Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2015)
        
    
    
     
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          Venerdì,
        2 gennaio
      
      Ai margini. Etica. Quarta parte. In generale non esiste una fondazione
      'sicura' dell'etica, anzi la fondazione 'sicura' dell'etica è 'insicura',
      non poggia su nulla che non sia immanente e immanente non tanto nel senso
      di 'umano', in quanto concentrato sull'uomo, ma in quanto prodotto della
      necessaria e naturale collaborazione tra gli uomini. L'idea stessa di
      umano, in Spinoza, non si costituisce sull'individuo e la sua mente presi
      isolatamente, ma sul complesso degli individui e delle loro intelligenze.
      
      Letture. Impero di Negri e Hardt. Il capitalismo è creazione immanente, la
      produzione dell'essere si sposta dal teologico e dal trascendente
      direttamente dentro la società. Nel rinascimento (in verità già dal XIV
      secolo) si presagì questa nuova ontologia, che, però, lasciava irrisolto,
      sub specie dell'autorità politica, il problema della sua
      legittimità; presa così, senza mediazione, l'emergente ontologia delle
      merci, del danaro e del nuovo tempo di vita (il tempo di lavoro, il tempo
      dell'orologio) certamente fondava o meglio prospettava un nuovo dominio
      sociale ma faticava a trovare giustificazioni per la sua fondazione. Il
      pensiero del capitalismo mercantilista del XVII secolo si volse allora
      indietro ma non verso una meccanica riproposizione della trascendenza
      immaginata dalla scolastica medievale ma verso una trascendenza che si
      fondasse sull'immanenza. Il mercantilismo, il capitalismo al suo sorgere,
      possiede già una facies regressiva, non avendo il coraggio di
      produrre una nuova cultura e di avanzare nuovi codici, che manifesta
      superando lo sbandamento iniziale (XIV – XVI secolo). In questo contesto
      vanno inquadrate la riforma cattolica e quella protestante e la guerra dei
      trent'anni: in quella l'Europa si divise in due 'blocchi' belligeranti (i
      riformati e i cattolici) e all'interno di quelli le componenti più progressive,
      trasversali ai due schieramenti (pensiamo a Campanella, Bruno, alle comuni
      catalane, per il primo blocco, a Thomas Munzer, ai Ranthers, Levellers,
      mormoni, anabattisti radicali, per il secondo blocco) furono emarginati:
      l'inquisizione calvinista e anglicana in Olanda, Svizzera e Inghilterra
      non era diversa da quella cattolica in Spagna, Francia e Italia.
      Il secondo elemento è la scoperta o l'invenzione dell'eurocentrismo,
      l'idea che l'Europa fosse il continente più evoluto e l'unico capace di
      dare un senso al mondo e di proporre uno sviluppo internazionale.
      Negri e Hardt scrivono per il XVII di 'rifeudalizzazione', facendo
      riferimento alla tradizione storiografica confermata: si tratta di una
      sicura esagerazione. Ci fu qualcosa, nel seicento, che sotto il profilo
      formale potrebbe essere detta 'rifeudalizzazione' ma riguardò
      essenzialmente la parte latina dell'Europa e, soprattutto, fu realizzata
      con strumenti nuovi, niente affatto feudali. La feudalità iniziò a
      funzionare come un interessante relitto dentro una 'rifeudalizzazione' del
      danaro; il sistema di proprietà feudale aveva perduto il suo ruolo
      egemonico già nel XIV secolo (in gran parte della Francia e in Italia
      settentrionale) MA il sistema politico feudale rimase l'unico a fondare lo
      stato: di qui la feroce contaminazione tra mondo imprenditoriale e mondo
      aristocratico del XVI e XVII secolo. Lo stato assoluto è lo stato assoluto
      dell'aristocrazia, questo è inequivocabile, ma in quanto l'aristocrazia ha
      perduto caratteri feudali, localismo e spirito indipendente: lo stato
        assoluto aristocratico, che è fondato sul diritto feudale, è
        la prima esperienza di diritto pubblico collettivo, indifferente in
      larga misura e in tendenza ai localismi e particolarismi giuridici
      signorili, dopo l'involuzione dell'impero romano.
      Tornando a Negri e Hardt, l'illuminismo, che segue il seicento, è il
      prodotto migliore di questo sforzo di trascendentalizzare l'immanente,
      vale a dire lo stato e il diritto feudale, conciliando il passato con il
      presente e recuperando continuità istituzionale: l'illuminismo risolve,
      finalmente, il problema della fondazione giuridica del nuovo potere
      sociale della borghesia.
      Hegel precisò ancora meglio i termini della questione: proponendosi di
      superare l'illuminismo e scoprendo nella storia e nella storiografia i
      nuclei del nuovo sistema gnoseologico e ontologico, declinando la
      centralità del pensiero scientifico, formalizzò ancora meglio,
      compiutamente e intrinsecamente, l'immagine eurocentrica della storia e
      della civiltà e la nazione europea come essenza del nuovo cosmopolitismo
      della borghesia. Il concetto di nazione, comunque, rimase come prodotto
      della surcodificazione dell'estensione territoriale, della massa
      geografica e sociale, dello stato assoluto aristocratico: la borghesia,
      rivoluzionaria in campo economico e politico, non lo fu in campo
      istituzionale.
      
      Sabato, 3 gennaio
      
      Letture. Impero di Negri e Hardt. Rimango sempre dubitoso più
      che dubbioso sul concetto di povero della moltitudine che sostituisce
      quello di proletariato: dubito perché ci troviamo di fronte a una
      'sostituzione' neppure a un'integrazione e arricchimento. La ricerca di
      una metafisica, di qualcosa senza principio e fine, di incorruttibile
      nell'immanenza, si svolge nel concetto di questa nuova povertà, concetto
      che attraversa tutte le epoche, mentre, a mio parere, la nuova povertà è
      riassuntiva e quindi epiesegetica di tutte le condizioni subalterne che si
      sono date nella storia. Per usare un gioco di parole scriverei che invece
      che essere ai tempi della fine (come presagiscono gli autori) siamo alla
      fine dei tempi dove la fine non si manifesta perché il tempo cessa di
      portarla con sé, si ferma e si cristallizza. In questa cristallizzazione
      dei tempi la povertà si diffonde geograficamente e si intensifica
      localmente grazie a numerosi strumenti a relazioni tra loro dissimili e
      lontane ma tutte riconducibili a una regola generica, più che generale
      (che forse manca poiché inutile): produzione di essere, merce e tempo come
      merce di scambio. Il lavoro salariato, proprio perché generalizzato,
      assolutizzato è diventato un rapporto generico, non specifico, e quindi
      una morte apparente perché tutto è riconducibile al salario, perché tutto
      è salario, anche quando non viene elargito come tale e si è reso
      indipendente dalla contrattualistica salariale.
      La mia critica a Negri e Hardt in relazione a quest'opera è rivolta contro
      la messa in produzione di troppe conoscenze e troppi saperi che
      comportano, spesso, contraddittorietà e disorganicità e, altre volte,
      ripetitività, reiterazione e addirittura superficialità.
      L'intento e l'obiettivo di Impero sono nobili: scrivere e riscrivere,
      troppe volte forse, i lineamenti di Marx con la fondazione della storia
      futura, della storia imperiale. Marx va oltre Marx nella storia raccontata
      da Negri e Hardt. Si rischia, però, di assemblare segmenti di sapere
      difficilmente assemblabili e di sacrificare all'organicità e completezza
      dell'analisi, la sua profondità. Mi è parso un tentativo estremamente
      anacronistico, una specie di recupero delle categorie della modernità
      contro un'attualità che impedisce una sintesi. Avrei preferito (e mi sarei
      aspettato) qualcosa di più specifico e mirato sulle esperienze, il vissuto
      (e la loro definizione, individuazione), i saperi proletari degli ultimi
      decenni del XX secolo; quando si scende nella contingenza, invece, si fa
      spesso riferimento a informazioni da rotocalchi televisivi. La lettura è
      interessante, l'idea buona ma l'obiettivo immane e rischia di affondare
      lettura e idea.
      
      Lunedì, 5 gennaio
      
      Ai margini. Impero Negri e Hardt. Ancora spunti intorno alla 'costituzione
      imperiale', spunti che nascono da un'analisi empirica intorno alla sua
      potenziale fondazione. Direi che, in buona parte, le ipotesi degli autori
      sono state rispettate anche se l'idea della costituzione imperiale appare
      forzata: perché mai l'impero dovrebbe avere necessità di una fondazione
      giuridica, quando ha a disposizione la istituzionalità dei relitti degli
      stati nazione? L'impero non si darà in costituzione perché non ha
        nessun interesse a manifestarsi come sistema politico formalizzato;
      l'impero è quel tipo di capitalismo mondiale integrato di Deleuze che,
      come giustamente annotano Negri e Hardt, trova interessanti riferimenti in
      alcuni istituti internazionali e non (G8, FMI, Banca americana,
      multinazionali e ONG, aggiungerei anche la Chiesa Cattolica il cui ruolo
      di base del potere costituente imperiale è enormemente cresciuto tra
      Giovanni Paolo II e Francesco) ma non riuscirà mai a darsi forma
      strutturata perché anche questo complesso istituzionale è un relitto e
      perché non ne ha interesse alcuno.
      Seguendo Negri, sotto il profilo della politica il capitalismo mondiale
      integrato si presenta non come organismo politico ma come potenza etica e
      come tale guida la politica sotto la forma di un supremo e assoluto
      condizionamento. Gli stati nazione, limitando il loro ruolo alla gestione
      della contabilità territorializzata, funzionano perfettamente nella
      distribuzione del controllo del capitalismo internazionalizzato, che
      assomiglia all'impero ma non si darà mai nella forma imperiale, nonostante
      molte analogie con quella esperienza storica.
      Gli stati nazione, inoltre, producono sempre più spesso non tanto una
      territorializzazione quanto una neo–territorializzazione, quando pensiamo
      all'ex Iugoslavia o all'ex Unione Sovietica o anche a certi conati ideali
      leghisti e cinque stelle di casa nostra. Pensiamo anche al ruolo che
      assume, in questa ri–territorializzazione, l'antagonismo recitato del
      fondamentalismo islamico. La neo – territorializzazione, come Negri e
      Hardt sottolineano, è un fenomeno vicinissimo alla funzionalità del
      capitalismo globale, un modo, spessissimo contraddittorio, di definire e
      inventare nuove aree omogenee, oppure di disarticolare aree omogenee
      preesistenti. La produzione dello sconforto, cioè l'uscita
      spettacolarizzata da ogni tradizione nazionalista, è genetica del
      capitalismo imperiale che rimescola le culture, le etnie e ne produce
      nuove e ricombinate.
      La capacità di ricombinare è il segreto in forma biologica del capitalismo
      mondiale integrato: un maghrebino in Italia che vuol essere
      italiano, aderire e appartenere alla nazione, un maghrebino che
      vota lega, un maghrebino che resta in Marocco e che ha parenti
      in Italia e rifiuta la nazione marocchina, aderendo all'internazionalismo
        islamico, il maghrebino che odia i neri e non si sente
      africano, ma solo arabo e mussulmano, il maghrebino immigrato
      che si sente europeo e non italiano. 
      La neo – territorializzazione è fenomeno geografico, che coniuga entità
      sovranazionali (gli Stati Uniti d'Europa) con entità nazionali e con
      realtà regionali. Pensiamo ai fondi CEE che spesso, scavalcando le
      competenze degli stati nazionali, hanno come obiettivo diretto aree
      precise all'interno di quelli. La neo – territorializzazione è anche fatto
      temporale attraverso le trasformazioni che induce tra i suoi componenti,
      attori e 'cittadini', nella visione del territorio, dell'etnicità e della
      socialità. All'interno di una stessa geografia possono coesistere numerose
      geografie e davvero ogni realtà geografica tende a ridursi a
        un'espressione geografica.
      In questi spunti, lo ribadisco, riemerge dalla terza internazionale una
      concezione metafisica, ontologica del proletariato – moltitudine, una
      sopravvalutazione della classe (come si sarebbe scritto un tempo) che
      prelude regolarmente alla sopravvalutazione dell'elemento organizzativo in
      quanto prescinde dalla realtà della composizione di classe, comprese le
      sue debolezze e vulnerabilità, e pone il problema dell'organizzazione solo
      come fatto tattico: l'esercito, alla fine, è già pronto. Nonostante tanti
      decenni siano passati da Potere Operaio, questo rischio nell'approccio di
      Negri lo continuo a individuare. Non si fa cenno, infatti, in Impero alle
      potenze e alle debolezze di questa ricomposizione di classe: il cenno alla
      paura come forma suprema di controllo è, oggettivamente, un po' povero.
      Leggerò Moltitudine e naturalmente la quarta parte di Impero (la pars
        destruens) che ancora mi manca, ma se questo è l'approccio mi
      faccio poche illusioni.
      
      Annotazione. Alla fine della fiera diventa sempre più divertente il
      quesito: da chi e da che cosa è ispirata la politica di Renzi o quella
      della Merkel? Dagli istituti internazionali? Da relazioni informali con
      gruppi di potere altrettanto informali? Da un 'congresso' delle
      multinazionali che cerca di interpretare l'intelligenza collettiva del
      capitalismo? Dai vecchi stati nazionali che cercano di interpretare il più
      realisticamente possibile le esigenze di sviluppo del capitale globale?
      Quattro domande sono queste che sono anche quattro risposte: tutte queste
      cose e forse qualcosa di più, ma non a coordinare, ad aggiungere.
      Renzi 'prende ordini' e segue suggerimenti da qualcosa che non è
      formalizzato e che si presenta ufficialmente nei termini di un accordo
      internazionale ma che è molto più complesso di un accordo.
      Negri e Hardt hanno, sotto questo aspetto, ragione: di quest'ampia
      informalità istituzionale è stato maestro l'impero romano che non ebbe mai
      una vera costituzione, ma solo continui riferimenti alla precedente e
      residuale costituzione repubblicana, perché avere una costituzione, una
      formalizzazione definita sarebbe stato un elemento di debolezza.
      
      Martedì, 6 gennaio
      
      Ai margini (mica tanto). Ricordi di un bevitore. Siamo più o meno nel 1893
      / 1894 e basta a sottolineare la differenza che esiste tra lo scenario
      italiano che portò mezzadri legati quasi indissolubilmente alla terra del
      fittavolo a dare vita al movimento dei Fasci siciliani e lo scenario
      californiano e americano, questa frase di London: “Lo iutificio non
      mantenne la promessa di aumentarmi la paga fino a un dollaro e un quarto
      la settimana, e io, da bravo ragazzo americano, libero cittadino in libero
      stato, esercitai il mio diritto di libero contraente e lasciai l'impiego –
      e ancora oltre - … poiché il lavoro meccanico non rendeva abbastanza,
      bisognava che scegliessi una professione. L'elettricità era un vasto campo
      che si andava aprendo, perché non fare l'elettricista?”.
      Ed è solo questo un esempio di molti del genere che si potrebbero trarre
      dal libro, se penso che in quegli stessi anni nasceva faticosamente il
      Partito Socialista Italiano, mentre London aderiva alla locale sezione del
      partito socialista americano descrivendola con la serenità di quello che
      sceglie di entrare in un centro culturale dove si incontrano interlocutori
      interessanti e buoni libri da leggere.
      Nel primo brano Jack descrive una mobilità sociale e intellettuale
      inimmaginabile in Italia e probabilmente nella davvero vecchia Europa.
      L'immersione nei nuovi orizzonti di vita e del mercato del lavoro è in
      London ventenne completa e quasi rappresentativa di un percorso; e così,
      descrivendo la sua odiosa amicizia verso John Barleycorn, Jack descrive
      anche, incidentalmente, il mondo del lavoro californiano di fine
      ottocento. London racconta il mercato del lavoro americano solo
      incidentalmente non per scelta politica o letteraria non per esigenza
      narrativa, ma per fedeltà al proprio vissuto: imbarchi nelle flotte
      pescherecce come momenti per sfuggire al lavoro di fabbrica e
      'sospenderlo' per qualche mese, periodi di navigazione libera e autonoma
      su piccole barche noleggiate e poi l'idea di orientarsi verso il lavoro
      intellettuale (insegnante, impiegato o giornalista pagato a pezzo) che
      viene retribuito ma, scrive London, libera solo dalla schiavitù del lavoro
      fisico e manuale e la sua natura di lavoro salariato e comandato non
      manca.
      Anche qui idee inimmaginabili nel vecchio continente.
      Jack London descrive un contesto operaio di tipo sociale, distribuito sul
      territorio, mobile, nomade geograficamente e professionalmente. Nella fase
      del passaggio dal legame con il lavoro manuale (iutificio, magazzino del
      carbone e una lavanderia) le flotte pescherecce divengono il profilo e
      momento 'liberato' del lavoro salariato, una compensazione per i periodi
      della fabbrica, compensazione e perequazione anche economica, ma London
      addirittura giunge a un momento di autentico rifiuto del lavoro, quasi a
      confermare la coscienza della socialità e diffusione dello sfruttamento e
      che anticipa comportamenti che negli Stati Uniti si dispiegheranno già in
      quel decennio con gli Industrial Workers of the World (IWW o Wobblies) e
      per i quali nella 'vecchia' Europa (davvero vecchia un'altra volta)
      bisognerà attendere gli anni sessanta del XX secolo. A tal proposito
      trascrivo dalla memorie: “Il principale risultato di questa indigestione
      di lavoro [Jack aveva appena terminato, licenziandosi, un'esperienza come
      fochista a dodici – tredici ore quotidiane, festivi inclusi (Nota mia)] fu
      quello di disgustarmi di tutto il lavoro in generale. Non volevo
      assolutamente più lavorare, la sola idea di lavoro mi nauseava. Non mi
      importava affatto di farmi una posizione, tutti i mestieri [con mestiere o
      professione John intende quello che era inizialmente il suo obiettivo: un
      lavoro da operaio qualificato, elettricista o tecnico, con iscrizione
      automatica al sindacato corrispondente (Nota mia)] potevano andare a quel
      paese … E così partii di nuovo alla ventura, dirigendomi a oriente e
      lavorando occasionalmente nelle ferrovie, per viaggiare più in fretta”. La
      relazione con il lavoro diviene assolutamente strumentale, non costitutiva
      dell'esistenza e dei suoi valori, il lavoro è volutamente temporaneo e
      l'elemento essenziale di quello sta nella migrazione e nello spostamento.
      Per di più questo nomadismo non è affatto trasparente e passivo alle
      istituzioni disciplinari e più di una volta London si trova al centro di
      azioni illegali (risse e furti) che determinano brevi periodi di prigionia
      in carcere.
      L'orgoglio lavorista della classe operaia europea, che si riproduceva
      anche in America attraverso una migrazione proletaria 'd'élite' (tedesca,
      soprattutto), era deriso, annullato e giusto ridotto al compiacimento per
      la tessera sindacale che London irride. La seconda internazionale, in
      America, era già superata.
      Lasciamo, ovviamente, da parte un elemento contestuale importantissimo che
      rese possibile questo nomadismo operaio: la frontiera americana (Klondike,
      il selvaggio nord,  porti di mare incontrollati, rete ferroviaria in
      costruzione) era ancora aperta. E ancora ammetto un secondo elemento al
      quale London fa continuo riferimento: la multietnicità delle relazioni sul
      lavoro e nel quartiere (italiani, francesi, greci, svedesi e tedeschi
      popolano la California dei Saloon, delle flotte pescherecce e delle
      fabbriche e si va dal vino rosso – per restare con John Barleycorn – alla
      birra e infine al Whiskey). 'Ricordi di un bevitore' è una miniera di
      informazioni, riflessioni, stati d'animo, ideologie e dinamiche
      esistenziali (mettendo l'accento sull'ultimo termine), insomma una lettura
      da consigliare se non, addirittura, da prescrivere. 
      
      Letture. Ricordi di un bevitore. Per riprendere le riflessioni intorno
      alla relazione con John, London descrive il momento in cui diviene un
      bevitore solitario, casalingo. È questo il momento in cui finalmente (c'è
      da quasi da scrivere) l'alcol diventa buono anche al palato. È la fase
      dove John si innalza al ruolo di amico intimo, dove non serve più per
      affrontare la convivialità o per istituirla ma per affrontare sé stessi, i
      propri pensieri: dominare la mente. È questa per Jack la fase della vera
      dipendenza: non solo si beve da soli ma spesso si beve di nascosto agli
      altri, giungendo alla convivialità alcolica già iniziati, dando braccetto
      al signor Barleycorn.
      L'alcol si propone come verità sulle cose e sulla vita, più vera della
      verità del sobrio perché più accattivante, più potente: la verità priva di
      veli, che produce disperazione e che non può che richiedere una sola cura,
      John, avendo una sola origine, John: l'alcol è causa del male e la sua
      terapia. John Barleycorn si costituisce in regno, nel regno nel quale la
      percezione del mondo è diversa da quella comune e non può essere condivisa
      se non nell'alcol o nella malinconia clinica. La morte stessa, di fronte
      allo svuotamento della vita, è un evento indifferente e la paura della
      morte semplicemente assurda: John Barleycorn ha fatto in modo, infatti,
      che la costituzione del suo regno sia fondata razionalmente, essenza
      stessa e scopo della ragione.
      
      Mercoledì, 7 gennaio
      
      Annotazione. Quello che è successo in Francia, l'irruzione al giornale
      satirico Charlie Hebdo, non mi spaventa ma mi preoccupa. Certamente le
      immagini diffuse e montate dai media sono state costruite per
      provocare timore, per fare in modo che ognuno fosse presente al racconto
      televisivo che si riduceva a una storia di paura e voleva esserla, era
      studiato per esserla.
      Sentimento più appropriato è, invece, la preoccupazione che non il timore.
      In primo luogo per l'incapacità di comprendere l'azione nella sua
      terribile realtà: un giornale, la cui storia editoriale non conosco, che
      si schiera apertamente contro l'ISIS e l'integralismo islamico e da quanto
      mi è dato capire ha usato spesso una satira teologica molto greve, tre
      franco – algerini di estrazione proletaria che appartengono allo stesso
      quartiere (almeno pare) che probabilmente hanno compiuto un viaggio
      politico, militare e  'patriottico' in Siria e tre kalashnikov.
      I media pongono così la questione per incutere timore intellettuale, dopo
      aver lavorato sulla paura fisica e sulla morte: penne e matite contro
      mitra, libertà di stampa e d'opinione contro militarismo terrorista e
      liberticida.
      Eppure le cose dovrebbero essere analizzate e considerate in tutt'altro
      modo: tre proletari francesi che fuggono la frustrazione della loro
      condizione, intraprendendo un viaggio verso le loro 'radici' culturali,
      seguendo lo stile di molto romanticismo nazionalista europeo ottocentesco,
      e una redazione indifferente a questo spirito romantico, votata alla sua
      derisione e ben allestita nel centro di Parigi.
      Lo scontro costruito dai media avviene sul terreno loro più
      congeniale: l'estremismo islamico e la libertà di stampa, la critica al
      sistema sociale espressa in maniera puerile e il sistema sociale difeso in
      modi puerili. Se la redazione è anche di sinistra e il giornale è in
      bolletta ancora meglio, non ci sono ostacoli a questo assunto che diventa
      ancora più lineare.
      Questo scenario dello scontro preoccupa ma non solo da oggi, da almeno un
      decennio.
      L'islam si è trasformato in un movimento di critica pre – moderna al
      capitalismo internazionale, e il capitalismo internazionale, verso
      l'islam, usa un linguaggio pre – moderno, rispolvera illuminismi
      anacronistici: entrambi pensano e recitano lo scontro di civiltà.
      È questo che preoccupa: la critica al 'sistema imperiale' è diventata una
      questione di civiltà e la difesa del sistema imperiale è una questione di
      civiltà opposta. In mezzo non c'è nulla, nessun ambito dialettico: è
      possibile solo un ritorno al passato, dall'una e dall'altra parte. Il
      salto di qualità che viene evidenziato rispetto a altre azioni rivolte
      contro le istituzioni militari o le forze di polizia, È REALE: lo stato di
      guerra coinvolge la stampa, i media. Il rifiuto dei media
      fa parte della dimensione pre – moderna del conflitto, da una parte e
      dall'altra: il laicismo elevato a religione contro l'integralismo confuso
      con il vero spirito religioso. Ogni ulteriore riflessione è bandita tanto
      dalla pratica dei terroristi, quanto dall'approccio dei media
      che hanno da tempo imparato a rifiutare sé stessi, la loro storia e il
      simulacro di libertà che la conformava: agli uni va bene essere diventati
      e dipinti mostri, agli altri va bene dipingere e creare mostri.
      Questo schema preoccupa perché richiama altri schemi come in un domino
      rovesciato, altre catene informative e ideologiche: la lotta come
      conflitto militare, il confronto come affrontamento di verità
      inconciliabili e la fine dello scontro come annullamento fisico
      dell'avversario mentre l'avversario diviene ogni giorno diverso da quello
      che è realmente: dieci redattori, due poliziotti, tre proletari e dei
      kalashnikov. 
      
      Giovedì, 8 gennaio
      
      Annotazione. È difficile avere idee chiare di fronte a eventi che sono
      studiati per provocare disorientamento e confusione intellettuale e questo
      è uno di quelli.
      Alle torri gemelle, malgrado il caos esegetico iniziale, le parti furono
      individuate, separate e alla fine contrapposte, mentre nel caso Charlie
      Hebdo si libra il fantasma della contaminazione: il nemico è, al
      contrario che per l'interpretazione dei fatti delle twin towers,
      anche interno.
      Che quella delle twin towers sia stata una contrapposizione ipocrita,
      bugiarda e rappresentata poco qui importa, è rilevante che
      nell'immaginario collettivo si consolidò; qui importa il fatto che si
      istituisce l'idea, l'idea paurosa verso il nemico interno, irriconoscente
      nei confronti della cultura, la nazione e più in generale la civiltà che
      lo ospita.
      Conosco troppo poco la teoria e la prassi degli integralisti islamici per
      tracciare un giudizio veramente adeguato sul loro ruolo internazionale;
      vedo solo, anche distrattamente, alcune azioni e, tra le altre cose,
      attraverso gli occhi dei media. La mia impressione, sorta fin
      dai tempi delle twin towers, è stata quella di una comoda, anche
      se militarizzata, opposizione di sua maestà all'imperialismo globalizzato,
      nella misura in cui il terrorismo islamista è uno strumento per procurare
      i consensi che generano da paura e disorientamento e per provocare un
      effetto di spiazzamento in quelli che sono radicalmente critici verso il
      sistema capitalista globale e integrato, non nel senso che queste azioni
      contribuiscano a isolarli attivamente, attraverso l'accusa di
      fiancheggiamento o analoghe accuse, ma perché  procurano un
      isolamento passivo, una difficoltà oggettiva ad analizzare la situazione e
      a conservare critica e distacco contro l'etica imperiale (come la
      definisce Negri in Impero): dopo azioni di questa gravità e soprattutto
      dopo campagne di rappresentazione mediatica come queste al di fuori
      dell'etica imperiale dominerebbero, appunto, solo paura e disorientamento.
      La trasformazione, infatti, secondo questa opposizione di comodo può
      seguire una sola strada che è quella del ritorno al passato, il
      rinnegamento della modernità, del laicismo e del materialismo
      immanentista: la trasformazione non è un passo in avanti ma un salto
      indietro.
      La rivoluzione iraniana del '79, pur essendo stata l'antesignana della
      politica islamista radicale contemporanea, mantenne dei legami tra uso
      della forza e movimenti di massa che appartenevano a pieno diritto alla
      tradizione comunista e in genere alla storia rivoluzionaria occidentale;
      qui ogni legame con i soggetti politici e sociali appare sciolto, qui è
      solo un gruppo, un'organizzazione anche  articolata, che, per quanto
      è dato comprendere, non ha alcun interesse ad assumere forme di massa, ma
      solo una base di massa, secondo la più deleteria tradizione giacobina
      dell'occidente, secondo il modo di rappresentare le masse, senza esserne
      parte, e di organizzarne la liberazione, senza che questa liberazione le
      riguardi.
      
