioevale e moderna (direi tra XIII e XVII secolo) questo modo
viscerale, intimo e immediato di essere al mondo è stato accostato alla
nuova realtà oggettuale del mercato delle merci: il mercato delle merci
si è appropriato degli oggetti, trasformandoli da valori d'uso in valori
di scambio, e la natura della lingua ha acquisito anch'essa un nuovo
valore. L'elaborazione di lessici e strutture linguistiche che andassero
oltre il localismo feudale e in genere pre – moderno è stata
un'operazione molto simile a quella che ha determinato la formazione del
mercato delle merci. Come il mercato delle merci trovava un proprio
limite nelle potenzialità logistiche dell'epoca, nella geografia che le
esprimeva e definiva, limitando i suoi orizzonti linguistici ai confini
della monarchia feudale, così il mercato linguistico si formalizzava
secondo variabili storiche molteplici, cercando una coincidenza con
l'estensione della monarchia nazionale, del mercato che si riproduceva
alla sua ombra. Questo schema, realizzato solo in particolari realtà
storiche, ma seguendo questa sovradeterminazione sarebbe appropriato
scrivere geografiche (Spagna, Francia, Portogallo, Inghilterra, Olanda e
paesi scandinavi) ha funzionato poi da palinsesto per i 'risorgimenti'
ottocenteschi del resto d'Europa (Germania, Austria, Ungheria, Italia e
Grecia) che, coniugandosi con motivazioni e ideologie nuove,
'recuperarono il ritardo' (secondo un modo di dire e pensare tipico
della storiografia positivista sullo sviluppo equilibrato) di alcune
aree geografiche dell'occidente in materia.
Il prodotto di questo processo è stato, sotto il profilo dell'ideologia,
una visione antropologica del mercato, della nazione e del popolo:
mercato, nazione e popolo erano i prodotti naturali di un'antropologia,
l'antropologia etnica, là dove le etnie venivano preventivamente e con
naturalezza ridotte al contesto nazionale insieme con tutti i suoi
potenti e vivaci deragliamenti dialettali, regionali e gergali. Alla
vivacità e specificità del mercato sarebbero state associate analoghe
caratteristiche della lingua, a una vocazione economica predominante,
un'inflessione linguistica predominante.
In questo contesto ideologico e analitico i riferimenti alla storia
linguistica dell'impero romano, che però presentò un vero processo di
omologazione linguistica antesignano di quelli moderni, sono rari e
spesso imbarazzati e con ragione per questa rarità e imbarazzo. La
repubblica romana non fondò un'operazione etnica, ma l'omologazione
linguistica percorsa e realizzata si basò proprio sul misconoscimento
assolutamente arbitrario dell'ethnos e sulla valorizzazione
dell'anthropos (ma sarebbe meglio dire dell'aner, del
vir) secondo un'ideologia per la quale le diversità etniche,
pur innegabili e nei fatti rispettate, non potevano costituire la base
della 'nazione romana', come pure l'impero non poteva essere
l'espressione del predominio di un'etnia sulle altre (quantomeno
dichiarato e formalizzato).
Il latino e il greco, suo omologo orientale nell'impero, furono le
lingue transnazionali, le lingue dell'uomo in quanto uomo, in quanto
ragiona in maniera adeguata sulla realtà e sugli oggetti che lo
circondano. Il post – moderno ha grandi debiti verso la classicità.
Mercoledì, 27 maggio
Annotazione. Un tempo, con estrema semplicità, abbracciavo l'idea che la
nazione fosse il prodotto del popolo, la formalizzazione giuridica del
popolo e che, a sua volta, il popolo fosse il risultato della formazione
della borghesia in lingua per la quale i confini del mercato
corrispondevano, grosso modo, a quelli della diffusione della lingua.
Secondo questo schema, che, credo, sia fedele a un'analisi marxista del
fenomeno nazionale, nazione – popolo – lingua e mercato si confondevano
e coincidevano, nutrendo tra loro delle ovvie differenze e delle
interdipendenze, tutte poste, però, sotto il medesimo ambito. C'è una
parte di verità, per me ancora adesso, in questo approccio che coglie
un'unità ma la fotografa secondo una prospettiva rigidamente frontale;
esiste, al contrario, la possibilità di un'altra prospettiva.
La prospettiva frontale aiuta a spiegare il fenomeno ma non aiuta
affatto a comprenderlo e soprattutto la prospettiva frontale è
costituita da moltissimi punti di vista che hanno anch'essi una
corrispondenza nella frontalità ma non la pretesa di essere frontali.
Insomma intendo dire che l'analisi di un fenomeno non si chiude mai e un
fenomeno non è mai chiuso e circoscrivibile nella prospettiva che
lo dice chiuso; chiusura, circoscrizione e visione prospettica sono
utili alla divulgazione, alla distribuzione degli elementi analitici, ma
non all'analisi: si devono, al contrario, afferrare tutti i fili
lasciati liberi nella frontalità per tirarli e costituire una nuova
frontalità e una nuova chiusura.
Nel caso specifico, suscitato dalla lettura di 'Che cos'è un popolo', ho
tirato la prospettiva sul concetto di nazione, inteso come complesso
giuridico e costituzionale sorto nel tardo – medioevo e sviluppato in
epoca moderna (il passaggio dal titolo 're dei Franchi' a quello di 're
di Francia' e più tardi, occasionalmente, 're dei Francesi').
Da un punto di vista strettamente fenomenologico la formazione degli
stati nazionali olandese, inglese e francese si è data in maniera
rivoluzionaria (lotta di liberazione nazionale contro la monarchia
spagnola, insurrezione contro l'assolutismo monarchico in Inghilterra e
Francia) che conforta e ha confortato lo schema unitario di nazione,
popolo, lingua e mercato: all'affermazione di nuovi rapporti di
produzione, forze produttive, culture e lingue ha corrisposto la
necessità di una trasformazione radicale della forma – stato. È un
approccio ed è una fotografia. Questa fotografia spiega popolo e
nazione, chiude l'analisi ed è diventata rapidamente un'ideologia.
Questa ideologia è abbastanza semplice: la nazione è un prodotto
naturale (etnico e antropologico, nel senso che ogni uomo appartiene o
ha bisogno naturale di appartenere a un gruppo) e i rapporti di
produzione egemoni al suo interno lo sono altrettanto. Senza volerlo il
materialismo dialettico ha fornito le migliori molecole alla
costituzione di questa metafisica. Porre, al contrario, l'accento sulla
nazione nella descrizione di questo processo, cioè sulla componente
coercitiva e sui numerosi elementi di continuità tra stato assoluto
aristocratico e stato nazionale borghese è tirare il filo verso una
prospettiva nella quale l'idea di popolo e anche quella di marcato
cambiano. Il mio assunto è che il popolo è il prodotto della nazione e
che la nazione sia già nello stato assoluto aristocratico. Omogeneità
linguistica e culturale basano la fondazione dello stato nazionale,
secondo l'analisi classica, mentre al contrario sono stati il risultato
di un'azione di omologazione disposta dallo stato nazionale attraverso
un'infinità di dispositivi e in un lungo periodo. L'idea di popolo che
viene fuori è esclusivamente ideologica, come l'omogeneità stessa
corrisponde a una sovradeterminazione ideologica della realtà; sia ben
chiaro, però, che nessuna ideologia o sovradeterminazione può astrarsi
dalla materialità del rappresentato: dunque il popolo è davvero esistito
ma non la verità e stringenza con cui è stato rappresentato.
rivedi
maggio
Inizio anno
Mercoledì,
3 giugno
Letture e annotazione. Decennio rosso : romanzo / Massimo
Battisaldo, Paolo Margini. - [s.l.] : Paginauno, 2013. - (Narrativa,
8). Secoli senza narrativa, poi è arrivata questa, divorata in tre
giorni, che è la storia del progressivo avvicinamento e poi della
militanza in un'organizzazione combattente (Prima Linea e Rosso
militare – Formazioni combattenti comuniste). È stata una mia
lettura e contemporaneamente una lettura di un altro, un continuo
riconoscersi e non riconoscersi nei personaggi. La struttura
narrativa, sciolta, ha aiutato questa oscillazione, la rivelazione
di qualcosa di sconosciuto e poi il suo disvelamento. Scritto usando
termini razionali la lotta armata come perfetto estraneo al
movimento degli anni settanta e nello stesso tempo l'ipocrisia di
questo modo di interpretare quegli anni.
Quanto c'era di me, e di gente come me assolutamente critica verso
le organizzazioni combattenti, dentro Sofia, Elio, Vlad e molti
altri personaggi del testo mi è impossibile stabilirlo, sicuramente
facevamo parte della stessa storia anche se non della medesima
vicenda; c'è un filo che ci lega e poi si spezza, continuamente. Con
paradosso sono proprio gli anni, il tempo trascorso, a rendere
meglio visibile il filo, laddove nell'immediato presente appariva
più facilmente occultabile, laddove dall'altro capo del filo si
diceva fossero 'compagni che sbagliano', allontanandoci dall'errore,
dunque, senza renderci conto che quell'errore, anche se non avevamo
sparato, imbracciato mitra e occultato pistole, anche se non ci
eravamo messi in clandestinità e anche se avevamo aspramente
criticato la lotta armata, era anche nostro e ci apparteneva, nel
bene e soprattutto nel male. Questo non significa che, secondo la
banalità che ha sempre contraddistinto la stampa e i media,
riconosca con quelli che il movimento degli anni settanta è stato un
immenso fenomeno di fiancheggiamento al 'terrorismo', ma che in chi
ha praticato la lotta armata era anche una parte di noi, in certe
argomentazioni, in certe analisi e in un certo modo di sentire la
vita.
Giovedì, 4 giugno
Annotazione. Non ci resta che lavorare. La vita sociale è
ridotta al lavoro (precario, fisso, indeterminato, determinato,
salariato, atipico, tutte questi aggettivi poco importano), questo
si sa, ma c'è dell'altro e appunto quest'altro è che non ci resta
che lavorare. Se anche continuasse a esistere un tempo
autenticamente sollevato dal lavoro, sarebbe un tempo privo di
senso.
Pensiamo un po' a quello che è diventata la politica, un tempo
attività sociale per eccellenza, ora un pettegolezzo organizzato
secondo rituale; qui non interessa denunciare cosa stia dietro
questo pettegolezzo, chiamare e descrivere i mattoni con i quali è
costruito, ma il fatto che è un pettegolezzo anche se ritualizzato
ufficialmente. Le dimensioni della politica e anche conseguentemente
le sue parole sono stabilite al di fuori della politica, senza
possibilità di appelli. Faccio un riferimento all'attualità politica
per esemplificare: alle ultime elezioni regionali si è discusso di
tematiche nazionali, a quelle nazionali di problemi europei e a
quelle europee di nulla. Un'esagerazione, di sicuro, ma
rappresentativa della vuotezza del discorso politico che è capace
solo di rimandare ad altro, fino a quando, esaurita la possibilità
di rimandare e spostare e giunto davanti a sé stesso, al suo senso,
diventa silenzio.
Venerdì, 5 giugno
Annotazione. La politica non rappresenta che sé stessa, ma proprio
questa mancanza di rappresentanza è rappresentanza. I meccanismi
politici hanno una nuova funzione e, soprattutto nei sistemi basati
sulla democrazia elettorale, le scadenze hanno il compito diretto di
fornire un sondaggio, una specie di saggio degli 'umori del popolo',
che spesso si esprime in maniere che ricordano i plebisciti e a
quelli nella logica si ispira, e il compito indiretto di
formalizzare, giuridicamente e costituzionalmente, il governo sul
'popolo'.
Mancano, ormai, alla verità della rappresentanza, intesa in maniera
tradizionale, il concetto di popolo come idea univoca e non prodotto
di una manifesta, politicamente, interpretazione e di corpo politico
che costituivano il cuore di questa tradizione.
Venerdì, 12 giugno
Annotazione. Ripensavo alle facce televisive di Tor Sapienza, di
quella gente durante la 'rivolta' contro un centro di accoglienza
per immigrati. Volti, espressioni, parole giunte secondo una
casualità molto sospetta alle telecamere, che riproducevano discorsi
contraddittori e confusi, uniti dall'unica portante informativa “non
siamo razzisti ma i negri qui non li vogliamo”, che è un po' come
dire “non sono un assassino ma sono d'accordo con chi uccide”. Molta
ipocrisia, insomma, anche se vestita di furia plebea e di molta
confusione.
A tratti si era tentati di usare l'odiosissima categoria 'popolare'
statunitense del 'rifiuto bianco', che è odiosa ma cinicamente
calzante. Il rifiuto bianco è il proletario bianco che non ha retto
la concorrenza del mercato del lavoro flessibile e razzialmente
gerarchizzato e si è fatto superare da settori ancora più deboli del
suo nella gerarchia del riconoscimento sociale, solitamente composti
da proletari neri e latini. Il rifiuto bianco non è tanto una
categoria sociologica quanto culturale che si fonda su un
particolare stato oggettivo. Quella del rifiuto bianco è una
soggettività che influenza e rinforza una oggettività.
Secondo questa cultura lo scivolamento sociale del quale si è
vittime è il risultato di una sperequazione politica e giuridica
svolta a favore dei neri contro gli elementi più deboli socialmente
dei bianchi ed è anche uno strumento per non ammettere questa
condizione sociale di partenza, questo svantaggio. Il fenomeno ha
effetti concreti: sempre più il proletario che fa parte del
'rifiuto bianco' non si sente partecipe di nulla, tende ad
approfondire una concezione del tempo libero come spazio privo di
comunicazione sociale e a vivere il quartiere secondo una nuova
territorialità: il quartiere diventa una proprietà di chi ci abita,
ma non una proprietà comune e collettiva, dove le proprietà singole
compenetrano nelle altre, si relazionano e producono relazioni,
analisi e nuove immaginazioni sul quartiere. Il quartiere diventa
una sorta di sommatoria non coordinata di proprietà private.
La solidarietà che si sviluppa tra i proletari è, allora, una
relazione che ha come scopo l'occultamento della propria solitudine
sociale, che cerca di strutturare una 'tradizione' e che ambisce
alla conservazione, né a un miglioramento né tanto meno a un
peggioramento delle condizioni dell'esistenza. Il proletario
afflitto dal 'rifiuto bianco' sembra che non ambisca a nulla né in
modo individuale né ancora meno collettivo, se non a 'difendersi'
dal costante attacco che ha molti volti alcuni immaginari e altri
certamente concreti.
A fronte del passaggio ormai consolidato da un'economia
dell'abbondanza a una della penuria, della fine dello stato
assistenziale, delle garanzie sulla sanità pubblica e della
sicurezza della pensione e dell'invecchiamento socialmente
assistito, di un sistema contrattuale basato sugli alti salari e il
lavoro a tempo indeterminato si è determinata una sostanziale e
complessiva coercizione a un 'fai da te' proletario (che mette in
discussione la tradizione proletaria italiana e lo stesso concetto
di proletario, con effetti ideologici che sarebbe difficile
analizzare) dentro un continuo rimbalzo tra diverse situazioni di
lavoro, reddito e salario che produce sempre una costante: il
progressivo peggioramento delle condizioni e qualità della vita
unita alla diminuzione o annullamento di qualsiasi aspettativa di
miglioramento o conservazione. E non è questo un volto
immaginario, ma concreto e reale, aggravato dal fatto che nella
fattispecie locale Roma ha perduto gran parte delle risorse
economiche che le derivavano dall'essere capitale politica e
amministrativa.
Questo, comunque, al di là di Tor Pignattara e del suo caso, è un
fenomeno generale: l'ideologia del 'rifiuto bianco' è potenzialmente
più diffusa di quanto si creda e per certi versi incombente perché
fa riferimento ad angosce che originano da una generalizzata
mancanza di riconoscimento e di aspettative sociali. Le stesse
ideologie che si generano e che stanno influenzando sempre più
quelle complessive, elevate e ufficiali, le ideologie nate
nell'università e nei luoghi istituzionalmente preposti al loro
parto ed elaborazione, sono ideologie a componenti, frammentarie,
molecolari, formati di rielaborazioni di un vissuto e di biografie
nelle quali la combinazione degli elementi subordina il disegno
sintetico. È questo uno scenario vecchio, ormai, di trent'anni: un
vero 'noi e gli anni ottanta' reiterato nei decenni.
Il volto immaginario sta nel già descritto rinnegamento della
propria situazione svantaggiata di partenza e nel timore che il
proletario migrante sia capace di muoversi meglio in questo 'fai da
te' imposto, per via delle minori aspettative, per l'abitudine a
condizioni di vita limite e che, quindi, infine, si venga a trovare
in una situazione di vantaggio; questo timore conferma ulteriormente
al proletario bianco quello che non intende ammettere neppure a sé
stesso: quello di poter divenire l'anglosassone 'rifiuto bianco',
cioè colui che non ha saputo approfittare del suo vantaggio razziale
nella stratificazione del mercato del lavoro e delle opportunità di
vita.
L'incubo dello sfratto o della perdita dell'appartamento ai quali
faccia seguito un'occupazione da parte di gente di colore e di
'nuovi venuti' (in questo complesso onirico oggi la Lega nord ha
introdotto con virulenza immaginifica anche i Rom) è emblematico di
questa angoscia, quando si distende al campo del vivere sociale e
della riproduzione sociale: la perdita di sé come soggetto, come
elemento radicato e tradizionale insieme con la fine di ogni
relazione altrettanto tradizionale con il territorio e l'emergere in
quello di nuove tradizioni. Il territorio e il quartiere si
rivoltano contro chi lo abita.
Martedì, 16 giugno
Impressione. La mafia (nella mafia includo il fenomeno inteso in
senso stretto, ma anche camorra, ndrangheta e alcuni segmenti,
sempre più estesi, della criminalità organizzata) è nata a causa di
molti fattori storici, influenze ambientali contingenti,
particolarità geografiche e geopolitiche; la mafia, dunque, ha
una sua singolarità anagrafica in base alla quale è stato
oggettivamente un discorso mafioso quello del “la mafia non esiste
perché tutto è mafia”.
La 'mafia dell'agrumeto', la mafia agricola, è il prodotto della
crisi del sistema feudale unita alla contemporanea difficoltà per lo
stato centralizzato e assoluto di affondare radici e istituzioni
credibili socialmente in particolari aree geografiche; la mafia, in
quei casi, ha sostituito le sicurezze del sistema feudale e ha
offerto un coordinamento amministrativo 'ombra'. Rispetto a un mondo
economico che si dirigeva verso l'economia di mercato non poteva che
divenire un sistema nascosto e illegale di potere, un sistema di
'dominio ombra', appunto. La mafia agricola è stata direttamente
coestensiva alla crisi del sistema feudale e antiteticamente
coestensiva all'affermazione dell'economia di mercato. La mafia ha
conservato gran parte dei suoi rituali, delle forme di iniziazione e
dei modi di costituire la sua formalità gerarchica di origine, a mio
parere, squisitamente signorile, perché, sotto il profilo del
comando interno all'organizzazione, funzionano; l'impresa mafiosa ha
un organigramma generato e sostenuto secondo principi feudali e
signorili.
La mafia è una delle prove della verità della legge sullo 'sviluppo
diseguale' del materialismo dialettico.
La coestensività della mafia, però, è profondamente cambiata.
La mafia non poteva essere direttamente coestensiva al capitalismo
industriale, nel quale la produzione e la distribuzione delle merci
erano rigorosamente subordinate alla costruzione del loro valore in
tempo di lavoro e il lavoro diveniva misura del valore. In questo
scenario era assolutamente necessario un complesso di regole, le
leggi del mercato, che stabilisse la proprietà della merce e il suo
valore. Questo complesso di regole stabiliva la legittimità della
merce, ovverosia ciò che era merce e ciò che non lo era: la legge
della domanda e dell'offerta non risolveva da sola il mercato, il
mercato ha sempre avuto bisogno di leggi e regole, di una
coercizione extraeconomica per realizzarsi, e conseguentemente il
mercato escludeva la produttività mafiosa e malavitosa in genere che
si fondava su leggi e regole 'ombra e clandestine' che non facevano
riferimento al tempo di lavoro necessario e alla regolazione del suo
sfruttamento. Anche la malavita organizzata più evoluta
merceologicamente (banalizzando penso alla raffinazione dell'oppio
per la produzione dell'eroina) era esclusa dal mercato.
Il capitalismo industriale e la mafia erano opposti, anche se spesso
la mafia riusciva a inserirsi in alcuni settori produttivi, lo
faceva secondo una logica accidentale e sporadica.
La situazione è radicalmente mutata dopo il declino del capitalismo
produttivo e la crescita del biocapitalismo e del peso di
quello che un tempo era detto capitalismo finanziario in quello.
Mercoledì, 17 giugno
Impressione. Il valore della merce si è allontanato dal valore del
lavoro e la merce ha assunto una nuova valorizzazione e un nuovo
aspetto sociale. Questo è un mondo di merci astratte che sono merci
non in quanto prodotti del lavoro ma in quanto le condizioni
generali del lavoro umano permettono la costituzione della merce,
tra molte altre cose. Le condizioni dell'esistenza, che si è
sussunta al lavoro, richiedono la produzione e riproduzione della
merce: la merce è entrata a fare parte delle relazioni umane e a
essere essa stessa una passione, uno stato d'animo. I confini
tradizionali dell'essere merce sono stati aboliti.
Il danaro che era la merce astratta, ovverosia l'astrazione delle
merci per eccellenza, è diventato una merce tra le altre, fino al
punto che per le merci e il danaro bisognerebbe ideare un altro
nome, perché quello di merce sta diventando fuorviante e inadeguato.
Giovedì, 18 giugno
Impressione. Quando la merce perde rapporto con il lavoro succedono
infinite cose, alla merce, al lavoro e alla struttura del mercato ed
è successo qualcosa, anche qui di strutturale, alla malavita
organizzata nei termini della relazione tra quella e il mercato. Lo
sfruttamento del lavoro cessa di avere una relazione diretta con il
valore della merce, la merce si autonomizza dal lavoro e
diventa astratta: la trama di diritti e regole che circondava la
produzione della merce, conseguentemente, perde concretezza e
diventa cosa astratta, i diritti e le regole diventano ideologia e
cultura e non sono più strumenti per la definizione del concetto di
merce e di mercato; la trama dei diritti e delle regole rimane come
punto di riferimento 'storico' ancora necessario per alcune
misure sociali ed economiche, ma non più fondante la società e
l'economia. Il mercato tout cour ne esce stravolto,
per certi versi sembra di tornare al libero scambio in forme pure,
cosa che spiega una parte del successo delle ideologie neo –
liberiste. Il riferimento storico al valore della merce come valore
del lavoro reificato nella merce è importante, è una coordinata e
una delle molte coordinate che disegnano l'asse cartesiano del
biocapitalismo.
Il nuovo asse comprende altri paradigmi: oltre quello 'naturale'
vale a dire industriale, paradigmi mercantilistici, libero –
scambisti, protezionistici, artigianali, autoconsumistici e
microimprenditoriali.
Il danaro è il collante e descrittore delle forze agenti in questo
asse, proprio perché si è slegato da una relazione con la merce in
quanto prodotta da un tempo di lavoro precisato.
In epoca industriale, il danaro aveva un rapporto stretto con il
capitale: il danaro prodotto attraverso la produzione e riproduzione
del capitale era l'unico danaro legittimo. Oggi stabilire la
legittimità del danaro, sotto il profilo dell'ontologia e della
genesi, è un compito sempre più arduo: è necessario fare riferimento
esclusivo alla legge positiva, alla storia, e non ai rapporti di
produzione reali.
Venerdì, 19 giugno
Impressione. Anche la legislazione fatica a seguire la legittimità
del danaro e si ha sempre più la sensazione che in tema di mafia (ma
a dire il vero in molto altri campi) la legislazione e gli apparati
giudiziari siano inadeguati e quantomeno anacronistici. È un
anacronismo inevitabile perché le nuove forme strategiche di
allocazione del profitto e dei capitali sono quelle della finanza,
il libero scambio in rappresentazione per antonomasia.
La mafia ha un'occasione favorevolissima per entrare a far parte del
cuore del capitalismo internazionale, da quando il gioco in borsa da
scommessa per speculatori e da momento di parziale tesaurizzazione
delle risorse produttive è diventato lo strumento per definire i
quadranti dell'asse cartesiano e per determinare e descrivere al
contempo le strategie del biocapitalismo.
Secondo un'analisi svolta nella contingenza, gli investimenti
finanziari sono ovviamente quelli più trasparenti per la mafia; ma
non si tratta di constatare una semplice preferenza tattica, è in
questione, invece, una ritrovata coestensività della mafia con il
sistema economico egemone. La fine della merce e del capitalismo
industriale ha reintrodotto condizioni sociali che parevano superate
per sempre. Qua e là emergono rapporti di produzione servili, in
base ai quali la manodopera è venduta e acquistata non attraverso il
lavoro salariato, ma attraverso la concreta riduzione del suo stato
biologico a 'cosa'. Pensiamo solo alla filiera produttiva che fa
profitti sull'immigrazione: dal trasporto, alla collocazione
lavorativa, all'ospitalità e alla creazione di stati d'animo sociali
rispetto al processo immigratorio. Si può affermare che la mafia si
trova perfettamente a suo agio in un contesto di riduzione dell'uomo
a merce (si bade bene non a merce in quanto forza – lavoro) proprio
perché la prima coestensività sociale ed economica la mafia l'ha
avuta con la tarda feudalità.
Questo non significa che la mafia ha subito il capitalismo
industriale (quello dell'uomo come merce in quanto forza – lavoro),
anzi ha interiorizzato alcuni valori dominanti di quella forma di
produzione e di mercato, costruendo una rete produttiva e di
riproduzione di merci illegali, un capitalismo illegale che
associava / associa al valore della merce non tanto i costi della
sua produzione quanto il rischio della distribuzione.
Questa esperienza storica, una vera fase della biografia collettiva
mafiosa, è stata importantissima per traghettare la malavita
organizzata verso il capitalismo finanziario che si riconosce, al
contrario del capitalismo precedente, nella costituzione del valore
al di fuori del lavoro e nel rischio connesso alla redistribuzione a
interesse del danaro.
Quindi non è più mafioso affermare che tutto è mafia e la mafia non
è altro che una multinazionale finanziaria tra le altre? Oppure che
l'intero sistema economico è un sistema mafioso?
Sabato, 20 giugno
Impressione. Rispondo di no, senza molti tentennamenti, non certo
per assolvere l'etica di questo sistema economico, ma per
individuare una verità, utile anche a una maggiore comprensione del
sistema economico. La mafia non è né una buona buona né una cattiva
multinazionale, è una multinazionale tra molte altre ma ha una
particolare struttura: quella di avere alla base una associazione a
delinquere che sottopone la proprietà privata a diverso titolo e a
diverso livello a un diritto di prelazione. Questo impedisce alla
mafia di essere coessenziale al capitalismo biologico o post
moderno, ma solo coestensiva (anche se quello che compiono alcune
multinazionali in campo agricolo e minerario nei paesi del 'terzo
mondo' è spesso configurabile come coessenziale, nei metodi, al modo
di agire mafioso).
Le grandi multinazionali a base e struttura legale, inoltre, si
portano dietro una tecnica del managment, un modo di
cooptare classe dirigente e di costituire il loro organigramma che è
ancora legato agli schematismi (non alla pratiche) del capitalismo
industriale. Anche se le multinazionali non traggono più la quota
più alta del profitto dal lavoro industriale e produttivo, i loro
insediamenti produttivi costituiscono ancora un elemento di
riconoscimento, dando continuità al marchio. Per le multinazionali
legali l'apparato produttivo svolge lo stesso ruolo che nella mafia
viene svolto dalla famiglia: è una radice, un elemento identitario
che impedisce alla Sony di essere la Ericsson e come ai Casalesi di
essere i Corleonesi.
Gli organigrammi sono strutturati per aree geografiche, raramente
per settori transnazionali, procedendo poi e solo dopo
gerarchicamente verso una maggiore estensione delle competenze
geografiche, fino alla struttura amministrativa mondiale: la
'globalità' non si presenta immediatamente ma usufruisce di
localismi.
La famiglia mafiosa è la radice produttiva, bioeconomica,
dell'organizzazione mafiosa: al contrario che nelle multinazionali i
legami familiari funzionano concretamente nel definire organigrammi
e reti di comando, o forniscono una matrice per definirli quando si
estendono a terze parti estranee all'omogeneità anagrafica della
famiglia.
Questo determina e ha sempre determinato una specificità della
territorialità mafiosa che si estende là dove arriva la famiglia, la
sua rete di influenza e i vassallaggi esterni a quella e che
persegue una politica di progresso per aree limitrofe. Questo è lo specimen
mafioso rispetto ad altre realtà imprenditoriali.
Il biocapitalismo, però, ha introdotto uno scenario nel quale questa
specificità può più facilmente diffondersi, in estrema sintesi: il
lavoro come valore non definito economicamente, rapporti di
produzione in parte servili e dove il servile viaggia come un'ombra
e una possibilità, la merce slegata dal valore del lavoro e
l'importanza della geografia virtuale e dei saperi.
Mercoledì, 24 giugno
Impressione. Nella nuova forma che il capitalismo ha assunto la
mafia trova una nuova coestensività: la merce astratta, il danaro
come merce tra le merci astratte e un modo di intendere lo spazio e
la geografia come risultato della circolazione dei saperi e dei
flussi informativi.
Tutto questo è profondamente mafioso.
La mafia è un potere territoriale e 'feudale' costituito dalla
capacità di organizzare saperi e codici di comportamento,
ottenendone la validazione sul territorio. In determinate aree
geografiche la mafia continua ad estendersi seguendo la fisicità e
le leggi di prossimità, ma, contemporaneamente, è diventato,
precisamente come il mercato, un processo extraterritoriale,
indifferente alla geografia. La mafia ha bisogno di un territorio di
fondazione per la parte iniziale del suo ciclo produttivo e qui
segue le normali leggi della fisica, della geografia e
dell'antropologia, per poi svilupparlo oltre la dimensioni delle
singole corporation locali e regionali (le famiglie).
L'extraterritorialità era stata sperimentata già nel secolo scorso,
sul mercato dell'eroina che è stato il volano della
internazionalizzazione dell'impresa mafiosa, si trattava, però, di
'colonizzazioni' tese a definire nuovi territori, non una nuova
dimensione negli investimenti. Questo non è più il modo di sviluppo
centrale della malavita organizzata oggi, per la quale famiglia e
territorio sono il retroterra, un modo di costruire classe dirigente
e manodopera, ma non l'obiettivo strategico.
La mafia degli appalti, oltre a registrare una specificità italiana
(vulnerabilità delle istituzioni alle infiltrazioni illegali),
rappresenta un ibrido di questo sviluppo, posto tra la mafia
agricola e quella post – moderna. La mafia che investe in borsa e
acquisisce e controlla gli investitori o che ha una sua cordata tra
gli investitori è il nuovo modello di questo sviluppo.
Da una parte la mafia mantiene una sua specificità, un suo impatto
sociale e visibilità, dall'altra questa specificità si volatilizza.
Il secondo elemento che mi preme sottolineare è che le
trasformazioni nel mercato (il cambiamento della genesi della
merce), reintroducendo un modo di organizzare il lavoro di tipo
'servile' o dove lo spettro del servile si percepisce, sta
avvicinando la mafia alla normale imprenditorialità: gli strumenti
di comando della manodopera, nelle situazione dove il valore del
lavoro non è più misura del valore della merce, non possono fare
riferimento naturale alle regole e alle leggi del mercato del lavoro
industriale ma slittano verso forme di comando personalizzato che
sono coessenziali a quelle mafiose.
Giovedì, 25 giugno
Letture. L'intelligenza collettiva : per un'antropologia del
cyberspazio / Pierre Levy ; traduzione di Donata Feroldi e Maria
Calò. - Milano : Feltrinelli, 1996.
Non avrei saputo scrivere meglio e dunque trascrivo ampi brani del
capitolo 'L'economia dell'intelligenza collettiva'.
“L'ultima frontiera risulterà essere l'umano, ciò che non è
automatizzabile: l'apertura di mondi sensibili, l'invenzione, la
relazione, la creazione continua del collettivo.
Al di là della loro diversità, le professioni contemporanee hanno
quasi tutte in comune certe attività di cooperazione, relazione,
formazione e apprendimento permanente ( … ). Si curano più
efficacemente i pazienti introducendoli alla dietetica, all'igiene,
al riconoscimento dei sintomi, all'autonomia sanitaria in generale.
La produzione antropica del futuro si basa su due elementi
indissolubili: la cultura delle qualità umane – di cui fanno parte,
come è noto, le competenze – e l'edificazione di una società
vivibile. Tutto si svolge come l'umano, in tutta la sua estensione e
varietà, fosse diventato la nuova materia prima ( … ).
L'intelligenza collettiva: fonte e fine di tutte le altre ricchezze,
aperta e incompiuta, output paradossale perché interiore,
qualitativo e soggettivo. L'intelligenza collettiva: prodotto
infinito della nuova economia dell'umano ( … ).
Nell'epoca industriale ( … ) gli operai trasformavano le materie
prime e gli impiegati trattavano le informazioni. Oggi la ricchezza
delle nazioni è garantita dalla capacità di ricerca, di innovazione,
di apprendimento rapido e di cooperazione etica tra i popoli ( … ).
Oggi il nuovo proletariato non lavora più sui segni o sulle cose, ma
direttamente sulle masse umane ( … ). [I nuovi proletari, nota mia]
producono le condizioni di ricchezza, lontano dalle luci della
ribalta, perché il suo lavoro è al contempo il più duro, il più
necessario e il peggio retribuito ( … ). Questi nuovo proletari si
fanno carico in prima linea delle relazioni di massa, del legame
sociale intensivo ( … ) e a causa della mobilità e
dell'accelerazione dei flussi, tutti vivono al limite
dell'esclusione, rischiando di cadervi.
Il nuovo proletariato si emanciperà soltanto unendosi, superando
precedenti categorie, stringendo alleanze con coloro che svolgono un
lavoro affine ( … ). Il giorno in cui il nuovo proletariato diverrà
cosciente di sé, deciderà di sopprimersi in quanto classe, istituirà
la socializzazione generale dell'educazione, della formazione e
della produzione di qualità umane. La tentazione al particolarismo è
forte ( … ) invece di valorizzare la propria singolarità. È più
facile ( … ) aggrapparsi a immagini arcaiche e ad identità stabili,
piuttosto che secernere soggettività dinamiche e mutanti ( … ) a
fronte di una variazione continua e massiccia delle conoscenze
specifiche, la canalizzazione della trasmissione – utile in altri
tempi – può diventare un freno o costituire addirittura una
strettoia fatale. Alla deterritorializzazione dei flussi economici,
umani e dell'informazione, all'emergenza di un nomadismo
antropologico proponiamo, dunque, di rispondere con una
deterritorializzazione dell'iniziazione e dell'umanizzazione stessa
( … ) la trasmissione, l'educazione, l'integrazione, la
riorganizzazione del legame sociale devono cessare di essere
attività separate. Devono essere composte dall'interas società verso
la sua stessa totalità, e potenzialmente da qualsiasi punto sociale
in movimento verso qualsiasi altro.” (pp. 52 - 54).
Domenica, 28 giugno
Letture. L'intelligenza collettiva. Interessante è la distinzione
sviluppata tra molarità e molecolarità nelle relazioni sociali. Gli
apparati molari sono quelli che hanno dominato la storia
dell'umanità, sono il trascendente rispetto all'immanente, per dirla
in filosofia, sul campo costituzionale, istituzionale ed economico.
La democrazia e la televisione sono i più evidenti esempi di questa
trascendenza e molarità e sono per Levy, che utilizza un discorso,
un enunciato, descrittivo e non critico, sostanzialmente inadeguati
a descrivere, rappresentare e governare la nuova economia: ci
troveremmo, quindi di fronte a un'aporia, implicita, al sistema e la
crisi è nelle cose, non serve denunciarla, basta descrivere le cose.
In generale, però, la molarità ha sempre rappresentato un elemento
di inadeguatezza, genetica, disponendo verso un piano unitario la
molteplicità; Levy scrive: “Il gruppo molare [lo stato, annotazione
mia] attua una sorta di termodinamica dell'umano, una canalizzazione
esterna dei comportamenti e dei caratteri, scarsamente economica
rispetto alla qualità delle persone ( …). Anche la trascendenza e la
separazione sono tecnologie molari, a caldo e a freddo, perché nei
gruppi organizzati in base ai loro principi i cambiamenti costano
cari, sono brutali e spesso catastrofici: colpi di stato,
rivoluzioni, sommosse” (p. 66).
La politica e l'organizzazione sociale in genere, annota Levy, si è
sempre fondata su gruppi identitari per ottenere effetti molari,
cioè adeguati a sé stessa e al livello di sviluppo raggiunto, ora la
costituzione di elementi identitari è, a un tempo, inadeguata alla
realtà presente ma contemporaneamente è una tradizione, un modo di
pensare, quasi una struttura stessa del pensiero. Come fare a meno
di molarità, di trascendente e di identità, senza ricostruire
un'altra molarità? O come rifondare una molarità, che è momento
necessario quando si esce dall'ambito del gruppo ristretto
(storicamente il clan e la tribù), senza dotarla di una
trascendenza, senza ricreare il meccanismo che la separa dai suoi
costituenti?
Per Levy la rete telematica offre questa possibilità, ricreando
molarità in dinamica e continua ridisegnatura. Le possibilità
tecniche e logistiche esistono, ma non è un problema tecnico ma
politico nel senso più puro del termine.
Contro Levy annoto che il fatto che sia emersa la rete telematica è
una risposta a nuove esigenze economiche e sociali, la rete ha una
genesi 'politica', è una progettazione collettiva, una nuova forma
di produrre e progettare. Quindi la rete è già 'politica'. Non credo
proprio che il successo della telematica sia slegato dalla crisi del
taylorismo e dall'emergere di nuove forme di produzione nel campo
del lavoro subordinato e orientato agli 'oggetti'.
La rete telematica innerva un nuovo modo di produrre che mette in
discussione gli assetti produttivi precedenti, non solo li scardina
ma rende possibile la strutturazione di quelli nuovi.
Contemporaneamente, per il solo fatto di esistere, non è capace di
realizzare una democrazia produttiva né tanto meno economica: la
democrazia si intravede, e lì, nella nuova etica della rete, nelle
relazioni che si organizzano ma non riesce a essere il cuore della
rete, il suo senso. Produrre in rete avvicina la democrazia ma non è
la democrazia. Va anche scritto che esistono forze, all'interno
della rete, che pur lavorando per la diffusione delle informazioni,
le organizzano secondo parametri trascendenti e identitari (basta
pensare ai riferimenti categorici, i filtri, utilizzati dai
principali motori di ricerca). Eppure Google non è una situazione
informativa estranea alla rete, è, per certi versi, la rete stessa.
Insomma la rete continua ad avere una caratteristica di tutte le
tecnologie del passato: non è un semplice strumento, non è solo
un mediatore e non è neutrale ed è parte integrante delle forma di
potere.
Martedì, 30 giugno
Annotazione. I sistemi politici (molari, per usare la terminologia
di Levy) vanno avanti ad accumulazione di masse di energia sociale
con improvvisi adeguamenti a quelle, nel tentativo di riportare il
loro valore vicino allo zero. Questo modello si evidenzia bene nelle
crisi rivoluzionarie ma è sempre stato il modello dello sviluppo dei
sistemi politici e molari.
I sistemi sociali, inoltre, (il complesso dei rapporti di
produzione, forze produttive, modi di produrre, forme produttive,
saperi tecnici, mentalità, immaginari) viaggiano a velocità diverse
e secondo un modello diverso. Tendono anch'essi a costituire una
massa inerziale e ad assomigliare ai sistemi politici, e dunque ad
acquisire, sempre con Levy, molarità, in misura minore le forze
produttive e i saperi tecnici, spesso intermedia le mentalità e gli
immaginari e massima i rapporti di produzione che, non a caso, hanno
una forte coessenzialità con i sistemi politici (nella sua
componente legislativa e politica). In genere i sistemi umani hanno
energie di sviluppo diseguali e all'interno di quelle i sistemi e le
ideologie politiche hanno sempre avuto il compito di nascondere
queste diverse velocità, riportandole a una sola velocità.