      Venerdì, 9 gennaio
      
      Letture. Etica di Spinoza. E veniamo alla quinta parte dell'Etica
      spinoziana.
      Avevo molte aspettative; sono entusiastici, spesso, i riferimenti di molti
      autori a questa parte dell'opera, come una sezione fondamentale,
      illuminante e profetica rispetto a certe contraddizioni e ondeggiamenti
      caratterizzanti quelle precedenti, al contrario, sarà sicuramente un mio
      limite, il primo approccio è stato per me deludente. Un vizio che avevo
      già riscontrato, soprattutto nella prima e seconda parte (Dio e la mente
      umana) si è ripresentato: l'idea che la mente validi la sua esperienza a
      partire dalla “chiarezza e certezza” nella percezione delle sue idee. Il
      rischio che corre Spinoza (e la sua lettura) è quello di essere
      tautologico. Sto pensando di rileggere Hume e un po' di rimpiangere Locke.
      
      La tautologia potrebbe essere questa: un'idea è certa perché è certa,
      scritta in parole povere. Spinoza adotta un metodo che potrebbe essere
      definito di validazione intuitiva: la mente percepisce in sé,
      come in un sentimento, in uno stato d'animo, la validità delle sue idee;
      la validità è provata da uno stato emotivo che tocca la mente davanti alle
      sue idee. Vi ho trovato molto Cartesio, nonostante la critica notevole e
      irriverente che proprio a Cartesio rivolge Spinoza nella prefazione a
      questa parte dell'etica. In questa Spinoza attacca la stoà e Cartesio,
      ridicolizzando il concetto 'medico' di ghiandola pineale che, afferma
      l'olandese, non si sa esattamente come funziona, come può essere raggiunta
      dai nervi, ma che è presupposta come mobile e motile per seguire le
      percezioni dei corpi e i comandi della volontà che, così, rende la mente
      capace di dominare le passioni e gli affetti.
      Giustamente, nella prefazione alla quinta parte, Spinoza dichiara di non
      volersi occupare di logica né di medicina ma solo della mente umana sotto
      il profilo dell'etica, (e precisa, infatti di intendere la sua analisi
      limitata all'uomo e non agli altri viventi), affermando che i fondamenti
      dell'etica sono interni all'etica stessa e non sono il prodotto di una
      mediazione logica, di origine esterna. Spinoza pone, così, (già nella
      polemica sacrosanta contro Cartesio) il fondamento della conoscenza
      nell'intuizione e l'intuizione è uno stato emotivo, almeno a mio modo di
      interpretarla. Anche Kant, alla fine, con le sue due intuizioni
        fondamentali di tempo e spazio appare debitore di questo aspetto
      del pensiero di Spinoza, di questa impostazione e matrice della
      gnoseologia spinoziana; anche per Kant, infatti, le intuizioni non sono
      dimostrabili e, infatti, spazio e tempo non lo sono ed esistono
      semplicemente per la mente umana e per la sua misura. Kant, però, pose una
      misura alla mente: spazio e tempo esistono secondo le nostre condizioni
      della conoscenza, sono validi e quindi esistenti solo sotto le nostre
      condizioni percettive e conoscitive, sono assiomi non verità.
      In Spinoza, invece, la ragione non possiede questa misura, non è
      sottoposta a un metro, precisamente come per il criticato Cartesio: anche
      per Spinoza la ragione è una potenza trascendente. La
      trascendenza di Spinoza non si identifica certamente in quella cartesiana:
      la mente umana e la natura (i corpi), il soggetto conoscente e l'oggetto
      conosciuto non si separano, appartengono, invece, alla stessa sostanza
      perché la mente è solo un modo di essere della natura e della materia e
      parimenti la materia può essere considerata come parte dei modi di essere
      della mente, ma, e nella parte quinta dell'etica questo passaggio è
      esplicitato, solo quando la mente condivide l'eternità di Dio diventa
      capace di comprendere l'essere e di essere sé stessa, considerandosi e
      considerando l'essere per quello che sono.
      Esistono delle innegabili affinità tra Cartesio e Spinoza e sono quelle
      della vulgata scolastica e del razionalismo ma ancor più profonde e
      cogenti. Per Spinoza la mente umana non ha misura che in Dio e se Dio è la
      natura infinita ed eterna, allora non ha misure e limiti. Anche se
      Spinoza, con l'intelligenza e l'acutezza che lo contraddistingue,
      introduce una precisazione, che non risolve il problema ma lo rende
      intrigante: la natura e la mente umana insieme con lei devono essere
      intese come un complesso infinito ed eterno di relazioni effettuali, di
      eventi limitati nello spazio e nel tempo, e dunque l'eternità non si
      presenta immediatamente alla mente. 
      L'eternità e Dio non sono una consapevolezza naturale e immediata per la
      conoscenza e come tale neppure strettamente necessaria, tanto è vero che
      Spinoza ritiene che sia possibile giungere alle sue conclusioni etiche
      senza postulare l'esistenza di Dio, ma comportandosi intellettualmente
      come se essa fosse. Spinoza, infatti, scrive nella proposizione XLI:
      “Anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, considereremmo come
      essenziali e primarie … tutte le cose che nella quarta parte abbiamo
      mostrato attinenti alla Fermezza d'animo e alla Generosità”. 
      
      Sabato, 10 gennaio
      
      Annotazione. Una delle domande da farsi sulla vicenda del Charlie Hebdo è
      quella del 'come'. Come è possibile che alcuni giovani, immigrati di
      seconda generazione, con una biografia che comprende rap, vita
      di gang e qualche reato contro il patrimonio, insomma ragazzi con uno
      stile di vita tipicamente occidentale, imbraccino un kalashnikov e
      un'ideologia 'religiosa' assolutamente opposta? Dove si ubica il luogo di
      questo 'scivolamento'? Questa è una delle possibili risposte. Certamente
      non in Siria o nello Yemen ma prima, nelle banlieu stesse. I
      'tradizionali' meccanismi di rappresentazione della critica nella forma
      dell'estraneità sembrano essere saltati proprio lì, nella periferia
      parigina. È Parigi il problema non la Siria o lo Yemen per i due fratelli
      Qouachi.
      Stavo pensando alle periferie in rivolta e ai casseurs degli
      anni novanta; a quel tempo i Qouachi erano adolescenti. Non credo che sia
      un pensiero improprio e ho fatto solo un calcolo anagrafico, nessuna
      indagine biografica. In quel caso la critica, il 'disagio', si manifestò
      in modi tipicamente occidentali: la lotta di piazza, la barricata, le
      automobili incendiate, le molotov e i sassi contro la polizia. Ora abbiamo
      tre kalashnikov. La critica passa (scivola) da un terreno riconoscibile a
      uno non riconoscibile. La sensazione è che non solo la Siria venga dopo ma
      che anche la Siria sia il prodotto di questo scivolamento: la fine della
      dialettica, della dialettica seppur espressa in forme robuste e illegali,
      e l'emergere della separazione, della divisione.
      Anche la Siria e il nord iracheno hanno subito uno scivolamento tra la
      prima e la seconda guerra del golfo, hanno subito una democrazia esportata
      sulla punta dei fucili e un grande non – senso politico, vale a dire
      qualcosa che non è più interpretabile secondo le usuali forme della guerra
      e della politica: un'occupazione militare multinazionale che non propone
      altro che sé stessa, che non ha uno scopo apparente e che pare non
      desiderare nemmeno una via di uscita. In questo contesto, la democrazia
      esportata è stata solo copertura, la democrazia esportata non tenta
      neppure di relazionarsi con storie, tradizioni e culture preesistenti; è
      sufficiente, per definire la democrazia in medio oriente, che si voti e
      che ci siano degli eletti, precisamente come nelle democrazie occidentali.
      La reazione a questo stato di cose è stata di tipo occidentale, anche se
      si è presentata e continua a presentarsi come il suo opposto e la sua
      negazione (l'integralismo islamico), e non in quanto prodotto della
      risposta all'intervento militare, ma perché il fondamentalismo ha
      un'immagine occidentale del mondo: la storia come luogo di realizzazione
      dell'umanità, la storia come piena di senso e significato, di una
      teleologia, anche apocalittica. L'apocalisse mussulmana non è la negazione
      della storia ma la sua sacralizzazione: la lotta alla modernità degli
      integralisti non è un ritorno alle origini e a un mondo privo di storia,
      ma è, invece, il prodotto culturale della modernizzazione del testo sacro,
      secondo la quale satana è il capitalismo internazionale, la storia è la
      lotta contro satana e all'internazionalismo del capitale si contrappone
      l'internazionalismo del testo sacro, mentre gli eserciti multinazionali
      dell'ONU sono truppe crociate e l'ideologia del capitale è risolta come
      un'ideologia religiosa, una religione nemica.
      Le contraddizioni reali non sono uno strumento per abbattere e criticare
      il capitalismo, ma sono solo usate in una rappresentazione critica, la
      prova del dominio di satana sul mondo e sul capitalismo; in verità,
      secondo questo modo di pensare, sarebbe possibile un capitalismo
      internazionale islamico, una sorta di capitalismo dal volto umano.
      In fondo il capitalismo non è il nemico ma solo quello che comporta:
      globalizzazione, indifferenziazione, deterritorializzazione,
      mercificazione della religione e dell'etica, riduzione del mondo
      all'immanenza. Il nemico non è la nuova trascendenza, la nuova
      religiosità, la nuova eticità astratta e generica della quale, al
      contrario, il nuovo islam vorrebbe appropriarsi, egemonizzare e sulle
      quali desidererebbe esercitare il comando. La nuova trascendenza islamica
      espressa dal fondamentalismo ha come palinsesto, rozzamente sviluppato, la
      nuovissima trascendenza capitalista contemporanea e per questo, oltre che
      per moltissimi altri motivi, la 'rivoluzione integralista islamica' è
      costitutivamente una rivoluzione di vertice, militarista e giacobina.
      Nulla di più inattuale e proprio in quanto inattuale pericolosissimo e
      preoccupante, poiché è capace di generare inutili tensioni, fobie, paure e
      speranze e soprattutto per chi questo mondo, il mondo imperiale di Negri o
      il capitalismo integrato mondialmente di Deleuze, vuole veramente
      comprenderlo, analizzarlo, criticarlo, scomporlo e alla fine cambiarlo o
      distruggerlo.
      Sono sempre stato dell'idea che una falsa opposizione e una finta
      rivoluzione siano i peggiori nemici dell'opposizione e della rivoluzione e
      che siano più pericolose e ininfluenti di una conformistica accettazione e
      di una perbenistica conservazione, poiché nascondono il problema e facendo
      il verso di affrontarlo lo chiamano con nomi non suoi.
      
      Annotazioni. Renzi come sta? Sta sempre bene. Queste riflessioni non lo
      toccano. Quando scriverò di politiche sociali e di recupero sociale starà
      un po' peggio Berlusconi. Insomma stanno tutti bene: come possono stare
      male le marionette di nessuno?
      
      Domenica, 11 gennaio
      
      Letture. Etica. Quinta parte. Confesso che chiudere la lettura dell'Etica
      con un giudizio negativo sulla quinta parte mi pare quasi oltraggioso,
      nonostante rimanga di questa opinione e chiuderò con un giudizio, quindi,
      negativo.
      La terza e la quarta parte dell'opera, per il loro intento analitico,
      scrupoloso, quasi psicanalitico, hanno parlato meglio; le conclusioni
      della quinta parte, pur non entrando in contraddittorio con le parti
      precedenti, anzi sviluppandole (soprattutto la I e II parte), sono
      indipendenti da quanto svolto prima: Spinoza intende fondare l'etica e
      fornirle una struttura autonoma dalla chimica degli affetti appena
      analizzata, slegarla dalla materialità della dinamica dei sentimenti e
      costituirla. Spinoza la costituisce come polo razionale al quale la
      dinamica sentimentale deve fare riferimento e il polo si determina grazie
      alla strutturazione di idee distinte e adeguate ai sentimenti;
      l'adeguatezza e la chiarezza derivano, per Spinoza necessariamente, dalla
      partecipazione di queste idee, o meglio del tessuto genetico di quelle,
      all'idea di Dio: la mente deve partecipare alla mente divina per
      sciogliersi dal dominio degli affetti. Qui risiede il potere della mente.
      Dio è soprattutto un attributo, l'eternità, e lo sviluppo e la percezione
      del concetto di eternità nella mente sono essi stessi, in quanto tali,
      garanzie della realizzazione della partecipazione alla mente divina. Non
      necessariamente teista (Spinoza tra le righe lascia assolutamente liberi
      in proposito) la trascendenza che fonda l'etica si basa
        sull'attributo dell'eternità, sulla comprensione di quello.
      L'eternità concepita dalla mente è la forma astratta coerente con la
      costituzione del polo razionale dell'etica, prima di quello l'etica si
      riduce a immanente dialettica di affetti.
      Per rispettare il testo e lo stile fin qui seguito scendo, brevemente, nel
      dettaglio. Nello scolio della proposizione I Spinoza scrive: “l'ordine e
      la connessione delle idee sono identici all'ordine e la connessione delle
      cose”. Un concetto chiarissimo in base al quale Spinoza stabilisce una
      specie di onnipotenza bidirezionale dalle cose sulla mente e dalla mente
      sulle cose; la mente, quindi, è capace di raffigurarsi direttamente
      l'ordine delle cose e tra conoscenza e ontologia la relazione è diretta.
      È  bellissimo il concetto quando viene applicato alle idee inadeguate
      e confuse, meno bello quando applicato alle idee che Spinoza chiama
      adeguate, cioè là dove la relazione si definisce perfetta e compiuta.
      Questa teoria della conoscenza ci può portare ovunque, poiché non pone
      limiti alla potenza della ragione e non individua in quella difetti: è il
        razionalismo cartesiano svolto sotto il profilo dell'immanenza. In
      verità, al contrario che 'ovunque', essa rischia di portarci in nessun
      luogo, in un posto inesistente e ininfluente alla conoscenza, mentre al
      contrario la critica illuminista alla ragione, quella sì, è stata capace
      di condurci 'ovunque', nel bene e nel male e più spesso nel male.
      L'illuminismo ha scoperto la coscienza di sé, il ragionamento sulla
      ragione, l'appercezione kantiana e ha formalizzato il concetto di
      coscienza con inevitabili conseguenze ideologiche: la ragione si è
      liberata dalla necessità di coerenza con il mondo sensibile che, al
      contrario, il razionalismo faceva sua e pretendeva. L'illuminismo indicò
      la strada per la rappresentazione scientifica del mondo e della coscienza
      di tale rappresentazione.
      Quindi non è certamente il caso di scrivere ora il panegirico del
      criticismo kantiano e illuminista e la condanna del razionalismo, solo che
      il razionalismo, effettivamente, non porta che a sé stesso, chiudendosi in
      sé stesso; che questa chiusura in sé, soprattutto quando il razionalismo
      si arma degli strumenti dell'immanenza, possa essere utile non vi è
      dubbio, che possa avere effetti etici non vi è altrettanto dubbio, come,
      però, rischi di concludere sé stesso in un atteggiamento mistico.
      “Bisogna … adoperarsi di conoscere … ogni affetto in modo chiaro e
      distinto, affinché la Mente sia determinata dall'affetto a pensare quelle
      cose che essa percepisce in modo chiaro e distinto … e perciò l'affetto
      stesso sia separato dal pensiero della cosa esterna” scrive nello Scolio
      della proposizione IV Spinoza. L'astrazione dell'oggetto è anche
      l'astrazione della cosa ed è la via verso l'autonomizzazione dell'affetto
      da sé stesso, verso la trasformazione dell'affetto in idea distinta. Ma
      questo, come scritto, non basta e infatti, nella proposizione XXIII,
      leggiamo: “La Mente umana non può assolutamente essere distrutta insieme
      con il corpo, ma di essa rimane qualcosa di eterno” e quindi la mente è
      capace di trascendere il tempo attraverso il passaggio concettuale
      descritto nella successiva dimostrazione “... poiché ciò che è concepito
      con una certa eterna necessità mediante l'essenza stessa di Dio è pure
      qualcosa, questo qualcosa che appartiene all'essenza della mente, sarà
      necessariamente eterno”. Il gioco è fatto; è un gioco profondo ma è un
      gioco, purtroppo, che porta in nessun posto (che questo sia, rispetto a
      quello che seguirà nella storia del pensiero, un pregio, è per me
      irrilevante in questo momento). Si tratta di una dimostrazione di sapore
      scolastico: l'idea stessa di Dio ne prova l'esistenza.
      Più materialista, e nei fatti aperta a una concezione che non implichi
      l'esistenza di Dio inteso strictu sensu, è la descrizione
      dell'amore intellettuale di Dio. Qui Spinoza recupera gran parte della
      genetica gnoseologica contenuta nella terza e quarta parte dell'opera, in
      base alla quale si definisce un affetto, l'Amore, verso l'eternità e
      natura del mondo, Dio, in una dimensione razionale che richiede una
      Letizia generalizzata verso le cose e il loro ordine, dentro il quale la
      morale diviene un sentimento positivo e attivo, una pratica di vita che
      coltiva i migliori affetti della storia della Mente umana.
      Vale, quindi, la pena di trascrivere la proposizione XXXVI: “L'Amore
      intellettuale della Mente verso Dio è l'amore stesso di Dio, con cui Dio
      ama sé stesso, non in quanto infinito, ma in quanto può esplicitarsi
      attraverso l'essenza della Mente umana considerata sotto la specie
      dell'eternità”.
      
      Giovedì, 15 gennaio
      
      Letture. Antologia degli scritti politici di Hume, a cura di Giorgio
      Giarizzo, edito in Bologna per i tipi del Mulino nel 1961 e contenuto
      nella collana editoriale I classici della democrazia moderna.
      Il pensiero settecentesco mi affascina; epoca di superamento del riottoso
      XVII secolo (riottoso nel senso letterale del termine, vale a dire
      rivoltoso), epoca nella quale si teorizza la stabilità. Così ho anteposto
      la lettura di Hume al Trattato Teologico – politico di Spinoza e alla
      prosecuzione della lettura di Impero di Negri – Hardt. In verità è stata
      quest'ultima opera a guidarmi verso Hume e lo spirito illuminista allo
      scopo di precisare gli elementi di ricerca della sovranità per la nazione
      moderna. In effetti ci sono e ben articolati. Fondamentali in questo senso
      l'idea di giustizia e l'analisi della sua genesi.
      All'interno del libro, inoltre, ho trovato delle postille scritte da mio
      padre.
      
      Venerdì, 16 gennaio
      
      Letture. Antologia di Hume. Alla base del diritto positivo è il diritto
      naturale, perché i piani delle due categorie sono quasi coincidenti.
      L'utile individuale, l'utile più vicino all'uomo nella sua naturalità, non
      può fondare la società e il diritto ma solo l'utile 'sociale', l'utile non
      immediato, più lontano dall'uomo nella sua nuda naturalità, riesce a
      emancipare l'uomo dallo 'stato di natura' che, però, per Hume (e qui
      alberga la coincidenza tra naturale e positivo) è davvero un non – luogo,
      un'utopia e il prodotto di un'astrazione. L'uomo ha fin da subito, nella
      sua naturalità immediata, che pure comprende la soddisfazione rudemente
      egoistica e singolare dei suoi bisogni e il perseguimento del suo utile,
      necessità di stabilire delle convenzioni per evitare le crisi di violenza,
      le guerre private senza soluzione che il soddisfacimento dei propri
      bisogni singolari comporterebbe e per fondare un sistema di sicurezze
      sociali.
      Hume ritiene che la società è il prodotto naturale del superamento
      dell'ordine naturale attraverso tre regole di fondo: la stabilità del
        possesso, il trasferimento consensuale del possesso e il rispetto delle
        promesse. Queste tre 'invenzioni' (così le definisce) sono il
      palinsesto della società civile e della formazione dello stato, quindi,
      tra le comunità più semplici, semplici agglomerati di poche famiglie. Il
      governo è un'invenzione (Hume usa questo termine molto spesso in
      riferimento allo stato e alla comunità politica) posteriore, resa
      necessaria dal complicarsi della vita sociale, dall'allargarsi della
      comunità e dal moltiplicarsi dei bisogni e delle esigenze.
      Scritto in estrema sintesi, secondo Hume, lo stato di natura genera
      naturalmente l'idea dell'utile e l'uomo persegue sempre il suo utile;
      nello stato primitivo l'utile si identifica con l'utile immediato, con
      l'appropriazione e l'occupazione diretta delle risorse, con la
      competizione, che entra, però, subito in contraddizione con sé stesso e
      forse non riesce ad affermarsi mai compiutamente. Si elabora quasi subito,
      se non subito, rispetto a queste pulsioni più che realtà storiche e
        giuridiche, un secondo livello di utilità fondato sulle tre
      convenzioni o invenzioni che ha lo scopo di evitare i difetti e i pericoli
      del primo. Questo livello non è ancora capace di elaborare il pensiero
      morale, legato come è alle procedure dell'utilità immediata, ma getta i
      basamenti per la nascita della morale, che altro non è, per Hume, che la
      generalizzazione normativa delle convenzioni di stabilità, libero
      trasferimento e rispetto delle promesse. La tendenza alla
        generalizzazione normativa è, secondo Hume, una tendenza
        antropologica, una caratteristica della nostra specie e grazie a
      questa il genere umano acquisisce coscienza di sé e l'utile sociale genera
      un meccanismo indipendente dal suo contenuto (possesso, trasferimento del
      possesso e rispetto delle promesse), valido sempre, al di fuori dei
      contesti e scopi concreti.
      
      Letture. Grammatica della moltitudine: per un'analisi delle forme di vita
      contemporanee di Paolo Virno, edito in Roma per deriveapprodi nel 2004,
      quarta edizione, nella collana Fuorigioco al numero 5. Libro ordinato via
      web e giunto via posta. Ho dato una rapida letta alla prefazione,
      avvertenza e introduzione. Il testo è la trascrizione di un seminario
      tenuto nel 2001 all'università di Calabria. Esordisce con l'opposizione
      (un po' forzata) tra Hobbes, cantore del concetto di popolo e stato, e
      Spinoza, fautore del concetto di moltitudine, o meglio erede dell'idea
      rinascimentale di popolo. Il dissidio seicentesco giustifica la presenza
      di Hobbes meno (almeno per quanto letto sull'Etica) quella di Spinoza.
      
      Ai margini. Hume e Spinoza. A proposito di Spinoza ho trovato nel trattato
      di Hume molti riferimenti involontari a Spinoza, soprattutto nei riguardi
      alla 'chimica degli affetti' che ho trovato simile e nel concetto davvero
      spinoziano secondo il quale l'utile più lontano è anche il meno forte,
      quello capace di suscitare il sentimento con minore intensità,
      letteralmente l'inglese scrive nel Trattato sulla natura umana (1740
      circa): “ogni cosa che ci sia vicina nello spazio o nel tempo ci colpisce
      con un'idea forte, e ha un effetto proporzionale sulla volontà e sulle
      passioni …”. Persino la terminologia (fedeltà delle traduzioni
      permettendo) è simile.
      Per quanto riguarda la questione, resuscitata, dell'idea di popolo contro
      quella di moltitudine (in Impero e ora anche in Virno) mantengo sempre
      fortissime perplessità, rimanendo tra i due ancorati a un terzo concetto,
      quello di proletariato o meglio di proletari, a dirimere l'antitesi di
      queste due polarità.
      Sarebbe utile riprendere la lettura della quarta e ultima parte di Impero
      ma sono continuamente distratto da altri suggerimenti.
      