L'ideologia è sempre stata rappresentazione di un'unità e anche
quando ha cercato di comprendere in sé la molteplicità lo ha fatto
immaginandola come elemento di un solo organismo.
rivedi giugno
Inizio
anno
Mercoledì, 1 luglio
Annotazione. Le crisi rivoluzionarie hanno evidenziato, in forma
chimicamente pura, questa massa inerziale e i suoi effetti, e le
ideologie rivoluzionarie ( per come si sono manifestate e date alla
storia tra XVII e XX secolo) sono diventate la quintessenza della
riduzione a unità e hanno, in modo assolutamente inconsapevole, fornito
la matrice per ogni ideologia d'epoca moderna: lo scopo dell'ideologia
politica è diventato l'enunciazione di una progettazione complessiva e
unitaria. L'ideologia è diventata l'involucro di una spiegazione
complessiva e totalizzante della società e del suo sviluppo. Tutti gli
operatori politici, dal XVII secolo in poi, sono andati a scuola
dalla rivoluzione, senza saperlo. Oggi, però, le scuole di rivoluzione
servono più a poco, soprattutto ai rivoluzionari e in genere ha perduto
senso il termine stesso, come quello di conservatori e insieme con
quello di destra e sinistra.
Gli involucri progettuali ai quali questi termini fanno riferimento
mancano di fondamento e di sostanza. Questo non significa che non esiste
più un pensiero rivoluzionario e uno conservatore, esistono eccome e,
sottolineo, molto più di
prima (e chi oggi scrive di assenza di destra e sinistra è
un'ipocrita che assolutizza una registrazione banalmente eseguita) ma
nulla hanno a che vedere con sinistra e destra 'storiche'.
Mercoledì, 8 luglio
Annotazione. Cosa sta succedendo alla democrazia? Meglio chiedersi
cosa sta succedendo al simulacro residuale della democrazia? Un
referendum mal posto, quello greco, è stato scambiato per una grande
operazione democratica: segno dei tempi.
Il referendum non rilancia una pratica democratica in Europa e
nell'Unione europea ma, semmai, ne finge il rientro, come rientra in
scena una comparsa teatrale. Nulla di operativo in questa democrazia,
quando Zipras continua a rivolgersi ai soliti lodi arbitrali ai quali
recita, grazie al referendum, la difficoltà della sua situazione.
Certamente non si può fare a meno di simpatizzare per il governo greco,
ma giusto tifare, disponendosi nella stessa logica del referendum.
Un momento di democrazia dovrebbe, invece, possedere decisività e
operatività, mentre qui tutto serve a dimostrare, teatralmente, che
anche il simulacro della democrazia è inaccettabile. Non credo affatto
che la Merkel o chi per essa sperasse nella vittoria del sì, sperava,
forse, che le ragioni del no si rappresentassero teatralmente e
continuassero a calcare il solito palcoscenico: un nazionalismo, uno
stato nazione, che si scopre rappresentante sindacale del 'popolo' e
sfida altri nazionalismi, altri stati nazione e altri rappresentanti
sindacali di 'popoli'. In questo contesto, su entrambi i fronti, che non
sono fronti reali ma fronti recitati, può solo crescere una forma di
fascismo, nostalgico del 'socialismo del capitale', un socialismo
nazionalista del capitale.
Giovedì, 9 luglio
Annotazione. La finzione della democrazia è radicatissima oggi; la
democrazia fa parte del DNA dei paesi capitalistici egemoni: l'esistenza
stessa di istituzioni democratiche li qualifica e li riconosce. I paesi
capitalistici egemoni devono presentarsi come democrazie, quasi che
governi, prefetture e tutto l'apparato di controllo sociale e finanche
le banche e le borse fossero espressione di una volontà e potere
democratici e appartenessero ai cittadini. I correntisti sono i veri
proprietari delle banche e i cittadini del governo e quindi direttamente
responsabili dell'andamento dell'economia, della finanza e della
società: la partecipazione al mercato è partecipazione alla democrazia,
anzi è democrazia.
Mentre la democrazia tradizionale, la democrazia rappresentativa, ha
perso gran parte della sua funzione istituzionale, del suo peso concreto
e storico (nel senso della determinazione della storia e degli equilibri
politici), mantenendosi come relitto, riferimento archeologico,
bandiera, stendardo di passate virtù, la sua finzione, invece, investe
l'intera società; si è allargata (correntisti, piccoli azionisti,
risparmiatori, piccoli proprietari di immobili, attivisti in comitati e
associazioni e via discorrendo). Questo allargamento non determina una
relazione con la democrazia tradizionale ma, anzi, lo preclude, lo nega
e lo vive come sbarramento, ostacolo e difficoltà.
L'astensionismo elettorale e il successo che ottiene il modello mafioso
sono, tra molti altri segni, il sintomo della crisi del ruolo della
democrazia nella strutturazione dei sistemi politici. La democrazia, se
mai è esistita, oggi è davvero solo apparenza, tecnica del fenomeno,
tecnologia rappresentativa nel doppio senso che usa la rappresentazione
del fenomeno attraverso gli strumenti massmediatici e lo rappresenta
politicamente solo in quanto fenomeno e in quanto fenomeno rappresentato
massmediaticamente.
Si badi bene, non si è data rottura sostanziale nella storia della
democrazia: la rappresentanza politica, la delega, avevano in sé
medesime il presupposto per la loro riduzione a tecnologia e
rappresentazione del consenso.
Venerdì, 10 luglio
Annotazione. Il giudizio sulla democrazia va contaminato con quello
sull'esperienza di Zipras perché sono due giudizi affini. Quello di
Zipras è un tentativo eroico, per certi versi commovente, ma di eroismo
la storia non sa che farsene, serve dell'altro per cambiarla, più
coraggio intellettuale che, ovviamente, non può risiedere tutto in
Zipras e che a Siriza non può essere chiesto. Zipras sta sbagliando, ma
non può che fare altro che sbagliare, per il tipo di battaglia che ha
scelto e per la logica che sta perseguendo nello scontro. L'errore di
Zipras sta nel far riferimento, vivificandole, alle istituzioni della
democrazia tradizionale e alla mitologia della rappresentanza, unita
inevitabilmente alla retorica della sovranità nazionale, cose che, però,
le hanno permesso, proprio queste, di ottenere un innegabile successo
nel mondo elettorale. Questa è l'aporia contenuta in qualsiasi discorso
sulla democrazia basata sulla logica della rappresentanza: si ottiene un
consenso volatile e sottoposto e prigioniero delle mitologie che lo
hanno prodotto e strutturato. La struttura della rappresentanza ha le
stesse forme del riconoscimento identitario fondato sulla sovranità e da
queste forme non si può uscire.
Non so quanto Siriza sia avveduto di questa trappola logica, di questo
paradosso e aporia, e, appunto, di quanto sia consapevole del proprio
eroismo e dell'inutilità di questo, ma di tutte le cose dette e scritte
a proposito di questa vicenda, una è vera, anche se non nel senso con la
quale viene presentata: vale a dire che Zipras è un segnale. È, però, il
segnale dell'inadeguatezza della democrazia rappresentativa e della
teoria della rappresentanza.
Domenica, 12 luglio
Annotazione. Zipras sembra il topo che spaventa l'elefante e lo è. Tutta
questa confusione di proposte, veti, aperture poi chiusure, tutte
rigorosamente false (una verità pubblica e ufficiale) rappresentano /
mettono in scena questo spavento, lo descrivono secondo i linguaggi
della verità pubblica, ufficiale e approvata televisivamente. Il
problema politico è il problema contabile (e gli stati nazionali non
sono altro che funzionari contabili, amministrati da addetti al
bilancio) di una contabilità che l'unione europea finge di garantire; lo
spavento non dipende dalla contestazione della contabilità ma dai suoi
potenziali effetti sulla finzione, che potrebbe, cioè, essere costretta
a rivelarsi.
Lunedì, 13 luglio
Annotazione. L'elefante si spaventa del topo e il topo si spaventa
dell'elefante, ovviamente. L'elefante è costretto a prendere sul serio
il topo perché la moderata indisciplina contabile della Grecia non mette
in discussione tanto la contabilità europea (stiamo, in verità, parlando
di poche decine di miliardi di euro) ma un disegno, un progetto generale
dentro il quale la contabilità greca, la poverissima contabilità greca,
è ininfluente, in quanto fatto contabile, ma serio in quanto fatto
politico. Politico in quale senso? Nel senso che in Grecia, come
sostengono molti ammiratori di Siriza fino al punto di farne un modello
di azione per la 'sinistra' europea, la democrazia si sta finalmente
opponendo all'oligarchia, ai poteri forti europei? Risponderei che il
mio senso del politico è davvero un altro. Nel senso che la Grecia è una
nazione, come sostengono anche molti ammiratori di Zibras nella 'destra'
europea, che si sta opponendo, eroicamente, alla globalizzazione
dell'economia? Direi a maggior ragione di no, perché il mio senso
critico verso la 'globalizzazione' non prevede il passaggio attraverso
la riesumazione degli spiriti nazionali.
Scriverei, al contrario, che ciò che spaventa l'elefante e gli fa
rincorrere il topo, terrorizzandolo, è quello che in realtà si trova
dentro di lui e che non potrebbe essere accettato dalla strategia del
capitalismo mondiale integrato se, a causa della piccola contraddizione
contabile greca, dovesse mettersi in produzione: in Grecia non si tratta
né di democrazia né di nazione, ma della difesa e della resistenza di
alcuni standard di vita, di immaginari, di culture e anche di saperi,
conquistati i primi e costruiti i secondi, in una lotta e processo
secolari. La grande Germania non c'entra nulla o, meglio, c'entra
davvero poco: è solo un'occasione storica, un accidente, ma non è il
fondamento di questa strategia; fa parte dell'asse strategico, magari,
ma non è in grado di determinarlo. Insomma la grande Germania, come
qualsiasi altra grande nazione, è forte ma non abbastanza.
L'intransigenza tedesca, quindi, (contaminata dal gioco delle parti,
delle cifre e dei bilanci pubblico e massmediatico) contro la Grecia
possiede le stesse attitudini, gli stessi atteggiamenti che,
storicamente, hanno assunto le grandi confederazioni sindacali verso le
federazioni minori: sacrifica i tuoi iscritti affinché io non sia
costretto a sacrificare i miei. È sicuramente meglio che siano i
proletari greci a sperimentare le terapie 'oggettive' del mercato
internazionale che non quelli dell'intera Europa.
La Grecia e Zipras sono a un tempo, così, un falso e vero problema:
falso in quanto problema contabile e concreto, vero in quanto
problema progettuale e ideologico. La concretezza dell'economia, il suo
buonsenso, è una qualità che non appartiene più all'economia; l'economia
si presenta come concretezza contro Zipras e la sua democrazia
nazionale, sfidando le leggi della concretezza, perché le sue leggi
generali non sono economiche.
Nella confusione rappresentativa e massmediatica esiste solo la prima
concretezza ed è quella che, come al solito, ha egemonizzato il
dibattito e le analisi. Anche quando si scriveva e teorizzava di una
riforma dell'Europa non si è usciti da questo ambito analitico che ha
accomunato tanto la 'sinistra' quanto la 'destra'. Pensiamo alla
ridicola e improvvisata passione verso il sig. Draghi di gran parte
della sinistra 'radicale' (quasi un eroe e un paladino della
democrazia), oppure la retorica di molta destra 'tribunizia' intorno al
popolo greco come ultimo apologeta del concetto di nazione (includendo
in quest'orgoglio il fatto che, alla fine, i Greci, oltre un certo
limite, avrebbero dovuto 'fare da sé' e risolversi nazionalisticamente
la loro crisi, senza pesare sugli altri sacrosanti nazionalismi) e
infine la denuncia della follia dissipatrice della cicala Zipras di
'sinistra e destra realiste'. Tutti, alla fine, marciano separati e
contrapposti condividendo la stessa ideologia, la medesima sensibilità
analitica, evocando lo stesso rotocalco televisivo dove litigare
innocuamente.
Martedì, 14 luglio
Letture. Castel del Piano : la perla dell'Amiata : origini, economia,
casati / Enzo Fazzi. - Arcidosso : Effigi, 2014. - (Genius loci, 56). Un
po' infelice e fuorviante il sottotitolo che rischia di farlo scambiare
per una marchetta turistica, al contrario ci si imbatte in un'opera
abbastanza lontana da ogni intento di erudizione e compiacimento
localistico, con continui riferimenti a informazioni di archivio e una
particolare sezione dedicata all'organizzazione del territorio e alle
strutture di potere nell'altomedioevo. Non indifferenti alcuni interessi
urbanistici dilatati fino alla contemporaneità.
Domenica, 26 luglio
Annotazione. Delle lingue nazionali. Grande parte delle parole che
costituiscono definizioni, che definiscono, cioè, delimitazione di un
fenomeno, evento e processo oggettivo, non si danno nelle lingue
nazionali ma in una lingua internazionale.
La lingua internazionale, l'inglese, premetto, riduce anche l'inglese a
lingua nazionale, perché è un derivato dell'inglese ma non è l'inglese:
non si tratta di un imperialismo linguistico, del predominio di una
lingua nazionale sulle altre, ma della strutturazione di una lingua
transnazionale, una sorta di iperlingua.
Proprio perché iperlinguistiche, le definizioni di questa lingua
conformano la categoria dell'oggettività linguistica che, anche
nell'inglese nazionale, andranno tradotte e interpretate.
L'ambito di questa iperlingua è evidentissimo in informatica, politica
e, soprattutto, economia.
Come la formazione di questo vocabolario iperlinguistico sia isomorfa ai
nuovi orizzonti, istituti e dinamiche del capitalismo transnazionale (ma
mai come trattando questo argomento risulta adeguato il termine
biocapitalismo) è chiarissimo. A una trascendenza economica corrisponde
una trascendenza linguistica e come le economie nazionali hanno fatto
spazio all'economia 'globalizzata', così le lingue nazionali hanno
perduto il potere di definire le cose della 'trascendenza', riducendosi,
in questo campo, a parlate, 'vulgate', cedendo il passo a una
iperlingua.
L'iperlingua non è una lingua internazionale ma un complesso di
vocaboli, di termine e di definizioni internazionale. Tutto questo ha
degli innegabili effetti sulle lingue nazionali non solo e non tanto in
fatto di contaminazione e importazione ma soprattutto nel modo di
percepire l'uso della lingua e nel peso che le parole e le regole
sintattiche stesse delle singoli lingue nazionali perdono.
A fronte dell'iperlingua, oggettiva, razionale e quindi in relazione
diretta con il trascendente, vero centro gravitazionale terminologico,
la lingua nazionale diviene sempre più soggettiva, immanente e
centrifuga e si interrompe un processo di centralizzazione linguistica
che aveva caratterizzato i grandi stati nazionali del XIX e XX secolo.
Paradossalmente, sono proprio i puristi della lingua, coloro che
cristallizzano, a denunciarne soggettività, immanenza e volatilità: a un
pianeta che ha perduto la stella non rimane che l'orbita, qualunque essa
sia. Io preferisco il deragliamento da ogni orbita, a maggior ragione se
essa perde senso, in mancanza di un centro gravitazionale.
L'iperlingua ha dei precedenti storici. Molti di questi sono legati a
discipline scientifiche, basta pensare al greco nelle scienze mediche e
biologiche, e in genere questa iperlingua agisce in maniera analoga alle
'lingue disciplinari e specialistiche' (vampirizza, cioè, le risorse di
una particolare lingua parlata proiettandole in un contesto
concettualizzato, indifferente all'immanenza originale, anche se
affascinata da quella e per certi versi ispirata), ma il processo
attuale non ha precedenti per l'ampiezza del suo ambito; non il latino,
non il greco e neppure il francese e lo stesso inglese in epoca più
recente, hanno saputo fornire elementi iperlinguistici in un campo d'uso
così allargato.
Al contrario di quello che accade difficilmente per le lingue
disciplinari e specialistiche, inoltre, l'iperlingua viene coniugata
dentro le parlate nazionali, producendo neologismi che sono, quasi
sempre, interdisciplinari (pensiamo solo e banalmente al termine start
up, mutuato dall'informatica e passato all'economia e alla
politica, o ai nuovi significati assunti dalla traduzione
'aggiornamento' di upgrade / update, o ancora a default
etc. etc.). Anzi l'elemento dell'interdisciplinarietà, della
polivalenza, della multilocazione è caratteristico dei termini di questo
nuovo vocabolario.
Lunedì, 27 luglio
Annotazione. Questa nuova lingua non si spiega e ricorre alle singole
parlate nazionali per spiegarsi. Scrivere che questa nuova realtà
lessicale è la lingua tecnica (contabile, informativa e comunicativa)
del dominio, mi pare forte, anche se istituisce e si fonda al contempo
su un modo di concepire la relazione tra significante e significato che
è autoritario. Si badi bene autoritario di sicuro e, contemporaneamente,
umano e biologico, di una biologia che si sussume al dominio in uno
degli elementi distintivi della nostra specie, la comunicazione
linguistica.
L'iperlingua presenta i suoi significati come decisivi e risolutivi,
rispetto a quelli, anche corrispondenti, delle lingue nazionali; quando,
in alcuni casi, per provincialismo o altro, vengono mantenuti i
significanti in lingua, si verifica una sfasatura semantica tra la
parola nel momento in cui è usata in maniera iperlinguistica e quando
non lo è. Per riprendere la 'traduzione' di aggiornamento, il termine ha
realmente cambiato natura sotto molteplici punti di vista; era un
termine strettamente istituzionale (usato nell'ufficialità militare,
burocratica e amministrativa e con scarsissima frequenza nel linguaggio
parlato), associato con il significato di 'rivedere', di 'fissare una
nuova seduta', tutti significati non operativi e progettuali.
Aggiornamento in iperlingua ha invece un significato esecutivo: è
l'esecuzione di un passaggio di stati, politici, culturali ed economici
e indica un processo reale che comporta il completamente non solo di
alcuni dati ma dello scenario e del contesto creativo dei dati.
Aggiornamento nell'interpretazione iperlinguistica presuppone il
concetto di compatibilità dei dati con lo scenario che costituiscono, un
nuovo modo di produrre i dati, e poi di descriverli e nominarli.
Aggiornamento descrive la realizzazione di un nuovo stato operativo.
Martedì, 28 luglio
Annotazione. Le lingue nazionali erano gelosissime di sé stesse quando
descrivevano i fenomeni istituzionali e i processi economici, perché la
descrizione è appropriazione, rivendicazione di proprietà e
manipolazione. I fenomeni nazionali dovevano essere appropriati e
manipolati da una lingua nazionale. Chiamare una cosa è, in genere,
trasformarla in concetto, trasformarla da evento esterno a fatto
interiore. Questa possessività sta venendo meno e i vocaboli nazionali
perdono legittimità: sono i termini internazionali o di origine
internazionale a definire i fenomeni. L'interiorità collettiva ha
spostato il suo piano.
Mercoledì, 29 luglio
Annotazione. O meglio, l'interiorità collettiva e politica, la
rappresentazione del collettivo e del politico (che nel trascendente
vengono pensati come coincidenti) si è spostata su un livello
iperlinguistico. Questo ha degli indubbi effetti sulla lingua parlata in
termini di legittimità e, implicitamente, peso e credito.
Il peso, il valore delle parole nazionali, diminuisce in ragione del
fatto che queste sono strumenti per tradurre altre parole e descrivere
concetti che parole, generate altrove, al di fuori del contesto
nazionale, definiscono e delimitano. La definizione sta al di fuori
della lingua e così la potenza linguistica. La condizione del mercato
linguistico (ben descritto dal seppur datato Migliorini) cambia
radicalmente e, probabilmente, quello linguistico non è più un mercato.
Giovedì, 30 luglio
Post per FB. Ricordo ai miei amici l'anniversario della strage di
Bologna che fece 85 morti, non so quanti feriti e danni emotivi,
psicologici e politici incalcolabili. Bologna si inserisce in quella
collana di episodi (partendo da Piazza Fontana, passando per l'Italicus
e Piazza della Loggia, per finire alla strage di Natale del 1984) che
rendono la storia di questa repubblica (prima o seconda) anomala, perché
in parte sottoposta a forze occulte, segrete e sotterranee e quindi non
è neppure precisamente quantificabile il volume di questa parte. Alla
fine non è precisamente valutabile la struttura stessa della repubblica
italiana. Furono episodi violenti, con qualche esecutore materiale e
nessun mandante, episodi ancor oggi 'galleggianti' sotto il profilo
storico e dunque politico, episodi che evidenziano un grave limite nello
sviluppo della democrazia parlamentare in questo paese.
Venerdì, 31 luglio
Post per FB. Questa scia di omicidi di massa irrisolti introduce il
sospetto che ancora oggi la democrazia parlamentare italiana sia
condizionata e condizionabile, un complesso istituzionale sottoposto,
oltre che alle pressioni fisiologiche delle grandi lobby e delle
concentrazioni di affari e di interessi pubblicamente dichiarate, a
gruppi di potere occulti che per tre decenni hanno espresso
concretamente i loro veti, hanno fatto sentire la loro forza
politica e hanno perseguito un progetto e strategia politici. Che
la vita della seconda repubblica non sia stata più segnata da stragi e
omicidi di massa non significa affatto che quei poteri non esistano più,
probabilmente hanno cambiato forma e strategia e probabilmente qui si
costituisce una delle differenze tra la cosiddetta prima e la cosiddetta
seconda repubblica. Fino a che, però, non si farà piena luce sulle
stragi degli sessanta, settanta e ottanta, un filo di continuità rimarrà
tra le nostre beneamate repubbliche, un filo invisibile ma
indimenticabile.
rivedi
luglio
Inizio
anno
Giovedì, 13 agosto
Ceti medi senza futuro? : scritti, appunti sul lavoro e altro / Sergio
Bologna. Roma : Deriveapprodi, 2007. - (Deriveapprodi, 68).
Letture. Mi preme registrare questo passo: “È un non sense parlare del
lavoro come di un'attività immateriale, non esiste forse attività umana
dove la fisicità, l'impegno, lo sforzo, il senso di disciplina,
l'adattamento all'ambiente, la flessibilità, sono sottoposti a maggiori
sollecitazioni che durante l'esercizio di una mansione lavorativa” (p.
91). Mi preme per la concretezza, che contraddistingue il pensiero di
Sergio Bologna da sempre, e che gli impone di tenersi lontano da certe
infatuazioni intorno alle nuove dimensioni del lavoro salariato e non.
Anche se, va sottolineato a difesadi Lazzarato che viene preso di mira
dalla critica di Bologna (Lazzarato, Lavoro immateriale, del 1997),
paradossalmente Bologna usa tutti gli aggettivi ed espressioni che
rimandano all'immateriale, quando descrive la fisicità persistente nel
lavoro (senso, adattamento, flessibilità) e che chiamano in causa
atteggiamenti sentimentali piuttosto che impegno corporeo e corporeità. La
decorporeità del lavoro non è, però, tipica del post fordismo ma è
implicita allo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo: è stato
una tendenza subitanea e naturale, fin da subito il lavoro vivo e stato
tendenzialmente sostituito da quello morto, ma anche MA soprattutto nel
lavoro manuale, nel lavoro operaio; Lazzarato, quindi, insieme con molti
altri enfatizza un processo antichissimo e non nuovo, addebitandolo tutto
al post fordismo.
“Le merci possono essere immateriali – non il lavoro” (p. 92) scrive
Bologna e ha ragione nella misura in cui,però, la materialità del lavoro
viene associata alla sua decorporizzazione e si istituisca il concetto di
una nuova materialità e fisicità del lavoro, per certi versi incorporee
(senza naturalmente dimenticare settori operai nei quali l'uso del corpo
conta ancora molto, non fosse altro per la necessità dello spostamento
geografico per eseguire la mansione). Proprio questa incorporeità
consente, in buona parte, di realizzare il processo che Bologna denuncia
(e che i teorici, anche anticapitalisti, della immaterialità ignorano),
vale a dire il “prolungamento degli orari di lavoro di fatto” (p. 92).
questo prolungamento più che dalla tipologia della merce (prodotto
immateriale) dipende, e qui vado contro l'autore, dalla decorporizzazione
del lavoro, dalla possibilità di produrre beni in ogni luogo. Questo ha
generato non solo la possibilità di estendere l'orario di lavoro,
l'attività lavorativa, ma anche di generare un paradigma che coinvolge
tutto il lavoro, anche quello corporeo: il lavoro è un'attività che tende
a eliminare lo schema orario.
Il testo di Bologna non è un testo, è una miniera: poco più oltre l'autore
svolge una critica alla nostalgia del posto fisso, alla nostalgia del
fordismo, universo ormai irripetibile, affermando la progressività,
fecondità sociale e politica, del lavoro 'precario', che può essere
trasformato in un nuovo modo di affrontare il ciclo produttivo, il mercato
del lavoro e il lavoro stesso. Oggettivamente per un comunista l'obiettivo
dovrebbe essere il lavoro come attività libera, svolta al di fuori si
schemi orari, in continua trasformazione e trasferimento; per il mio modo
di immaginarlo, nel comunismo si cambierà spesso lavoro, anzi non avrà
proprio senso usare il termine 'cambiare lavoro'. Il posto fisso ricorda
una garanzia socialista, il risultato di un'oltrepassata da decenni
dittatura del proletariato, di stato proletario, che oggi sono inattuali e
inadeguati, e forse, in un paradosso della storia, può essere teorizzato,
con ogni accessorio rivisitato rispetto alla tradizione socialista di un
secolo fa, dalla 'moderna' estrema destra nazionalista.
Il nostro problema, credo, non è quello di rivendicare il posto fisso, ma
di richiedere e imporre la possibilità di vivere nel lavoro 'precario',
nell'attività, di seguire e supportare autonomamente lo sviluppo
sociale, retribuiti e garantiti. La prospettiva sindacale del posto fisso
e di ottenere garanzie attraverso il posto fisso o il contratto a
tempo indeterminato è di destra, l'ideologia delle garanzie sul lavoro in
genere su ogni tipologia contrattuale è (solo) un primopasso per rifonadre
un pensiero di sinistra non solo sul lavoro ma sulla società.
Sono abbastanza convinto del fatto che se si sviluppasse una
ricomposizione delle 'singolarità' della 'moltitudine' (per usare Negri)
su una strategia del genere, i conservatori e il capitalismo
denuncerebbero, con piagnistei, il danno sociale provocato nel passato, se
ne pentirebbero pubblicamente e si farebbero alfieri del recupero della
tradizione, della salute e della stabilità del posto fisso, oltre che,
ovviamente, cercare di lavorare sul mondo 'flessiile', per scomporre il
fronte. Forse sta succedendo da qualche parte, non sono molto informato.
Sabato, 22 agosto
Ai margini. Letture Ceti medi quale futuro?. Bologna è autore che stimo e
per il quale nutro simpatia, anche umana. Certe cose della sua vita
assomigliano alle mie, altre no. Il testo procura un sentimento: angoscia;
viene descritta, inconsapevolmente e sopra e sotto le righe, la storia di
un isolamento dei soggetti produttivi, che è quasi più forte di qualsiasi
altra considerazione, notevole, che l'opera impone.
Forzando e allargando (Bologna mi perdoni) il paradigma classico
dell'imprecisa delimitazione della categoria 'ceto medio', mi sentirei di
scrivere che, secondo un'ipotesi sociologica che mi è passata per la
mente, il ceto medio è stato obliterato nei suoi stili di vita e nelle
forme di attaccamento e relazione con il lavoro in epoca post – fordista,
mantenendo come elemento distintivo alcune aspettative di vita,
necessariamente soggette alla variabilità del mercato e dell'andamento
economico, quindi non uno 'zoccolo duro', il fondamento di una categoria
sociologica. Il ceto medio è quindi morto, ma la sua forma obliterata è
diventata modello egemone socialmente, anche per i lavoratori dipendenti a
diverso titolo e a diversa modalità contrattuale.
Il post – fordismo ha rimescolato con radicalità molte carte, inventandosi
un nuovo gioco. Ha mescolato elementi e comportamenti sociali organizzati,
altri in buona parte spontanei, segni di una nuova soggettività come il
rifiuto organizzato del lavoro operaio degli anni sessanta e settanta, il
diffuso rifiuto giovanile del posto fisso persistente dai settanta
fino alla prima metà dei novanta e il venire fuori di nuovi atteggiamenti,
comportamenti, stili di vita ed etiche. Li ha uniti, inoltre, con elementi
oggettivi, che hanno in parte aiutato la crescita di queste nuove
soggettività, in parte le hanno indotte e in parte sono state una risposta
a quelle, tra questi il modo di produzione toyotista, l'inapplicabilità di
un contesto produttivo generale rigido (e organizzato secondo modelli
rigidi) e la nuova mobilità ed elasticità del mercato del lavoro e delle
merci.
Il post – fordismo, poi, si è trasformato in un'epoca quando non solo ha
imparato a mettere insieme tutti questi nuovi elementi ma ha saputo dare a
quelli stabilità, un senso, uno spessore culturale, intelligenza e
riflessione su sé stessi, in una parola li ha messi in prospettiva. Questa
nuova cultura e consapevolezza dello sviluppo sociale e produttivo ha
affidato nuovi compiti alla sfera pubblica (spesso limitandone le
competenze), allo stato, ai servizi e all'apparato scolastico ed
educativo. Qui è nata una nuova epoca, quella del biocapitalismo e della
post – modernità e insieme con quella il ceto medio diffuso che ho in
mente. Questo ceto medio è la nuova faccia del proletariato, del lavoro
non salariato che diventa tale anche quando è regolato da contratti che
prevedono il salario, ma nel quale il salario è sempre più chiaramente
slegato dall'orario e dalla produttività oraria.
Mercoledì, 26 agosto
Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Dovendo interpretare
storicamente questo fenomeno si potrebbe così riassumere: è questa l'epoca
nella quale il lavoro salariato rimane una forma e un punto di riferimento
nelle relazioni tra capitale e lavoro, ma non è più la sostanza di questo
rapporto. Il lavoro salariato è diventato un istituto contrattuale slegato
dalla sua funzione originaria, che era quella di misurare il valore reale
del lavoro per individuare il pluslavoro e il relativo plusvalore; è
diventato, invece, una forma tra le altre di elargizione del reddito. Il
concetto stesso di lavoro necessario ha perduto senso, se riferito al
lavoro vivo, perché quasi tutto il lavoro necessario nella produzione dei
beni viene eseguito dalle macchine. Il lavoro vivo, sia quello svolto
nella produzione sia, ancora di più, quello svolto nella riproduzione del
capitale è un'attività di controllo, supervisione e coordinamento dei
flussi lavorativi.
Anche là dove il lavoro vivo si mantiene indispensabile (nell'edilizia,
nei trasporti, nel commercio e nei servizi), poiché determina in maniera
decisiva l'esecuzione dell'attività e la costruzione del prodotto, e anche
nelle qualifiche più basse, il lavoro conserva una forma oraria, un
riferimento orario, ma la fonte del suo valore non è il tempo di
esecuzione ma la prestazione singola, la sommatoria di risultati e
obiettivi raggiunti.
Giovedì, 27 agosto
Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Lo schema del
processo lavorativo, spostandosi dalla produzione dei beni (materiali o
immateriali poco importa) eseguita in una cooperazione parcellizzata
(esemplari di questa la linea di montaggio taylorista in metalmeccanica o
la serie manovale – operaio comune - specializzato in edilizia) a
una produzione di beni attraverso una cooperazione allargata, è
profondamente cambiato. Il concetto marxista e classico di lavoro
necessario non è venuto meno solo a causa dell'automazione, ma soprattutto
a causa della trasformazione della collaborazione richiesta ai lavoratori
da singolare a plurale. In qualsiasi campo produttivo non è possibile
distinguere quello che è stato realizzato nel processo da un singolo
operatore da quello al quale ha contribuito un altro. Il lavoro necessario
oltre che essere diminuito è diventato comune e collettivo. I processi di
automazione dei beni materiali e immateriali hanno provocato in larga
parte questa collettivizzazione estrema del lavoro che è diventata il
nuovo paradigma e ha formato la nuova immagine del lavoro.
Non importa, comunque, stabilire le cause ma individuare e precisare gli
effetti: sono cambiati i poli, i criteri gravitazionali e i palinsesti
organizzativi del lavoro. Là dove la linea di montaggio e la corrispettiva
produzione in serie costituivano un'esperienza valida e adeguata a
considerare ogni genere di lavoro e a valutarlo, ora il flusso
pluridirezionale è intersecato con altri flussi, le serie produttive sono
contraddistinte dalla congiunzione con altre serie, spesso anche da
contaminazioni, dalla perdita della loro natura originaria, da
sconfinamenti e quindi l'insieme di prestazioni spesso diverse comporta il
risultato produttivo.
Sembra paradossale, scrivendo di un mondo del lavoro misurato sul
nanosecondo e che può realmente misurare la produzione sulla base di un
nanosecondo, il fatto che, mentre la produzione meccanica poneva al centro
del processo la velocità di esecuzione del processo stesso, come
opportunità di riduzione del lavoro necessario, oggi non è la velocità a
essere importante ma la flessibilità, l'elasticità, la snellezza, la
complessità e la diramazione del processo lavorativo. È importante il
complesso armonico non l'avanzamento direzionale.
Conseguentemente non sono più valori fondamentali la quantità dei beni
prodotti e la linearità e semplicità del processo produttivo, ma la
capacità del processo produttivo di comprendere sé stesso, di coinvolgere
soggetti diversi professionalmente tra loro, di costituire delle
collaborazioni e delle armonie 'spontanee'. La fonte del profitto si
identifica sempre più spesso nel risparmio delle risorse e non nella loro
moltiplicazione: la fluidità prevale sulla velocità, la diramazione dei
processi prevale sulla loro portata.
Qualche anno fa, nella sua 'Grammatica della moltitudine', Paolo Virno si
imbatteva nuovamente e con altri occhi nel concetto marxista di lavoro
improduttivo e in tutto l'imbarazzo che aveva provocato nel sistema
marxiano, soprattutto a proposito del calcolo del suo valore e della sua
misura economica. Il marxismo si imbarazzava giustamente in un mondo dove
il paradigma del lavoro di fabbrica dominava il mondo del lavoro. Oggi è
altrettanto imbarazzante constatare che le qualità espresse durante
l'esecuzione del lavoro improduttivo (artista, progettista, impiegato,
cameriere, cassiere, commesso, barista etc. etc.) sono diventate le virtù
centrali del lavoro, anche di quello produttivo secondo l'accezione
tradizionale, anche del lavoro di fabbrica.
Venerdì, 28 agosto
Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Sotto un profilo
storico ancora più generale, sotto un'analisi epocale, l'attuale
costituzione del lavoro, il complesso di elementi che egemonizzano la sua
costituzione (misura del suo rendimento economico, forme organizzative,
relazione del lavoratore con la produzione, relazione del lavoratore con
il mercato delle merci e con quello del lavoro e giornata lavorativa
sociale) hanno abbandonando o stanno largamente abbandonando gli archetipi
propri del capitalismo industriale. Il modo di produrre, il modo di
lavorare e di intendere il lavoro sorti nel tardo medioevo, quelli in base
ai quali il tempo, la sua scomposizione, frazionamento e misurazione
costituivano l'intelaiatura della giornata lavorativa, sono declinati.
Nasceva, mezzo millennio fa, il concetto del tutto nuovo per l'umanità di
'tempo di lavoro', inteso come spazio cronologico esclusivamente,
interamente e rigidamente dedicato al lavoro, un involucro chiuso che
escludeva qualsiasi altra attività umana. Contro questo involucro ci fu
lotta, lunga e spesso violenta: artigiani e operai agricoli rivendicarono
per tutto il XIV e XV secolo il tempo tradizionale, un tempo nel quale la
vita e il lavoro si compenetravano e spesso facevano riferimento al tempo
divino, al tempo teologico in questa loro battaglia e resistenza e spesso
ancora assalivano orologi pubblici e laici.
Oggi questo nuovo concetto, inventato nel XIV secolo, è venuto meno
insieme con la convinzione della sua misurabilità economica e della sua
opportunità produttiva, il capitalismo deve rivedere le sue teorie sul
profitto; è venuto meno, inoltre, insieme con le basi scientifiche delle
sue forme organizzative, il pensiero scientifico è cambiato; è venuto
meno, infine, insieme con la necessità di fissare un limite e
un'estensione alla giornata lavorativa sociale, il sindacalismo non ha
orizzonti se non li cambia radicalmente.
La scienza galileiana (per rimanere nei dati epocali), che ha accompagnato
lo sviluppo del capitalismo e delle sue misurazioni, non è più adeguata a
organizzare intellettualmente questa nuova costituzione sociale è, in una
parola, sorpassata.
Sotto molti aspetti, come in epoca classica, non esiste un'unità di misura
che stringa l'orario con il lavoro, il tempo con la produzione
dell'essere; quasi duemila anni fa, l'editto sui prezzi di Diocleziano
descriveva il lavoro, sotto il profilo della sua retribuzione, come
diurni, giornata lavorativa, o come caput, prestazione a corpo. Come in
epoca classica, inoltre, tolta di mezzo la forza tradizionale del
riferimento orario non esiste un modello egemone in materia, ma diversi
rapporti di produzione concorrono ad edificare una sinergia generale. La
parabola del lavoro salariato corre il rischio di ripercorrere, in senso
inverso, quello della mezzadria medioevale che da relazione di sussistenza
e acquisizione diretta dei prodotti della terra, di spartizione con la
proprietà delle risorse per la sopravvivenza, divenne una relazione
contrattuale orientata al denaro e alla remunerazione della singola
prestazione d'opera. Oggi il lavoro salariato rischia di ridursi da
strumento di relativa autonomia economica a forma di elargizione di un
reddito compatibile con la sopravvivenza.
Domenica, 30 agosto
Annotazione. Questo non significa affermare la fine del lavoro salariato,
precisamente come constatare la fine della misurabilità del lavoro
necessario non equivale a dire che il lavoro, grazie all'automazione, non
serve più. Sono, però, venuti meno alcuni parametri fondanti il classico e
tradizionale rapporto di lavoro salariato che ha, così, un altro
fondamento sociale.
Tornando all'esempio della mezzadria o di altro istituti contrattuali
simili della società feudale, la loro trasformazione da emolumenti
misurati in natura a emolumenti elargiti in danaro e il loro cambiamento
da strumenti per una divisione delle risorse prodotte a una retribuzione
complessiva per il lavoro di una stagione non hanno significato la
scomparsa dell'istituto (il lavoro di mezzadria è stato abolito in Italia
solo nel 1961). Il rapporto di mezzadria, pur cambiato nella forma,
conteneva una verità sostanziale su quella relazione sociale; il rapporto
di lavoro salariato, pur cambiato nella sostanza, contiene una struttura
formale che esprime una relazione sociale: il tempo di lavoro rimane la
fonte della produzione e il capitalismo continua a pagare 'formalmente' il
tempo.
Molto tempo fa, circa tre decenni fa, nel pieno della restaurazione post –
fordista e post – moderna (il termine restaurazione è narrativo ma
inadeguato), immaginai che il nuovo orizzonte sociale del capitalismo
sarebbe stato dominato dal non – lavoro. Da una parte l'automazione,
minimizzando il lavoro umano necessario al profitto, avrebbe consentito la
riduzione drastica degli occupati nella produzione dei beni materiali,
liberando, al contempo, risorse enormi da investire nella riproduzione del
capitale. Nella mia ipotesi, questo si sarebbe tradotto in una giornata
lavorativa allungata nel settore della produzione primaria e secondaria e
nella drastica diminuzione della giornata lavorativa nel settore della
produzione di beni immateriali e dei servizi; questa diminuzione sarebbe
stata tradotta dal dominio in non – lavoro che immaginavo supportato da
forme alternative di erogazione del reddito, certamente di bassa
consistenza ma compatibili con il processo di riproduzione del sistema e
con il sostegno della domanda e dei consumi.
Era una visione fordista che cercava di decifrare il post – fordismo e
dunque, certamente, inadeguata, ma il valore del processo, il processo
messo a nudo, era quello; non pensavo che il capitalismo avrebbe saputo
oltrepassare la valorizzazione oraria tradizionale, eppure è riuscito a
farlo.
rivedi
agosto
Inizio anno
Sabato, 19 settembre
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / Karl Marx ; introduzione
di Friederich Engels ; a cura di Giorgio Giorgetti. - Roma : Editori
Riuniti, 1973. 4. ed (Le idee, 24). Letture.
Potrei scandalizzare qualcuno con queste righe ma sarà uno scandalo utile.
Riprendere in mano un'opera come questa, che a suo tempo avevo percepito
come straordinariamente lucida, innervata di realismo rivoluzionario, anzi
di realismo rivoluzionario messo a stampa, e illuminata da uno sguardo a
un tempo disincantato (realismo) e critico (rivoluzionario) sulla storia,
mi ha procurato una strana sensazione, quasi, a tratti di sconforto. Tutto
quello che mi appariva innovativo, irriverente e trasgressivo, ora mi si
presenta davanti come cinico e reazionario, al punto che questi quattro
articoli scritti nel 1850 in Londra non sono più un contributo
rivoluzionario ma controrivoluzionario, se interpretati in funzione di un
approccio analitico alla contemporaneità. Non dipende dall'autore e il
controrivoluzionario non è Marx, ovviamente, ma controrivoluzionaria, e
davvero in senso estremo e assoluto, è l'epoca in cui viviamo non per
essere uscita completamente dagli schemi immaginati da Marx, ma per averli
oltrepassati senza avere avuto il coraggio e la necessità di rinnegarli,
per essere un'epoca cinica nella sua essenza.