      Sabato, 17 gennaio
      
      Letture. Etica Hacker. Altro libro incrociato dalla mia curiosità nella
      libreria è un'opera letta solo parzialmente qualche anno fa, dove sono
      contenute interessanti riflessioni sull'idea del tempo di lavoro nella
      contemporaneità e sul concetto / relazione con il denaro. Ne sospesi la
      lettura per pigrizia e perché attratto da altri impegni, soprattutto
      lavorativi, nonché perché investito dalla sindrome del già 'veduto e
      sentito'. Si tratta de L'etica hacker e lo spirito dell'età
      dell'informazione / Pekka Himanen ;   prologo di Linus Torwalds
      ; epilogo di Manuel Castells ; traduzione di Fabio Zucchella. - Milano :
      Feltrinelli, 2001 (Serie bianca). È intrigante anche solo il piano
      dell'opera: nella prima parte "l'etica hacker del lavoro", il tempo è
      danaro?; nella seconda parte l'etica del denaro; la terza parte è dedicata
      alla netica e tra le conclusioni nell'epilogo l'informazionalismo
      e la network society per la penna di Manuel Castells.
      Basti questa citazione contenuta nella prima parte che si riferisce
      all'opera di Edward Thompson, Time, work – discipline, and industrial
        capitalism, del 1967: “Era l'idea di definire un rapporto tra
      lavoro e il tempo e non con il lavoro in sé che coloro che vissero in età
      preindustriale trovavano estranea, e contro la quale opposero resistenza.
      Ciò che la tecnologia dell'informazione fa intravedere è la possibilità di
      una nuova forma di lavoro orientato alle mansioni [com'era in epoca pre –
      moderna, Nota mia]”.
      All'inizio del capitalismo e della modernità era l'etica del lavoro
      protestante (Max Weber) con le sue tre regole: il tempo di lavoro
      concentrato nella esecuzione ininterrotta di una mansione, il desiderio di
      compiere bene il lavoro indipendentemente dal suo oggetto e scopo e il
      lavoro come attitudine morale, come dovere. Gli hacker criticano questa
      immagine del lavoro, questa ideologia lavorista, non per scelta
      individuale, non per volontà etica, ma perché interpretano positivamente i
      nuovi orizzonti che il tempo di lavoro ha assunto nel capitalismo post –
      industriale come liberazione del lavoro, della mansione, dal
        controllo del tempo e quindi dispiegamento del lavoro sul tempo di
      vita.
      L'attività hacker si confronta dialetticamente e criticamente, quindi, con
      un'attività lavorativa che inizia a essere svolgimento di una mansione
      indipendente da luogo e tempo di lavoro precisati e anche le attività
      extralavorative, gli impegni domestici e familiari, vengono affrontati in
      funzione della coabitazione con il lavoro e assumono la sua morfologia,
      diventano isomorfi al lavoro: il tempo della vita viene organizzato come
      il tempo di lavoro (ottimizzazione delle relazioni genitoriali e
      affettive, loro esternalizzazione attraverso asili nido, baby sitting
      e consulenze di diverso tipo).
      Eppure in questo quadro dell'ideologia hacker del lavoro, che non prevede
      affatto un'automatica trasformazione del lavoro in una libera attività,
      nasce, anche grazie alla così definita etica hacker (in base alla quale il
      lavoro si svincola dal comando d'impresa e da una relazione coercitiva e
      astratta con il tempo) la possibilità per il lavoro di slegarsi dalla
      'gabbia' taylorista estesa che è, secondo Pekka Himanen, il tempo di
      lavoro nel capitalismo post – industriale. Il modello produttivo hacker è
      quello rinascimentale e platonico dell'accademia i cui componenti
      acquisiscono la skole (termine di Platone nel Teeteto), il
      governo del loro tempo, oltre che il controllo assoluto dei loro prodotti.
      Interessante no?
      Un po' meno interessante della relazione con il tempo di lavoro è quella
      che Himanen individua negli hacker con il danaro, che non può essere,
      gioco – forza, così dirompente e diretta criticamente. Viene proposto
      l'esempio di Wozniac; il socio di Steve Job  lascia Apple comprandone
      azioni e  come azionista si fa artefice di una ridistribuzione
      'democratica' dei titoli della società. Poi fonda con gli interessi di
      quelli una scuola pubblica di saperi informatici che oscilla tra la sua
      abitazione privata e una scuola elementare. L'esempio è certamente
      paradigmatico dello spirito hacker ma anche dei suoi limiti oggettivi.
      È impossibile sul terreno del reddito abbandonare le conseguenze
      dell'etica protestante del lavoro descritta da Max Weber, secondo Himanen
      medesimo; per scriverla con parole mie se Weber legava il capitalismo al
      lavoro e meno al capitale e alla rendita derivata dal capitale finanziario
      (che sono sostanzialmente due disvalori per Weber e l'etica che descrive)
      e anche se il nuovo capitalismo post – industriale irride al lavoro e
      accresce, invece, il potere della rendita (così come pensano anche Negri e
      Hardt in Impero), il lavoro rimane lo strumento decisivo per la
      sopravvivenza dentro il sistema economico e dunque su questo pianeta e,
      quindi, esiste ancora la dimensione proletaria del lavoro, il lavoro come
      valore d'uso per le classi subalterne, anzi le classi si posizionano tra
      di loro proprio a partire dalla relazione con questo valore d'uso del
      lavoro.
      Riportare un po' di ironia in tema non guasta, anche perché aiuta a
      sdrammatizzare proficuamente la categoria del lavoro come valore d'uso,
      come necessità, e anche ad accendere una nuova luce sul lavoro nel
      capitalismo in genere e nella contemporaneità soprattutto. Ho trovato
      quest'ironia nelle note del testo quando si citano alcune riflessioni di
      un autore cinese per il quale il lavoro NON è più uno strumento per la
      sopravvivenza ma è una trappola che, mistificando la necessità di
      sopravvivere, rende la sopravvivenza impossibile, facendo il verso di
      andarle incontro; vale la pena di trascrivere i passi: “la civiltà
      risponde al problema di procurarsi il cibo mentre il progresso è quello
      sviluppo che rende sempre più difficile procurarselo … il pericolo è che
      siamo diventati tanto ultracivili … che si perde ogni voglia di cibo
      durante il processo di procurarselo” (Yutang, Importanza di vivere).
      
      Annotazione. La sensazione che la tendenza a ridurre il tempo di lavoro a
      tempo di vita rispetto al 2001 / 2002 (Impero e Etica Hacker sono stati
      pubblicati in quegli anni) si sia approfondita è per me meno forte di
      quanto mi potrebbe essere apparso allora. La tendenza c'è, è innegabile,
      si è affermata nei paesi occidentali con vera potenza in alcuni settori
      dei servizi (commercio, turismo, servizi alle imprese, servizi
      informatici) meno in quelli della produzione materiale (dove la
      'venerdizzazione della domenica', per usare Himanen, non si è compiuta)
      ancora di più, invece, nei paesi di recente 'modernizzazione' che hanno
      subito tra anni settanta e anni dieci una vera rivoluzione industriale
      nella quale i vecchi stilemi del fordismo e dell'etica tradizionale
        del lavoro si sono uniti alla nuove flessibilità richieste dalle new
        economy. Il processo è disomogeneo, a pelle di leopardo, ed più
      lento di quanto pensassi quindici anni fa. Questo non dipende solo dalle
      innegabili resistenze degli operai e degli impiegati dei settori
      produttivi e dei servizi 'tradizionali', anzi queste hanno contato la
      minor parte, ma dipende dal fatto che anche al dominio capitalista una
      radicale proiezione del tempo di lavoro sul tempo di vita non conviene.
      Conviene, certamente, la sua messa in questione, la sua immaginazione, il
      suo ingresso nell'immaginario collettivo, NON la sua realizzazione perché
      questa aprirebbe delle problematiche di difficile soluzione, tanto
      all'interno quanto all'esterno del sistema.
      Per l'interno è ancora una trasformazione nella fruizione dei consumi
      (distribuzione, assegnazione, ed elezione dei beni in vendita sul modello
      del just in time) che richiede una rivoluzione culturale più che
      tecnica e comunque un discreto progresso della telematica (anche se non
      strutturale ed epocale) e delle sue infrastrutture. Una rivoluzione di
      questo genere impone una relazione assolutamente virtualizzata con il
      danaro, la scomparsa della carta – moneta, e soprattutto una radicale
      rivisitazione dell'apparato di distribuzione della merce.
      Per quella che ho impropriamente definito difficoltà esterna (ma sono
      perfettamente consapevole del fatto che non esiste un esterno al sistema e
      l'aggettivo è una comoda finzione) il capitalismo mondiale sta dimostrando
      di possedere una certa (nel senso di sicura) intelligenza strategica.
      Gli anni novanta hanno manifestato una primordiale forma coagulante dei
      movimenti, delle istanze su scala mondializzata. Quella che Negri chiama
      'Moltitudine' si è organizzata e ha originato in quegli anni qualcosa di
      simile a un movimento internazionale di vecchia matrice, di stampo
      classico  'socialista e internazionalista' sulle cui novità
      (assolutezza da cicli di lotta specifici, proposizione di eventi
      multiformi, coordinamento sporadico ed episodico, contemporaneo rifiuto
      della spontaneità) ci sarebbe da ragionare a lungo. 
      Quel movimento (davvero contraddittorio dal punto di vista delle chimiche
      classiche, marxiane) ha imposto una riflessione al capitale mondiale: ha
      imposto sviluppo, cioè l'accelerazione delle nuove logiche finanziarie del
      capitalismo multinazionale, la catalizzazione della sovranazionalizzazione
      del dominio, l'ulteriore svalorizzazione del comando degli stati
      nazionali, che è divenuto un residuo becero e inutilmente conflittuale, ma
      ha determinato ripensamento dello sviluppo sul terreno del lavoro.
      La riduzione del tempo di vita a tempo di lavoro significa che il tempo di
      lavoro cessa di essere un distinto da sé e che il valore d'uso del lavoro
      si identifica con la vita; significa un nuovo concetto di proletario che
      non conosce più la separazione tra lavoro e vita, tra lavoro e attività.
      Questa identificazione rischia di essere pericolosa e di generare
      solidarietà e conflitti là dove prima erano inimmaginabili, oppure appena
      disegnati. L'immaginazione della riduzione, l'ideologia della riduzione
      senza la sua realizzazione effettiva comporta, invece, una specie di
      frammentazione, un continuo riferimento al passato, alla propria
      tradizione lavorativa e contrattuale e la volontà di eliminare il futuro
      che viene analizzato solo sulla scorta del passato.
      Per usare la terminologia di Virno, la Moltitudine sarebbe andata
      rapidamente verso l'Uno. Si obietterà e mi domando anch'io: tutta questa
      intelligenza nel capitalismo che, storicamente, è stato orfano dello stato
      assoluto aristocratico e ostaggio dei suoi bisogni primari? Oserei
      rispondere affermativamente: questa è la nuova forma del capitalismo che
      non solo vive nella produzione di rappresentazioni sociali, ma vive di
      qualcosa che un tempo sarebbe stato fuori dal suo nucleo fondante e che ha
      imparato a rappresentarsi e soprattutto a costruire le sue
      rappresentazioni; queste rappresentazioni sono, ormai, essenzialmente
        vere, più vere del vero, più reali del reale, astrazioni reali, più
        naturali della naturalità. Dal new deal a oggi il
      capitalismo ha compiuto il salto di qualità che la feudalità realizzò tra
      XIV e XVII secolo: ragionare su sé stessi per continuare a riprodursi.
      Esiste un'intelligenza collettiva della borghesia in nome della quale la
      borghesia, come classe, scompare definitivamente; precisamente come tra
      gotico, rinascimento e barocco è venuta meno l'aristocrazia.
      
      Mercoledì, 21 gennaio
      
      Letture. Grammatica della Moltitudine. Riflessione sui due concetti di
      paura e angoscia, risolti da Virno l'uno come timore condizionato, per
      dirla con Spinoza uno stato d'animo con un oggetto, l'altro come timore
      incondizionato, in assenza di oggetto, un timore indifferenziato.
      Il concetto originario Virno lo ritrova in Heidegger che aveva sviluppato
      l'idea di angoscia come il risultato di un non 'sentirsi a casa propria' e
      questo concetto si diffonde, secondo Virno, nella società imperiale e
      globalizzata, dove, sempre più spesso, a causa dell'estinzione delle
      'comunità sostanziali' , i soggetti affrontano una 'comunità
      indifferenziata', priva di luoghi di frontiera e di 'luoghi comuni'
      specifici.
      Questo stato d'animo è caratterizzato dalla percezione di un pericolo
      indefinito, onnipresente, la cui descrizione mi ricorda certe pagine di
      Hans Jurgen Krahl [Costituzione e lotta di classe / Hans-Jurgen Krahl. -
      Milano : Jaca Book, c1973 (Saggi: per una conoscenza della transizione,
      52)] quando descriveva la paura della piccola borghesia di inizio secolo
      scorso che, affrontando il mercato, scopriva la sua inadeguatezza e viveva
      questa relazione come fonte di uno spossessamento esistenziale e di
      perdita di sé. È interessante questa analogia tra come Krahl descrive la
      paura, l'angoscia, del piccolo borghese e come Virno definisce il timore
      incondizionato della Moltitudine contemporanea. In entrambi i casi il
      grande nemico è un soggetto anonimo, assolutamente indifferente alle
      comunità e ai territori, che proietta gli individui in un contesto privo
      di riferimenti e nel quale l'unico riferimento è proprio nella generalità
      e genericità compresenti nel riferimento.
      Ho, inevitabilmente, sospeso la lettura di Hume e non so quando riprenderò
      Impero.
      
      Giovedì, 22 gennaio
      
      Letture. Etica Hacker. L'accademia platonica è il palinsesto
      dell'organizzazione e della produzione del sapere realizzato dai
      programmatori del software libero e open source.
      L'accademia platonica non esigeva ruoli prefissati, docenze e presidenze,
      ma prevedeva una collaborazione dove la funzione degli esperti non
      escludeva i neofiti; anzi il neofita, spesso, per genuinità e innocenza
      intellettuale è stimolante, individua nuove problematiche e soprattutto è
      un ottimo divulgatore (volgarizzatore) delle novità acquisite nella
      ricerca: sa spiegare bene perché non dà nulla per scontato e ha dovuto
      faticare per apprendere e condividere. Per gli hacker l'intero progresso
      scientifico è ascrivibile a questo modello conoscitivo secondo il quale
      non solo non esistono, in senso stretto e letterale, maestri o discepoli,
      precisamente come non esiste una verità definitivamente acquisita, ma
      anche ogni soluzione e conquista sono rese pubbliche non solo nei
      risultati ma in tutto il processo conoscitivo: non si condivide solo la
      legge, la regola individuata e descritta ma insieme con questa tutto
      quello che ha condotto alla sua elaborazione.
      Qui Himanen annota una prima e importante contraddizione tra pensiero
      scientifico nel suo concreto evolversi e le istituzioni che pretendono di
      ospitarlo, vale a dire le università, le moderne accademie.
      Gli atenei non sono altro che una riproduzione delle forme controllate e
      gerarchizzate della elaborazione del sapere della scolastica medioevale,
      dove la scolastica medioevale è il prodotto della disciplina monastica; il
      modello della cultura ufficiale e dell'organizzazione pubblica e
      istituzionalizzata del sapere è quello del monastero; il mondo
      universitario ha sempre vissuto questa dicotomia: da una parte, anche
      terminologicamente, ama rappresentarsi come 'accademia' sul modello
      platonico, struttura aperta e orizzontale, ma dall'altra sceglie di
      organizzarsi secondo figure autoritative (quando non apertamente
      autoritarie) e secondo una gerarchia nell'amministrazione del sapere.
      In secondo luogo il modello 'chiuso' contraddistingue il mondo accademico
      moderno e contemporaneo e, nello stesso tempo, il mondo universitario è
      costretto per valorizzarsi a riconoscere la validità dei modelli 'aperti',
      allo scopo di evitare l'ipostatizzazione dei saperi e il loro congelamento
      e quindi la perdita di senso della sua stessa istituzione.
      In terzo luogo, soprattutto dove le imprese entrano nel circuito
      universitario, la tendenza a privatizzare la produzione intellettuale, a
      definire una proprietà intellettuale, è alta.
      Il modo di produzione hacker non è immune, comunque, da queste
      contraddizioni ma ha un fondamentale vantaggio rispetto a quello
      universitario: si svolge in un non luogo, al di fuori di ogni
      istituzione, e utilizza i canali della comunicazione telematica non per
      strutturarsi ma per diffondersi, utilizza la rete informatica come media,
      strumento operativo e non come architettura.
      Le tre contraddizioni che coinvolgono il mondo accademico tradizionale
      riescono a essere tenute agli estremi margini della produzione open
        source e anche quando, su alcune scoperte e intuizioni, si
      costituiscono imprese la privatizzazione del sapere non ne è parte
      integrante, anzi è esclusa. Le imprese che utilizzano saperi open
        source non alienano questi saperi, non pretendono di rivedere la
      struttura del media  che li hanno diffusi e alla fine
      ritengono inevitabile alla loro stessa affermazione il modo di produzione
      dell'accademia platonica, aperto e diffuso.
      
      Annotazione. Gli autori scrivono di un comunismo produttivo
      dentro il capitalismo e non mi pare affatto una scelta di termini
      inappropriata. La produzione open source è in effetti una forma
      comunistica di creazione, basata sulla libera e paritetica cooperazione
      dei protagonisti, che non ha, però, come obiettivo il fine del movimento
      comunista storico, vale a dire l'abbattimento del capitalismo, ma qualcosa
      di diverso anche se tangente: l'affermazione e valorizzazione del
        modo di produzione comunistico in quanto tale, senza gli attributi
        politici e ideologici a quello legati, senza che venga perseguito un
        confronto costante con quello capitalistico. Si mette in atto,
      quindi, una netta lontananza e indifferenza rispetto a quello e spesso una
      scivolosa neutralità.
      La dico scivolosa perché comporta un'affermazione e valorizzazione che
      possono con facilità trasformarsi in logica di impresa senza parimenti
      mettere in discussione il modo di produzione comunistico adottato, anzi
      sussumendolo integralmente; ancora scivolosa perché la possibilità di
      intervenire sulla struttura della rete, sul media comunicativo, rimane
      aperta e difficilmente individuabile, verificabile e visibile: per andare
      a un riferimento cinematografico dei primi anni ottanta, alla Trade
      di Blade runner, potrebbe essere, anziché una società verticale
      e immediatamente riconoscibile come quella del film, una spontanea
      produzione del cybespazio, la diffusione, apparentemente spontanea e non
      eteronoma, di una nuova architettura informatica.
      Potrebbe essere, in ultima analisi, quello che, per adoperare altri
      termini e altre categorie, sarebbe un discorso sulla verità che
      sostituisce non solo la verità ma anche il discorso sulla verità,
      intervenendo sulla struttura intima della comunicazione, su quello che sta
      sotto di quella, che la sorregge e conforma, su quello che, usando forme
      filosofiche classiche e scolastiche, potrebbe dirsi sostanza, sub
        – stantia autentica. I saperi telematici possiedono questa
      potenzialità, perché è loro essenziale, perché lavorano sull'informazione
      e determinano l'idea stessa e il perimetro dell'informazione. La verità
      informatica è una verità tecnica che rende la tecnica struttura della
      verità: novità assoluta rispetto alla tecnica industriale e moderna che
      era capace di produrre essere o anche idee ma incapace di creare nel
      medesimo tempo il loro contesto e la loro validazione immediata. Le
        idee nell'epoca del post neolitico sono immediatamente e intrinsecamente
        validate.
      La tecnica informatica, nella versione telematica e cibernetica, è capace
      di creare validando e di implicare la validazione nell'idea e deve farlo
      necessariamente per sua stessa logica produttiva, anche quando adotta un
      modo di produzione comunistico.
      Non c'è, quindi,  a priori neutralità nella telematica, pensiero
      scientifico allo stato puro, proprio perché, al di là di ogni
      mistificazione, non ha senso il concetto di neutralità e oggettività ma
      solo, appunto, di sostanza autentica e per autentica intendo
        semplicemente funzionante.
      Agli autori di Etica Hacker (Himanen, Torvalds e Castells) pare sfuggire
      del tutto questo aspetto.
      
      Venerdì, 23 gennaio
      
      Letture. Ai margini. Etica Hacker. Su questo tema il testo si limita a
      esporre il problema dello spionaggio in rete, vale a dire tutti quei
      programmi che lavorano per tracciare mail, contenuti e destinatari della
      nostra attività telematica, transazioni bancarie, acquisti on-line e via
      discorrendo. In base a questa attività è possibile creare un profilo umano
      e sociale dettagliato di un utente della rete: comportamenti, preferenze,
      biografia, percorso lavorativo e inclinazioni.
      Più interessante è quello che, qualche volta, ho verificato personalmente:
      la personalizzazione della navigazione. A determinati input sui
      motori di ricerca non sempre corrispondono determinati e corrispondenti
      output, come se il browser tenesse conto della personalità telematica del
      navigante. Il rumore di fondo delle risposte è considerevolmente mirato e
      differenziato.
      Questo innegabile controllo, che gran parte della pratica hacker combatte
      con la crittografia, è solo l'aspetto più visibile ed evidente del
      rischio. Le mutazioni che il browser subisce conformemente al vissuto
      telematico dell'utente non sono solo il segnale di un'attività di
      tracciamento e sorveglianza, ma anche di un processo molto più attivo: la
      strutturazione dell'ambiente telematico secondo determinate
      sollecitazioni. Questa interazione tra utente e rete evidenzia quanto il
      media non sia un canale neutro e immobile, ma la contrario posizionato,
      flessibile e mobile. Certamente non siamo al livello della mia ipotetica
      sub – stantia, dell'intimità dell'informazione, ma il paradigma è quello
      di una potenziale manipolabilità dell'informazione a livello del
        quanto informatico.
      
      Lunedì, 26 gennaio
      
      Annotazione. Precisamente come conoscevo appena Charlie Hebdo conosco
      Zipras che ha vinto le elezioni in Grecia. Inutile dire che questa
      vittoria è un segnale, perché lo dicono e scrivono tutti.
      È da notare che insieme con il 36% di Zipras viene il 6% di Alba dorada e
      questo è il segno che la critica alla strategia finanziaria europea non è
      trasversale a tutti fronti, quanto, invece, capace di creare fronti,
      determinando quello che i benpensanti chiamerebbero una radicalizzazione
      dell'elettorato e una nuova (e per me transitoria) dislocazione
      dell'elettorato. A quanto  mi è dato intendere è un po' come se
      Sinistra Ecologia e Libertà prendesse la maggioranza relativa di voti e
      Forza Nuova il 6% di quelli: non si tratterebbe di una trasversalità ma di
      una nuova composizione dell'immaginario politico e degli investimenti
      ideologici. Questo è interessante perché, per la prima volta, si è fatta
      avanti una critica frontale al modo di concepire l'Europa: un insieme di
      stati nazionali che condividono una moneta e una serie di istituzioni di
      vigilanza sul loro operato.
      Il fatto che l'Europa sia un insieme di stati – nazione e non uno stato –
      nazione ha consentito molte cose.
      In primo luogo ha permesso il costituirsi di una gerarchia tra gli stati
      membri che rispecchia la salute delle corrispondenti economie, il possesso
      di eccellenze produttive, di materie prime, di capacità energetiche,
      precisamente come è successo alle regioni del proto – federalismo
        italiano. Il secondo aspetto è legato strettamente al primo e quasi
      ne fa parte: lo 'stato' europeo ha assunto sempre più, dopo l'iniziale e
      ormai quasi primordiale spirito di collaborazione paritetica, un aspetto
      di controllo sulle attività dei singoli stati; in primo luogo questo è
      avvenuto attraverso la costituzione della moneta unica europea che è stato
      un processo che ha richiesto, fin dalla sua progettazione, la
      strutturazione di una gerarchia monetaria, applicando un discernimento
      pubblicamente riconosciuto tra monete forti (Marco e Franco) e monete
      deboli (Lira, Dracma e Pesetas). L'accantonamento del Serpente Monetario
      Europeo (S.M.E.), nella prima metà degli anni novanta, è stato
      propedeutico a questo processo ed è stato la tomba dell'iniziale spirito
      'internazionalista' della comunità, verso l'affermazione di uno spirito
        nazionalista transnazionale; in secondo luogo il controllo della
      transnazione nazionalista europea si è espresso attraverso la messa a
      punto di lodi europei votati al controllo della spesa pubblica nei singoli
      stati membri e del corrispondente debito pubblico. Il debito pubblico ha
      sostanziato e legittimato la gerarchia composta tra gli stati – nazione
      europei ed è diventato vera merce di scambio e strumento di ricatto posto
      sotto il controllo dei membri al vertice della gerarchia auto – fondata.
      La terza conseguenza dell'Europa come insieme di stati – nazione è nel
      fatto che si è determinato proprio il contrario di quello che naturalmente
      ci si sarebbe aspettati da un insieme di stati – nazione ben individuati:
      una forte tendenza alla omologazione delle economie nazionali. La teoria
      delle velocità molteplici all'interno delle economie dell'unione è
      rapidamente naufragata, mentre si è affermata nella realtà l'integrazione
      che ha imposto una sola misura di crescita, escludendo alcune aree, aree
      (tengo a sottolinearlo) più che nazioni, dalla velocità dominante e il
      destino di queste regioni / aree è quello di trasformarsi in bacini del
      sottosviluppo, interessati da una recessione perenne, dove governa una
      flessibilità del mercato del lavoro estrema, una politica di bassi salari
      e una depressione dei consumi e della spesa pubblica senza alcuna
      correzione o compensazione che non venga fornita, per alcune di quelle,
      dalla presenza della malavita organizzata. Anche la malavita organizzata
      entra in queste proiezioni e in queste contabilità: viene tenuta in conto.
      
      Annotazione. Tanti anni fa, nella schematica e sotterrata dalla memoria
      sinistra extraparlamentare italiana degli anni settanta, riguardo alla
      comunità europea si era soliti affermare, in maniera volutamente rozza
      (volutamente perché l'argomento era considerato marginale e ininfluente e
      tale da non richiedere grandi investimenti analitici), che quella era
      l'Europa dei padroni e che non era affatto il caso di aspettarsi nulla di
      buono né tanto meno una sua formazione democratica e 'popolare', vale a
      dire dal basso.
      Quell'analisi aveva tutto il suo valore ed è stata confermata dai fatti e
      dove non lo è stata non è perché, in qualche punto e aspetto, si sia
      affermata una visione 'democratica' dell'istituzione europea ma
      semplicemente perché i padroni europei degli anni '70 non esistono più,
      cioè a dire il capitalismo è cambiato e quel capitalismo non è entrato
      nella costituzione europea. L'Europa non è quindi diventata (come
      immaginava quell'analisi rozza ma veritiera) una sorta di confindustria
      transnazionale, priva di strutture rappresentative, parlamento e
      commissioni, ma ha costituito sul serio un esecutivo transnazionale,
      dotato di leggi, regolamenti e confini. Le forme con le quali i padroni
      degli anni '70 determinavano la politica dell'Unione europea (quelle di un
      accordo di cartello tra le diverse borghesie nazionali, come si
      immaginava) sono state sostituite da quelle che nascono precisamente dal
      loro contrario: la negazione delle borghesie nazionali, delle borghesie
        in lingua.
      Il capitalismo, non solo quello europeo, è egemonizzato da gruppi
      economici e finanziari che sono intrinsecamente multinazionali (pensiamo
      al vissuto imprenditoriale di Marchionne e alla parabola della FIAT da
      Romiti a oggi) e che non perseguono un accordo tra nazioni (a quelli del
      tutto indifferente) ma la costituzione di uno stato, un'istituzione (Negri
      docet in Impero) capace di inquadrare le tradizioni economiche,
      finanziarie e produttive dei singoli stati – nazione per ottimizzarle
      all'interno di un contesto transnazionale che non è il risultato di una
      sommatoria di nazioni ma di una riduzione a massimo comune denominatore
      delle esperienze nazionali verso l'Europa e a minimo comune moltiplicatore
      le esperienze dell'Europa verso il mondo capitalistico integrato
      planetariamente.
      Le nazioni come espressioni dei padronati nazionali non esistono più e il
      capitalismo è diventato qualcosa di molto diverso dalle immaginazioni
      intorno a borghesia, classe borghese come comunità contraddistinta
      dall'appartenenza linguistica, da un preciso stile di vita, dal lavoro
      direttamente speso nel comando d'impresa e da nomi e cognomi ben
      individuati; comunità che, però, ancora, con una certa forzatura negli
      anni '70, poteva essere intesa come appartenente alla nazione o meglio al
      popolo e che condivideva con quello alcuni fondamentali tratti genetici e
      si poteva descrivere come borghesia italiana, tedesca e via discorrendo.
      Questa comunità, interna al popolo, si identificava, secondo la sociologia
      marxista, in un complesso di interessi, che conduceva al profitto
      personale, e in una serie di stati economici, rappresentati dalla
      proprietà quasi esclusiva dei mezzi di produzione, individuandosi come una
      classe. Come classe, anche l'analisi marxista lo anticipava, era
      proiettata inevitabilmente oltre il profilo nazionale e tendeva a
      emanciparsi da quello: la borghesia media e piccola, la piccola e media
      impresa, rimaneva gioco forza legata a prospettive produttive
      territorializzate e alla nazione, conservando un cuore popolare, la grande
      borghesia, invece, usava l'inglese come seconda lingua, guardava alla
      possibilità degli investimenti internazionali e a estendere
      internazionalmente le potenzialità produttive delle sue imprese.
      Il consiglio di amministrazione, semplice formalità legale per la piccola
      e media impresa, paravento di una gestione personale della società,
      diventava in quella grande una potenza autonoma dalla vera proprietà,
      perdendo la relazione diretta con l'esistenza concreta del presidente o
      dell'amministratore delegato. Come la proprietà si depersonalizzava, così
      si deterritorializzava, culturalmente e produttivisticamente. Si trattò di
      un passaggio verso la contemporanea forma del capitalismo che non ha
      personalità, non ha proprietà personali, non costituisce una comunità
      dentro la nazione e cessa di esprimere una classe nel senso marxista del
      termine. La relazione tra capitale e lavoro è diventata una relazione
      astratta e quasi ideale, denazionalizzata nella concretezza organizzativa
      (le multinazionali) o nella delocalizzazione che insegue i vantaggi del
      mercato del lavoro unificato a livello mondiale (le piccole e medie
      imprese). Anche chi sapeva a malapena l'italiano e preferiva il dialetto
      (pensiamo alla piccola borghesia leghista del nord est italiano) ha
      abbracciato gli investimenti internazionali.
      Il concetto di popolo e nazione non appartiene più al capitalismo
      contemporaneo perché il capitale non si costituisce più come classe
        dentro una nazione ma come un ceto, un gruppo omogeneo, un gruppo
        dirigente indipendente dalla proprietà dalla quale è in parte
      salariato e con la quale in parte condivide gli utili, mai legato
      personalmente alla proprietà e senza nome e cognome precisato
      pubblicamente, senza lignaggio: una classe operativa e quindi non una
      classe, ma un gruppo contraddistinto da un particolare lavoro, il comando
      di impresa.
      
      Mercoledì, 28 gennaio
      
      Annotazione. “Questa non è una matita”, era più o meno scritto in mezzo
      alla valanga di immagini seguite all'attacco allo Charlie Hebdo. Non
      sapendolo o volendolo sapere quel manifesto ripreso da Magritte diceva la
      verità. Non si tratta affatto di una matita come pretende molta retorica
      sulla libertà di stampa offesa, là dove la stampa non è affatto libera e
      non usa la matita.
      Direi che è utile soffermarsi sull'aspetto della matita perché quello
      slogan, spot pubblicitario, contiene più verità di quante la sua ipocrisia
      abbia mascherato, anche se usare categorie come verità e ipocrisia mi pare
      inadeguato a quest'epoca ma compierò un balzo alle incrollabili certezze
      categoriche, offertemi dalle medie inferiori.
      Il colmo dell'ipocrisia è Magritte – dire la verità (non è una matita …
      anche perché è solo un disegno di una matita) per affermare un'altra
      verità (è la libertà di stampa) bugiarda.
      Andiamo all'aspetto tecnico e fisico: chi usa la matita, oggi, nel
      giornalismo e nelle procedure editoriali, nella 'creazione'? Nessuno più.
      La matita è dunque solo una rappresentazione ideologica vale a dire la
      rappresentazione della libertà di stampa occidentale.
      Lasciamo da parte le considerazioni sull'esistenza del rappresentato,
      concentriamoci sulla rappresentazione. Perché in qualche redazione si
      sceglie di utilizzare questa metafora e perché ha avuta tanto successo? La
      matita si inserisce perfettamente nel contesto pre – moderno dello scontro
      che si vuole evocare. La matita è pre – industriale, artigianale,
      precedente l'internazionalizzazione dell'industrialesimo, è il pensiero
      che non è ancora diventato attività industriale, è il luogo precedente di
      questa civiltà, la sua origine, precisamente come il fondamentalismo evoca
      una civiltà che non ha conosciuto modernità. 
      Lo scontro, quindi, si ubica al di fuori di quest'epoca e attraverso una
      trasversalità storica (della quale è traccia il riferimento a Magritte) al
      di fuori della storia, il conflitto è il prodotto di due culture
      contrapposte e destoricizzate e che possono essere facilmente antipodiche
      proprio perché destoricizzate.
      La storia della matita è stata una grande trappola (precisamente come la
      'vera' pipa di Magritte), tra le altre cose di dubbio gusto estetico, per
      non parlare di quello che è autenticamente accaduto, vale a dire di matite
      di una libertà inesistente e della negazione di una libertà supposta,
      della negazione di una cosa inesistente che collabora, in verità, alla sua
      affermazione mistificata. Anche l'ultimo dei 'liberi pensatori' non crede
      più alla libertà di stampa, anche se cerca di credere alla libertà di
      pensiero, ma l'affermazione della sua esistenza è diventata una necessità
      bellica.
    
    rivedi
                                      gennaio
                  
    Inizio
                        anno 
      
      
      Domenica, 1 febbraio
      
      Sto leggendo, in parte rileggendo, Storia della lingua italiana / Bruno
      Migliorini ; introduzione di Ghino Ghinassi. - Milano : Bompiani, 1997. -
      5. ed, - (Saggi tascabili, 31). Opera del 1958 (se non vado errato) che
      non credo troverà spazio in questi commenti e in questo diario. L'avevo
      letta, nei suoi primi capitoli, con finalità strumentali (nel senso che
      spesso la utilizzai come strumento, come attrezzo di lavoro, allo scopo di
      conoscere la diffusione geografica del latino imperiale, la sua
      evoluzione, le specificità 'regionali' e la struttura e diversificazione
      del cosiddetto 'parlato') durante la stesura degli appunti sulla storia
      romana.
      Mi piacque l'approccio analitico mai perentorio e imperativo ma aperto,
      invece, a contributi e visioni diverse e la conseguente precisione nelle
      citazioni bibliografiche. In Migliorini la lingua è una struttura
      reticolare, assomiglia al mercato commerciale, le parole e il loro uso
      viaggiano insieme con gli uomini (i legionari, i burocrati militari e
      civili, i mercanti, gli emigranti agricoli) subendo contaminazioni di
      molteplici tipologie e su plurimi livelli.
      Non sfugge all'autore l'importanza di Roma, della storia linguistica della
      capitale nel primo secolo dell'era volgare, per la definizione di quella
      del resto dell'impero, come non sfugge che dopo gli Antonini e già con
      loro l'impero non è più monocentrico e sviluppa diversi centri di potere
      (Antiochia, Alessandria, Lione, Arles e poi ancora Treviri, Milano,
      Sirmio, Nicea, Nicomedia, Parigi e Costantinopoli) e quindi la storia
      della lingua si fa policentrica e l'influenza dei sostrati provinciali
      diviene importante in quella. Contemporaneamente, però, l'istituzione
      imperiale rimane individuata singolarmente, rimane una sola, mentre le
      parole viaggiano e si incontrano tra una regione e l'altra.
      Questo ha comportato una differenziazione linguistica pre – romanza (area
      gallicana, hispanica, italiciana, illiriciana,
      africana) ma anche una forte omogeneità nel panorama di fondo. Il
      latino parlato in Gallia era ben diverso da quello africano per moltissimi
      elementi semantici, ma entrambi mantennero un'ossatura sintattica e una
      base semantica comune, come analoga fu la tendenza nel rinnovamento e
      nell'evoluzione, al punto da far scrivere di varianti dialettali. Più
      forte si fece la diversificazione dal IV secolo in poi, dopo la
      separazione amministrativa tetrarchica (le quattro prefetture e le dodici
      diocesi), fino al punto di avere qualche indizio intorno alla sua
      penetrazione e credito nella cultura scritta (Agostino scrisse alla madre
      che non usava alcune espressioni del latino classico o di quello parlato
      in Africa, perché in Italia non sarebbero state comprese). Solo allora il
      latino parlato contamina il latino scritto, intendendo per quello la
      lingua letteraria, filosofica e scientifica e non l'epigrafia e la
      scrittura 'popolare' che già dal I secolo, fortunatamente per la ricerca
      sul latino parlato, erano state influenzate dalla lingua usata nel
      quotidiano.
      Interessante, lo ribadisco, l'idea della lingua come struttura mercantile,
      dove l'importazione e l'esportazione delle parole sono fondamentali per
      definirla e dove sono anche importanti i modi e le forme di questi
      'movimenti commerciali'. Agirono in questo movimento semantico i burocrati
      e le alte gerarchie militari, avendo come naturali referenti le classi
      agiate delle province e viceversa queste ultime influenzarono il
      linguaggio della burocrazia e dell'amministrazione, dando vita a
      contaminazioni elitarie e di nicchia, importanti nel latino scritto
      ufficiale degli uni e degli altri. Le emigrazioni militari e agricole
      determinarono un commercio di basso livello dove i nomi di piante,
      animali, conformazioni geografiche, toponimi, strumenti di lavoro e
      termini giuridici legati al lavoro furono oggetto di scambio.
      Per il resto, con il coraggio dell'ottimismo e anche con una certa
      curiosità, riprenderò la lettura della quarta parte di Impero.
      
      Lunedì, 3 febbraio
      
      Letture. Negri. Impero. Ma non è la teoria del crollo? Mi pare proprio la
      teoria del crollo quella che viene fuori nei primi due paragrafi della
      quarta parte di Impero. Negri immagina un'insorgenza 'spontanea', nel
      senso di generata dalla stesso sviluppo del potere imperiale, o meglio del
      lavoro sempre più socializzato, sempre più proiettato su una dimensione
      comune, esistenziale, che si libera di quello che vampirizza il processo
      lavorativo, il parassita, immediatamente inteso come tale. In questo
      contesto l'Impero ricorda l'antiproduzione di Deleuze e Guattari
      nell'Antiedipo, ma, al contrario che in quell'opera, il potere non ha la
      capacità di creare investimento di desiderio su di sé ed è solo un'entità
      'reattiva' che risponde alle sollecitazioni provenienti dal basso per
      selezionarle al solo scopo di reprimerle.
      Negri si chiede come l'impero non distrugga la moltitudine e cerca di
      spiegarlo: ne ha bisogno, ha bisogno della sua negazione. La domanda da
      porsi sarebbe quella opposta: come è possibile che la moltitudine,
      generatrice di nuove solidarietà produttive e sociali, non decida di
      liberarsi in pochi minuti del parassita antiproduttivo? La mia risposta è
      semplice: perché l'impero non è solo antiproduzione anche se è anche
      antiproduzione.
      I termini di una relazione dialettica tra Impero e movimenti, di una
      'misura', continuano, ereditati dalle forme di dominio precedenti,
      nonostante Negri descriva il periodo imperiale come contraddistinto dalla
      scomparsa del valore e della misura del valore del lavoro e la stessa
      parabola del movimento no – global testimonia di questa continuità
      dialettica (anche se di questa parabola so pochissimo, quasi nulla, poche
      date e luoghi; il periodo che va dal 1995 al 2010 è stato per me un
      periodo di assoluto distacco e rifiuto della politica, persino
      dell'informazione politica). Il mio sincero sospetto, sempre rimasto nel backstage
      durante la prima e la seconda lettura di Impero, è che il movimento no –
      global sia il protagonista 'nascosto' delle teorie sulla Moltitudine e che
      ci sia stata una sopravvalutazione della portata e del significato storico
      di quel fenomeno, certamente importantissimo e inedito. Negri stesso
      accenna alla selezione che l'Impero opera contro l'antagonismo e i suoi
      movimenti, in verità sembra alludere a una divisione della moltitudine, a
      una scelta e individuazione tra componenti assoggettabili e recuperabili
      attraverso un investimento di desiderio sul potere e altre irriducibili a
      questo processo.
      Non entro sul merito della tematica (davvero datata e facilmente
      storicizzabile) dell'incommensurabile, che sarebbe la forma attuale di
      espressione del dominio (guerra nucleare, mercato e comunicazione, quindi
      distruzione totale, sfruttamento viscerale e paura cronica) al quale si
      contrapporrebbero altrettante forme incommensurabili di antagonismo,
      ritengo, però, notevole la scoperta della morte del trascendente come
      occasione di etica e politica; l'immanenza, il 'non – luogo', informa il
      mondo globalizzato e ogni tentativo di rivalutare e riprendere una
      costituzione politica fondata su concetti universali e trascendenti (i
      sogni di ritornare al felice passato, al moderno se non al pre – moderno)
      conduce inevitabilmente o alla dittatura, o meglio alla tirannia di massa,
      o alla barbarie (a incubi, insomma, tra i quali potrei collocare l'attuale
      califfato siriano e iracheno ma è un'immaginazione un po' troppo recente e
      forse inappropriata).
      La fine del trascendente e il trionfo dell'immanente non comportano, però,
      hic et nunc, la fine della dialettica, come pensa Negri, se così
      fosse l'Impero non avrebbe necessità di mascherarsi, sussumendo
      istituzioni precedenti (stati – nazione, patti internazionali e in genere
      il diritto pubblico internazionale); nessun impero o repubblica o
      monarchia è stato solo reazione, risposta e repressione, anche se,
      nell'Impero di Negri, reazione, risposta e repressione si dispongono su un
      altro livello rispetto alla normale tradizione politica, un livello
      antropologico, si articolano nel controllo di sé e della propria vita da
      parte di ogni singolo individuo. Certamente la repressione capitalista
      imperiale usa la forza molto più di prima e, novità assoluta, usa
      normalmente la forza militare, quella espressa dagli eserciti, la polizia
      passa in secondo piano (come magistralmente annota l'autore), ma questa
      forza non è solo forza, energia repressiva, è congegnata, 'messa in un
      congegno' antropologico e quindi è attiva. Non esiste più, e credo che
      Negri potrebbe essere concorde, il classico discernimento tra informazione
      ed energia nei componenti della repressione: informazione ed energia
      costituiscono lo stesso congegno repressivo.
      Ma non è la teoria del crollo? Rimane un interrogativo valido, anche se
      stemperato nell'elaborazione di questa intima e breve polemica.
      
      Mercoledì, 4 febbraio
      
      Letture. Impero. La crisi della coscienza / cultura europea descritta
      nella pars destruens  dell'opera è inconfutabile: la
      migrazione dell'avanguardia artistica da Parigi a New York, l'emigrazione
      intellettuale che segna tutto il novecento, complice nazismo e fascismo.
      Il 'doppio salvataggio' militare ed economico degli americani verso
      l'Europa nella prima e seconda guerra mondiale (piano Daves e piano
      Marshall) ne costituiscono l'aspetto strutturale. Infine il new deal
      impose una visione 'democratica'  dell'intervento dello stato
      nell'economia, secondo la quale l'espansività e la libertà si alleano e
      anticipano la tradizione imperiale (in sostanza una specie di futuro
      anteriore rispetto a quest'epoca).
      L'Impero, però, non è America, l'America non ne è il centro, l'Impero
      (come l'antico impero romano al quale spesso si fanno riferimenti un po'
      troppo stringenti e dunque forzati, ma gradevolmente adeguati) non è
      nazionale, è transnazionale e le nazioni ne sono dei 'segmenti' più o meno
      centrali, più o meno strategici; la struttura dell'Impero è reticolare.
      La moltitudine è cooperazione sociale, lavoro, produzione (non uso del
      lavoro), condivisione dei saperi e della scienza, valorizzazione immediata
      di sé; la moltitudine prende in mano la produzione, senza appropriarsene,
      perché e già sua, non è altro dall'Impero, perché non può che essere
      interna all'Impero. 
      In questa interessante ipotesi individuo due punti critici: il valore
      della produzione e il valore della scienza. Entrambi paiono neutri, fatti
      in sé, non determinati da altro; se è vero che nel capitalismo
      contemporaneo non esiste separazione tra produzione e rappresentazione,
      tra realtà e ideologia, perché tutto entra a far parte della categoria del
      produttivo (realtà e ideologia sono per certi aspetti prodotti spontanei e
      naturali della cooperazione sociale e produttiva), contemporaneamente io
      annoto ancora un'intelligenza attiva del dominio nel determinare la
      produzione e la scienza, nel progettarla, nel fare in modo che si
      manifesti in una determinata maniera anziché in un'altra, che si
      perseguano alcuni risultati piuttosto che altri, che si costruiscano certi
      assiomi piuttosto che altri. Il rapporto tra ideologia e produzione è
      diventato tanto stretto da essere quasi indescrivibile come rapporto ma
      questo non sottopone anche la produzione alle sue dinamiche intrinseche,
      anzi, paradossalmente, il lavoro sulla produzione non è mai stato così
      ideologico come nell'attualità. Questo significa che il capitale ha uno
      strumento immediato e determinato per governare lo sviluppo, precisamente
      come lo possiede la Moltitudine.
      Le opportunità per la Moltitudine sono certamente molte: una scienza
      parcellizzata e reticolare, la tecnologia a basso costo e
      'democraticamente' distribuita, la cooperazione produttiva costitutiva
      dell'intellettualità. Esistono però ostacoli notevoli: pensiamo solo alla
      proprietà di gran parte del software, ai codici sorgenti inintellegibili e
      al fatto che lo sviluppo e progettazione del software  sono nelle
      mani di grandi corporation 'imperiali,. Di contro si individuano libertà
      notevoli: open source e dintorni. Ma anche qui lo sviluppo, che
      è libero e si affida alla libera collaborazione tra gli individui, deve
      affrontare il problema di un ambiente tecnico (standard, linguaggi, stili
      di comunicazione) costruiti dalle corporation.
      È un esempio, ma la strada verso la libertà è ancora una strada, alla fine
      un 'luogo', un posto, da percorrere fuori dall'Impero, dentro l'Impero è
      impercorribile. È necessario che si dia un esterno all'Impero affinché
      l'Impero crolli, ci vollero anche solo pochi barbari (come quasi
      sicuramente furono) perché la crisi dell'impero romano si manifestasse
      alla storia; ci volle la crisi di consenso ma anche l'aggressione esterna.
      Neutralità del lavoro e della scienza, cacciate mezzo secolo fa dalla
      porta, rischiano di rientrare dalla finestra, costituendo la categoria di
      lavoro professionale e professionalizzante, categoria interessantissima
      per il dominio che si impegna a occultare la segmentazione semplificata
      del lavoro immateriale, della quale ha estremo bisogno per governare e
      predire i processi, ma che teme per le possibilità di rapida
      ricomposizione della filiera produttiva che offre.
      
      Giovedì, 5 febbraio
      
      Letture. Impero. Alle volte ho la sensazione di una lettura pauperistica
      del proletariato attraverso la Moltitudine; non tanto perché vengono
      descritte nuove povertà quanto perché, nonostante l'impianto analitico
      generale, quando gli autori scrivono concretamente di soggetti della
      Moltitudine, per esempio dei migranti, si richiamano a categorie come il
      diritto al lavoro, ai documenti d'identità (sans papiers), quindi
      alla rivendicazione di diritti civili elementari, naturalmente sacrosanti;
      dietro la rivendicazione di queste diritti la neutralità del lavoro e la
      neutralità del diritto trovano nuova cittadinanza. Ma queste cose si
      riducono veramente all'elementarità delle dinamiche del moderno e in parte
      del pre – moderno.
      Inoltre ho incontrato una riproposizione del pensiero dualista occidentale
      (Platone, Plotino e Agostino) certamente in metafora, che, però, non aiuta
      affatto a figurare una genesi dell'antagonismo dall'immanenza. Di fatto
      Negri e Hardt non spiegano questa genesi, la pongono come inevitabile, la
      postulano.
      
      Venerdì, 6 febbraio
      
      Letture. Storia della lingua italiana. La dove si tratta del viaggio delle
      parole dopo la fine dell'impero romano e della difficoltà di ricostruire
      questo viaggio tra recuperi, relitti, parole che potrebbe essere di
      importazione franca (e quindi dell'VIII e IX secolo) oppure dei recuperi
      tardo – medioevali (per influenza della cultura e legislazione feudale
      francese). Pochissimo sviluppato è l'apporto di goto e longobardo. È ben
      chiaro un modo di intendere la lingua come sistema, sistema aperto,
      evidente soprattutto quando la dimensione linguistica si localizza, come
      nell'altomedioevo: le lingue si trasformano per scambi interni, una sorta
      di mutazione locale, ricollocazione non priva, mai, di contributi esterni.
      La lingua è il prodotto di stratificazioni diacroniche il cui studio è
      simile allo studio della storia attraverso l'archeologia, mentre la sua
      storia ricorda quella che costituisce l'urbanistica. Dentro la lingua è
      possibile reperire, come attraverso l'archeologia dentro la storia, quello
      che la storia ufficiale, monumentale raramente e solo accidentalmente
      registra: la cultura materiale, le relazioni sociali nella loro
      espressione quotidiana, nel loro vissuto.
      Questa concezione archeologica della lingua, come effetto del contributo
      sincronico di cultura materiale, diritto privato e pubblico, attività
      produttive e commerciali, quasi tutte da scavare, da tirare fuori dal
      contesto linguistico oggi in uso per collocarle nel contesto originario, è
      vivace e necessariamente interdisciplinare.
      Penso sotto questo punto di vista alla sedimentazione linguistica del
      longobardo, poverissima di apporti e sopravvivenze; lo studio di questa
      rarità linguistica ha però consentito di definire meglio la tipologia
      dell'insediamento longobardo nella società italiciana del VII e
      VIII secolo. La toponomastica ci ha lasciato numerosi derivati della
      radice sal (grande aula) che definiva luoghi di insediamento
      istituzionale e fondiario: la loro distribuzione sul territorio in aree
      schiettamente agricole testimonia della ruralità dell'insediamento e
      dell'organizzazione territoriale longobarda in Italia. Molte altre parole,
      sopravvissute nei toponimi, non fanno che rafforzare quest'immagine; si
      tratta di radici votate a descrivere la conformazione del territorio e la
      natura dei luoghi, come moia palude, gard giardino e
      orto,  gazzo pascolo. Anche le poche parole che restano del
      longobardo nell'italiano (tra le quali panca e se non erro vanga)
      introducono una contaminazione linguistica svolta tra le classi povere
      della società e segnalano così una vicinanza sociale tra gli indigeni e i
      nuovi arrivati, un'integrazione di basso profilo sociale e, probabilmente,
      il fatto che i Longobardi, pur espropriando (secondo tutte le fonti
      storiche ufficiali) il grande latifondo di ascendenze tardo – romane 
      non operarono il genocidio da quelle denunciato, ma una politica
      dell'assimilazione e probabilmente una redistribuzione delle risorse
      agricole anche a favore dei coloni, servi e fittavoli tra gli indigeni.
      