Secondo Marx storico, seconda la filosofia della storia marxiana, lo
sviluppo della borghesia avrebbe comportato l'evoluzione del proletariato,
fino al punto da farne una classe capace di eliminare tutte le classi, per
prima sé stessa. Al contrario lo sviluppo della borghesia ha determinato
la fine della borghesia come classe, e in un autentico nonsense
della storia (sotto il profilo marxista), il mantenimento del proletariato
come classe 'formale'. Al contrario che nella teleologia marxiana, la fine
della borghesia non ha comportato la fine del capitalismo e un
proletariato senza borghesia, cioè la verità di oggi, sarebbe una vera
assurdità per il marxismo classico.
La concezione e l'idea di borghesia, che Marx aveva nel 1850, non hanno
nulla in comune con quella che si deve usare per descrivere i gruppi
dirigenti economici attuali, mentre lo sviluppo capitalistico non fa più
riferimento alla dialettica tra capitale e lavoro immaginata e descritta
da Marx; con ciò non intendo che non esiste più il capitalismo o che il
capitalismo si è dissolto nel popolo (anche se è accaduto qualcosa di
molto simile, almeno per l'ideologia contemporanea) ma che si è realizzata
un fase storica in cui il capitalismo sopravvive senza la sua dialettica
costituiva.
Rimane la freschezza, la 'macchina del tempo' storiografica contenuta in
questi quattro articoli, insieme con l'incrollabile convinzione
dell'autore di aver individuato il motore dello sviluppo, la verità nella
storia e la necessità di questa verità. Adottata oggi, quest'impostazione
è, subdolamente (più di quanto si pensi), reazionaria, nel 1850 era
certamente altra cosa.
Martedì, 22 settembre
Annotazione. Ceti medi: quale futuro? / Sergio Bologna. Bologna si
dice convinto del fatto che l'operaismo fu un fenomeno di pensiero post
comunista. In genere, questa fenomenologia andrebbe estesa dall'operaismo
al movimento degli anni settanta nel suo complesso, ponendo il suo culmine
nell'anno 1977 e Bologna lo fa coerentemente, pur dedicando pochissime
righe all'argomento. Anche io che militavo in uno dei molti gruppi di
quegli anni, nonostante i continui riferimenti alla tradizione comunista,
non potevo rimanere insensibile al fatto che stavamo partecipando a
qualcosa di nuovo rispetto a quella tradizione, e che i continui
riferimenti verso di quella erano spesso, anzi più che spesso, critici.
Il movimento del 1977, poi, non fece che ufficializzare questa critica,
rendendola manifesta e radicale. Il movimento del '77 non fu un movimento
comunista nella misura in cui la politica comunista si riduceva alla
costruzione del partito e del sindacato e alla loro teoria.
Se, fino a quell'anno, era possibile parlare di partito e sindacato, anche
se ormai nei termini di un nuovo partito non leninista e liberato dal
leninismo e dalla militanza di professione, ed era possibile teorizzare un
nuovo organismo di massa, neanche più definito come sindacato (vocabolo
che era già uscito dal lessico costruttivo), non più progettato come
cinghia di trasmissione di massa della linea del partito, in quell'anno
certi discorsi e certe teorie, anche le più critiche e innovative, anche
quelle che facevano riferimento al pensiero operaista, diventarono tanto
improvvisamente quanto palesemente inadeguati. Riutilizzando, in maniera
necessariamente impropria, la terminologia della tradizione comunista,
quei discorsi e quelle teorie divennero, nel '77, 'controrivoluzionarie'.
Il rompicapo proposto in quell'anno fu che l'esperienza comunista
tradizionale venne rifiutata, trattata come si tratta, durante le
rivoluzioni, un fronte controrivoluzionario, ma non si progettò una
rivoluzione alternativa e i vocaboli stessi 'rivoluzionario e
controrivoluzionario' persero qualsiasi significato. Cambiò radicalmente
la prospettiva, quella che potrebbe essere detta la prospettiva
proletaria: dalla critica al presente, tipica del processo comunista
tradizionale e 'rinnovato', si passò alla critica al futuro: il presente
andava ricostruito e trasformato, non il futuro. In questo scenario, i
problemi di tattica e strategia politica, croce e delizia della storia del
movimento comunista, semplicemente scomparivano.
Mercoledì, 23 settembre
Annotazione. Il '77 è stato un anno mitico. Anch'io ne ho costruito la
mitologia lungo la mia vita.
Si cantava in una canzone, dei primi anni ottanta e della disperazione
rispetto al restauro politico imperante: “Chiedi a 77 come si fa”. La
bellezza di quella domanda è che sapeva di non poter avere risposta e
dunque diveniva un verso struggente, per chi lo comprendeva.
Il 77 non aveva risposte, ricette e soluzioni; eppure su quell'anno si è
cercato di istituire un patrimonio da ereditare, quando, invece, il
movimento non aveva né proprietà né possessi e neppure, come disse
Berlinguer del '17 russo “una spinta propulsiva”.
Giovedì, 24 settembre
Annotazione. Molte bugie, enormi, sul '77 da parte di Cossiga, della
stampa di allora e di oggi e della storiografia. Come annota giustamente
Sergio Bologna insieme con molti altri, non è ancora possibile trovare una
trattazione storica semplicemente decente su quell'anno e più in generale
su quel decennio. Per la storiografia ufficiale sono gli anni di piombo,
gli anni del terrorismo (neppure della lotta di classe che deviò nella
follia armata, secondo qualche altra riduttiva e menzognera
interpretazione), gli anni del rapimento Moro, di piazza Nicosia e
null'altro o quasi. La solarità di quegli anni è stata cancellata dalla
grigia immagine degli 'anni di piombo'. Questo è stato un sistema di
bugie, un sistema esegetico, l'ideologia sul 1977 e gli anni settanta.
Non sono però mancate altre bugie che non hanno avuto al forza e la
possibilità di costituirsi in sistema; le bugie di una parte degli
sconfitti degli anni settanta, le bugie di una parte dei protagonisti di
quel movimento e sconfitti e protagonisti, in questo particolare caso,
spesso coincidono ma non sempre e dunque non necessariamente. Non c'è
stata perfetta identificazione tra i protagonisti del movimento intorno al
suo senso e significato storico.
Gli unici a dire qualche verità su quegli anni e soprattutto su quell'anno
sono stati coloro che hanno smesso fin da subito di parlarne, quelli che,
usando una terminologia desueta, potrebbero essere definiti la 'base' di
massa del fenomeno e che per la neonata La Repubblica e buona parte della
pubblicistica di allora erano etichettati come 'area' del movimento o come
'il movimento', in modo generico e astratto. Questo numeroso gruppo di
protagonisti si sono certamente sentiti, almeno in certi momenti e secondo
alcune argomentazioni, 'sconfitti', ma generalmente hanno rifiutato le
categorie di sconfitta e di vittoria, esattamente come 'il movimento' non
sapeva che farsene di tattica e strategia. Questo settore, assolutamente
maggioritario, si è limitato a dire (a dire, si badi bene, non a
constatare con rassegnazione) “è successo” e “abbiamo fatto”, ma “ora non
può succedere” e “ora non lo possiamo fare di nuovo”. In moltissimi di
costoro è calato il silenzio.
Una parte più contenuta numericamente, assolutamente minoritaria in
relazione alle potenzialità quantitative del movimento di quegli anni,
invece, prescindendo, completamente o in parte, da questo evidente
frammento di verità, hanno cercato di spiegare 'il movimento' e anche loro
stessi nel movimento, usando i metri della rinnovata tradizione comunista,
metri elaborati durante l'espressione stessa dei movimenti che a vederli
oggi odorano di aggiustamenti (mentre sinceramente allora puzzavano),
evidenze adatte a rincorrere in qualche maniera quell'insorgenza.
Costoro, spesso, e ancora usando una terminologia desueta e per il loro
caso assolutamente inadeguata, possono essere definiti e, spesso, sono
stati definiti seriamente dalla stampa come 'avanguardie' di quel
movimento che, in verità, non conosceva né avanguardia né retroguardia e
neppure le parole corrispondenti a quei concetti.
Sono autocritico: facevo naturalmente parte di questi.
Venerdì, 25 settembre
Annotazione. Il termine 'agitatore' e 'organizzatore', recuperato dalla
migliore tradizione sindacale, andrebbe recuperato per sostituire quello
di 'avanguardia'. Nei fatti, nel concreto agire, fu sostituito il termine
'avanguardia', anche se non ci fu niente di formale e di stabilito
ufficialmente.
Quel movimento non ebbe né avanguardia né retroguardia ma solo
un'incredibile schiera di 'agitatori e organizzatori'.
Torniamo, però, alle verità parziali, a una specie di assenza di verità
(un movimento senza verità) che lo contraddistinse e alla piccole bugie
con le quali si è cercato di interpretarlo nella sinistra che valga la
pena di essere considerata tale.
Personalmente scelsi una di quelle e le sono rimasto fedele per
lunghissimi anni, anche se, confrontata con la mia percezione immediata
che proveniva dalla diretta partecipazione al movimento, la trovai subito
riduttiva; ma era comoda e tranquillizzante. È una piccola bugia,
intelligente credo, che ho anche ritrovato in Paolo Virno, in suo
contributo ad Arte e Moltitudine di Negri (credo nuovamente).
La bugia era una tesi e la tesi era semplice.
In quegli anni e segnatamente tra '73 e '77, si manifestò, in embrione,
una nuova composizione di classe, il cosiddetto 'operaio sociale', che
sarebbe stata egemonica nella nuova costituzione di capitale. Fu proprio
l'immaturità, la gioventù di questo soggetto a determinare la sua
esplosiva manifestazione sociale e politica: quella nuova composizione era
appena prefigurata, abbozzata, e intravedeva appena i nuovi scenari del
lavoro e dello sfruttamento sulla scorta, però, dell'esperienza e
percezione della composizione di classe precedente, l'operaio – massa. La
combinazione tra la percezione e la soggettività dell'operaio di fabbrica
dequalificato e l'esperienza di questo nuovo soggetto si tradusse in
un'ulteriore e radicale assunzione dei comportamenti politici dell'operaio
– massa da parte del nuovo soggetto. Questo aveva portato a un
cortocircuito tra linguaggi, ideologie e stili di vita in via di
sparizione e sotto attacco per via della ristrutturazione industriale,
quindi costretti sulla difensiva (l'operaio di fabbrica, le sue culture e
le sue forme di lotta) e reti, gruppi emergenti che ereditavano questa
complessità conflittuale solo nella misura in cui e perché potesse essere
tradotta in un'ipotesi e dimensione offensiva. Si prefigurava, quindi, un
nuovo scontro di classe usando, radicalizzandoli, gli strumenti di quello
vecchio.
Con questo si potevano spiegare molte cose e non ultima il relativo
successo propagandistico delle organizzazioni combattenti, che
rappresentavano, in maniera mistificata, l'ipostasi dell'offensiva
dell'operaio – massa. Il problema, per molti, fu quello di trasferire, in
qualche modo, l'antagonismo espresso dall'operaio della fabbrica
all'operaio escluso dalla fabbrica o che rifiutava la fabbrica.
La seconda bugia, meno intelligente, nell'interpretazione di quegli anni,
fu confezionata, infatti, intorno a un problema che per il movimento non
esisteva e che non si era volontariamente e coscientemente posto, il
problema organizzativo. Essendo impossibile individuare avanguardie e
individuarsi come avanguardie, si ritenne che il momento organizzativo
espresso dal movimento dovesse essere eminentemente ed esclusivamente
politico, seppur speso in forme magmatiche e quasi inconsce. Si sarebbe
dovuto verificare, alla fine e detto con cinismo, un secondo pasto sul
corpo del movimento, come si diceva a proposito del cadavere del 68, ma
questo non fu possibile per moltissimi motivi contingenti e congiunturali
e soprattutto perché il 77 non fu un nuovo 68 e gli anni settanta sono
stati diversi, almeno in Italia, dagli anni sessanta e infine perché la
stretta repressiva, incuneandosi in questa chiara debolezza politica,
colpì mortalmente le forme organizzate, che facevano riferimento a questa
analisi.
In effetti nulla di più lontano dagli anni settanta era l'idea di una
nuova lotta sindacale svolta sul terreno economico (cosa che consentiva di
pensare alla costruzione di una direzione esclusivamente politica del
movimento), ma ancora più lontana era l'idea di una sostanziale autonomia
del politico svolta con sensibilità e strategie rivoluzionarie, in una
riproposizione del leninismo. In questa seconda ipotesi, in questa seconda
bugia, quindi, si scambiò l'assenza o l'indifferenza verso rivendicazioni
di carattere strettamente sindacale con la volontà di far emergere una
direzione politica.
La stretta repressiva, per qualche anno, veramente anni troppo lunghi,
venne considerata come la causa principale del fallimento del movimento
degli anni settanta, recuperando una visione quasi bordighista dello
scontro sociale, mentre, al contrario, la restaurazione, in ogni epoca e
in ogni luogo e non solo alla fine degli anni settanta in Italia, è un
fenomeno un tantinello più complesso, non reprime per restaurare, ma
rinnova per restaurare e per reprimere.
Il movimento italiano 73 – 77 in Italia non fu né un cortocircuito tra
composizioni di classe e nemmeno un orfano involontario della direzione
politica comunista che non poté costituirsi, o meglio non solo questo.
Domenica, 27 settembre
Annotazione. Se c'è del vero nell'analisi che ho ritrovato in Paolo
Virno, perché fa i conti con il movimento, ce n'è ben poco nella seconda,
perché non vede il movimento.
Che gli anni centrali di quel decennio abbiano rappresentato la
manifestazione esplosiva di un nuovo soggetto e che questa manifestazione
abbia avuto tutte le caratteristiche comportate dalla sua 'immaturità' è
un'interessante tesi storica e sociologica, ma lì rimane, nella storia e
nella sociologia. Al punto iniziale, l'immaturità, non mi pare sia seguita
la parabola che ci sarebbe dovuta attendere, se l'assunto della tesi era
corretto, almeno in Italia. Insomma per l'Italia questa tesi non è valida,
anche se interessante e utilizzabile, per certi versi: il nuovo soggetto,
sottoposto alle classiche regole di sviluppo dell'antagonismo e
apparentemente rispettandole e confermandole ai suoi esordi nella storia,
non ha più seguito queste regole.
Fenomeni coevi e precedenti (soprattutto nel mondo giovanile) potrebbero
aiutare per comprendere questo deragliamento dalle regole. Il movimento
punk, la swinging London e anche quel multiforme movimento di stili di
vita e di forme politiche etichettato in freack nel mondo americano; tutte
quelle cose che si usava dire, un tempo, controculturali o alternative. Le
due definizioni sono inadeguate: si tratta solo di culture. In queste
culture, infatti, nel loro concreto e quotidiano costituirsi, nelle
relazioni tra gli individui che le fabbricano, non ha prevalso affatto
l'elemento alternativo, l'elemento ideologico, ma l'elemento concreto:
quello che permetteva di affrontare il presente in maniera non solitaria,
comunitaria ma non organizzata. Questi movimenti o fenomeni sociali non
hanno preteso di costituire un'identità (l'anarchico, il comunista, il
ribelle) ma una comunità basata sulla diversità dei suoi componenti.
Cosa può c'entrare quello che era detto l'operaio sociale con questa
comunità basata sulla diversità? Molto.
L'ambiente di lavoro, la relazione con il lavoro e con il mercato perdeva,
per l'operaio sociale, l'omogeneità caratteristica per l'operaio di
fabbrica.
Nel periodo 73 – 77, in Italia, insieme con tutte le forme politiche
tipiche della generazione operaia (ma ormai sarebbe meglio dire
proletaria) precedente, e quindi un'apparente omogeneità di segni e
linguaggi politici, venne fuori, per la prima volta, la disomogeneità dei
movimenti giovanili intesa come valore antagonista.
Tutte le esperienze giovanili di massa, nel pensiero comunista
tradizionale e non, erano state considerate (quando venivano prese in
considerazione) espressione generica del disagio sociale, prodotto
dell'inadeguatezza del sistema e sempre segni, sintomi (alla fine
patologie) dell'ingiustizia sociale e del deserto esistenziale che il
capitalismo provoca. Al pari della malavita, dell'alcolismo, delle
tossicodipendenze e finanche delle 'trasgressioni sessuali', i movimenti
giovanili non potevano essere la risposta al capitalismo ma solo gli
effetti secondari della critica spontanea al capitalismo.
L'operaio sociale, al contrario che in tutte le teorie dello scontro di
classe precedenti, pretese di rimanere nella categoria dell'effetto
secondario, non ambiva a essere la risposta e a ricostituire una
composizione di classe: l'operaio sociale usciva dalla dialettica.
Come tale, in molte sue componenti, (e bisogna inevitabilmente rientrare
in questo argomento perché è la logica stessa del ragionamento che lo
impone) riprese il linguaggio dell'operaio – massa e lo estremizzò per
manipolarlo e riforgiarlo al punto di renderlo capace di rappresentare
quella separazione che, invece, era del tutto estranea alla sua ideologia
e alla sua soggettività. Questa manipolazione estremistica in funzione
della separazione, divenne separazione secondo le vecchie grammatiche del
comunismo che poteva anche (in particolari casi umani) condurre alla lotta
armata e alla pratica costante della violenza e della forza di piazza,
oppure, su tutt'altro versante, giungere a un resuscitato e reimportato
dal mondo anglosassone universo delle 'controculture' e della 'creatività
alternativa'. Questo è accaduto soprattutto tra 76 e 77 in maniera
strisciante e tra 78 e 80 in forma conclamata. Questa era l'unica
omogeneità percorribile e la si poteva percorrere solo come omogeneità
politica e ideologica, riprendendo in mano, stravolgendole, la
soggettività dell'operaio di fabbrica e la tradizione della sinistra
comunista.
Tolte queste componenti, importanti, che non riuscirono mai a essere
maggioranza e a segnare autenticamente lo sviluppo del movimento, nel 77
l'omogeneità e l'identità di classe tradizionali al mondo comunista
furono, in tutta semplicità, ignorate; il 73 – 77 sono l'elogio della
complessità e della differenza.
Contrariamente a ogni previsione e contro ogni forza testimoniale
posteriore, l'operaio sociale italiano ha rispettato l'assunto originario
della sua prima manifestazione storica: si è sciolto nella società,
scomparendo politicamente.
Lunedì, 28 settembre
Annotazione. Di qui in poi non posso che ragionare per sommi capi e
scrivere analogamente. La mia militanza, ormai poco convinta, terminò nel
1985 e il mio interesse verso gli eventi della politica scemò, fino che
arrivai al punto, dopo il '95, di praticare una specie di blocco
informativo, un autentico e radicale rifiuto della politica.
Gli anni ottanta furono un incubo, i novanta un enigma e dopo l'ignoto
insondabile. Sono stato un piede che continua a camminare su un callo: la
memoria mi impediva di camminare diritto ma mi faceva sentire il cammino.
Per me, la fine definitiva della politica ha coinciso con una riforma
istituzionale, che considerai e considero tutt'ora il suggello della
restaurazione avviata alla fine degli anni settanta: l'abbandono del
sistema elettorale proporzionale, sia per quello che è stato, sia per come
è stato ottenuto.
Il sistema proporzionale garantiva la possibilità di una rappresentanza
molto allargata, (spesso caotica ma cosa importa quando è in tema la
democrazia?) l'accesso, magari in maniera falsificata, di soggetti diversi
alla rappresentanza parlamentare; il maggioritario era la negazione della
polivocità, ormai lo ammetto residua, della politica italiana. Se i
cosiddetti 'inciuci', gli accordi elettorali, di potere e di clientela,
con il proporzionale venivano dopo le elezioni ed erano necessariamente
frammentati e deboli, descrivendo abbastanza fedelmente le intenzioni (lo
ribadisco, falsificate) dell'elettorato, e davano vita a un'instabilità
politica veritiera, con il sistema maggioritario gli 'inciuci' erano
definiti prima, nelle segreterie dei partiti e nelle amministrazioni
locali, erano centralizzati, apertamente posti al di sopra del corpo
elettorale, che sceglieva solo dopo la costituzione del cartello e non
entrava nella sua formazione.