      Sabato, 7 febbraio
      
      Annotazione. Ai margini. Spinoza nell'etica e cose più in generale.
      Qualche tempo fa me l'ero ripromesso e, riprendendo in mano la faccenda
      per implementare il sito, mi è tornato alla mente con una certa forza:
      dopo Spinoza e l'alcol, Spinoza e la politica rivoluzionaria.
      L'incontro con Spinoza è stato eminentemente scolastico, avvenuto al
      liceo, secondo il libro di testo e l'interpretazione del professore.
      Inevitabile, a quell'età, la messa in produzione di quella nuova
      conoscenza nel concreto interesse che dominava la mia attualità: la
      trasformazione rivoluzionaria della società, la rivoluzione comunista. Non
      parlava solo Spinoza, ma insieme con esso Cartesio, Leibniz, Berkeley e,
      andando all'anno scolastico precedente, emanavano fascini Aristotele e,
      soprattutto, Plotino.
      In generale più che di Spinoza e la rivoluzione dovrei scrivere del razionalismo
        e la rivoluzione. Il principio assolutamente interessante era
      quello di causalità: le cose non avvengono per caso, ma secondo
      una necessità.
      Ancora più importante era, nel razionalismo seicentesco e nel pensiero
      classico, l'idea che questa causalità, quest'ordine causale, conformava e
      costituiva le forme del pensiero. Le cose, gli eventi, le situazioni
      sociali ed economiche e la coscienza, vale a dire il pensiero,
      percorrevano strade parallele: l'idea di Dio come elemento assolutamente
      trascendente, ad esempio, era il risultato di una nuova astrattezza
      raggiunta dalle relazioni sociali, rinforzata dalla diffusione di un
      equivalente universale come è il danaro e i suoi 'derivati', che erano
      prodotto e causa di questa astrazione; l'astrazione sociale si
        perfezionava attraverso il danaro mentre il danaro aveva bisogno di una
        sufficiente astrazione per affermarsi. Oppure l'idea stessa di Dio,
      presentata nel 'movimento razionalista seicentesco' da Spinoza,
      determinava la discesa del trascendente nell'immanenza, pensiamo al danaro
      che entra nella monarchia assoluta, nella realtà pensata del danaro stesso
      e della politica, non più come astrazione ma come concretezza.
      Rimaneva, comunque, la potenza 'rivoluzionaria' della mente e della
      ragione, delle loro regole (causa ed effetto) come riflesso e coincidenza
      delle regole delle cose, riflesso di un ordine e di un telos nel
      mondo che era quello di un rischiaramento razionale COESSENZIALE a una
      liberazione concreta e materiale. Spinoza, in verità, non avrebbe
      sottoscritto neanche uno di questi punti analitici, ma era lo spirito
      della filosofia del seicento a invadere il pensiero rivoluzionario e a
      rendere possibile, anzi inevitabile, la rivoluzione.
      Lo scambio tra POSSIBILE  e INEVITABILE è indicativo di una
      teleologia che, in modo incauto, riproponeva il trascendente, fingendo di
      occuparsi e di generare solo dall'immanente. Certo non fu, però, un
      inutile esercizio intellettuale.
      Il razionalismo imponeva un ragionamento complessivo, anche se nella
      concretezza storica non l'aveva realizzato: toccava a noi compiere
      quest'opera, utilizzando gli strumenti analitici che il razionalismo ci
      aveva offerto. Potevamo farlo perché ce n'erano i presupposti proprio in
      ragione delle assiomatiche del razionalismo, confortate dallo storicismo
      romantico, in base alle quali gli eventi, le istituzioni, i movimenti e i
      processi storici della modernità richiedevano e, in parte, spontaneamente
      producevano il dominio organico della ragione sul mondo e l'isomorfo
      organico (complessivo) intervento sul mondo.
      Continuando a scrivere ovviamente solo per me, annoto che fu
      un'ubriacatura adolescenziale non priva, però, di numerosi pregi.
      L'impianto razionalistico permise di accettare, con una certa naturalezza,
      la critica alla neutralità della scienza e all'idea stessa di scientifico
      in quanto si presentavano solo come prodotti della ragione umana mai
      inconfutabili; quest'atteggiamento critico si estendeva rapidamente anche
      allo storicismo e a Marx economista, verso i quali i debiti iniziali
      furono notevoli. Marx, però, con il suo vissuto (con la sua opera che era
      inseparabile dal suo vissuto, dall'epoca nella quale era stata scritta)
      rappresentava il culmine dell'ambito finalistico del pensiero e della
      teleologia, l'incarnazione della necessità di 'saltare il fosso' dello
      storicismo. Questo 'salto del fosso', però, non era per niente l'effetto
      di una decisione, di un atto di volontà libero e autonomo, e andava,
      invece, inquadrato in un'ulteriore necessità razionale e storica.
      Il finalismo, pur conservandosi, perdeva il suo ordine, la sua simmetria
      rispetto all'evoluzione del pensiero e della coscienza e si edificava un
      divario, un distacco, come quello che Aristotele aveva descritto tra
      potenza e atto. Il pensiero, in quest'ottica, era la potenza che, pur nata
      dall'atto, desiderava produrne un altro ancora più adeguato rispetto
      all'ordine finalistico e quindi interveniva in quello, modificandolo.
      La lineare e meccanica relazione tra cose e pensiero veniva meno, ma,
      contemporaneamente, se il pensiero diveniva autonomo dalla realtà delle
      cose, autonomo non nella genesi ma nella sua evoluzione, poteva allora
      scoprire una nuova indagine sulla realtà, un nuovo modo di analizzarla.
      Dopo la scienza anche la realtà perdeva la sua neutralità e oggettività.
      Si trattava, allora, di tornare all'illuminismo con vesti nuove,
      sabotandolo: tornare al ragionamento della mente su sé stessa con lo
      spirito di un razionalismo disincantato.
      Il secondo pregio di questa ubriacatura intellettuale fu, infatti,
      l'immediato rifiuto dell'illuminismo in quanto movimento, che non
      pretendendo di spiegare il mondo, in verità, lo lasciava indisturbato e
      'inventava' un nuovo mondo, limitato e compatibile con la mente che
      ragiona su sé stessa, ignorando bellamente l' <<altro mondo>>.
      L'illuminismo, criticando la metafisica, istituiva un precisato repertorio
      per la conoscenza, piantava pali, steccati e limiti, secondo il discrimine
      di quello che era intellettualmente indagabile. La critica all'illuminismo
      si esercitava non tanto contro la necessità di usare un discrimine ma
      contro questo discrimine; per riprendere Voltaire, criticamente, chi e che
      cosa istituisce il 'tribunale della ragione', quali leggi dovrà applicare
      questo tribunale e, soprattutto, come si definisce l'imputato, vale a dire
      la ragione?
      Innalzando nuovamente le bandiere del razionalismo seicentesco e
      soprattutto riprendendo il pensiero di Spinoza (che è veramente l'unico
      autore in quello capace di tener testa all'illuminismo), era necessario
      stabilire una nuova relazione tra cose e ragione e porre la ragione a
      cosa, a una cosa tra tutte le altre cose. Questa cosa ha, però, la
      capacità di definire sé stessa come cosa tra le cose e il discrimine che
      deve usare rispetto a sé stessa non deve essere determinato
      aprioristicamente e fissato una volta per tutte ma dev'essere un limite
      mobile, provvisorio, e come tale non un limite, ma qualcosa di simile a un
      orizzonte che si sposta a seconda di come lo sguardo lo inquadra. Di qui
      il successivo fascino della scoperta dello specifico nel lavoro
      intellettuale, non come 'specializzazione' scientifica del sapere, ma come
      strumento per definire un terreno del sapere, costituire il tribunale
      della ragione e il suo imputato secondo termini cangianti: una specie di
      nuovo illuminismo o neo – illuminismo.
      Nonostante la distanza abissale, quasi antipodica, ho sempre pensato che
      Nietzsche sia stato un prodotto molto diretto dell'illuminismo e il primo
      'neo – illuminista' (prima di Foucault, Deleuze, Guattari, Baudrillard,
      Barthes ma anche Bloch, Duby; quello che io chiamo neo – illuminismo è un
      movimento trasversale costituito da elementi non una categoria compiuta);
      il criticismo nietzschiano è votato a enucleare un preciso campo del
      sapere, inteso come complesso di cose e ragione; Nietzsche rende la
      gnoseologia il suo imputato e quindi il sapere sull'informazione e il
      sapere come complesso di informazioni, fino al punto di individuare come
      oggetto del suo tribunale particolare la ragione come complesso di
      elaborazioni sulle cose, come complesso di dati, e di ridurre le cose a
      dati e a interpretazioni e non a cose in quanto tali, elementi
      'scientifici'.
      La specificità della scienza è la generalità della ragione in Nietzsche,
      generalità letta in chiave ovviamente critica. Pulito da molta
      visionarietà, ma anche interpretato attraverso quella, e da molti debiti e
      fascinazioni verso il misticismo orientale (anche se spesso messo con
      straordinaria efficacia in competizione e relazione gnoseologica con
      l'impianto del pensiero scientifico) Nietzsche è un filosofo della scienza
      che diventa, proprio grazie all'orizzonte critico che si è dato, filosofia
      della morale, estetica ed etica: il limite è mobile e l'illuminismo è
      sepolto, ridicolizzato e sabotato.
      L'orizzonte (giacché siamo in metafora visiva restiamoci) del razionalismo
      scolastico rinnovato rimane legato alla conoscenza e all'uomo, come
      possibile fonte di felicità per quello, operatività, azione e
      trasformazione della realtà; l'orizzonte dell'illuminismo è invece quello
      della definizione di un schema umano che, in quanto schema gnoseologico, è
      indirizzato unicamente a registrare la realtà, producendo pensiero
      scientifico, scienza economica, descrizione passiva (scambiata per
      oggettiva) della realtà e brevi riforme (di breve respiro) della realtà.
      L'illuminismo non esercita un'interrogazione generale sulla realtà, quindi
      sull'umano e quindi sulla conoscenza.
      
      Infine torniamo al 'pensiero rivoluzionario e Spinoza', tema iniziale. Lo
      ribadisco, per me fu naturale questa relazione anche se la estesi,
      arbitrariamente, a tutto il 'movimento razionalista seicentesco' e a parte
      del pensiero filosofico classico. La coalescenza tra ontologia e
      gnoseologia è ancor oggi per me fondante ogni sistema di pensiero che
      pretenda di governare il mondo, con la consapevolezza aggiuntiva che si
      sta esprimendo un 'governo', cioè un'azione autoritaria sulle cose,
      abbandonando l'ipocrisia illuminista del governo come naturale prodotto
      della comprensione autentica. La convinzione negli illuministi (e può
      essere solo tale) di aver compreso la realtà, dopo avere ridotto e
      delimitato il campo di analisi, è la proposizione della metafisica su
        scala ridotta, in versione miniaturizzata. 
      La certezza rivoluzionaria della necessità di governare il mondo, di dare
      a quello una spiegazione, che non pretende comprensione autentica, nasce e
      deve nascere da specifici saperi; questi specifici saperi si devono
      ricomporre. Senza usare storicismi intorno alla composizione di classe e
      allo sviluppo del capitalismo (che pure sarebbero adeguati) ritengo che il
      pensiero rivoluzionario deve e ha dovuto ricomporre i diversi saperi (il
      grado di facilità di questa ricomposizione dipende certamente da fattori
      storici e la ricomposizione stessa è un fatto storico) con una certa dose
      di volontarismo, con una scelta, una decisione personale, una decisione singolare
      (per usare un bel aggettivo di Negri in Impero).
      Nessuno ha evidentemente in mano la sua vita e nessuno ha completa
      indipendenza intellettuale, ma ricordiamoci del divario tra potenza e
      atto, divario che si ubica sul terreno del possibile (non dell'utopia) e
      non su quello della assoluta libertà (che sarebbe il campo
      dell'impossibile); ognuno può decidere che un particolare segmento di
      sé  si svolga in maniera consapevolmente determinata, quasi che (e
      sottolineo il 'quasi che') non avesse padri, eredità, momenti precedenti.
      Indipendenza e libertà sono parole vuote, ma quando si riconosce
        questo e che è necessaria un'azione di forza, un''azione di 'governo',
        per comprendere la realtà, senza pretendere di comprenderla, allora si
        lascia da parte la mitologia dell'indipendenza e della libertà per
        arrivare vicini proprio all'indipendenza e alla libertà, acquisendo
      il coraggio e anche la felicità di costruire la verità (la famosa massima
      della verità come lingua dagli infiniti accenti).
      Facilmente questa visione può essere etichettata sofistica. La sofistica
      ha avuto i suoi meriti e la sua verità; tra i suoi meriti quello di
      essersi opposta al pensiero socratico e anche quello di aver avanzato il
      problema della verità non in maniera astratta ma in coerenza con la realtà
      storica e politica di Atene, quindi di avere difeso la tradizionale
      concezione della verità come risultato del dibattito, dello scontro e
      della dialettica, intesa quest'ultima, come sistema di relazione aperto.
      La levatrice di Socrate è un sistema chiuso: ha già uno scopo la nascita e
      un obiettivo il bambino. La maieutica socratica è una teleologia, un fine,
      non è una via. La verità in Socrate è già data, ancora prima di essere
      indagata, nonostante Socrate nasconda questo dato in tutti i modi lui
      conosciuti e a ragione perché si trattava di un dato scandaloso: la
      mentalità ateniese, infatti, era del tutto estranea a un'idea di verità
      che si trovasse al di fuori della ragione, come obiettivo mistificato di
      un ragionamento apparente, che è lo scopo nascosto di Socrate. Secondo
      l'accezione negativa che il termine ha assunto, il vero sofista fu Socrate
      e non casualmente fu spesso scambiato per un sofista estremo.
      Effettivamente Socrate fu un tipo nuovo di sofista, fu un sofista che
      stabiliva la verità ma si rifiutava di dirsene produttore.
      La verità è, al contrario, un prodotto, spesso ottenuto al di fuori dei
      libri, è un prodotto collettivo, perché risultato di un
      complesso di sistemi.
      La verità è quella cosa che riesce a spiegare in un determinato tempo e
      spazio quello stesso tempo e spazio, lo definisce e, appunto, lo governa.
      Per farlo deve avere una relazione autentica con quegli spazi e tempi, sia
      quando li costruisce, sia quando li definisce. La verità ha qualcosa di
      divino: crea le cose e le idee. Sotto questo profilo la mia ipotesi sulla
      verità è un'ipotesi sofista.
      
      Spinoza e la sua chimica dei sentimenti potrebbe essere chiamato in causa
      per spiegare uno dei concetti cardine della politica rivoluzionaria del
      secolo passato: la coscienza di classe. Coscienza di classe è stata
      un'idea precostituita, presupposta, ma mai interpretata, estrinsecata,
      almeno nelle letture che ho fatto. In generale il concetto potrebbe essere
      sinteticamente così riassunto: la coscienza di classe è e nasce dalla
      consapevolezza dei propri bisogni e dalla consapevolezza che questi
      bisogni hanno natura collettiva e sono comuni a quelli di altri uomini e,
      infine, che definiscono una comunità; questa comunità è caratterizzata da
      una medesima situazione di dipendenza sociale, dalla dipendenza per la
      sopravvivenza e per la riproduzione dal lavoro salariato. Questa, credo,
      la teoria classica intorno alla coscienza di classe. Secondo la visione
      comunista, la coscienza di classe si diffonde spontaneamente tra i
      soggetti sussunti al lavoro salariato, inducendoli all'organizzazione
      comunista, all'organizzazione politica che, però, oltrepassa la coscienza
      di classe inquadrandola in una dimensione più ampia in base alla quale
      questa non è più l'elemento decisivo dell'organizzazione. 
      Le trasformazioni nella composizione del proletariato e nelle forme del
      lavoro salariato dopo gli anni sessanta hanno messo a dura prova questa
      concezione lineare, di crescita e 'maturazione' graduale dall'individuale
      al collettivo per giungere al politico e infine all'ideologico.
      Quel meccanismo di crescita e maturazione (questa enunciazione descrittiva
      della crescita e della maturazione) ha funzionato per quasi due secoli,
      bene nella prima fase del movimento comunista, molto meno bene durante
      l'esperienza dei partiti nazionali e nuovamente bene dopo la seconda
      guerra mondiale; dagli anni '70 parrebbe avere cessato di funzionare, o
      meglio di esistere proprio, sembrerebbe essersi dissolto.
      Da allora la tendenza non è più quella di realizzare una
      collettivizzazione dei bisogni che risulta quasi impossibile ma quella che
      partendo da alcuni bisogni individuali e singolari può seguire due strade:
      la costituzione di una comunità relativa a questi, da dove la loro
      originalità e specificità viene ribadita e preservata, oppure
      l'affermazione di una prospettiva generale che sottintende i bisogni (che
      diventano un segnale, un simbolo, di un problema più generale e non il
      problema di fondo da risolvere). Nell'Italia degli anni '70 queste due
      tendenze si sono manifestate prematuramente in due fenomeni ravvicinati e
      imparentati: il movimento femminista e delle autoriduzioni del 1976 (per
      quanto riguarda l'affermazione della individualità dei bisogni) e il
      movimento del 1977 (per quanto riguarda la seconda strada, quella del
      sotto intendimento).
      In entrambi i casi è venuto a mancare lo spazio, il terreno di coltura del
      movimento riformista e sindacale come pure quello dell'organizzazione
      rivoluzionaria. Da allora in poi le lotte sono state spesso dirompenti ma
      settorializzate, corporativizzate e si sono risolte in 'sé stesse', oppure
      hanno assunto un aspetto generale che ha usato un problema concreto, una
      tematica particolare (anti – nucleare, anti -imperialismo, ecologia,
      dominio monopolistico dei mass – media) per rappresentarne molte altre,
      costituendo quasi una simbologia dell'opposizione e dell'antagonismo; in
      entrambi i casi ci troviamo ben lontani dalla tradizionale, anche se
      generica e estremamente ambigua, idea di coscienza di classe. Per di più
      questa nuova fase è stata, a mio parere, superata, dopo il declino del
      movimento no – global, da un ulteriore momento, ancora più frammentato a
      scomposto, irriducibile a tematiche generiche, ma anche a qualsiasi
      immaginazione sul mondo, per quanto settorializzata. Questo, almeno negli
      ultimissimi dieci anni.
      
      Domenica, 8 febbraio
      
      Annotazione. Il termine stesso 'coscienza di classe' è quasi uscito dal
      vocabolario, ancora di più che 'lotta di classe'. Questo dipende dal fatto
      che il concetto – base di 'classe' ha perso diritto di cittadinanza (Negri
      stesso in Impero, usa raramente il termine) ma anche dal fatto che il
      concetto di 'coscienza' è sempre più divenuto inviso e guardato con
      cautela e sospetto (e va sottolineato con ragione) anche da chi non ha
      abbandonato il termine congiunto di classe.
      Insomma 'coscienza di classe' è un anacronismo, un repertorio
      dell'archeologia delle idee (almeno questa è la mia sensazione che
      potrebbe ovviamente essere fallace) ed è certamente un concetto debole e
      svuotato: 'coscienza' rimanda a un'impostazione idealistica delle
      percezione della realtà secondo la quale il soggetto si separa dal suo
      oggetto, lo definisce come altro da sé e rifiuta la contaminazione con
      quello, mentre 'classe' si riduce a essere un concetto sociologico,
      storico, cristallizzato su una specifica fenomenologia sociale e
      produttiva.
      Questo è uno dei moltissimi risultati del processo che, insieme con Negri
      e il suo Impero, si potrebbe definire il 'superamento della modernità'.
      L'operaio professionalizzato e l'operaio dequalificato sono scomparsi ed
      erano stati loro a ricostituire il concetto di classe, come complesso di
      bisogni ed esigenze che si coordinavano intorno a un soggetto centrale e
      trainante, capace di dare a questo una fisionomia, una razionalità e un
      fine. L'idea di coscienza, portato dell'approccio romantico del XIX
      secolo, si è esaurita nel conflitto con altri termini (penso a
      immaginario, vissuto, consapevolezza, cultura e soggettività) ed è stata
      questa una sconfitta prevedibile perché il termine aveva perduto il
      significato originario di partecipazione a una conoscenza comune (cum
        scire), acquisendo quello, insopportabile, di alta
        consapevolezza, conoscenza scientifica di un oggetto e sapere
        vero su quell'oggetto.
      I due termini, la contemporanea crisi di entrambi lo prova, vivono della
      stessa luce, o meglio hanno vissuto o ancora meglio sono stati collocati
      nella stessa luce, e si sono presentati come inscindibili, in quanto a una
      determinata classe (composizione di classe e tipologia operaia)
      corrispondeva una determinata coscienza. Era un legame legittimo anche se,
      manipolato (ed era facilmente manipolabile), ha prodotto molti orrori
      intellettuali e politici. Fino a quando, infatti, il collegamento rimaneva
      vincolato alla materialità delle lotte e degli antagonismi funzionava e
      bene, ma quando (solitamente l'operazione fu ideata, amministrata e
      confezionata dai grandi partiti riformisti o stalinisti e da quasi tutte
      le centrali sindacali dei due secoli che precedono questo ma ha anche
      affascinato qualche gruppo o frazione rivoluzionari della stessa epoca) si
      allontanava da quelle, il legame diveniva quasi unidirezionale e il polo
      della coscienza subordinava quello della classe, assumendo l'aspetto di
      una rappresentazione della classe e non l'originaria struttura di una
      percezione collettiva e costitutiva. Molto giustamente, tra gli anni
      sessanta e settanta del novecento, si è sviluppata una sorta di critica
      operaia all'idea di coscienza di classe, critica non scritta ma praticata
      attraverso l'ovvia contestazione dei vertici sindacali e delle direzioni
      dei partiti storici della classe operaia e attraverso la molto meno ovvia
      critica al ruolo degli intellettuali nella società e nella militanza
      politica professionale di ispirazione terzo – internazionalista che allora
      era sinonimo di militanza comunista.
      In verità il primo artefice della crisi del concetto di coscienza di
      classe fu proprio la spontaneità operaia e proletaria (poiché la classe
      seppe ricomporsi in quella) degli anni sessanta e settanta e il trapasso
      dal moderno al post – moderno non fece che sussumere e riassumere in una
      nuova ideologia sulla classe e la coscienza questa contestazione.
      L'ideologia del capitale usò la critica operaia anche per rivedere il
      concetto di classe, fortissima questa tendenza nel neo – liberismo che fa
      spesso riferimento indiretto a questa 'libertà' e ostilità operaia verso
      le strutture di partito e apparati sindacali.
      Non bisogna, comunque, avere nostalgie (anche se, qualche volta la
      nostalgia può essere utile) e quindi non è il caso di rimpiangere
      coscienza e classe ma, riprendendo il filo della memoria, individuare il
      vuoto (apparente o reale) che la loro scomparsa ha lasciato. Questo
      insegnerebbe molte cose.
      A mio parere esiste un vuoto oggettivo nel senso che la scomparsa dei due
      concetti ha registrato il venir meno di alcune cose, non tanto
      dell'operaio di fabbrica in occidente, quanto della capacità ricompositiva
      che quel soggetto possedeva e che si dava anche in termini di 'coscienza'
      e di 'classe'. Il concetto di classe, nella migliore tradizione comunista,
      non è un concetto sociologico ma politico: la classe non esiste fino a
      quando non si riconosce come tale, non si 'predica' come tale e non agisce
      come tale. Alla base del concetto non sono determinate condizioni di
      lavoro e rapporti contrattuali che rappresentano solo gli elementi
      oggettivi del concetto, ma la consapevolezza che la condivisione di quelle
      condizioni di lavoro e rapporti contrattuali produce comunità,
      individuazione e separazione dal resto della società e del popolo, quindi
      produce soggettività, la soggettività del concetto. 
      Nel marxismo la soggettività è oggettività e il concetto di classe è
      stato, conseguentemente e giustamente, tanto soggettivo quanto oggettivo.
      Se oggi, scendendo nel concreto, analizziamo i comportamenti della classe
      operaia dell'occidente, quella che è impiegata nella fabbrica residuale,
      ci accorgiamo che sono tutti fondati e non possono andare oltre la difesa
      della propria esistenza residuale, dell'occupazione e del posto di lavoro;
      l'elemento oggettivo di un eventuale e proiettato concetto di classe di
      questo strato operaio sarebbe quello della conservazione del lavoro
      salariato, della sua difesa e la soggettività del concetto si ridurrebbe
      al diritto al lavoro salariato, spesso di un salario a qualsiasi
      condizione (pensiamo al caso FIAT di Melfi). Nulla di deprecabile, è un
      segno dei tempi, ma è assolutamente impensabile costruire un concetto di
      classe su una soggettività che non riesce a uscire dai cancelli di una
      fabbrica che chiude o che continua a voler chiudere. Se la lotta vince e
      si evita il licenziamento, la lotta è finita e si è evitato il
      licenziamento, la soggettività si fermerà, e si è fermata, qui. Non si può
      neanche scrivere che, rispetto al passato, il meccanismo della creazione
      di soggettività di classe tra gli operai si è inceppato, ma è più
      coraggioso scrivere che questo meccanismo non esiste più.
      Prendo un altro esempio, uno dei pochi esempi che posso annotare dopo anni
      di rifiuto della cronaca e dell'informazione politica, il movimento delle
      donne di Cornigliano del 1989 o quello di Taranto in sostegno
      dell'iniziativa dei giudici dell'anno passato. In entrambi i casi, tanto a
      Genova quanto in Puglia, i quartieri popolari vicini alle acciaierie
      protestarono contro l'inquinamento provocato dalle lavorazioni
      siderurgiche a caldo ed entrambi i movimenti, rivendicando una migliore
      qualità della vita e una riqualificazione del territorio e dello spazio
      per essa, stabilirono una priorità di valori: la difesa del lavoro
      salariato (l'operaio delle acciaierie) viene dopo la qualità della vita
      nel quartiere. Esigenze tipicamente 'proletarie', intendendo per quelle i
      bisogni che investono la vita, il tempo libero e la tutela della salute si
      anteponevano al bisogno della classe operaia residuale e addirittura si
      contrapponevano, anche perché l'imprenditore ha cercato in entrambi i casi
      di ricavare il massimo profitto politico dalla vicenda. Eppure, nonostante
      l'embrionale e notevole proposizione di una 'scala di valori etici' nei
      confronti del lavoro salariato, entrambi gli episodi si sono ridotti a
      essere un momento di mobilitazione incapace di andare oltre sé stesso, una
      specie di corporativismo ecologista nel quale la difesa della salute
      sostituiva la difesa del lavoro salariato operaio, provocando spesso
      tensione con gli operai occupati nello stabilimento siderurgico. Anche qui
      il meccanismo si è fermato: le agitazioni sono rimaste limitate
      territorialmente e non hanno focalizzato una problematica generale sui
      rapporti tra territorio e lavoro. Il meccanismo si è fermato anche se
      esisteva la possibilità di rimetterlo in moto, di costituire una
      'coscienza', una generalizzazione e una comunità corrispondente; in questo
      particolare caso il meccanismo c'è ancora e potrebbe funzionare ma è molto
      difficile rimetterlo in produzione.
      Sono stati molti i casi simili a questi di Genova e Taranto in Europa.
      Soprattutto la Germania degli anni ottanta ha vissuto un notevole ciclo di
      lotte 'proletarie' svolte sulla tematica della vivibilità del territorio,
      del suo controllo democratico, producendo a tratti elementi di coscienza,
      di soggettività spesso molto radicati localmente; ma anche qui, questa
      soggettività, che spesso prendeva con sé in forma chiara il rifiuto del
      lavoro salariato, non si è sedimentata e non è uscita da sé stessa, non ha
      ricostituito l'immagine della classe e la sua 'coscienza'. Eppure in
      questa seconda tipologia di movimenti, quelli 'proletari' sul territorio,
      possiamo individuare un processo formativo e strutturante che non viene
      condiviso da quelli operai, che, non casualmente, ha lasciato un più o
      meno forte segno di sé a livello istituzionale ed elettorale in Germania
      con la formazione della forza politica e parlamentare dei Verdi, e anche
      in Italia, dove il movimento antinucleare ha certamente ottenuto un
      successo ideologico e simbolico notevole, che si è realizzato, complice
      l'effetto Cernobyl, complice ma non protagonista, nel plebiscito
      referendario di fine anni '80.
      Importante è notare che, proprio in un discorso sulla coscienza di classe
      e la sua eventuale attualità, l'emergere di soggettività operaie
      cristallizzate sul diritto alla conservazione del posto di lavoro e
      soggettività sedimentate intorno al controllo diretto e democratico del
      territorio ha prodotto paradigmi soggettivi 'liberi', per alcuni versi
      orfani di una prospettiva precisata, di un progetto generale, di un telos,
      il che è un bene perché ci troviamo di fronte a una soggettività
      multipotente in quanto libera ma è anche un rischio in ragione del fatto
      che la nuova destra sta cercando di combinarsi con questi enzimi. La nuova
      destra ha costruito una sua edizione della 'coscienza di classe'; non sono
      del tutto politicamente insensati e ottengono un certo credito di massa,
      ambiguo e contraddittorio, gli appelli al valore del lavoro operaio
      'nazionale', distrutto dalle multinazionali e dalla internazionalizzazione
      del mercato delle merci e del mercato del lavoro, ma anche alla difesa del
      territorio, secondo un'ideologia che lo riduce a museo proprio e privato
      della comunità alla quale appartiene. Dove esistono delle contraddizioni
      reali possono crescere dei movimenti reali ma nulla vieta che si diano
      movimenti (coscienze) apparenti.
      Il movimento di occupazione degli appartamenti che ormai è divenuto
      endemico in Europa, almeno dagli anni sessanta del secolo scorso,
      rappresenta un terzo genere di manifestazioni della 'classe' e della sua
      coscienza. 
      Anticipo che conosco pochissimo il fenomeno anche perché (e questo è un
      dato interessante) ignorato il più possibile dai media che sono la mia
      unica fonte di informazione attuale. Si tratta di occupazioni passive
      (inquilini che resistono allo sfratto) e attive, gente che si appropria di
      alloggi sfitti; il fenomeno riguarda le aree metropolitane più grandi
      (Roma e anche Milano). Al contrario di quanto comunemente si pensi,
      protagonisti di questi episodi sono senza – casa indigeni, il più delle
      volte accompagnati da homeless migranti e quasi mai solo emigrati. È la
      vecchia lotta per la casa e per il reddito sul quale i costi
      dell'abitazione non devono pesare. Il meccanismo, in questo caso, della
      creazione di una soggettività generalizzata, se non di una tradizionale
      'coscienza', pare funzionare ancora, almeno in parte e per quanto possa
      conoscerlo: l'occupazione o la resistenza allo sfratto mettono in
      discussione il diritto di proprietà, pongono a quello dei limiti sociali,
      limiti di utilità sociale. Un'occupazione di case è molto di più
      dell'occupazione di una fabbrica in chiusura, perché una fabbrica che
      chiude ha perso 'virtualmente' il suo proprietario, mentre nel caso delle
      abitazioni è l'occupazione di uno spazio vivo, di un luogo economico (più
      spesso di rinvestimenti finanziari) e di un luogo di vita che spesso, per
      logica di cose ma anche per scelta spontanea, diviene posto nel quale si
      esercita solidarietà, collaborazione e condivisione di risorse ed
      esperienze. Nella fabbrica occupata contro i licenziamenti questo non
      avviene, si rimane ancorati, infatti, alla tradizionale esperienza
      lavorativa e alle relazioni stabilite in essa e accade solo in minima
      misura nelle lotte sul territorio (per come si sono fino ad adesso
      realizzate e per quanto ne sono informato).
      Adesso pensiamo a questo e questo potrebbe essere una metafora e il
      paradigma della costituzione di una coscienza e di una classe, di un nuovo
      legame tra i due termini che li rende anche diversi. Pensiamo, quindi, a
      una fabbrica che chiude e licenzia gli operai, pensiamo alla sua
      occupazione ma non in funzione, o non solo in funzione, della prosecuzione
      della produzione e del rapporto di lavoro salariato: gli operai licenziati
      prendono possesso degli spazi, come spazi, come luogo, come geografia
      futura e non passata, aprendoli al quartiere e dando possibilità di
      alloggio ai senza casa. È certamente una metafora, ma potrebbe non esserlo
      e il mondo che viene potrebbe non essere affatto solo metaforico.
      