In secondo luogo, mi scandalizzò il plebiscito con il quale era stato
ottenuto quel risultato: non ci furono, sostanzialmente, oppositori
all'eliminazione della proporzionale: l'elettorato ratificò una decisione
già presa nelle principali segreterie dei partiti e nelle direzioni delle
organizzazioni imprenditoriali e, probabilmente, in gruppi di potere
economico internazionale. La fine del proporzionale fu coerente, in
maniera cinica e maligna, con sé stessa.
Qua e là, in quei lunghi decenni, sprazzi di luce, come la marcia dei
migranti nel luglio 2001 a Genova, in occasione della contestazione del
G8, oppure un altro referendum, a fine anni ottanta, sul nucleare, dove
l'accordo delle segreterie e delle organizzazioni imprenditoriali venne
ampiamente disatteso; eventi, però, subito rinnegati da una miriade di
episodi uguali e contrari.
Quando mi metto a scrivere di quegli anni, dall'ottanta al 2010, trenta
lunghissimi anni, è come se tirassi fuori i fatti da un ricordo inconscio,
da una sequenza senza logica apparente, che non sia quella onirica.
L'instaurazione della sedicente seconda repubblica (che si è detta così,
da sola) e la coeva e imprescindibile per quella legge elettorale furono
il segno profondo della irrimediabile stabilità raggiunta dalla
restaurazione, stabilità preannunciata dai risultati di un altro
referendum, quello sulla scala mobile del 1984. La restaurazione italiana
ha assunto, così, un consenso di massa e un aspetto bonapartista, con il
buonsenso dell'uomo forte, anticipato secondo gli stilemi della 'prima
repubblica' da Bettino Craxi, con il populismo e la demagogia, propri
della 'seconda repubblica', di Berlusconi e con la recente fioritura
massmediatica di Matteo Renzi.
La spinta propulsiva del '77, spinta mitologica e nei fatti inesistente,
se misurata con i metri della politica moderna, con i concetti di
rappresentanza e organizzazione della rappresentanza, si incrinava anche
nell'immaginario e gli anni settanta si allontanavano sotto ogni punto di
vista.
L'allargamento della democrazia si era trasformata nell'elezione diretta
del capo dell'esecutivo, spacciando la fortissima e arrogante limitazione
della democrazia rappresentativa per un balzo in avanti verso la
democrazia diretta. La lotta sindacale, dopo l'accordo governo – sindacati
sul costo del lavoro (anche questo, come la riforma elettorale, non a caso
quasi coevo alla genesi della 'seconda repubblica') si era ridotta ad
alcuni settori dell'impiego pubblico e ad ancora più ristretti settori del
lavoro privato, conformando ideologicamente e nell'immaginario, una comoda
casta da contrapporre al resto dei lavoratori, precari, indipendenti,
autonomi e via discorrendo. La lotta di classe, se ricercata secondo le
fenomenologie precedenti, era scomparsa.
Insomma era il solito piagnisteo del reduce, vero, ma del tutto inutile,
tanto inutile quanto era inesistente la spinta propulsiva del
millenovecentosettantasette.
Martedì, 29 settembre
Annotazione. L'analisi della situazione italiana di fine anni settanta e
ancora di più degli ottanta, sotto un profilo marxista, avrebbe certamente
richiesto la formazione di un'organizzazione politica, di una sorta di
direzione politica delle forze residue e testimoniali degli anni settanta,
alla fine, per la durezza dei tempi, un'organizzazione di stampo
leninista, anche se non dichiaratamente leninista.
Quelle stesse forze residuali e testimoniali, aggiunte a poche altre
nuove, andavano, però, verso altre direzioni; la principale tra queste fu
l'esperienza dei centri sociali che tutto erano fuori che la proposizione
di una direzione politica.
Nella misura in cui le teorie classiche del marxismo richiedevano, per
certi versi esigevano, una stretta organizzativa a fronte di una
composizione di classe ancora inespressa o che si esprimeva secondo forme
non previste e decifrabili, il marxismo diveniva ogni giorno più
inadeguato.
rivedi
settembre
Inizio anno
Sabato, 3 ottobre
Annotazione. Il mito del '77, in me, è definitivamente tramontato nel
2008, di fronte alla grande recessione. La crisi, esclusivamente
finanziaria, nella fenomenologia, del 2008 e, soprattutto, il suo
prolungamento indefinibile (più che indefinito), ha introdotto una nuova
fase nell'epoca della post modernità e, anche se non ho gli strumenti
necessari per avvalorare questa tesi, la parabola dell'operaio sociale, o
meglio di quel soggetto che per comodità continuo a definire così, è
finita insieme con quella; se mai c'è stata (e non c'è stata) è terminata
la spinta propulsiva del '77 e la sua mitologia.
Si potrà scrivere: “Il '77 è morto, viva il '77”.
Quale percezione dell'operaio sociale in Italia? Sotto i metodi analitici
tradizionali nessuna. L'operaio sociale non si è fatto indagare, non si è
lasciato interpretare e ha fornito pochissime informazioni di sé. Sotto
questo aspetto assomiglia alla costituzione di capitale che lo ha
'affrontato'; il capitalismo post fordista è trasparente, non ha volto,
non in quanto sia volontariamente restio a rendersi visibile e a
manifestarsi, non perché cerchi di occultare i suoi centri e le sue forme
di potere, ma perché non li ha. Non li ha nelle forme tradizionali e
conosciute.
Il capitalismo post fordista, ma io amo moltissimo il termine affermativo
di biocapitalismo, non è un nuovo capitalismo finanziario, anche se, preso
attraverso un'analisi classica, potrebbe sembrarlo; non è il nuovo
capitalismo produttivo, anche se la produttività investe ogni aspetto
della vita sociale. Mi piace scrivere di biocapitalismo anziché di post
moderno, post fordista o anche di società imperiale, proprio perché la
produzione si è sciolta, in tutti suoi aspetti, nella società, diventando,
appunto, una componente biologica dell'essere in società, o meglio essere
in società è produrre, ed è impossibile non produrre e questo avviene con
la stessa ineluttabilità di una legge di natura (biologica). Post moderno,
post fordista e impero colgono solo alcuni aspetti di un assetto più
generale.
Nel biocapitalismo, il capitalismo finanziario si presenta come facciata
del sistema, come modo di essere della naturalità, come estetica della
naturalità economica, e anche se è una presentazione la facciata
finanziaria è veritiera in quanto la concentrazione e centralizzazione
della progettualità produttiva non è più il cuore dello sviluppo ma lo è
la sua diffusione. Il comando d'impresa non si progetta nell'impresa ma in
una realtà collettiva e sociale che la traborda e che la investe;
l'aspetto finanziario registra e organizza concretamente questa nuova
forma di comando capitalistico.
Questo aspetto della costituzione di capitale, come realtà produttiva
diffusa ma concentrata finanziariamente (che ciò avvenga in maniere
multinazionali o no è del tutto indifferente) istituisce un vero dominio
politico senza l'ausilio della politica, un vero dominio di classe
espresso in forme pure, cioè completamente astratte, impersonali, neutre.
È questa la novità della seconda fase del capitalismo post fordista che ha
esplicitato i contenuti della prima.
L'operaio sociale ha dovuto affrontare questo sistema; ha cooperato in
questa economia diffusa e progressivamente deprivata di momenti di
comando visibile e individuabile, per il quale la stessa idea di azienda è
in crisi e pare inadatta a rappresentare una realtà concreta e autentica
sotto il profilo produttivo, per diventare una realtà 'affettiva' e un
luogo operativo dove si opera una 'riterritorializzazione' del lavoro, un
recinto produttivo e relazionale e non una vera e indipendente realtà
economica.
L'operaio sociale, per forza di cose, non ha una relazione stabile con
l'azienda, perché l'azienda non ha più una identità economica e quindi una
relazione stabile con sé medesima; stabile per l'operaio sociale è
divenuta la relazione con la produzione e il mercato, mediata
(dall'azienda) o immediata e il lavoro è entrato direttamente sul mercato,
anche il lavoro formalmente subordinato e dipendente direttamente dalle
aziende.
Si è tornati al prefordismo, si è tornati a situazioni prekeynesiane, ma
con enormi diversità di scenari, tecnologie, stili di vita e retroterra
culturali. L'operaio sociale è stato protagonista e oggetto di questa
schizofrenia della storia e della società.
Martedì, 6 ottobre
Annotazione. Che fine ha fatto l'operaio sociale? Domandarsi di
un'eventuale spinta propulsiva del '77, applicando le categorie storiche
del marxismo rinnovato negli anni sessanta e settanta, è chiedersi
necessariamente di questo, almeno secondo la mia primitiva (sotto ogni
punto di vista) analisi. Se ne è fatto un gran parlare, tra la fine degli
anni settanta e i primi ottanta, in certi ambienti intellettuali, poi, che
io sappia, l'operaio sociale è scomparso dall'analisi.
Il paradigma introdotto da Negri e Hardt, agli inizi di questo secolo, la
'moltitudine', è tutt'altra cosa dall'operaio sociale. Non descrive una
composizione di classe, non individua un soggetto sociale, ma è un
concetto 'geo – sociale', un nuovo modo di intendere l'ambito nazionale e
l'identità nazionale; un'idea epocale, insomma, che riassume la fine dello
stato nazionale e del corrispettivo concetto di popolo.
È chiaro che esiste una relazione tra la teoria dell'operaio sociale e
quella della moltitudine, ma l'ambito d'azione della prima era molto più
circoscritto, limitato e specifico: l'operaio sociale era una determinata
composizione di classe, mentre la moltitudine presuppone, invece, una
relazione con la geografia, la geopolitica e le frontiere; in una parola
moltitudine disegna una nuova umanità della quale l'operaio sociale
potrebbe essere solo un frammento, anche importante, piazzato in una
particolare fase storica. La teoria dell'operaio sociale, così, è rimasta
come un complesso di cavi scoperti, abbandonati, dentro un'asfaltatura che
a tratti li nasconde e nessuno sa esattamente a cosa servono.
A mio pare servono ancora perché da troppo tempo (che io sappia) si è
smesso di scrivere di composizione di classe. Negri e Hardt hanno
affrontato il problema con la necessaria, rispetto all'economia della loro
opera, frammentarietà e indifferenza; gran parte dell'opera di Sergio
Bologna, invece, offre un approccio molto specifico ai temi del lavoro
post fordista che introduce il problema, con concretezza, ma non lo
affronta.
Questi atteggiamenti sono interessanti ed eloquenti e sono già, forse
senza volerlo, un logos intorno all'operaio sociale.
Giovedì, 8 ottobre
Annotazione. Ho, molto frettolosamente, fatto qualche ricerca,
esclusivamente in rete, sull'operaio sociale e mi sono trovato davanti un
fossile informativo. Non dico che tutto sia rimasto fermo all'intervista
di Antonio Negri del 1978, 'Dall'operaio massa all'operaio sociale', ma
davvero poco oltre. Quelli che poi hanno cercato ancora, pochissimi in
verità (a meno che la fretta non abbia influenzato i risultati della mia
ricerca), di occuparsi della questione fanno riferimento a Moltitudine e
Impero, a Paolo Virno della 'Grammatica della moltitudine', a Vercellone
(che mi propongo di leggere) e poche altre opere.
La portata, però, del concetto di operaio sociale è completamente diversa
da quello di Moltitudine e la tendenza a identificarli, anche se ovvia, è
sbagliata nella misura in cui è superficiale. La relazione o meglio
l'affinità tra la teoria dell'operaio sociale e il paradigma della
moltitudine sono profonde, invece, ma proposte nella maniera in cui l'ho
letta e interpretata sono superficiali, sciocche e, per fortuna e ad onore
della linearità, neanche affermate direttamente.
Personalmente sento questa relazione e affinità profonde dal punto di
vista conoscitivo, nel senso che è impossibile intendere e considerare
veramente la moltitudine senza essere passati attraverso l'operaio sociale
e la sua interpretazione. Se la teoria dell'operaio sociale non fosse
valida, e magari si fosse trattato di un piacevole, intelligente ma vano
sproloquio, allora anche la teoria della moltitudine non lo sarebbe. Non
si tratta, comunque, solo di una faccenda conoscitiva, di una correttezza
logica: se lo scenario, che la genesi dell'operaio sociale avrebbe
determinato, ha altre origini, struttura e natura, questo ha innegabili
conseguenze sull'analisi politica e sullo stesso modo di concepire e
interpretare la nostra vita quotidiana.
Probabilmente, infatti, ha seriamente scritto dell'operaio sociale chi ha
descritto la vita quotidiana e le sue metamorfosi in epoca post fordista;
Sergio Bologna è tra questi: quando descrive il nuovo lavoro autonomo in
Italia, il lavoro 'indipendente', sta, probabilmente, scrivendo
dell'operaio sociale italiano e Bologna fa questo in una forma d'inchiesta
che è perfettamente commisurata con le caratteristiche di questo, lo
ribadisco ipotetico, soggetto. L'operaio sociale si fa conoscere dal di
dentro, non dal di fuori e la sua inchiesta è un'inchiesta interna.
Venerdì, 16 ottobre
Annotazione. Sotto l'aspetto della fenomenologia politica, tolta la
evidente e chiassosa irruzione tra '73 e '77, in Italia l'operaio sociale
non è esistito; dopo aver 'compresso' su di sé le forme del precedente
antagonismo operaio e le nuove contraddizioni del lavoro e della vita
fuori dalla fabbrica, l'operaio sociale è scomparso. Ha lanciato schegge e
frammenti e l'esperienza dei centri sociali è certamente da mettersi in
relazione con questi elementi politicamente residuali, ma non ha lasciato
una traccia continuativa, un'abitudine politica e una prassi.
Molto spesso l'ideologia residua dell'operaio sociale ha fatto
riferimento, per tutti gli anni ottanta, a una versione 'decompressa'
dell'operaismo tradizionale e non a un nuovo operaismo che non si
costituiva, come a dire: dopo l'operaio – massa il nulla. La critica al
lavoro di fabbrica è rimasta riferimento della critica generale alla
società, mentre il lavoro salariato ha continuato a essere identificato
con il lavoro dipendente. Quest'asse categorico non è stato toccato, anche
se è stato vissuto come ormai inadeguato, non è stato sostituito con un
nuovo asse cartesiano, probabilmente perché non era possibile farlo. La
'decompressione' ha comportato il più che giustificato rifiuto della
retorica sul lavoro, ma anche quella relativa al rifiuto del lavoro, sulla
difesa del posto di lavoro e sulla disoccupazione, evitando di scambiare
il declino dell'occupazione nella fabbrica con il declino dell'occupazione
in generale; il nuovo mercato del lavoro, però, era paradossalmente
accettato secondo il metro di quello vecchio e quindi se non si usava il
termine disoccupazione, si finiva per descrivere una situazione lavorativa
flessibile con gli schemi validi per una situazione rigida. Il '77, alla
fine, aveva fatto proprio questo ed è come se tutti siano rimasti figli di
quel movimento, ma nella sua inattualità piuttosto che nella sua
attualità.
Martedì, 20 ottobre
Annotazione. E veniamo, se sono capace di questa guida, all'attualità. Lo
ripeto ho davvero trrovato poco sull'operaio sociale, né inteso secondo la
definizione originaria, adottata dal pensiero rinnovato del marxismo
italiano degli anni settanta, né inteso e interpretato secondo le nuove
lenti e il nuovo scenario che si può riferire al concetto di Moltitudine.
L'operaio sociale è scomparso e non ne è rimasto neppure il fantasma che
si aggiri in Europa come nel famoso passo del Manifesto. Dunque, la
ricerca, ostacolata dalla mia povertà documentale e dalla mia
soggettività, sarà ancora più difficile, ma come per l'esistenza di Dio
secondo la scolastica medioevale, sono convinto della sua esistenza.
Se non fosse esistito l'operaio sociale, io dico, non sarebbe esistito
neppure il capitalismo post moderno, il biocapitalismo sarebbe
un'illusione, una rappresentazione, spesso, non a caso, il nuovo
capitalismo ama rappresentarsi proprio così: come una non essenza,
un gioco, una virtualità e quasi come il campo di produzione di un
divertimento tutto vale quanto il suo contrario.
Mercoledì, 21 ottobre
Annotazione. Il sistema sociale dell'attualità è un sistema che ha reso
pane quotidiano la guerra e la crisi economica; il suo modo di essere, di
presentarsi, di organizzarsi e alla fine di rappresentarsi è quello della
crisi e della guerra, costanti e continue: non c'è pace e non c'è
sicurezza.
Una serietà così disarmante, una gravità vera e propria, una forza fisica
che spinge continuamente verso il basso e in una sola direzione, danza,
però, sull'orlo del gioco.
E tutto questo cosa ci entra con l'operaio sociale? Con il nostro Dio che
per il fatto stesso di essere pensato, o essere stato pensato, esiste o è
esistito, e per il fatto stesso che esiste nel pensiero, esiste?
C'entra, eccome se c'entra.
L'operaio sociale è stato ideologia di guerra ed economia del
trapasso dall'abbondanza alla penuria, è stato il protagonista di
queste due situazioni e cioè colui che, con il tempo di lavoro e con il
tempo di vita, ha reso possibili uno stato di guerra endemico, guerra
esterna e intestina, guerra senza confini definiti, guerra senza il nome
della guerra, e un passaggio da una domanda forte e da redditi alti a una
domanda depressa e a redditi bassi. Ha nascosto questa novità, rendendola
sostenibile, e ha contribuito a realizzarla senza che la dimensione
bellica e pauperistica divenisse egemone. Questo è stato il suo miracolo:
ha per certo versi preservato il mondo dal suo cambiamento.
Giovedì, 22 ottobre
Annotazione. È una grande fortuna non avere gli strumenti necessari per
scrivere dell'operaio sociale in maniera scientificamente determinata.
Credo che non serva un profilo intellettuale per descrivere questa
composizione di classe, anzi sono convinto del fatto che sarebbe dannoso.
È, al contrario, una descrizione interna quella che dovrebbe dominare la
scena, che dovrebbe venir fuori da quella 'intellettualità di massa', che
ha contrassegnato il primo manifestarsi di questo soggetto. Una
descrizione interna è, in primo luogo, una non descrizione e
contemporaneamente un'azione operativa, una registrazione che propone una
trasformazione dei contenuti della registrazione.
Bisognerebbe rileggere il principio di indeterminazione di Heisenberg per
definire meglio questa parte del processo conoscitivo.
La prima caratteristica manifesta, che balzò proprio agli occhi fin dagli
anni '70 per poi conservarsi anche dopo, fu quella di essere un fenomeno
intellettuale di massa e non un movimento politico di massa. L'operaio
sociale, cioè, dava vita soprattutto a situazioni intellettuali,
culturali, comunicative che non si traducevano immediatamente in
un'ipotesi politica linearmente legata a quelle situazioni.
L'intellettualità dell'operaio sociale non dipendeva direttamente dal
livello di scolarità, non è stato un concetto circoscrivibile alla
sociologia, ma veniva fuori dalla maniera nella quale la scolarità di
massa ottenuta da un paio di generazioni pervadeva l'intera società, in
generale, e gli strati proletari, in particolare. L'operaio sociale
istituiva reti e linguaggi culturali, funzionali alla sua riproduzione
intellettuale e funzionanti indipendentemente dal dato iniziale stabilito
dal tasso di scolarità. Queste reti e linguaggi funzionavano rigorosamente
meglio al di fuori del contesto scolastico ed educativo ufficiale, anzi
funzionavano autenticamente solo fuori da quello.
In secondo luogo, l'operaio sociale non tendeva a costituirsi, seguendo la
tradizionale fenomenologia marxiana, in 'classe operaia' e quindi in
composizione di classe; parimenti, però, continuando a contraddire la
prospettiva marxiana, pur non costituendosi in classe, non si abbandonava
al ruolo, altrettanto tradizionale, di 'forza lavoro', di massa produttiva
passiva. L'operaio sociale non è stato né l'una né l'altra cosa; di qui la
difficoltà gnoseologica che impone, di qui l'esigenza del presupposto
quasi scolastico sulla sua esistenza.
Il terzo carattere, anch'esso non immediatamente manifesto ma facilmente
esperibile, fu il rifiuto del lavoro manuale, che era percepito come
un'attività residuale, anacronistica e quasi archeologica, la cui
necessità era valutata una trappola distesa dentro il mercato del
lavoro. Per l'operaio sociale, la componente decisiva del lavoro era
quella intellettuale e comunicativa e quelli dovevano essere i nuovi
orizzonti del lavoro sociale; chi affermava il contrario mentiva.