      Lettura (sbirciata). La grammatica della Moltitudine. Ho dato una
      sbirciatina ad alcune pagine relative alla prima giornata seminariale, al
      general intellect e al concetto di Moltitudine, come al solito
      illuminante; di Virno ho letto poco (articoli su Metropoli) e un saggio
      sui sentimenti del moderno (I sentimenti dell'al di qua) del quale ricordo
      a malapena il titolo ma mi ha sempre impressionato per la lucidità e la
      chiarezza. Rimpiango di essermi tagliato fuori per quasi quindici anni dal
      mondo della riflessione politica. Consideriamoli quindi anni sabbatici. 
      
      Martedì, 10 febbraio
      
      Ai margini. Grammatica e Impero. Virno sottolinea il fatto che il concetto
      di moltitudine non sostituisce quello di proletariato. Moltitudine è il
      nuovo scenario nel quale si costituisce l'antagonismo e dunque la classe;
      gli orizzonti del proletariato, quando si definisce in relazione allo
      spazio (e forse anche al tempo storico) non sono più quelli tracciati dai
      confini nazionali e linguistici (in altre opere simili a questa si sarebbe
      scritto 'all'idea di appartenenza') e questo processo non si limita a
      oltrepassarli, costruendo una transnazionalità (aggiungo io) ma ad
      ignorali, destituendoli di ogni fondamento e credibilità.
      
      [Piero, io, due israeliani, un ostello di Oslo e il 1978]. In forma
      prosaica e in modo non completamente coerente con l'argomento, la lettura
      delle esplicitazioni di Virno intorno al concetto di Moltitudine ha
      sollecitato la memoria di un fatto. Vacanze in Scandinavia, estate del '78
      e provvisoria coabitazione in camera di ostello con due israeliani, Piero
      e io entrambi diciottenni; il primo legato molto flebilmente alla
      tradizione della sinistra storica, io più o meno militante della 'nuova
      sinistra'. Intraprendemmo qualche discorso con i nostri coinquilini, i
      soliti scambi di facciata e cortesia nei quali, non so come, si presentò
      il tema della leva obbligatoria e qui venne fuori una visione delle cose
      opposta. I giovani israeliani non vedevano l'ora di servire nell'esercito
      e di affrontare una ferma lunghissima (tre anni se non erro), noi
      inorridivamo solo di fronte ai nostri dodici mesi; i nostri interlocutori
      non amavano la naia in quanto naia, precisamente come noi non la
      detestavamo in quanto tale, ma mentre per noi era un obbligo ormai privo
      di significato, che faceva riferimento a frontiere e confini (una faccenda
      in decadenza) e dunque si rivelava come un'attività inutile, per gli
      israeliani era quello il motivo di tanto orgoglio: era il fatto di
      appartenere a un popolo e a una nazione da difendere.
      Ancora più chiaro, alla luce di quanto scriveva Virno sulla Moltitudine, è
      adesso il fatto che io, non troppo paradossalmente a questo punto, avendo
      in mente l'idea di classe operaia e proletariato all'interno del popolo,
      come elemento sicuramente ben differenziato in quello ma pur sempre
      'proletariato nazionale', considerai che un tale orgoglio di 'servire la
      patria', seppur censurabile, era quanto meno etico, al contrario il mio
      amico, assolutamente libero e innocente da stretti sociologismi di classe,
      lo riteneva semplicemente patetico, idiota e posto fuori da ogni
      modernità.
      Il mio caro amico 'riformista' percepiva molto meglio di me quella novità
      incipiente, proprio per il fatto che due concetti che io ero abituato a
      coniugare con popolo (classe operaia e proletariato) gli erano del tutto
      estranei. Non è affatto paradossale, invece, che gradatamente, con molta
      fatica, soprattutto usando riferimenti alla tradizione internazionalista
      propria del pensiero comunista, io abbia metabolizzato il declino del
      concetto di popolo e di stato – nazione lungo tutti questi decenni, mentre
      il mio amico, proprio perché consapevole in forma bruciante  e forse
      prematura di questa insorgenza, abbia recuperato la 'necessità' di
      ricostituire un'appartenenza etnico – linguistica che, comunque, non si
      identificava con il popolo dello stato – nazione tradizionale.
      Virno ha in mano quello che io chiamo 'lo scettro del re nella scrittura':
      impone e comanda dalle sue righe dapprima evocazioni, poi riflessioni e
      infine ulteriori narrazioni, soprattutto il paragrafo 'Del virtuosismo: da
      Aristotele a Glen Gould' è una vera sorgente di riflessioni; può darsi che
      qualcuna di quelle cadrà su questo diario, magari in forma mascherata o
      addirittura inconsapevole.
      
      Venerdì, 13 febbraio
        
      Ai margini. Grammatica della Moltitudine. Dopo decenni Virno mi
      costringe a imbattermi nel concetto di lavoro improduttivo,
      quello cioè che non produce essere e non produce plusvalore, anche se,
      spesso, concorre a creare il profitto, definendo il quadro della
      riproduzione del capitale e della forza – lavoro. È un'idea questa che nel
      marxismo, per come l'ho masticato, è rappresentativa di una realtà
      marginale, ignorata e ininfluente: quello che conta, sia per il capitale
      quanto per il pensiero antagonista, è il lavoro produttivo. Come precisa
      Virno (con riferimenti ad Aristotele oltre che ovviamente a Marx), il
      lavoro produttivo si connota come creatore di un'opera determinata,
      quantificabile e visibile: un'automobile, un pezzo di ricambio, un disco,
      un libro o un prodotto cinematografico. Il tratto che unisce questi esseri
      così diversi è la riduzione a merce, la qualità, cioè,  di essere
      vendibile e di possedere un valore preciso, una precisa misura sul
      mercato. Tutto il lavoro vivo speso al di fuori di questo ambito può
      essere considerato improduttivo: il lavoro del cameriere, del riparatore a
      diverso titolo, quello del commesso, del negoziante, del commerciante,
      dell'infermiere, del trasportatore, del ferroviere, oppure l'attività del
      musicista (bellissima l'analisi del virtuosismo in proposito) e in genere
      le attività che si limitano a distribuire, mantenere e conservare l'essere
      (i prodotti) non partecipando alla sua creazione, oppure ancora tutte le
      attività che sono volte a rendere possibile la produzione attraverso il
      mantenimento e riproduzione della forza – lavoro necessaria (in generale
      compongono la categoria dell'improduttivo coloro che esercitano le libere
      professioni, avvocati, medici, le donne che partoriscono, le famiglie che
      crescono i figli e il concetto può essere tranquillamente esteso per
      comodità generalizzante ai lavoratori dei servizi pubblici e privati in
      genere).
      
      Annotazione. Questa discriminazione tra lavoro produttivo e improduttivo
      ha tradizionalmente introdotto un'apologia del primo contro il
      secondo,  un'ideologia in base alla quale il lavoro produttivo aveva
      contenuti progressivi determinando la trasformazione e lo sviluppo storico
      e sociale mentre quello improduttivo era non solo elemento ininfluente e
      di contorno ma spesso assumeva un ruolo frenante e conservatore,
      regressivo addirittura. Il lavoro improduttivo era spesso  confuso e
      scambiato con l'antiproduttivo, con l'apparato parassitario che,
      vampirizzando le risorse del mondo della produzione, aveva permesso la
      costruzione e poi lo sviluppo dello stato. Aggiungendo elementi a questa
      categoria, ancora più dello stato, il mondo della finanza, delle rendite
      finanziarie e quello bancario erano l'antiproduttivo / improduttivo per
      eccellenza. Per molti aspetti questa visione delle cose è ancora attuale e
      adeguata.
      È assolutamente impossibile, almeno per me, non assegnare al mondo della
      finanza, delle rendite e a quello bancario un ruolo improduttivo o
      addirittura antiproduttivo, come una buona parte della burocrazia degli
      stati deve subire questa assegnazione.
      Qualcosa, però, non funziona più come alcuni decenni fa nel campo del
      lavoro produttivo, non tanto perché il suo concetto si è esteso o si è
      ristretto, non tanto perché le sue pertinenze sono aumentate o diminuite,
      ma perché è radicalmente cambiato il concetto di lavoro produttivo,
      ovverosia di produzione. Per comprendere, almeno per il punto di vista che
      ho in mente, l'idea di produttivo e improduttivo è necessario partire
      dall'idea di lavoro vivo e per lavoro vivo io intendo il tempo di lavoro
      che viene usato nell'intervento sulla produzione; per intervento sulla
      produzione intendo quell'attività che determina concretamente e
      direttamente la creazione del prodotto: caso tipico di quello è, in
      agricoltura, l'uso degli strumenti di lavoro antichi (zappe, vanghe,
      aratri, falci, falcetti etc. etc.) e moderni (trattori, cingolati, mezzi
      meccanici in genere) e nella produzione industriale l'uso dei macchinari e
      poi della robotica.
      La relazione tra lavoro vivo umano e prodotto è, in entrambi i settori,
      cambiata in forme rivoluzionarie. Non sono un economista né tanto meno un
      esperto di nuove tecnologie industriali e agricole, ma direi che la natura
      di questa trasformazione rivoluzionaria è di avere eliminato quasi del
      tutto l'importanza del lavoro vivo nella determinazione del prodotto;
      l'intervento del lavoro vivo NON è più giocato nel ciclo produttivo,
      l'operaio industriale e agricolo non interviene più direttamente sulla
      produzione e sulla creazione del prodotto, non è più né un aiutante, né un
      collaboratore, né un'appendice del macchinario, come durante il
      taylorismo, ma ha acquisito un ruolo completamente diverso: controllare il
      lavoro della macchina, seguirlo e, solo in determinati passaggi critici,
      intervenire direttamente nel ciclo. Nella grande fabbrica, come anche
      nelle grandi aziende agricole, almeno nei paesi capitalisti sviluppati o
      egemoni, il lavoro vivo non fa più parte della produzione, non entra nel
      prodotto. Sto, ovviamente, pensando a realtà produttive come la FIAT, la
      FORD e in generale la grande industria metalmeccanica europea ed
      americana, come alle grandi aziende agricole di queste aree. In
      agricoltura, inoltre, le tecniche utilizzate puntano non solo a rendere la
      produzione indipendente dal lavoro vivo umano ma anche dai cicli
      stagionali, dalle contingenze meteorologiche, in una parola dall'esistenza
      della natura, come se la fabbrica di Ford e il suo capannone si fossero
      trasferiti nella campagna, trasformandola in un diverso da sé stessa, non
      più parte della natura ma appendice della produzione astratta. In questo
      segmento particolare della produzione agricola non solo il lavoro vivo
      umano non è più produttivo ma persino la natura, che ancora nel secolo
      scorso, almeno fino agli anni trenta e quaranta di quello (quindi ancora
      nel 'vecchio neolitico' e prima della fuori uscita da quello), era il
      produttivo per eccellenza, a causa della sua ciclicità e mutevolezza è
      entrato a far parte dell'improduttivo, come elemento di disturbo alla
      moderna produzione di valore.
      Nella fabbrica post – fordista e nella campagna – fabbrica, il lavoro vivo
      umano non è più produttivo, ma fa parte della rete di controllo e
      supervisione ed è quindi anti – produttivo, mentre di autenticamente
      produttivo rimangono il lavoro meccanico e il lavoro delle macchine.
      L'espulsione e conseguente svalorizzazione del lavoro vivo umano dalla
      grande fabbrica ha avuto un ruolo strategico e ha generato un paradigma,
      diffondendosi ben oltre i recinti delle fabbriche post – fordiste e delle
      fattorie tayloriste. Non è questa una novità degli ultimi anni, già nella
      seconda metà degli anni settanta del '900, se non ricordo male, furono
      ideati cicli produttivi di fabbrica nei quali il lavoro vivo non aveva più
      funzioni operative. È decisivo però il fatto che questa emarginazione del
      lavoro vivo umano stia funzionando da matrice per le relazioni di lavoro
      in generale, fino al punto da far dimenticare la causa efficiente di
      questa matrice: l'abolizione dalla componente produttiva del lavoro umano
      nella fabbrica post – fordista.
      Oggi l'operaio di fabbrica è un lavoratore improduttivo, il protagonista
      della ribellione degli anni '60 e '70 è diventato un soggetto che non
      produce più anche se lavora, per la conoscenza empirica che ne ho, molto
      di più; il suo, però, è un lavoro che non serve più direttamente alla
      produzione. La critica alla produzione esercitata dal cuore vivo della
      produzione capitalista è morto e il suo cadavere va considerato un
      soggetto improduttivo, precisamente come nei canoni dell'economia classica
      lo era un barbiere.
      Mi paiono oneste banalità quelle che fin qui ho scritto in proposito; si
      vedono nelle cose, con chiarezza, senza neppure avere bisogno di
      illuminarle. La giornata sta per finire e dal momento che non è affatto
      sicuro che io possa andare avanti in questo ragionamento, mi appunto
      un'anticipazione sulle sue conclusioni che sono sostanzialmente due: non
      esiste più un soggetto sociale trainante nella produzione di plusvalore e
      non esiste più una classe produttiva nel senso marxista e classico del
      termine (tutto questo dal lato del lavoro)  come, ma non sono un
      economista, non esiste più il plusvalore, inteso come fatto economico
      calcolato complessivamente e su base generale e astratta e, nel
      capitalismo mondiale integrato o nell'Impero di Negri, i costi generali
      per la conservazione del sistema economico e per garantirne lo sviluppo
      superano di gran lunga i guadagni (pensiamo ai rapporti PIL e debito
      pubblico negli stati capitalisti avanzati ed egemoni), vale a dire che il
      capitalismo ha perso le sue ragioni, ha perso il suo senso ed è in
      contraddizione con sé stesso e dall'interno di sé stesso (questo è il lato
      analitico sul capitale). Quando scrivo 'dall'interno di sé stesso' non
      intendo l'interno che Negri immagina nel suo Impero come risultato
      dell'impossibilità dell'essere al di fuori del capitalismo nel mondo
      globalizzato, ma intendo l'interno 'intimo', l'intimità del
        capitalismo, l'interno economico, il mondo del valore e del
      profitto che non esiste più. Il capitalismo ha perso, quindi, senso anche
      davanti a sé stesso ma è la forma di dominio del mondo; il capitalismo non
      è più un sistema economico e sociale in senso stretto ma una serie di
      rapporti sociali,  una forma di dominio plurisecolare, e i suoi scopi
      sociali ed economici sono diventati contingenze, accidenti per la sua
      evoluzione. L'essenza attuale del capitalismo è quella di essere un
      dominio strutturato socialmente ed economicamente ma non più un
      coordinamento di scopi sociali ed economici.
      Mi piacerebbe arrivare a queste due conclusioni attraverso un ragionamento
      sulla metamorfosi del lavoro produttivo, sui servizi pubblici e privati e
      sulle reti telematiche nei paesi capitalistici tradizionali ed egemoni,
      sulla resistenza del lavoro vivo nella produzione in aree emergenti (mi
      piacerebbe dirle periferia del capitale e che così fossero
      chiamate) e in genere fotografando anche la dispersione estrema dei
      soggetti, delle relazioni di capitale, dei rapporti di lavoro, delle forme
      di lavoro e delle diverse gradienze negli equilibri tra lavoro vivo e
      lavoro macchinico, la taylorizzazione dei servizi, dell'agricoltura e
      della logistica per arrivare a scoprire, in parte con Negri e la sua
      Moltitudine e in parte contro Negri e la sua Moltitudine, non solo che non
      esiste un soggetto trainante ma che probabilmente la scomposizione e
      segmentazione dei soggetti sono costitutive e ontologiche fino al punto
      che appare privo di senso far riferimento all'idea di soggetto. Infine
      individuare, dentro l'acclarata e riconosciuta disgregazione (disfacimento
      del gregge letteralmente) un elemento positivo e un tratto unitario,
      appunto.
      Può darsi che ce la farò, può darsi.
      
      Sabato, 14 febbraio
       
      Letture. Essere figli: racconti di vita vissuta e di crescita / Laura
      Musso. - Chieri : Gaidano & Mattia, stampa 2011. Un libro gentilmente
      proposto dalla servitrice del CAT, del quale non ho mai scritto ma che
      frequento volentieri. Non sono queste le letture che preferisco (che hanno
      in oggetto un argomento specifico e non escono da quello, monotematiche)
      ma lo spaccato di vita che le interviste a figli di ex alcolisti che
      l'opera contiene è sufficientemente ampio per attrarre la mia curiosità e
      interesse; in genere il testo assomiglia al club: descrive piuttosto che
      la relazione con l'alcol, l'umanità di fronte a John Barleycorn e i suoi
      effetti e non scrive di alcolismo in senso stretto, clinico. Sotto questo
      aspetto, per di più, gran parte delle testimonianze registrano
      l'affermazione della teoria Basaglia, la chiusura dei manicomi (dove
      spesso finivano gli alcolisti che associavano a questo problema anche
      disturbi nel comportamento). I club, nati nell'Europa dell'est, nell'oltre
      cortina, si sono diffusi, con perfetta gradualità geografica, in Italia
      dal Friuli, importati dalla Slovenia dall'energico dottor Hudolin, la cui
      personalità si presenta incombente e massiccia in  una delle
      testimonianze e hanno trovato nei reparti psichiatrici abbandonati un
      primo insediamento. L'idea del coinvolgimento  di tutta la famiglia
      dell'alcolista era perentoria in Hudolin, per lui tutta la famiglia
      significava tutta la parentela, tutto il lignaggio in ogni sua linea e
      ramo, se no, secondo Hudolin, il problema rimaneva. Così il club diveniva
      un processo di ricostruzione sociale, un fatto, come lo nominava Hudolin,
      biosociale perché l'alcolismo è un problema che coinvolge la vita
      nelle sue relazioni con la sfera della socialità.
      “Un bambino non è stupido” argomenta uno dei testimoni, mi pare Luca,
      perché si accorge di un problema anche se non sa qual è il problema, ne ha
      sensazione, ma non percezione precisa ed è fondamentale rivelarglielo,
      eliminare il velo delle relazioni familiari che coprono l'uso sistematico
      di alcolici, altrimenti cercherà da solo una spiegazione del problema,
      cercandola o credendo di trovarla in sé. Beh, ringraziando il signore,
      credo che questo sia stato fatto nel mio caso, quasi spontaneamente. Un
      bambino non è affatto uno stupido come non lo era Eleonora che quando sua
      madre riesce finalmente a smettere di bere  annota: “La mamma adesso
      sorride di più ed è molto più bella”. Il fatto decisivo per questa serie
      di interventi non è tanto la sospensione o l'abbandono dell'uso degli
      alcolici, quanto la presa di coscienza del problema, diretto
      nell'alcolista, collegato nel mondo che lo circonda e con il quale ha una
      relazione significativa.
      Avere consapevolezza del problema è già avere smesso di bere, anche se
      spesso si smette di bere prima di avere piena consapevolezza del problema,
      ma la successione temporale, in questo caso, non c'entra nulla e la
      narrazione storica può correre al contrario (il prima divenire dopo e
      viceversa).
      In verità va tutto analizzato come se fosse in contemporaneità, come un
      unico e solo processo di “guarigione” (migliaia di virgolette) collettiva:
      la “malattia” è collettiva e ha un unico processo.
      Figli, nipoti, padri, amici, compagni di lavoro etc etc possono
      partecipare al processo perché ne fanno parte a pieno diritto e perché
      hanno fatto parte del problema. I bambini in tutto questo devono godere di
      particolare riguardo perché sono 'soggetti deboli'? Niente affatto: devono
      essere con onestà informati del problema del loro padre, madre, nonno,
      nonna, fratello, sorella e via discorrendo con chiarezza: il papà ha il
      mal di testa ed è nervoso esattamente come perché beve qualche bicchiere
      di troppo e spiegare che come è piacevole liberarsi dall'emicrania così
      sarà piacevole e utile per lui liberarsi del bicchiere.
      
      Domenica, 15 febbraio
      
      Annotazione. L'avanzata dell'ISIS in Libia impressiona il mondo politico
      italiano per la sua vicinanza, per il fatto che lo stato islamico è giunto
      ad appena trecento cinquanta chilometri dai confini nazionali. Eloquentissima la minaccia del califfato di
      bombardare Roma, perché ridicolizza,  forse consapevolmente, la
      retorica dei confini e l'altrettanto retorica preoccupazione intorno a
      quelli; eloquentissima perché, come in photoshop, restringe, allunga,
      deforma e poi ricompone nel primitivo equilibrio l'immagine dei confini.
      Eloquentissime, ovviamente,  la retorica e la preoccupazione italiane
      mentre tutti si affannano a ricordare che non sono stati favorevoli alla
      pacificazione armata imposta alla Libia un paio di anni fa, fatto salvo il
      fatto che, nella verità storica, vi hanno partecipato e l'hanno
      appoggiata.
      Per di più, ora che è stato aperto il rubinetto informativo e
      massmediatico dopo un silenzio costante e sistematico, l'afflusso delle
      notizie dalla Libia si è accompagnato con i fatti di Copenhagen, con il
      duplice omicidio, l'attentato al vignettista, l'attacco alla sinagoga e
      l'ormai scontata eliminazione fisica del vero o presunto responsabile. È
      sufficientemente ovvio ritenere che questa combinazione non sia affatto
      casualmente registrata dai media ma che vi sia una strategia enfatizzante.
      Se fino a Saddam e alla prima guerra del golfo la logica che animava
      l'opposizione nazionalista araba all'imperialismo globalizzato era
      riassunta nella rivendicazione della sovranità nazionale e quando Saddam
      invase il Kuwait lo fece per questioni attinenti agli interessi della
      nazionalità irachena, dopo la seconda guerra del golfo, l'eliminazione di
      Saddam e l'occupazione dell'Afghanistan, l'opposizione è stata
      egemonizzata dal fascino del movimento religioso, dal movimento islamico,
      e ha imparato (ma forse sarebbe meglio scrivere che ha interiorizzato) la
      lezione impartita dall'ONU e dalle forze multinazionali: colpire oltre i
      confini, dietro le linee e vanificare i concetti stessi di confini e di
      linee.
      ISIS in Libia, Charlie Hebdo in Francia, ora Copenhagen offrono piena
      testimonianza di questa nuova logica.
      
      Annotazione. Non ho mai digerito e accettato il termine 'globalizzazione'
      e l'aggettivo globale in relazione alla politica internazionale e ai suoi
      assetti. Mi sono sempre apparsi come elementi di una fraseologia
      massmediatica non disprezzabile in quanto tale (cioè in quanto prodotto
      massmediatico) ma per il significato che si portavano dietro e che
      naturalmente poteva essere messo in produzione dai media: una terribile
      semplificazione dei termini del reale (paradigmatico il concetto di
      'villaggio globale' che ho sempre considerato 'vuoto' e che non
      casualmente, al primo sorgere di contraddizioni nel nuovo assetto della
      'globalità' e di contestazioni serie, negli anni novanta, è
      misteriosamente passato di moda presso i mass media). Globale e
      globalizzazione non possono essere strumenti di lavoro (almeno del mio
      lavoro, quindi certamente limitato) e non significano altro che un
      desiderio di semplificare. Mercato globale non ha senso; esprime un
      indifferenziato che non esiste: non dappertutto il mercato globale si
      presenta secondo gli stessi schemi, con le stesse informazioni, la
      medesima energia e lo stesso gradiente. Paradossalmente la società
      classica, l'impero romano, il regno dei regni sassanide, le confederazioni
      tribali germaniche facevano parte di una globalità molto più accentuata di
      quell'attuale e, per usare in veste nuova il termine tanto amato, 
      furono protagonisti della globalizzazione dell'era neolitica e dei
      metalli. Esemplare di questa (ed esempio che divenne riferimento per tutta
      la posterità politica e istituzionale, tanto di quella posta a destra del
      Reno quanto di quella posta alla sinistra, tanto per la sponda destra e
      per quella sinistra del Danubio e così anche per l'Eufrate e forse anche
      l'Indo) fu l'incredibile e mitologica, secondo le grammatiche dell'era,
      impresa e costruzione di Alessandro il macedone che unificò l'occidente e
      l'oriente e per quanto possibile diede il segno della possibilità di unire
      il mondo per l'eternità; per certi versi Alessandro fu un prodromo di
      Cristo nella misura in cui il cristianesimo è considerato come un fatto
      ecumenico, globalizzato e globalizzante.
      Globalizzazione (come il globo che adornava lo scettro degli imperatori
      romani e ancora di quelli bizantini, l'orbis terrarum) è un
      concetto che più facilmente potrebbe essere familiare a Traiano che non a
      Obama, anche se Obama lo usa spesso mentre Traiano lo ignorava e questo
      perché  l'imperatore guidava un impero che non aveva bisogno di dirsi
      globale per il fatto che, essendo un impero (e non un regno qualsiasi) e
      il prodotto di una repubblica costitutivamente cosmopolita, era già per
      definizione globale.
      Il fatto, invece, che il libero mercato non conosca più confini, non
      conosca altro da sé, non ne fanno un'istituzione globale, anzi forse tutto
      il contrario: il mercato capitalistico ma anche il dominio che lo
      accompagna, non avendo limiti e confini, hanno ricostituito, su basi
      nuove, limiti e confini, definendo limiti, aree, situazioni interne ma
      diversificate. La deterritorializzazione e la pulsione
      dell'indifferenziato, innegabili, non producono i loro effetti immediati e
      attesi ma riterritorializzazioni e nuove differenziazioni.
      