Questi sono stati i tre modi di essere dell'operaio sociale italiano negli
anni '70, dai quali discendono molti altri modi, sviluppatisi nei decenni
posteriori.
Venerdì, 23 ottobre
Annotazione. I tre modi di essere principali dell'operaio sociale, in
estrema sintesi, sono stati: nuova intellettualità, rifiuto volontario e/o
impossibilità di costituirsi in classe e rifiuto del lavoro manuale.
Questi tre modi possono essere detti anche diversamente come critica al
ruolo dell'intellettuale, critica alla politica e critica al lavoro
salariato. Queste tre critiche, apparentemente esplosive e antagoniste,
però, non hanno sortito alcuna esplosione e da quelle sono discesi altri
caratteri, modi di essere, quasi impercettibili, sotto l'aspetto
culturale, politico ed economico.
Questi caratteri, quasi nascosti, privi di bandiere e barricate, si sono
però mantenuti nell'involucro originale delle tre critiche.
Giovedì, 29 ottobre
Annotazione. La composizione di classe è un fatto oggettivo e soggettivo:
oggettivo quando il soggetto guarda al suo modo di essere forza – lavoro,
soggettivo quando guarda alla sua costituzione in classe operaia. Questa
la veduta, che ancora condivido, del marxismo rinnovato italiano e non
degli anni sessanta e settanta. Nel primo caso la composizione di classe
si identifica e ricompone in quanto sottoposta al ciclo produttivo,
nella misura in cui partecipa a un determinato modo di produzione, nel
secondo caso, invece, si ricompone perché si riconosce protagonista del
ciclo e individua la possibilità di intervenire e riorganizzare il modo di
produzione. Da un punto di vista economicista, quando la composizione di
classe ragione in termini oggettivi ha in mente il salario e la
produttività, nel secondo caso reddito e stili di vita.
Questa dicotomia, nel caso dell'operaio sociale, è scomparsa e non
sbagliando del tutto i teorici degli anni '70 avevano individuato la
possibilità che il piano della soggettività fosse strutturante
nell'operaio sociale, traducendo questa caratteristica, dal punto di vista
della dialettica marxista classica, nella potenzialità di un'immediata
acquisizione di elementi comunistici, in un'attualità e urgenza del
comunismo e in un sacrosanto rinnegamento della necessità della
transizione socialistica e dello stato 'proletario'.
Venerdì, 30 ottobre
Annotazione. In questa maniera, alla novità furono fatti indossare gli
abiti della rivoluzione leninista, con molto sforzo e molti rattoppi e
aggiustamenti. Dopo di allora le teorie che solo indirettamente (poiché si
smise di scriverne apertamente) facevano riferimento alla nuova situazione
sociale, determinatasi dopo la fine degli anni settanta, nel soggetto
'nascosto' sottolineavano il ruolo di forza – lavoro, terribilmente
esposta ai ricatti del nuovo mercato del lavoro contraddistinto dalla
flessibilità e dalla mobilità. C'era, negli anni ottanta, un diffuso
modo di sentire, soprattutto in alcune riviste (Wobblie, Metroperaio, ma
anche, in area istituzionale e patinata, Alfabeta), secondo il quale la
fine della centralità della fabbrica aveva prodotto un proletario –
zombie, un orfano del lavoro. Nostalgici della fabbrica e del rifiuto del
lavoro che la fabbrica permetteva, questi soggetti erano schizofrenia
fatta a persona, o meglio un soggetto sociale schizofrenico e
irrimediabilmente scomposto. La retorica sul precariato, sul diffondersi
di contratti a tempo determinato e sul frazionamento temporale
generalizzato del lavoro dipendente, governò lo scenario: il lavoro
stabile, salariato e a vita rimaneva il paradigma di rifermento per
descrivere la contemporaneità e criticarla. Erano, comunque, tanti
modi (più o meno eleganti, più o meno intelligenti) di scrivere di operaio
sociale senza citarlo e senza prenderlo in carico analitico; si faceva
questo a ragione veduta, poiché si aveva, probabilmente, l'inconsapevole
consapevolezza di non essere in grado di rappresentarlo se non in modo
generico, approssimativo e limitato. Di quel processo sociale era ben
descritto il distacco dalla fabbrica che imponeva, dai suoi luoghi, dalle
sue abitudini, dai suoi effetti collaterali, ma vigeva un sostanziale
silenzio sulla direzione che quel distacco indicava. Solo Metropoli, tra
tutte le pubblicazioni che frequentavo, dirigeva lo sguardo verso il
'dove', cercando di ignorare quell'ingombrante 'da'.
rivedi
ottobre
Inizio anno
Mercoledì, 4 novembre
Annotazione. Questo soggetto irrappresentabile e ai limiti dell'esistenza
stessa, come è stato rappresentato ed è esistito? Negli anni ottanta la
contrattualistica italiana ha scoperto forme di relazione di lavoro, quasi
tutte orientate verso il mondo giovanile, a tempo determinato; questo
tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. L'oggetto di questa
nuova disposizione contrattuale era, al contrario che nel passato quando
si svolgeva verso lavori di bassa qualifica e manuali, il lavoro
intellettuale. Assunzioni a tempo nella scuola (paradigmatiche le
supplenze annuali), gruppi di lavoro a tempo e progetti circoscritti nel
privato hanno dominato la scena di fine settanta e di tutti gli anni
ottanta. Le assunzioni a tempo (spesso i Contratti di Formazione Lavoro)
sono state usate anche nel settore creditizio, assicurativo e
manifatturiero come strumento per istituire un salario di ingresso e un
periodo effettivo di prova e tirocinio. Il mercato del lavoro dipendente,
pur conservando le sue caratteristiche di fondo, si segmentava e
frantumava. Il costo del lavoro rimaneva alto nei settori a tempo
indeterminato si abbassava in tutti gli altri.
Giovedì, 5 novembre
Annotazione. Il costo del lavoro si abbassava non solo in ragione del
fatto che l'inquadramento formativo era solitamente eseguito a un livello
contrattuale più basso di quello corrispondente e previsto per il tempo
indeterminato, ma soprattutto perché, spesso, prevedeva interruzioni e
reintegri, sospensioni e nuove assunzioni, quindi continue soluzioni di
continuità e gli enti pubblici che rendevano la relazione più
leggera economicamente. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, in
Italia, sono stati il pubblico impiego e gli enti pubblici a funzionare da
pilota in questa sperimentazione contrattuale. Importantissimi, sotto
questo profilo, i progetti a carattere tecnologicamente elevato, volti
all'innovazione dei sistemi informativi, che hanno predisposto un uso
sistematico e contrattualmente spregiudicato di manodopera a tempo.
In quest'ultimo specifico settore, inoltre, lo stato, le regioni e le
università si sono portati, già negli anni '80, ancora più avanti,
aggirando la necessità di avviare relazioni di lavoro dipendente
contrattualizzato e affidandolo a 'risorse formalmente esterne'
all'impresa. L'uso di contratti di collaborazione temporanea e di ditte
individuali è diventato normale nei settori di ricerca e sviluppo. Negli
anni '80, l'impresa pubblica, a dispetto dell'immobilismo proverbiale, ha
posto le basi per il superamento del rapporto contrattualizzato di lavoro
dipendente, in quanto relazione assolutamente egemonica, là dove nel
privato rimaneva il punto di riferimento principale.
Sabato, 7 novembre
Secondo Corradino Mineo quando parla con Civati, Renzi è in balia
sentimentale e politica della Boschi, mentre la Boschi sarebbe in balia
della sua ignoranza e presunzione. Un'analisi perfetta quella di Corradino
perché politicamente adeguata a descrivere gli standard dell'analitica
contemporanea.
Mercoledì, 11 novembre
Annotazione. Credo che in USA, negli anni '50, sia emersa una figura
simile a quella italiana degli anni ottanta e successivi. Là dove il
valore della produzione diminuiva rispetto a quello della riproduzione del
capitale. Penso all'enorme spazio propagandistico, alla propaganda post
bellica che metteva in rappresentazione lo stile di vita americano; lo
penso sia dal punto di vista della rappresentazione che del rappresentato:
entrambi, infatti, sono parte dello stesso processo e la parola
propaganda, proprio per questo, è inadeguata.
Giovedì, 12 novembre
Annotazione. La storia americana dell'operaio sociale è più lunga di
quella italiana ed europea. Come non mettere in relazione tante
sceneggiature cinematografiche nord americane dei '40 e '50 con lo stile e
le abitudini di quel soggetto? Penso all'investigatore privato free
lance, all'apolide cosmopolita, all'avventuriero internazionale, al
bank robber, che sotto la trama della 'propaganda' rappresentava
una nuova biologia sociale. Ho in mente soprattutto gli anni sessanta, la
freack generation, la lotta contro la coscrizione obbligatoria,
il movimento dei neri, le rivolte dei ghetti bianchi e neri e la
sconfinata epopea delle gang giovanili e proletarie. Ho in mente, ancora,
l'impostazione forzatamente terzomondista e leninista del black
panther party dove la fabbrica non è all'orizzonte, ma lo è la vita
sociale, il quartiere e dove sono le strutture di comando del capitale
disposte sul territorio a essere l'oggetto principale di critica. Ho in
mente il movimento americano degli anni sessanta e della prima metà degli
anni settanta nella sua complessità dove non esiste un'avanguardia
riconosciuta e neppure un tessuto unitario, ma alcune minoranze si
muovono, rimanendo minoranze e conservando le loro identità 'minoritarie'
e qui ancora una volta, più che l'elaborazione teorica l'esperienza
concreta e 'politica' del BPP, seppur leggibile secondo le metriche del
marxismo leninismo tradizionale o del maoismo, è importantissima e
illuminante.
Martedì, 17 novembre
Annotazione. In un contesto simile, il primissimo imprinting
dell'operaio sociale italiano è stato quello della dequalificazione
mansionaria. Siamo nella seconda metà degli anni '70 quando, tipicamente,
il nuovo soggetto produttivo andava a ricoprire ruoli e impieghi lasciati
liberi dal lavoro dipendente e garantito del tempo indeterminato, ruoli e
incarichi dove il contratto a tempo indeterminato era inutilizzabile dal
comando d'impresa. Questo processo si è realizzato sia nei lavori a
contenuto manuale sia in quelli a contenuto intellettuale; si è, inoltre,
manifestato o attraverso assunzioni a tempo determinato, ottenute in varie
dorme e a diverso titolo, sia, e soprattutto, nel campo del lavoro svolto
a favore della pubblica amministrazione, attraverso la formazione di
società di persone (solitamente in forma cooperativa) che avevano
nell'oggetto sociale medesimo la fornitura di servizi alle imprese
pubbliche. In queste relazioni di lavoro, egemone era l'elemento di una
relativa libertà dall'impegno contrattuale tradizionale; il vincolo del
lavoro dipendente perdeva forza sia sul lato dell'imprenditore sia sul
lato dell'operaio; mancava, inoltre, quasi completamente, un logos
sulla professionalità del lavoro, sul mansionamento, mentre era centrale
l'esigenza di ottenere un reddito. Seguendo gli assiomi dell'operaio –
massa, il reddito rimaneva svincolato dalla produttività e dunque operaio
sociale e operaio massa si assomigliavano fino, quasi, a confondersi.
Inoltre, seppur ampiamente ignorata, la contrattazione collettiva forniva
ancora un adeguato quadro di riferimento, una sponda, e l'immagine
egemonica del modo di produrre e di lavorare.
Giovedì, 19 novembre
Annotazione. Aggiungo, inoltre, anticipando alcune (probabili) riflessioni
che la mancanza di un legame stretto tra reddito e produttività per
l'operaio di fabbrica fu un fatto sensazionale, il risultato di una lunga
serie di atti rivoluzionari e sovversivi sul contesto produttivo e
contrattuale e di una ondivaga e difficile assunzione di soggettività,
mentre per l'operaio – sociale è diventato banalità e regola, la regola
stessa del contesto produttivo e contrattuale in cui era inserito, con
tutte le ambivalenze del caso. Questa ambivalenza, negli anni settanta e
nella prima metà degli ottanta, non era ancora pienamente esplicita e per
moltissime di queste situazioni di lavoro lo svincolamento dalla
produttività e da una relazione contrattuale stabile manteneva il
carattere di una rivendicazione e strutturazione di un reddito garantito e
in buona misura indipendente dal lavoro autenticamente fornito.
Non è affatto vero, dunque, che gli anni sessanta e settanta non abbiano
lasciato traccia, ma è vero il contrario proprio là dove si crederebbe
meno di trovarne l'eredità e cioè sul terreno dello scontro sociale e del
mercato del lavoro. È rimasto, infatti, un profondo segno sia nella
costituzione del capitale, sia nella soggettività del proletariato. Queste
tracce non sono, però, linearmente predisposte, come non sono, altresì,
sotterranee, ma sono forti e potenti anche se di una nuova forza e
potenza.
Questa potenza e forza hanno avuto la forma di una nuova epoca,
radicalmente diversa da quella precedente, con nuovi metri, stili, modelli
intellettuali e modi di interpretare non solo la realtà ma il pensiero
stesso sulla realtà.
Questo non significa che tra settanta e ottanta non si abbia motivo di
dipingere una sconfitta: la strutturazione di ampi settori di precariato
ha progressivamente eliso il legame tra lavoro e reddito, trasformando la
liberazione del lavoro dalla dipendenza produttiva in una liberazione
dalla produttività economicamente insostenibile. Il 'precariato', dunque,
è stato costretto a ridisegnarsi e ripensarsi, è stato costretto a
farlo e ha subito passivamente un processo che era caduto sotto la guida
di altre mani, estranee al movimento di liberazione dal lavoro salariato
dei due decenni precedenti: per dirla con Marx il valore d'uso si era
nuovamente trasformato in valore di scambio.
Letture. Anche se non troveranno margini in questo diario in movimento,
devo segnalare la lettura di Convenzione e materialismo di Paolo Virno,
testo del 1986 che ho lungamente rincorso e che in questi primi capitoli
rimbalza tra Heidegger e Benjamin.
Venerdì, 20 novembre
Annotazione. Il passaggio, almeno in Italia, è stato politico nel senso
essenziale del termine: il dominio capitalistico ha ripreso il controllo
del lavoro. Facendo così, ha ribaltato la sostanza della nuova epoca che
iniziava ad aprirsi: la liberazione dal lavoro è diventata
marginalizzazione nel mercato del lavoro, il rifiuto della produttività si
è trasformato nell'instaurazione di un nuovo comando d'impresa che, in
effetti, non si concentrava più sui valori della produttività e che
emergeva slegato e, per certi versi, emancipato dalle ragioni e dalla
razionalità dell'economia classica e dopo di quella da quella marxista. Il
persistere dell'egemonia, almeno fino ai primi anni novanta, della
contrattazione collettiva, che continuava a rivendicare centralità per il
lavoro dipendente e salariato in maniera tradizionale, non ha affatto
contribuito a combattere il processo, anzi lo ha favorito, rafforzando le
separazioni che il dominio via via innalzava. La responsabilità del
sindacato in Italia nel determinare questa sconfitta è stata enorme: l'ha
amministrata e l'ha resa politicamente accettabile, l'ha spesso
interpretata come una sconfitta della 'nuova destra' quando, al contrario,
venivano minate le fondamenta di una riedificazione sotterranea, lenta e
difficile, dell'unica sinistra possibile. Ma sarebbe un discorso molto
lungo.
Lunedì, 23 novembre
Annotazione. Dopo undici mesi è inutile tornare a Parigi, se non per
vederla sempre più separata dalla sua periferia, araba e mussulmana, con
alcune schegge islamiste. Inutile ribadire che i casseur
protagonisti di reiterati riots sono stati affrontati come un problema di
ordine pubblico e che una piccola minoranza di quelli, posta al crocevia
tra integralismo reinventato e post moderno (nel quale, secondo un vecchio
detto anarchico, “l'odio di classe si è trasformato in odio contro
l'umanità”), reinterpretazione di una guerra di indipendenza nazionale,
che ricorda certe metodiche e teorie delle pantere nere, traffici
internazionali di armi e di manodopera e l'attività dei servizi segreti,
ha presentato il suo conto.
Ha presentato questo conto nell'unico luogo doveva poteva presentarlo: nel
centro della metropoli e dei suoi divertimenti, nel cuore del tempo libero
negato alle banlieu e in un nuovo livello dello scontro contro
l'ordine pubblico, secondo il quale le armi da fuoco e gli esplosivi hanno
sostituito le pietre e le bottiglie incendiarie. Il palinsesto ideologico
islamista radicale si presta perfettamente a questa sintesi che è davvero
tranquillizzante politicamente per tutti: individua un nemico univoco,
rende lineari le cose, evita analisi più articolate e semplifica la paura.
Una paura semplice è facilmente amministrabile e può essere terribilmente
efficace in politica.
Già negli ultimi riots, se non ricordo male, l'odio
indiscriminato contro tutto e tutti si era manifestato, come quando
i dimostranti, assalendo gli autobus, principiarono a incendiarli con i
passeggeri ancora a bordo, episodi incomprensibili se letti dentro una
logica normale, anche quella estremizzata dei black bloc. Era già tutto
scritto lì, per arrivare ai fucili mancava un testo, in questo caso un
testo sacro, e il conseguente partito armato, in questo caso verniciato di
santità.
rivedi
novembre
Inizio anno
Sabato, 5 dicembre
Annotazione. Il passaggio è stato politico perché la stessa contingenza
imponeva il protagonismo della politica. La critica e l'insubordinazione
operaia e sociale, in Italia, avevano assunto una fortissima
caratterizzazione politica, avevano determinato il sorgere di movimenti,
partiti e di una miriade di situazioni organizzative e, addirittura, lo
strutturarsi di una nuova corrente nel pensiero comunista o più
generalmente antagonista. Non era assolutamente possibile prescindere
dalla politica in Italia, se si voleva accompagnare l'attacco sociale ed
economico all'operaio di fabbrica. Tra la fine degli anni '70 e il primo
lustro del decennio seguente, infatti, si attuò una radicale ridefinizione
degli assetti istituzionali italiani, pur compiuta nel rispetto delle
formalità stabilite dalla costituzione del 1948.
Si fece strada l'idea, del tutto estranea al parlamentarismo della 'prima
repubblica', di un governo forte e personalizzato, che garantisse e
giustificasse la regia di uno spettacolo teso a rivedere la legislazione
sociale, l'estensione dello stato di diritto e il potere contrattuale
della forza lavoro.
Lo scenario fu dominato dalla legislazione d'emergenza, dall'ideologia del
complotto rivoluzionario e del sospetto, dall'uso del carcere secondo
logiche in gran parte informate dalla punizione politica e
dall'equiparazione dell'antagonismo sociale con il terrorismo delle
organizzazioni combattenti. Riuscendo a unire la critica al marxismo con
la critica al 'totalitarismo' sovietico e con la lotta al terrorismo
rosso, la lotta di classe da valore relativo del primo assetto
costituzionale si è trasformata nel negativo per antonomasia, effetto e
causa ad un tempo della fine delle solidarietà, dei valori umani e della
crisi della società: lotta di classe e il termine stesso 'classe'
divennero parole proibite, un contro natura storico e politico, per quanto
atteneva all'esperienza sovietica e al socialismo reale, e umano ed etico,
per via della loro parentela fiancheggiatrice e ispiratrice verso i gruppi
armati.
Questa reazione ideologica e politica ebbe specificità tutte italiane,
sulle quali la guerra anti terroristica esercitò il peso maggiore ed
contribuì a fornire la facciata formale all'intero processo, che fu
davvero uno stato di guerra senza quartiere contro il movimento degli anni
settanta. L'opposizione di classe venne disorientata, spesso distratta
verso tematiche minoritarie, disarticolata, instupidita e ridotta al
silenzio, tanto attraverso procedure repressive quanto grazie a una
potentissima, diretta e coordinata mediaticamente offensiva svolta sul
piano ideologico, politico ed etico. Si mise in scena, spesso utilizzando
le sottigliezze ideologiche e filosofiche acquisite dal campo antagonista
e libertario durante i sessanta e i settanta, l'impossibilità e
l'inattualità dell'antagonismo che veniva considerato un fenomeno
residuale, arretrato e pre - moderno.
L'attacco economico e sociale, la struttura, si confuse in maniera
perfetta con l'attacco politico e ideologico, la sovrastruttura. Questa
combinazione produsse un impatto al quale le forme organizzative e le
strutture teoriche medesime della soggettività proletaria non seppero
resistere, anche perché intrinsecamente deboli e vulnerabili proprio a
quell'attacco che fu svolto in forme politiche e ideologiche, spesso
becere, ma capaci di cogliere il segno di una debolezza nel fronte nemico:
l'attualità del capitalismo si scontrò con l'inattualità
dell'organizzazione comunista.
Il passaggio è stato politico, però, anche perché il quadro generale, il
nuovo scenario del capitalismo internazionale, richiedevano il
protagonismo della politica, o meglio un nuovo protagonismo della
politica. Nella misura in cui l'economia si slega dal valore tradizionale
del lavoro, dalla sua misurazione in forme orarie come autentica base del
profitto, esercita un comando diretto sul corpo sociale, anzi il comando
tende a trasformarsi in dominio, espresso, si badi bene, in maniera non
strettamente coercitiva, in forme che non implicano, cioè, la riesumazione
di forme di potere pre – moderne (anche se ha recuperato da quelle più di
un elemento).
Questo comando dell'economia è immediatamente politico e dunque l'economia
sussume realmente la politica; la sussunzione reale della politica
all'economia non comporta, però, un'immediata visibilità dei luoghi del
potere economico come luoghi del potere politico, ma, invece, un nuovo
modo di fare politica.
La sussunzione reale, il processo autentico, va occultato; come se
l'economia non avesse assunto direttamente il controllo della vita sociale
senza la mediazione del lavoro e del mercato che hanno rappresentato il
cuore della mediazione politica del capitalismo moderno e dunque la
struttura della politica e delle ideologie dell'ottocento e del novecento.
La crisi delle ideologie è inevitabile in questo contesto ed è stata ben
rappresentata, già negli anni ottanta dalla reaganeconomic e
dalla offer side economy, vale a dire da ideologie economiche,
immediatamente politiche, e dalla sopravvivenza dell'unica ideologia
politica possibile, il cosiddetto neo – liberismo. Il neo – liberismo dice
la verità, nascondendo la sorgente della verità: la mediazione non è più
possibile, la mediazione appartiene al passato, non sono percorribili
alternative ideali mentre il mercato e il profitto di impresa devono
regolare il mondo e ristabilire una mediazione immanente all'economia,
anzi ne sarebbero la realizzazione. La fine della mediazione, però, e il
trionfo del neo liberismo insieme con quella sono possibili proprio in
ragione della morte del mercato, del plusvalore e del lavoro salariato
tradizionale, cioè dei fondamenti del liberismo nuovo o vecchio.
Domenica, 6 dicembre
Annotazione. Ovviamente anche il mondo economico ha subito una
trasformazione complessiva, a qualcheduno piace l'aggettivo globale, nella
direzione di una perfetta integrazione delle vecchie economie nazionali e
dei diversi piani della produzione (manuale, intellettuale, informativo e
via discorrendo) in un'insieme organico, nel quale le parti e il tutto non
sono più individuabili. Questo radicale cambiamento ha richiesto la
destrutturazione dello stato sia come espressione della sovranità
nazionale che come fornitore di assistenza sociale (la profetica deregulation
reaganiana). Lo stato, dagli anni ottanta in qua, si è fatto impresa,
diventando un'agenzia economica inserita in un disegno complessivo più
ampio delle sue competenze e pertinenze geografiche e più forte della sua
consistenza economica e finanziaria, quando pensiamo al fatto che il
fatturato di molte multinazionali oltrepassa il PIL di alcuni stati
nazionali o che i flussi finanziari determinati da una settimana di
movimenti in borsa sono più ampi dell'intero debito pubblico europeo.
Questo non significa che lo stato ha cambiato funzione, quella cioè di
rappresentare in maniera ufficiale gli interessi contrapposti all'interno
di un particolare e delimitato contesto sociale e geografico e di
privilegiare tra questi gli interessi preminenti economicamente, e ha,
quindi, mantenuto la relazione con la sua base fondante, il corpo sociale
circoscritto dalla nazione, il popolo. Ha continuato ad esercitare questo
compito, però, solo in funzione della trasmissione, in forme politiche,
delle necessità imposte dal capitale multinazionale o globalizzato che dir
si voglia. Il centro genetico dello stato capitalista moderno è venuto, in
realtà, meno: i gruppi preminenti nell'economia non sono più gruppi che
hanno riferimento con le nazioni e i popoli nazionali, non sono più la
borghesia nazionale.
Inevitabilmente, in questo contesto, i margini di manovra, di lavoro, le
possibilità operative concesse dalla storia ai singoli stati non
permettono significative dialettiche e oscillazioni e ancor meno
alternanze di forme ideologiche e di forme di governo diverse e
contrastanti, di strategie di lungo respiro diverse e polemicamente
opposte. Lo stato nazionale, però, nonostante la cogenza di questo
processo, per logica di cose, per tradizione e abitudine storica e per
comodità istituzionale, questo soprattutto ma non solo là dove si conserva
un simulacro di democrazia rappresentativa, conserva un ruolo di estrema e
ultima mediazione, posta ai margini del processo, quasi in una 'sotto –
politica', nella sostanza ininfluente, ma nella spettacolarità del
simulacro rappresentativo donato di importanza.
Il capitalismo, il biocapitalismo, non può fare a meno dello stato, poiché
non ha alcun interesse a farsi stato direttamente: l'interesse pubblico,
che è sempre più il nuovo comunitarismo capitalista, le infrastrutture
produttive possono possedere l'intelligenza strategica, la
rappresentazione e la narrazione loro necessarie, solo quando sono poste
fuori dall'intelligenza, rappresentazione e narrazione del sistema
economico. Continua ad esistere, quindi, un'autonomia del politico nella
progettazione e nella teoretica del capitalismo, poiché l'autonomia del
politico preserva l'assoluta indipendenza dell'economico: l'intelligenza
politica è oggi la destrutturazione definitiva e irreversibile
dell'intelligenza della politica sui processi economici.
Martedì, 8 dicembre
Letture. Convenzione e materialismo / Paolo Virno. A proposito o per un
inquadramento possibile dell'operaio sociale e della corrispondente
fenomenologia del lavoro, è capitato alla mia lettura questo brano di
Virno, quasi come quando si apriva il vangelo a caso allo scopo di trarne
ispirazione. Il testo, scritto del 1985, descrive davvero questa
trasformazione nella sociologia del lavoro.
“L'irreversibilità di una crescita autopropulsiva del sapere separato dal
lavoro, mentre condanna senza appello ogni mitologia sulla ricomposizione
di mano e mente, sviluppa le condizioni per cui già oggi il lavoro
salariato tradizionale si presenta sovente come un'escrescenza
parassitaria, come faux frais (falso costo), al pari di certi
'costi di circolazione' nelle pagine di Marx. Non l'attenuazione, ma
l'approfondimento dell'autonomia del general intellect
costituisce, oggi, una condizione di emancipazione, o almeno un principio
– speranza. È questa accentuata autonomia che modifica alla radice la
morfologia del processo produttivo, facendo del lavoro intellettuale la
forma generale dell'attività umana, il pilastro centrale nella produzione
diretta della ricchezza (…) è l'insieme dei paradigma di volta in volta
disponibili e utilizzati che spiega la struttura della produzione
contemporanea, non viceversa. La discussione epistemologica centra il suo
obiettivo allorché riesce a chiarire la strumentazione del lavoro
intellettuale: ma in tal caso, perché è questa strumentazione a definire
quel lavoro, la discussione epistemologica diventa senz'altro analisi del
processo produttivo (…). La principale fra queste argomentazioni … è, per
dirla nei termini di una discussione canonica del movimento operaio, la
non riducibilità del lavoro potenziato e complesso a lavoro semplice. (…)
nell'argomentazione marxiana questa 'riduzione' ha luogo attraverso il
confronto fra i diversi valori di scambio … delle forze lavoro. (…)
È chiaro che essa è possibile solo a condizione che il mercato
funzioni effettivamente come trasparente sintesi sociale (…) affinché il
mercato possa esprimere convenientemente la 'riduzione', è necessario che
la cooperazione lavorativa sociale risulti interamente trasferita e
rappresa nel capitale fisso, di modo che il lavoro semplice, dipendente
dalla macchina, costituisca la permanente unità di misura sia del lavoro
in genere sia del valore delle merci (…).
Ebbene proprio in questo diretto materializzarsi della 'riduzione'
all'interno del processo lavorativo si situa il punto critico (…). La
socializzazione non ha il suo limite nel sistema delle macchine ma si
sviluppa a monte e valle di esso: ampi strati di forza lavoro svolgono
attività di 'sorveglianza' e di 'coordinamento' nei confronti della
produzione immediata (…). L'atto di produrre viene progressivamente a
coincidere con l'atto di comunicare e la predominanza dell'agire
comunicativo segna un avanzamento delle forze produttive che non si
traduce linearmente in forza produttiva del capitale, ma si trattiene e
sedimenta all'interno della struttura complessiva del lavoro vivo (…). La
riduzione è impossibile … il lavoro complesso moderno … rappresenta una
catastrofe permanente per la teoria del valore in quanto misura vera di
proporzioni reali” (pp. 65 – 67)
Ora questo lungo passo potrebbe essere un insieme di note alle mie
riflessioni sull'operaio sociale ma anche all'operaio sociale in quanto
tale, inteso come concetto sociologico ed economico. Ancora di più, per
quanto ho capito dei Grundisse, la descrizione di Virno pone, in questa
fase dello sviluppo capitalistico, quello che era il nucleo stesso del
progetto comunista, inteso come evoluzione ultima del socialismo,
estinzione dello Stato e fine dell'economia classica.
Venerdì, 18 dicembre
Letture. Convenzione e materialismo / Paolo Virno. Ancora su questo
scritto degli anni '80, certamente utile a comprendere il soggetto
presupposto e indimostrabile insieme con il capitalismo post – moderno.
Emerge in questo brano quasi una perdita del materialismo in nome del
materialismo stesso che è disorientante. Nel momento in cui Virno propone
di individuare i fondamenti di un nuovo ethos materialistico,
oltre Kant e decisamente antitetico a Hegel, produce alcuni brani
notevoli, disorientanti ma, credo, utili.
“È la pienezza dello sviluppo storico a determinare, per la prima
volta, un'autonomia non mistificata dell'ethos (…). La 'seconda
natura', compiutamente intellegibile, cui tendeva la legge morale
kantiana, si presenta come realtà empirica immediata, l'universalità è
realizzata … la base della produzione della ricchezza non risiede più nel
pluslavoro operaio, ma nell'autoproduzione del sapere sociale,
nell'autonoma potenza del sapere astratto, nella scienza come principale e
immediata forza produttiva (…). A venire meno è la coincidenza, spinta
talvolta fino alla sinonimia, fra il concetto di universalità reale e
quello di una generale equivalenza. Il denaro, nelle sue diverse figure,
non è più esempio eminente dell'incarnazione mondana dell'universale.”
(pp. 101 - 103)
Lunedì, 21 dicembre
Ai margini. Convezione e materialismo / Paolo Virno. Cosa può entrarci
l'esistenza e natura dell'operaio sociale nel noumeno di Kant? Il noumeno
kantiano è uno sviluppo che crea le sue regole, le trova in sé affidando
un ordine logico al mondo. Le regole dello sviluppo derivano da e sono un
sistema operativo logico. L'operaio massa era il risultato di una realtà
nella quale il rapporto causa – effetto, il macchinico e il meccanico,
erano decisivi; il soggetto che gli tiene dietro affronta una realtà nella
quale il rapporto causa – effetto è generato dall'operatività sociale. Il
lavoro non dipende più da un sistema esterno, dato, che sottopone
l'individuo a delle regole scientifiche di produzione; la nuova scienza di
Virno, al contrario, rende il lavoro una potenza interna al processo
produttivo (come nel fabbrichismo taylorista, in verità, ma in forma
potenziata all'ennesima volta). Riprendere Virno di Convenzione e
materialismo per 'spiegare' l'operaio sociale è certamente audace, troppo
audace, a tratti intellettualmente disonesto, quasi inconcepibile. Ed è
vero. C'è un ma, però c'è un ma.
Se è vero che il noumeno kantiano si è trasformato in elemento produttivo,
in schema della produzione capitalista contemporanea, è anche il vero il
fatto che questo spostamento ed estensione del suo ruolo impediscono di
scrivere ancora con certezza e onestà di produzione capitalista. La
produzione capitalista non esiste più, esiste la produzione (il noumeno) e
la sua specificazione capitalistica è solo uno dei suoi fenomeni. Allora,
seguendo questo filo logico, è naturale che l'operaio sociale sia un
soggetto indimostrabile, indimostrabile come produttore, operaio, perché
esattamente come la produzione l'essere operaio è solo una specificazione
del lavoro, una determinata fenomenologia. Si può però leggere meglio
questo assunto. Se la produzione è una potenza scientifica indipendente,
esterna al capitalismo, se ne possono trarre due conseguenze
importantissime; il capitalismo non ha più forme produttive sue proprie e
non esiste quindi un concorrente economico possibile al capitalismo, un
modello di sviluppo residuale e preesistente o contemporaneo ma
alternativo, proprio perché la produzione capitalista è diventata l'unico
modello e schema di produzione fino al punto che il sapere produttivo
percepisce il capitalismo come un accidente e un attributo indispensabile
ma non strettamente necessario alla produzione; ma soprattutto l'operaio,
la forza lavoro, non ha più modelli di lavoro esterni al rapporto di
capitale, che è il rapporto di lavoro e quindi oggi ognuno è operaio, fino
al punto di rendere superflua la parola operaio e la parola forza –
lavoro.
Martedì, 29 dicembre
Annotazione: il professore di storia e filosofia del liceo affermava, in
un periodo che difficilmente avrebbe accolto le sue parole quantomeno in
molti ambienti intellettuali, che il comunismo richiedeva una preliminare
trasformazione dell'uomo, un salto morale, come lo diceva, un
miglioramento di sé e che solo dopo, solo in presenza di questa
condizione, sarebbe stato possibile realizzarlo.
L'etica, quindi, veniva prima dell'economia e aveva il compito di
determinare l'azione politica.
Rifiutavo con forza questa concezione: per me il comunismo era e sarebbe
stato il risultato naturale, meccanico e automatico dello sviluppo
economico e sociale. Il comunismo era inevitabile. Nella mia concezione,
quindi, il comunismo era un prodotto spontaneo della storia, era
spontaneità, anche sotto il profilo politico. In quest'ottica, la nuova
etica sarebbe stata l'effetto e non certo la causa del cambiamento; la
soggettività sorgeva spontanea e non si trattava di fare altro che
organizzarla.
A quarant'anni di distanza questo rimane, per me, un drammatico dilemma,
un dilemma intenso, anche se l'apparente e contingente crisi e inattualità
del progetto comunista sembra dare maggior ragione alle tesi del
professore, almeno indirettamente e per via mediata, poiché risulta
evidente la necessità di uno sforzo e la presenza di un'aspirazione ideale
che voglia realizzarsi nella storia.
Mercoledì, 30 dicembre
Annotazione. Secondo il professore del liceo, la tensione morale
era alla base del progetto comunista e quindi il comunismo non era solo un
nuovo modo di vedere e interpretare la realtà ma, pure, sé stessi e gli
altri, anzi la componente umana, antropologica, etica appunto, superava
per importanza quella economica e sociale. Il mio punto di vista era
completamente opposto: l'etica era un prodotto storico, l'etica era
un'ideologia e in quanto tale, alla fine, non esisteva, come particolare e
definito terreno disciplinare. Compito dei rivoluzionari era quello di
criticare l'etica del presente e ripudiare progetti etici riguardanti il
futuro, compito dei rivoluzionari era quello di costruire un nuovo mondo
dove, ma per forza di cose e per necessità storica e non per libera
scelta e quindi in modo profondamente anti etico, l'umanità si
sarebbe liberata dell'economia e del dominio dell'economia sulle sue
azioni. Allora una disciplina etica, come realtà effettuale e non
come astrazione idealistica, avrebbe potuto strutturarsi. Rifiutavo, in
ogni caso, ogni concezione etica che non potesse avere una giustificazione
materialistica e del problema della fondazione materialista dell'etica non
mi curavo affatto.
L'etica non era affatto un problema perché sarebbe venuta fuori e nessuno
si sarebbe sognato di chiamarla etica o peggio ancora morale.
Porre, come faceva il professore, l'etica alla base stessa della
costruzione del comunismo, fare del comunismo un movimento etico,
mi pareva rinnegare il comunismo e renderlo un progetto politico analogo a
molti altri e precedenti, togliere al pensiero comunista la sua
originalità, riducendolo a un'ideologia tra le altre. La trascendenza
ritornava, sotto mentite spoglie, a confondersi e influenzare l'immanenza,
mentre al contrario io diffidavo di qualsiasi cosa che non fosse
radicalmente immanente.
Fraintendevo e fraintendendo, organizzavo inconsapevolmente un bel
dibattito interiore, ancora aperto.
rivedi
dicembre
Inizio anno
Bibliografia consultata e consigliata:
Antologia
degli scritti politici / di David Hume; a cura di Giorgio
Giarizzo. - Bologna: Mulino, 1961 (I classici della
democrazia moderna)
Arte e Multitudo / Toni
Negri ; a cura di Nicolas Martino. - Roma : Deriveapprodi,
2014. - 1. ed. (Doc(k)s)
Castel del Piano : la perla dell'Amiata :
origini, economia, casati / Enzo Fazzi. - Arcidosso : Effigi, 2014. -
(Genius loci, 56)
Ceti medi senza futuro? : scritti, appunti sul lavoro e altro
/ Sergio Bologna. Roma : Deriveapprodi, 2007. - (Deriveapprodi, 68).
Che cos'è
un popolo / Alain Badieu, Pierre Bordieu, Judith Butler
[et al.]. - Roma : Deriveapprodi, 2014. (Fuori gioco, 46)
Convenzione e materialismo : l'unicità senz'aura / Paolo
Virno. - Roma : Deriveapprodi, 2011. - 2. ed. rivista e
corretta. - 1. ed. 1986
Costituzione e lotta di classe /
Hans-Jurgen Krahl. - Milano : Jaca Book, c1973. - (Saggi:
per una conoscenza della transizione; 52
Decennio rosso :
romanzo / Massimo Battisaldo, Paolo Margini. - [s.l.] : Paginauno,
2013. - (Narrativa, 8)
Essere figli: racconti di
vita vissuta e di crescita / Laura Musso. - Chieri : Gaidano
& Mattia, stampa 2011
Etica e trattato teologico - politico / Baruch Spinoza ;
a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani. - Novara : UTET ; De
Agostini, 2013
L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione /
Pekka Himanen ; prologo di Linus Torwalds ; epilogo di Manuel Castells ;
traduzione di Fabio Zucchella. - Milano : Feltrinelli, 2001. (Serie
bianca)
Grammatica della moltitudine: per
un'analisi delle forme di vita contemporanee / Paolo Virno. -
Roma : Deriveapprodi, 2004. - 4. ed. -
(Fuorigioco; 5)
Impero : il nuovo ordine della globalizzazione / Michael Hardt,
Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2002. - 4. ed. (Collana
storica Rizzoli)
L'intelligenza collettiva : per un'antropologia del
cyberspazio / Pierre Levy ; traduzione di Donata Feroldi e Maria Colò. -
Milano : Feltrinelli, 1996. - 1. ed. (Saggi, 1716)
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / Karl Marx ;
introduzione di Friederich Engels ; a cura di Giorgio Giorgetti. - Roma :
Editori Riuniti, 1973. 4. ed (Le idee, 24).
Moltitudine: guerra e democrazia nel
nuovo ordine imperiale / Michel Hardt, Antonio Negri. - Milano
: Rizzoli, 2004. - 1. ed. - (Collana storica Rizzoli). - Tit.
orig.: Moltitude. - Trad. di Alessandro Pandolfi.
Ricordi di un bevitore : l'incontro fatale con John Barleycorn /
di Jack London ; traduzione e presentazione di Paolo Cassella. -
Bussolengo (VR) : Demetra, 1995. - 2. ed. (Acquarelli ; 35)
Scritti
scelti / Rosa Luxembourg ; a cura di Luciano Amodio. - Torino
: Einaudi, 1976. (NUE: nuova serie ; 2)
Storia
della lingua italiana / Bruno Migliorini ; introduzione di
Ghino Ghinassi. - Milano : Bompiani, 1997. - 5. ed, - (Saggi
tascabili, 31)
Inizio anno
pagina
precedente