      Mercoledì, 18 febbraio
      
      Ai margini. Impero. Negri e Hardt usano un verbo latino, in forma da loro
      sostantivata, posse per esprimere la creatività, la capacità
      organizzativa e l'immaginazione della moltitudine. Per immaginazione non
      va intesa una categoria riflessiva ma attiva, una categoria progettuale
      perché la moltitudine costituisce il mondo, è, appunto, la potenza che lo
      trasforma continuamente.
      È un'immaginazione magmatica ma che contiene un suo ordine, quello della
      collaborazione dei produttori. Trovo quest'immagine imprecisa perché, se
      da una parte afferma, marxianamente, che la produzione di plusvalore
      caratterizza l'importanza di questo soggetto, contemporaneamente non
      descrive a quale plusvalore si ancori l'esperienza produttiva di questi
      soggetti. L'immagine è vivace, profila una nuova forma di socialità, ma
      nello stesso tempo potrebbe essere disposta su molte epoche e trovarsi
      coerente con quelle. Si tratta, certamente, di una proiezione, di
      un'ipotesi con qualche fondamento ma a dimostrarla serve necessariamente
      l'esperienza concreta del 'proletariato nella moltitudine'. Negri e Hardt
      pubblicano in Italia nel 2002 e scrivono, questo lo deduco dalle note
      tipografiche e dalla bibliografia citata, prima del 2000, il 2000 è l'ante
        quem di gran parte della loro riflessione, prima, quindi, delle
      torri gemelle, della seconda guerra del golfo e dell'Afghanistan e
      certamente prima della grande e lunga depressione sorta nel 2008.
      L'esperienza concreta del proletariato nella moltitudine, ma anche della
      medesima moltitudine, dovrà ancora essere segnata da questi processi
      storici, direi profondi. L'opera, dal punto di vista delle definizioni
      storiografiche, potrebbe essere detta 'giovanile', sulla giovinezza
        della moltitudine.
      In secondo luogo, nella moltitudine e nel suo concetto, non si è
      trasformato, in questi ultimi quindici anni, sensibilmente solo il modo di
      essere del proletariato ma anche del resto del 'corpo sociale', del 'ceto
      medio', che è costitutivamente e tradizionalmente il mondo improduttivo
      dentro le classi subalterne. Qui so di camminare su un terreno
      scivolosissimo, già l'utilizzo, che io stesso propongo, di 'ceto medio' o
      'classe media' è vago perché si maneggiano concetti non circoscritti, i
      risultati di una rappresentazione che la società offre di sé, della sua
      composizione, quindi di un'ideologia. 
      Epperò questa rappresentazione ha un peso fisico, sposta la
      concentrazione, seppur apparente, tra le classi ed è stata capace di
      suscitare un consenso di massa verso le politiche neo – liberiste. Da una
      parte il 'ceto medio' ha sposato la critica rivolta contro lo stato
      assistenzialista e pianificatore, che caldeggiava e prefigurava la sua
      dissoluzione, la fine della sua forma nazionale a favore di una
      istituzionalità costruita per aree omogenee economicamente, socialmente ed
      etnicamente e a favore di una riscrittura, in funzione di questa
      costruzione, delle omogeneità culturali e qualche volte linguistiche
      (producendo anche una sorta di 'anarchismo di destra' del quale la Lega
      Nord in Italia, almeno quella dei primi passi, fino a Tangentopoli, è
      stata corifea). Dall'altra parte, quasi nel suo contrario, il 'ceto medio'
      ha, invece, appoggiato la critica rivolta contro l'Impero e la riscoperta
      delle potenzialità delle nazioni in un quadro di economie localmente
      assistite ma liberate dallo sperpero derivato da solidarismi verso
      soggetti estranei alle comunità nazionali e da vincoli
      internazionali  e umanitari. Questa è stata, ed è ancora, la 'nuova
      destra' che si è radicata soprattutto duranti gli anni della crisi del
      2008, ma che già negli ultimi due decenni del secolo scorso ha dimostrato
      capacità di presa e inventiva intellettuale. In verità esistono moltissimi
      elementi di allineamento tra queste due tendenze contrapposte: in generale
      domina la tendenza a riscrivere e rivedere cultura e appartenenza per
      rispondere alla destrutturazione delle culture nazionali così come erano
      state ereditate dal primo novecento. La regione o la 'macroarea' della
      Lega Nord hanno la medesima natura della nazione riscoperta dalla destra
      'tradizionale' (Forza Nuova, Fratelli d'Italia): non nutrono relazioni, se
      non apparenti e ideologicamente predisposte, con i concetti primigeni
      delle idee nazionali (nel caso italiano entrambi i fronti ignorano il
      risorgimento e i riferimenti a esso) ma sono  prodotti nuovi,
      contemporanei, e sottintendono una nuova idea di appartenenza. È talmente
      forte e naturale questa contaminazione tra le due destre nella
      ricostruzione del concetto di nazione e di etnicità, al riparo (apparente
      e recitato) della 'globalizzazione', che la Lega Nord stessa, oltre che
      accettare nei suoi cortei spezzoni del nazismo nostrano di Casa Pound, pur
      con le genetiche cautele, da qualche anno ha principiato ad adoperare una
      retorica spiccatamente nazionalista, soprattutto quando si tratta di
      denunciare l'immigrazione clandestina e gli sbarchi dei migranti. 
      La 'classe media', il 'ceto medio', ha, quindi, avuto una sua
      rappresentazione politica secondo inclinazioni diverse e contraddittorie.
      Se esiste nella rappresentazione ideologica, la classe media esiste nella
      realtà?
      Il terreno di questa analisi è mobilissimo: non è affatto un mistero che
      buona parte dell'elettorato del Partito Comunista Francese, avviato dagli
      anni settanta a un lento declino elettorale e di consenso sociale, sia
      passato al Front National, oppure che molti elettori comunisti italiani
      siano passati alla Lega Nord, soprattutto dopo lo strappo di Ochetto dalla
      simbologia 'comunista' del partito.
      Alla base di entrambi i fenomeni è stato il fatto che l'allontanamento
      definitivo da ogni 'facciata comunista' e 'rivoluzionaria' dei due partiti
      comunisti ha fornito l'occasione a segmenti elettorali di quelli di
      giustificare, in perfetta buona coscienza e quasi in una specie di
      coerenza etica, l'adesione a una più decisa difesa dei diritti del posto
      fisso 'nazionale', dell'assistenza sociale rivolta esclusivamente ai
      cittadini e a una lotta contro i costi della politica e dello stato (la
      polemica contro la 'casta') che i discorsi di Le Pen e Bossi
      rappresentavano meglio della 'rinnovata' sinistra comunista o ex
      comunista, prigioniera di tatticismi dubitosi e soprattutto poco disposta
      a lasciarsi andare a retoriche  in materia.
      La critica alla tradizionale ideologia operaia e impiegatizia della
      certezza del reddito da lavoro salariato, ideologia legatissima alla
      storia dei partiti comunisti, socialisti e laburisti, che veniva messa in
      atto, anche se in maniera leggera e non frontale, dalla 'nuova sinistra
      riformista' (DS e poi PD in Italia), ha portato non pochi, grazie alla
      contemporanea crisi della residua e putrefatta identità comunista, verso
      non soltanto il voto ma anche una 'simpatia', quasi pre – politica, nei
      confronti della nuova destra, nazionalista e non. Il timore, che i nuovi e
      oggettivi caratteri del mercato del lavoro hanno suscitato, ha condotto
      buona parte della classe operaia di fabbrica a rifiutare questa
      predestinazione imposta dal potere mondiale. Questo timore ha favorito
      negli operai residui, ricattati continuamente e per decenni (almeno dalla
      seconda metà degli anni '80 per quanto riguarda l'Italia) dalla
      dismissione degli stabilimenti e dalla delocalizzazione produttiva, un
      riconoscimento della positività dei valori del 'ceto medio'; il timore non
      ha provocato solo questo:  la classe operaia ha iniziato a vivere sé
      medesima come un pezzo del 'ceto medio', ad assorbire valori per essa fino
      a quel momento secondari (ma comunque già presenti in quella) del
      localismo, della comunità rinnovata localmente, della gente simile e
      affine per storia cultura e lavoro: al posto del capitalismo, tradizionale
      e ormai simbolico avversario, è divenuto antagonista lo statalismo
      corrotto, al posto del popolo si è collocata la gente dell'area e della
      regione, al posto dell'irraggiungibile socialismo il nuovo fine di una
      democrazia di base strutturata localmente. Buona parte della residuale
      classe operaia ha aderito alla concentrazione fisica del 'ceto medio'. Il
      ceto medio negli anni ottanta e novanta si è allargato.
      Ancora di più il 'ceto medio' si è allargato attraverso il grande
      movimento di autoimprenditorialità che ha recuperato mansioni
      tradizionalmente operaie e impiegatizie alla libera impresa, dove la
      proprietà dei mezzi di produzione non è decisiva per stabilire il comando
      sull'impresa che invece si esprime attraverso nicchie controllate del
        mercato, capaci di mobilitare, in forma indiretta, rilevanti
      quantità di manodopera. Questi nuovi soggetti formano, soggettivamente, un
      ulteriore settore di 'classe media' / 'ceto medio'.
      Si è scritto spesso che il 'ceto medio' si è proletarizzato: non è del
      tutto vero. Credo, al contrario, che si sia costituita una nuova
        morfologia di ceto medio, che di 'medio' ha ben poco, perché porta
      con sé una capacità di reddito tipicamente proletaria, mentre, però, non
      ha una relazione proletaria con il mercato del lavoro, non subisce un
      comando direttamente esercitato sul suo lavoro (per virtù e coerenza
      contrattuale), anche se produce per altri, vive di quello che produce e
      quello che produce gli appartiene ma solo virtualmente e solo fino a
      quando non è prodotto.
      Il ceto medio nella moltitudine è molto diverso da quello del vecchio
      paradigma della classe media: non ne ha l'agiatezza e la spensieratezza
      relativa ed è un ceto proletario senza subire una relazione di comando
      diretto sul proprio lavoro. Ma soprattutto il ceto medio manifesta un
      nuovo carattere della società: la fine della relazione di lavoro
        salariato come forma egemone nelle relazioni tra capitale e forza lavoro.
      Questa tendenza a destrutturare la tradizionale concentrazione sociale si
      è, per quel poco che ho seguito delle vicende di questi ultimi tempi,
      accelerata enormemente negli ultimi sei – sette anni e cioè dalla
      depressione del 2008. Sempre più il concetto di ceto medio è passato in
      secondo piano persino nelle analisi sociologiche o nelle calibrature dei
      sondaggi statistici, sostituito spessissimo da altre categorie, generiche
      allo stesso modo che non possiedono nessun riferimento a una posizione e
      condizione sociale (colletti bianchi, colletti blu, tute blu).
      Il ceto medio è scomparso sostituito da categorie di appartenenza
      geografica, culturale o specialistica (gli imprenditori, le partite IVA,
      le piccole imprese, i lavoratori dipendenti etc. etc., spesso associate
      tra loro).  Nello stesso tempo la sinistra, anzi proprio la sinistra,
      intesa come l'erede dei vecchi apparati storici del riformismo operaio, si
      è collocata, abbandonando timidezze e tatticismi, all'avanguardia di
      un'idea del mercato del lavoro nella quale la sicurezza del reddito
      vincolata alla stabilità della relazione di lavoro è diventata inadeguata
      a seguire e favorire lo sviluppo sociale ed economico. E dal momento che
      nulla ha sostituito il concetto e l'immaginario relativo al 'ceto medio',
      così come nulla ha sostituito il concetto di lavoratori o classe operaia,
      è oggi la destra, alla ricerca di strutture immaginarie semplici, a
      recuperare questi concetti, queste immagini sociali, in un curioso
      ribaltamento.
      Un elemento di continuità rispetto alle vecchie terminologie / categorie
      rimane, comunque: la società viene rappresentata e, sotto un certo punto
      di vista, è sul serio un amalgama indifferenziato di soggetti
      profondamente diversi tra loro, privi di una relazione cardinale con il
      mercato del lavoro e con il lavoro, esclusi l'uno dall'altro da un
      orizzonte univoco; quindi la concentrazione sociale generale ha
        assunto i caratteri tipici di una NON – concentrazione, di un gruppo
        coeso solo in base ad alcuni elementi della sua soggettività, che un
        tempo era il tratto saliente, il segno di riconoscimento, del 'ceto
        medio'. Viene quasi voglia di scrivere che, in maniera
      diametralmente opposta rispetto a quanto sostenuto da Marcuse quasi un
      secolo fa, oggi il proletariato non esiste più perché è ceto medio
      allargato, disteso su tutto il mercato del lavoro, e il ceto medio è una
      nuova forma di proletariato che nulla ha a che fare con il proletariato
      tradizionale e nulla con la 'classe media' del passato.
      Rimane aperto il problema se il lavoro esista oggi e sia riassumibile
      nella categoria del plusvalore e pluslavoro, ovvero se sia possibile
      individuare uno o più soggetti produttivi trainanti, capaci di costituirsi
      come lavoro davanti al capitale. Non sono un economista e non
      posso affrontare il problema da economista, ma ho un presentimento: la
        ricerca del soggetto del plusvalore è una falsa ricerca; Negri
      stesso, nel suo paragrafo di Impero intitolato posse, profila il
      problema anche se sembra schivarlo; per Impero il soggetto produttivo
      trainante è quello che disegna la trama dell'organizzazione produttiva nel
      suo lavoro, con il suo lavoro e partecipando a quella, è un soggetto che,
      sincronicamente, crea, disegna, collabora e organizza. 
      Questo nuovo soggetto ha, però, caratteristiche che Negri e Hardt non gli
      riconoscono: non è affatto libero ed è del tutto lontano da presentire la
      sua libertà (come a tratti invece gli autori paiono credere) e non è solo
      un produttore immateriale. In terzo luogo è un soggetto esponenzialmente
      scisso e frantumato, fino al punto di non essere riconosciuto come tale e,
      forse, non deve affatto essere riconosciuto come tale. Spesso, inoltre, è
      un soggetto squisitamente improduttivo, e non produce sicuramente
      plusvalore in modo diretto e in maniera distinta e misurabile. Nel trionfo
      del profitto, il profitto non è più di moda. 
      Infine questo 'soggetto', che eredita in parte le caratteristiche sociali
      delle società classiste precedenti (mi pare Francesco Berardi abbia
      argomentato questo nel suo Exit), continua a vivere in una miriade di
      forme la relazione dialettica con il capitale, mentre la forma della
        separazione antagonistica non gli è naturale, anche se, certamente,
      per alcuni episodi e qualche segmento questa si è data e si dà. Mi viene
      in mente il Chiapas o il Curdistan o alcune opere collettive in telematica
      per esemplificare questa separazione, che è attiva e produttiva in sé, la
      logica stessa della produzione la comporta (e in questo hanno ragione
      Negri e il coautore di Impero), ma non è naturale, decisiva e implicita.
      La dialettica generalizzata isola queste esperienze e spesso le erode,
      includendone frazioni e segmenti in sé; la tendenza alla separazione è più
      forte, slegata dalla 'rivendicazione' e dalla dialettica rivoluzionaria
      della classe operaia di fabbrica e dei proletari di quartiere dell'epoca
      appena passata o delle tradizionali guerre di popolo. La separazione,
      però, anche se tende a compiersi sul terreno della produzione (in
      telematica soprattutto), ha necessariamente bisogno di ragionare sulla
      produzione e quindi di assumere tratti anti – produttivi, esterni al
      processo, tratti etici. Che quest'etica sia materialisticamente fondata,
      che sia un'etica della produzione (non del lavoro, ma del processo
      produttivo ovviamente) è una questione che riguarda il pensiero sulla
      produzione mentre produce e dunque un atto libero dentro un flusso
      determinato che non esce da quel flusso ma cambia il flusso (e questa è
      oggettivamente una nuova potenzialità di questa epoca inimmaginabile
      prima, che discende dai settori creativi strategici e può investire anche
      quelli più periferici e tradizionali). Quindi nel trionfo della
        produzione il momento produttivo non è più di moda ma è il momento
        riproduttivo a diventare il cuore della produzione e l'appello alla
        pulsione verso una nuova moda.
      
      Giovedì, 19 febbraio
      
      Annotazione. Per riallacciarmi a quanto scritto ieri sera tardi, la
      matrice sociologica (come uso malvolentieri questo aggettivo) del nuovo
      soggetto proletario è la classe media mentre alcuni elementi della
      tradizione operaia sono penetrati nella soggettività della 'classe media'
      attuale. Dell'operaismo della classe media e della declinazione
      essenzialmente soggettiva di questo concetto sarebbe meglio precisare; ci
      proverò.
      La classe media, forse, non è mai concretamente esistita, il termine non
      corrisponde a un modo di essere ma a un insieme disparato di modi di
      essere che in sociologia sono stati riassunti nel termine; epperò ha avuto
      una certa concretezza, un insieme di soggettività storiche e pesanti
      storicamente. A partire dagli anni '70 l'area sociologica della classe
      media si è gradatamente avvicinata alla sua essenza, si è, per usare un
      termine informatico, virtualizzata e ha perduto le relazioni con la sua
      origine, che era quella di essere una classe di mezzo sotto il profilo del
      reddito e di non essere legata direttamente al lavoro produttivo, per
      mantenere solo l'aspetto apparentemente improduttivo. Negli anni ottanta e
      novanta ha inaugurato un processo di 'proletarizzazione' sotto il profilo
      del reddito che si è confermato dopo la crisi del 2008: gli standard
      retributivi del lavoro impiegatizio, i ricavi dal lavoro autonomo nel
      commercio e nell'artigianato e anche nella produzione immateriale si sono
      drasticamente abbassati e all'interno di essa si sono verificate delle
      divaricazioni non risanabili, anche perché insistevano su diversità di
      partenza, strutturali.
      Dopo il duemila, inoltre, è accaduto qualcosa di nuova ma non inatteso: la
      progressiva gravitazione e integrazione del lavoro intellettuale intorno
      al lavoro produttivo. Le specificità dell'organizzazione del lavoro
      industriale sono state esportate nella logistica e nei servizi, venendo a
      delineare una specie di taylorismo nei servizi, nella logistica, nel
      magazzino e nella distribuzione commerciale e questa 'esportazione' si è
      rapidamente accompagnata al lavoro per obiettivi e progetti, al contrario
      apparente dell'organizzazione taylorista. Anche il negoziante al minuto
      (vale a dire il relitto testimoniale della libera iniziativa e del libero
      mercato, della libertà dell'imprenditore nel definire il suo lavoro) è
      stato costretto, dove resiste e resisteva, ad adeguarsi a questo nuovo
      modo di organizzare il lavoro: cambiare scenario, scegliere una
      specializzazione merceologica, votarsi a quella, seguirla per poi,
      rapidamente, seguirne un'altra.
      
      Domenica, 22 febbraio
      
      Annotazione. [L'impero e la malavita organizzata] È da molto tempo che
      considero la lotta contro la malavita organizzata come una finzione
      retorica, inconcludente sotto l'aspetto dei risultati concreti tolti
      alcuni successi che non influiscono sulla struttura organizzativa che ha
      assunto la malavita. Si tratta, per questi ultimi risultati, di
      carcerazioni, di condanne sempre limitate alla bassa, media e alta
      manovalanza; l'alta manovalanza è, secondo la mia analisi, scambiata con
      la vera amministrazione di questa organizzazione commerciale e produttiva.
      Qui la rappresentazione mediatica è decisiva per nascondere la verità
      delle cose ma, paradossalmente, sgombrato il campo dalla sua retorica,
      proprio questo occultamento rivela la verità, rivela la nudità del re.
      L'occultamento mediatico applica la usuale legge secondo la quale il
      culmine dell'impresa malavitosa, quello che non subisce i rigori della
      legge, è perfettamente legale e registra una realtà in base alla quale la
      malavita organizzata è parte integrante del mondo politico e finanziario
      del capitalismo mondializzato ed entra a far parte dell'autentica
      struttura del comando economico – finanziario.
      Indicherò schematicamente gli elementi nuovi della malavita organizzata
      che un tempo era corretto nominare mafia e camorra; oggi, dal punto di
      vista dell'analisi storica,  (e non della storia delle culture e
      delle tradizioni) non è molto significativo scrivere di mafia e camorra,
      anzi, per certi versi,  è fuorviante. Come nei titoli di coda delle
      opere televisive e cinematografiche elencherò questi elementi nuovi, in
      ordine di apparizione.
      1 - La scoperta del mercato clandestino degli stupefacenti (anni '30 del
      novecento). 2 - La conseguente internazionalizzazione di mafia e camorra
      (anni '50). 3 - Assunzione dell'assoluto monopolio e controllo, diretto e
      indiretto, sulle attività illegali e conseguente scomparsa della malavita
      tradizionale e 'indipendente'. 4 - L'approccio a nuovi bersagli di mercato
      (mondo bancario, istituzioni pubbliche e mondo della finanza). 5
      -Integrazione con il sistema economico mondiale e formazione di un grande
      'sindacato' malavitoso negli apparati dei singoli stati nazionali. 6 –
      Formazione di una 'borsa internazionale' della malavita. Alla fine di
      questo processo, mafia, camorra e ndrangheta sono diventate imprese tra le
      altre: fatturato, manodopera, distribuzione del reddito, formazione delle
      professionalità e costituzione di una struttura organizzativa che va dai
      servizi all'impresa alla produzione di impresa. Il modello è quello del
      coordinamento finanziario di tipo monopolistico con una ricaduta su molte
      piccole e medie imprese (le famiglie e le gang); il modello è quello di un
      comando finanziario sulle imprese che compongono il monopolio e di una
      ricostituzione di questo comando finanziario attraverso l'attività delle
      singole imprese.
      
      Annotazione. A chi mai capiterà di leggere questo diario in movimento,
      scritto ai margini dei libri, in velocità e nei ritagli di tempo e di
      spazio giungerà a una definita conclusione: “non si leggono così i libri
      né tanto meno si commentano”. Non potrei dargli torto: ho troppo rispetto
      e al contempo poco rispetto di quello che leggo, ho premura poi calma fino
      al punto di abbandonare lettura e commento, sono fedele alle parole e poi
      terribilmente infedele, le rimescolo rendendole altre e facendone un'altra
      cosa. Ma ancora di più temo i testi che maneggio, come se la copertina
      prendesse fuoco e poi mi infondono coraggio come se li avessi scritti io.
      Ritengo che la mia relazione, che dura da quasi una vita, con il pensiero
      di Antonio Negri sia esemplificativa di questa passione e immediata
      ritrazione, amore spassionato e subito dopo disprezzo dell'amante deluso.
      Qui sono brani, pezzi di vita intellettuale, una vita qualsiasi, comune,
      superficiale e profonda come sono le esistenze spese nell'assoluta
      normalità, in un lavoro, una famiglia, i problemi più o meno grandi e i
      bilanci più o meno ricchi. Qui è una geografia di aree, territori
      costituiti da stati d'animo, passioni, percezioni, sensazioni,
      considerazioni e, alla fine, quando vengono, comprensioni (quelle che dico
      tali; conquiste intellettuali, punti fermi che si muovono in modo
      proporzionale ed equilibrato tra loro in una geografia in continuo
      movimento). Le 'comprensioni', che nulla hanno a che vedere con il
      sentimento imparentato con tolleranza, sopportazione e immedesimazione e
      con l'uso comune del verbo 'comprendere', ma sono invece imparentate con
      il verbo 'aver trovato', sono scoperte dell'io dentro il non – io, il
      momento NON di congiunzione ma di comprensione, di reciproca cattura, il
      momento in cui quello che è fuori di te entra in te e quello che era
      dentro di te esce da te e va a sedersi fuori.
      
      Martedì, 24 febbraio
      
      Letture. Grammatica della moltitudine. Ho ripreso la lettura, seconda e
      terza giornata del seminario, ed è quindi troppo presto per avanzare
      giudizi definitivi. Virno ha una grande capacità di mettere in produzione
      discipline diversissime (psicologia, antropologia, sociologia, filosofia e
      musicologia) per focalizzare e polarizzare la categoria della moltitudine
      e una chiarezza espositiva grazie alla quale è abbastanza naturale
      coglierne il concetto, soprattutto in relazione a quello di popolo; mi
      rimane, però, un dubbio del quale, quasi sicuramente, l'autore
      inorridirebbe. Virno adopera moltissimi processi culturali, innegabili e
      chiari, per conformare, pezzo dopo pezzo, i caratteri della moltitudine e
      del post – fordismo, ma la sua fondazione è egemonizzata dagli elementi
      che un tempo si sarebbero detti sovrastrutturali. Anche se è vero che oggi
      la struttura e la sovrastruttura si identificano, lo scrive Negri in
      Impero e lo conferma Virno e questo, insomma, è un comune modo di sentire,
      non riesco a trovare proprio la parte destinata al concetto residuale di
      struttura: i rapporti e i modi di produzione. Questo non per ridonare a
      quelli una centralità analitica ma per spiegare il successo storico del
      post – fordismo. Per fare un esempio la diffusione di servilismo,
      opportunismo e cinismo sono interpretati con il dominio del general
        intellect, l'intelletto astratto ma reale; l'egemonia del general
        intellect, però, da dove origina? È davvero solo il prodotto delle
      relazioni generali che pervadono e strutturano il sociale, dell'impatto
      che subiscono gli individui nei confronti di un'astrazione totalizzante
      che viene fuori non tanto nel modo di produrre quanto invece nelle culture
      che lo circondano? Anche se potrebbe essere vero che la produzione
      immateriale è oggi egemone e che dunque naturalmente il general
        intellect si allinea a quella, la relazione si fa stretta e
      immediata, mi pare, però, che manchi un passaggio, manchi un ingranaggio,
      un collegamento decisivo dopo il quale cinismo, opportunismo, paura,
      angoscia e servilismo sarebbero ulteriormente rischiarati. Non si tratta
      di ridefinire una struttura, ma di trovare un nuovo accento in un
      complesso di relazioni che deve rimanere orizzontale e non gerarchizzato
      tra elementi decisivi e non decisivi; non patisco l'assenza di una
      gerarchia analitica, anzi la condivido, ma di una visione integrata tra i
      diversi aspetti che tanto Virno quanto Negri enucleano.
      Sono consapevole del rischio: una visione 'integrata' è di per sé chiusa,
      completa, una veduta che ha definito i suoi orizzonti, ma il rischio deve
      essere cinicamente calcolato, senza di quello si corre verso una fedele
      descrizione della realtà, che è inutile ed è un'illusione. La sensazione
      che ho derivato tanto dalla lettura di Grammatica della moltitudine che di
      Impero è stata quella di un generale desiderio di non assumersi rischi, di
      non affermare cose che poi non potessero essere rimisurate e riviste,
      concetti irrevocabili; questo è un pregio, perché descrive in maniera
      perfetta il modo di produrre sapere nel post – fordismo (e non si scambi
      questo con una facile ironia) e quindi descrive il post – fordismo, è lui
      implicito, è il punto di vista di una singolarità compresa nella
      moltitudine, quindi un punto di vista orizzontale, aperto, privo di
      confini e con orizzonti mutevoli. Questo, però, è anche un limite
      implicito, poiché nello stesso tempo in cui descrive e pretende di
      descrivere si concede all'illusione della verità, di una verità che, però,
      non può costituirsi ma è soprattutto un limite esplicito, posto al di
      fuori dell'analisi, che ha conseguenze esterne, 'etiche': non generando un
      prodotto integrato, quindi una verità che palesemente si dichiara
      incompleta e bugiarda, si finisce, paradossalmente, per perdere di vista
      l'ottica della moltitudine e quindi le dinamiche della produzione spese
      sul terreno della liberazione. Questo manca.
      Non è il caso certo di riscrivere oggi il Manifesto del partito comunista,
      sarebbe più appropriato scrivere il poema del comunismo, un'opera
      collettiva che deve trovare la sua metrica, quindi una res gesta
      (come da Negri sugli intellettuali in Autonomi) più che una res vista.
      
      Mercoledì, 25 febbraio
      
      Annotazione. Ai margini. Impero e Grammatica della moltitudine. Per essere
      sintetici ho trovato molta onestà intellettuale ma poco coraggio
      intellettuale. Soprattutto Virno offre una ricchezza analitica
      indimenticabile e non si può prescindere dal suo testo se si desidera
      ragionare di post – modernità da un punto di vista di classe.
      Per Negri urge la lettura di Moltitudine, d'altronde questo diario è un
      attrezzo orientato dalla lettura, senza quella non sarebbe.
      
      Giovedì, 26 febbraio
      
      Ai margini. Grammatica della Moltitudine. Nonostante le critiche, e
      certamente non per perdonarmele, l'opera di Virno, questo seminario un po'
      scoordinato, è bellissima, evocativa e quasi toccante. Molto più che
      Impero di Negri e Hardt mi ha chiarito il concetto, che è poi una vera
      categoria, di moltitudine. Mi ripropongo di renderle questo onore con una
      serie di citazioni che meritano di essere estrapolate e brevemente
      commentate, anche se sto rileggendo il testo (come al solito tra treno e
      metrò) per coglierne nuovi fascini, altri angoli e altre visuali che
      conserverò per me, memorizzerò, sposterò, costruirò e distruggerò per
      ricomporle, secondo un processo metabolico che, se descritto, mi
      costringerebbe a scrivere un'intera agenda e che, invece, preferisco
      'liberare dall'autore' e mettere al servizio di altri orientamenti e di
      altri autori.
      Le dieci tesi sulla moltitudine, la quarta giornata, sono un decalogo a
      tratti scontato, certamente datato, ma davvero quello coraggioso e spero
      di trovare le righe giuste per scriverne. Non stasera, però, che è troppo
      tardi.
      
      Annotazione. Lasciando da parte la sera e il troppo tardi, ho notato
      quanta confusione l'affermazione del fondamentalismo islamico ha
      determinato nel pensiero 'laico'. Qualcuno si fa vanto di professare
      l'ateismo, addirittura; qualche d'un altro in America ha tradotto in
      atteggiamento combattente questa professione.
      L'ateismo non può essere una posizione, una presa di posizione e una
      convinzione, ma un atteggiamento filosofico e una sensibilità. 
      Negare l'esistenza di Dio è come professarne l'esistenza, confrontarsi con
      l'indimostrabile: seguendo la scolastica, Dio non è dimostrabile,
      analogamente, non è dimostrabile la sua non esistenza. Entrambi i
      ragionamenti si collocano nell'incondizionato kantiano e Kant aveva
      semplicemente ragione in proposito: la conoscenza certa dell'esistenza o
      della non – esistenza di Dio è impossibile, non esistono le condizioni
      intellettuali per eseguire questa attività. Si può certamente giungere a
      conclusioni sicure sulla natura dell'universo, se esso sia eterno e
      infinito o finito e provvisorio; si può giungere a descrivere l'idea di
      Dio, a immaginare Dio, come, ad esempio, l'infinità ed eternità che sta al
      di fuori della eventuale finitezza della materia e dell'energia (se si
      segue la relatività di Einstein); l'esistenza di Dio non è
      incommensurabile, non è al di fuori della nostra misura, anzi questa idea
      appartiene alla nostra migliore misura che, se applicata coerentemente,
      può venire traslata sull'immanenza e aiutarci a concepirla come sostanza
      sensata in sé (qui alcune belle letture di Dio in Spinoza sono da
      seguire). Ma se l'esistenza di Dio o la sua non – esistenza sono nella
      nostra misura, non sono nelle nostre condizioni, sono al di fuori di
      quelle (esattamente come l'eventuale eternità e illimitatezza posta al di
      fuori delle condizioni dell'universo relativistico); le condizioni che
      regolano l'eventuale trascendenza non sono raggiungibili e sono influenti
      solo nella misura in cui formano un paradigma, una matrice valida per
      definire il condizionato. Mi spiego meglio. Non è detto che
      l'incondizionato esista o non esista, l'esistenza o non – esistenza
      dell'incondizionato in quanto tale e per sé stessa ci è assolutamente
      indifferente, non è detta e non è affermabile; l'idea, invece, di
      incondizionato è interessante e funzionante per definire la complessità e
      totalità del condizionato, non solo per dare a esso forma ma per disporci
      in un atteggiamento analitico verso di quello, che, altrimenti, sarebbe
      impossibile. Per essere uomo, autentica conoscenza, l'uomo deve
      immaginarsi più grande di sé stesso e vivere al di fuori della sua misura
      proprio per rimanere fedele alle condizioni sue proprie; d'altronde non si
      diceva un tempo che l'uomo è un Dio all'uomo?
      
      Venerdì, 27 febbraio
      
      Annotazione. [Le statue di Mosul e Renzi] Militanti dell'ISIS abbattono le
      divinità assire nel loro museo. Lo scandalo è notevole e giustificato,
      anch'io in un primo momento, emotivo, ho rabbrividito. I giacobini, però,
      la nostra storia, non hanno riservato lo stesso trattamento ai portali
      splendidi delle chiese gotiche francesi? Al di là delle sventure che le
      maledizioni degli Assiri porteranno al califfato, cioè a dire una doppia
      razione di bombardamenti, e lasciando da parte il crimine contro il
      patrimonio dell'umanità, (ma allora i bombardamenti di Ninive nella
      seconda guerra del golfo?) direi che l'ISIS ha realizzato una messa in
      scena ideologica perfetta: ostilità verso un passato pagano che è anche il
      presente (la cosmopolita museificazione della storia, il conseguente
      flusso turistico protetto dall'odiato diritto internazionale), ostilità
      verso l'occidente e propaganda a favore dell'edificazione di un nuovo
      cosmopolitismo, costituto dal mondo 'popolare' mussulmano che più volte ha
      dimostrato (Il Cairo e Bagdad) una forte estraneità all'idolatrato passato
      pagano e soprattutto alla sua rappresentazione museale.
      D'altronde che valore può avere in mezzo a gente che vive spesso senza
      acqua corrente ma  di molti espedienti una così alta rappresentazione
      del suo passato che, tra le altre cose, non le appartiene, della quale non
      è protagonista? Il museo si riduce a essere un'attrazione per stranieri o
      per turisti e possiede una natura che anche in occidente si manifesta. Il
      museo istituisce una separazione tra quello che contiene e le possibili
      relazioni esterne del suo contenuto. I muri, le brochure, il taglio delle
      mostre rendono i musei una edificazione ideologica; insomma non mi
      stupisco troppo della loro devastazione, anche se comprenderei
      maggiormente il loro saccheggio, vale a dire la trasformazione delle
      vestigia del passato in transitoria fonte di reddito; certamente non
      ordinerei mai di sparare su degli esseri umani, impazziti quanto si vuole,
      per difendere alcune pietre egregiamente lavorate, a meno che quelle
      pietre non siano qualcosa di più di semplici pietre egregiamente lavorate.
      
      Annotazione. Tutto posso dire di Renzi tranne che mi sia antipatico. Renzi
      è certamente bugiardo, truffatore e astuto come l'altro figurante al posto
      del quale è riuscito a farsi assumere, ma solo come controfigura, il
      signor Silvio Berlusconi, ma non è ipocrita. Renzi se la ride della
      democrazia rappresentativa e non recita rituali piagnistei sul suo
      declino, in verità denuncia apertamente la fine di un mondo politico e
      costituzionale e ammette il suo cinismo: non vede alternative a quello.
      Nessuno se ne è accorto ma Renzi è un punk senza cresta, senza
      disperazione e senza nostalgia per il cadavere del futuro. Oggettivamente
      il vero cadavere maleodorante, che sa proprio di morte, oggi è il futuro e
      insieme con quello tutti gli stati d'animo, i progetti e le idee che si
      connettono e costituiscono sul futuro.
      
      Letture. Grammatiche della moltitudine. Veniamo a questa rilettura citata
      di un'opera che mi prepara a prendere in mano Moltitudine di Negri e
      Hardt. È singolare, ma questa è una curiosità, che Virno nella
      bibliografia pubblicata in calce al suo seminario non faccia riferimento a
      Negri, senza contare che non ho trovato letture di Berardi, di Bologna e
      addirittura alcune opere di Virno stesso che, se fossi stato l'autore,
      avrei citato.
      “Il general intellect o intelletto pubblico, se non diventa repubblica,
      sfera pubblica, comunità politica, moltiplica all'impazzata le forme di
      sottomissione” (p. 29) e poco oltre “ … la segmentazione delle mansioni
      non risponde più a criteri oggettivi, 'tecnici', ma è esplicitamente
      arbitraria, reversibile, cangiante” (p. 30). Da una parte, dunque, la
      possibilità nell'epoca dell'astrazione dell'intelletto da contenuti
      particolari, tipica del post – fordismo (il general intellect
      recuperato da Marx dei Grundisse), di generare un percorso di liberazione
      (la repubblica da contrapporsi all'Impero, anche se Virno non usa
      quest'ultimo termine), dall'altra parte il venir meno di una forma di
      sfruttamento (sottomissione) egemone, mancanza che innalza numerosi
      ostacoli a questo percorso, soprattutto, aggiungo io, se inteso in maniera
      classica (ma credo che Virno concorderebbe). In ogni caso (p. 32)
      “L'intelletto pubblico … può costituire un diverso 'principio
      costituzionale', può adombrare una sfera pubblica non statale”. Oserei
      poco da aggiungere.
      Senza entrare nel merito dell'interpretazione critica che Virno offre di
      un'opera di Hanna Harendt (La condizione umana, del 1958) dove si denuncia
      lo schiacciamento dell'attività politica sul lavoro e che Virno ribalta
      specularmente, per cui è l'arte della politica, il virtuosismo della
      parola, la comunicazione in quanto tale a determinare la nuova forma delle
      relazioni di lavoro, si scrive questa verissima e modernissima
      constatazione: “Nessuno è così povero come colui che vede la propria
      relazione con la presenza altrui, ossia la propria facoltà comunicativa,
      il proprio linguaggio, ridotti a lavoro salariato” (p. 55). Avrei esteso
      questa condizione a tutto il lavoro comandato oggi, ma ben poco da
      aggiungere anche qui. Magistrale e terribilmente vero è il momento in cui
      la relazione servile pervade la società e il lavoro salariato, come nuova
      condizione introdotta dalla post – modernità: “Poiché lo 'spazio a
      struttura pubblica' aperto dall'intelletto è ridotto ogni volta da capo a
      cooperazione lavorativa, cioè a una fitta rete di relazioni gerarchiche,
      la funzione dirimente che ha la 'presenza altrui' in tutte le concrete
      operazioni produttive prende la forma della dipendenza personale. Detto
      altrimenti, l'attività virtuosistica [l'arte politica e il lavoro privo di
      prodotto sussunto o cooptato dentro il lavoro produttivo, Nota mia] si dà
      a vedere come universale lavoro servile. L'affinità tra il pianista e il
      cameriere … trova una inopinata conferma nell'epoca in cui tutto il lavoro
      salariato ha qualcosa dell'artista esecutore. Solo che a prendere le
      sembianze del lavoro servile è lo stesso lavoro produttivo di plusvalore”
      (p. 61).
      Molto interessante la quarta giornata del seminario dedicata alle tesi che
      davvero invito a leggere integralmente, qui solo scampoli.
      Nella tesi 2 [Il post – fordismo è la realizzazione empirica del
      'Frammento sulle macchine' di Marx] “ … Marx sostiene una tesi ben poco
      marxista: il sapere astratto … si avvia a essere … la principale forza
      produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una
      posizione residuale” (p. 97) e tutto questo conduce e realizza nel post –
      fordismo il paradosso filosofico del marxismo: “Anziché focolaio di crisi,
      la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente
      importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di
      dominio [la riproposizione del lavoro servile. Nota mia]. La radicale
      metamorfosi dello stesso concetto di produzione si è iscritta pur sempre
      nell'ambito del lavoro sotto padrone” (p. 98). Questo concetto era già in
      Negri di Marx oltre Marx (primi anni ottanta, circa) ma qui è chiarito
      magistralmente e con una bella audacia espositiva.
      Nella tesi 3 [La moltitudine riflette in sé la crisi della società del
      lavoro] basti questa lapide: “il tempo di lavoro è l'unità di misura
      vigente, ma non più vera” (p. 99).
      Nella tesi 5 [Nel post – fordismo sussiste uno scarto permanente tra
      'tempo di lavoro' e un più ampio 'tempo di produzione'] leggiamo: “Secondo
      Marx, il plusvalore scaturisce dal pluslavoro ossia dalla differenza tra
      lavoro necessario … e l'insieme della giornata lavorativa (…) In epoca
      post – fordista è determinato soprattutto dallo iato tra un tempo di
      produzione non computato come tempo di lavoro e tempo di lavoro
      propriamente detto” (p. 103).
      Nella tesi 10 basti solo il titolo: il post – fordismo è il 'comunismo del
      capitale'. Ancora annoto come compreso da Negri agli inizi degli anni '80.
      Direi che è il caso di dedicarsi a Moltitudine.
    
    rivedi febbraio
                      
        Inizio
                            anno 
              
              
            Domenica, 1 marzo
      
      Dopo tutto quello che ho scritto a febbraio credo che mi riposerò un po' a
      marzo. È comunque risultata interessante in questo periodo la lettura del
      Migliorini, che va avanti lentamente, la sera. Avrei una mezza idea di
      riprendere Spinoza nel 'Trattato teologico – politico' e anche il Trattato
      sui principi della conoscenza di Berkeley sul quale mi è caduto l'occhio e
      ho sfogliato. Ma mi attende Moltitudine e la mia 'tematica principale'.
      
      Letture. Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale /
      Michel Hardt, Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2004. - 1.ed. - (Collana
      storica Rizzoli). - Tit. orig.: Moltitude. - Trad. di Alessandro Pandolfi.
      All'epoca mi ero fermato alla prefazione, che ho ripreso oggi. Sono
      risalito anche alla data esatta di acquisto, il 2006, grazie a un ritaglio
      di giornale che avevo l'intenzione di usare come segnalibro; nel ritaglio
      una recensione sugli inediti di Foucault (raccolte di lezioni tenute tra
      il 1977 e il 1979) scritti insieme con la Storia della sessualità.
      La prefazione registra subito la necessità di storicizzare, con lo scopo
      di precisare meglio, e quindi gli autori presentano il libro come
      prosecuzione di Impero secondo un percorso che è diametralmente opposto a
      quello adottato da Hobbes, che prima scrisse il De Cive e poi il
      Leviatano (1642, 1651) e ancora di più si legge testualmente: “Questo
      libro è stato scritto, in gran parte, sotto le nubi della guerra: tra l'11
      settembre 2001 e il conflitto in Iraq del 2003”. Due forti parametri di
      storicità.
      Nella prefazione si anticipano due centralità dell'opera a seguire: il
      problema / necessità / possibilità della costituzione di una democrazia
      globale e il nuovo concetto di Moltitudine, rispetto ai quali, e terzo
      argomento, quello della guerra imperiale costante, è elemento di disturbo,
      vero ostacolo. La guerra impedisce alla Moltitudine di estrinsecarsi e
      alla democrazia globale di realizzarsi.
      Questo è, quindi, il trilogico piano dell'opera. Limitandomi a questa
      breve premessa noto che viene introdotta un'idea di Moltitudine diversa da
      quella di Virno (differenza presagita nella comparazione  tra
      Grammatica della Moltitudine e Impero); Moltitudine non è un paradigma ma
      è per certi versi un elemento sociologico; è la realizzazione, allargata e
      inclusiva, del concetto di classe operaia ben espressa in un brano: “A
      differenza della borghesia e di tutte le limitate ed esclusive formazioni
      di classe, la moltitudine è capace di formare autonomamente la società,
      come vedremo, questo è il punto centrale delle sue attitudini
      democratiche” (p. 16). Moltitudine è, alla fine, un soggetto politico e
      sociale.
      
      Lunedì, 2 marzo
      
      Letture. Storia della lingua italiana. L'anomalia italiana ama
      manifestarsi in tutte le epoche e nelle discipline più disparate; così
      Migliorini non poté evitare di notare che la letteratura in volgare si
      affermò con estremo ritardo in Italia, rispetto alla Provenza e alla
      Francia settentrionale e, inoltre, ancora di più la prosa faticò a essere
      riconosciuta come fatto linguistico indipendente dal latino, rimanendo
      spesso legata a variabili dialettali. Fu dunque la poesia a porsi
      all'avanguardia della letteratura in volgare, tra la Sicilia e la Toscana,
      assumendo un modello 'mediano', percorrendo una mediazione lessicale e
      morfologica tra le diverse ispirazioni / sostrati regionali. Dopo un forte
      ritardo si configurò, al contrario, un'operazione culturale
      raffinatissima, secondo la quale il mercato linguistico, il commercio
      delle parole, fu sottoposto a un comando selezionante: il 'dolce stil
      novo' riassunse questo processo.
      L'italiano nasce come lingua d'arte, segnatamente arte lirica, che ricerca
      un equivalente lessicale e morfologico, un elemento comune, tra le diverse
      tradizioni regionali; scrive in proposito l'autore: “Non si mira insomma a
      una lingua comune, si mira a una lingua bella e nobile, la quale eliminerà
      i particolarismi e sarà perciò anche comune”. 
      
      Mercoledì, 4 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Simplicissimus. Sulla guerra moderna, nel
      senso di nuova, precisando assai meglio quello che è stato scritto in
      Impero. 
      I concetti base sono: 
      1 – l'indeterminatezza della guerra: non ha riferimenti a precise
      situazioni geografiche e istituzioni politiche e non ha limiti temporali.
      
      2 – si presenta come operazione di polizia internazionale: fa riferimento
      al diritto internazionale della seconda metà del XX secolo, che ha bandito
      la guerra e l'uso della forza dentro e fuori gli stati – nazione e ha
      annullato la sovranità nazionale in materia. Questo precedente storico e
      ideologico ha una ricaduta concreta in ragione del fatto che, annullando
      la forza giuridica degli stati nazionali, lascia la possibilità di
        fare e nominare la guerra in un contesto squisitamente internazionale.
      3 – la giustificazione della guerra, la definizione di una guerra giusta,
      non è un a priori ma un a posteriori; vale a dire che la definizione viene
      validata dai suoi risultati.
      4 – anche se Negri non lo scrive, non è più il diritto internazionale ma
      una morale massmediatica (una morale di impatto massmediatico) a mettere
      in moto il meccanismo della creazione e nominazione dell'evento bellico.
      5 – si è passati dalla guerra di difesa alla guerra di sicurezza. Anche
      questa trasformazione si coniuga con il declino dello stato nazione in
      virtù del quale l'immagine del confine si restringe all'interno dello
      stato (pensiamo alle 'contaminazioni' etniche) o si estende all'esterno
      (pensiamo alla 'guerra preventiva' in Iraq). In quella particolarissima
      fase, però, fu uno stato – nazione (gli USA) a riassumere le esigenze
      internazionali, costituendo o un'anticipazione 'imperiale' o un relitto
      del vecchio imperialismo, forse entrambe le cose.
      I fondamenti strutturali del nuovo scenario bellico sono certamente da
      individuarsi nella crisi dello stato – nazione che è stata a sua volta
      determinata dalla definitiva internazionalizzazione dell'economia e del
      mercato per la quale i confini nazionali sono semplicemente un ostacolo
      allo sviluppo. Questo ha generato l'indeterminatezza dei conflitti e la
      loro transvalorizzazione da fatti eminentemente provocati da
      contraddizioni nazionali, da contrapposizioni tra entità ben definite
      istituzionalmente, a operazioni di ordine pubblico internazionale. Le
      fenomenologie ai punti 3, 4 e 5, al contrario, dipendono dal declino
      strutturale dello stato – nazione e si intersecano, collaborando, in
      maniera incessante tra loro. La potenza 'morale' della giustificazioni a
      posteriori dell'impresa bellica si può realizzare solo attraverso una
      proporzionalmente forte persuasione mediatica, come, al contempo,
      quest'ultima ha necessità di fatti e risultati concreti per istituire la
      sua teoria giustificatrice e 'nominare' la guerra. L'accantonamento
      dell'idea della guerra di difesa collabora con la morale della guerra come
      risultato, come evento che costituisce i valori morali e politici oltre
      che essere, ovviamente, prodotto dell'internazionalizzazione e del declino
      degli stati nazionali.
      Per la prima volta, dopo la lettura di questo concretissimo primo capitolo
      di Moltitudine, si è insinuato il dubbio dell'adeguatezza del termine
      'Impero', che almeno nelle forme belliche si dà nei modi di un cartello di
      stati ormai multinazionalizzati nelle intenzioni e a tratti subisco la
      tentazione di analizzare di conseguenza il 'mondo imperiale', come, cioè,
      un gruppo di stati nazionali che ha perso la sua connotazione originaria
      per multinazionalizzarsi: insomma l'impero potrebbe essere descritto
        coma una nuova forma degli stati nazionali.
      Lascio spazio alla trascrizione di alcune estrapolazioni dal testo che
      sottolineo come particolarmente interessanti.
      “Attualmente la guerra civile non si inserisce più all'interno di uno
      spazio nazionale, dato che quest'ultimo non costituisce più l'unità
      effettiva della sovranità, bensì in un ambito globale” (p .19).
      “La specificità del nostro tempo … è il passaggio della guerra da elemento
      terminale della catena del potere – la forza letale come ultima risorsa –
      a fattore primo e primario della politica stessa” (p. 39).
      È fondamentale quest'ultimo brano: “Nel momento in cui le funzioni
      fondamentali dello stato nazionale declinano insieme al monopolio della
      forza legittima, i conflitti iniziano ad aumentare sotto la copertura di
      un'infinità di simboli, ideologie, religioni, bisogni e identità. In tutti
      questi casi la violenza legittima, la criminalità e il terrorismo tendono
      a diventare indistinguibili …. Tutte le violenze tendono a sfumare nel
      grigio” (p. 51).
      
      Giovedì, 5 marzo
      
      Letture. Moltitudine. La guerra. Sarò sintetico: per quello fin qui letto
      il testo è bello e concreto, vivo e vivace. Proprio perché vivo è in parte
      datato ma generoso di proiezioni e analisi; ne sta valendo la pena.
      Moltitudine non disegna una verità indissolubile, prestabilita e
      perfettamente configurata: tutto è nuovamente configurabile.
      
      Venerdì, 6 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Contro insurrezione. Paragrafo dove si tratta della
      'lunga marcia' dell'organizzazione militare verso la struttura 'imperiale'
      e reticolare. I prologhi di questa marcia sono, ovviamente, da ubicarsi
      nella crisi dello stato – nazione e alcune anticipazioni di questo cammino
      sono state introdotte già lungo la guerra fredda dove “ … era già
      diventato perfettamente chiaro che la guerra si era trasformata in una
      faccenda ordinaria e che la cessazione delle ostilità potenzialmente più
      letali non comportava la fine della guerra ma solo un temporaneo
      cambiamento della sua forma” (pp. 57 - 58). Fu, infatti, l'accordo
      bilaterale USA – URSS del 1972 sulla limitazione dei missili balistici a
      mettere in crisi l'idea moderna di guerra come scontro frontale e di
      massa, anche se ormai svolta sub specie atomica, e a far
      emergere una nuova idea del conflitto come  una serie di eventi
      diffusi e mai decisivi, come uno strumento per controllare la potenza del
      nemico senza annientarlo. Conseguentemente l'immagine bellica che aveva
      dominato il settecento, l'ottocento e gran parte del novecento naufragava,
      poiché inadeguata alla nuova essenza del confronto. Paradossalmente fu il
      comune riconoscimento del grave rischio comportato dalla guerra atomica a
      determinare il tramonto dell'idea stessa di guerra tra nazioni, di guerra
      tradizionale: la scomparsa concettuale di uno degli opposti (la
        guerra nucleare globale) provocò la fine del suo opposto (la guerra
        convenzionale tra stati).
      Furono così possibili la 'politica delle cannoniere' adottata dagli Stati
      Uniti in America Centrale (Grenada, Panama e Nicaragua) insieme con
      l'invasione sovietica dell'Afghanistan (1980): episodi, a seconda dei casi
      e dei momenti, di alta, media o bassa intensità bellica, ma tutti ben
      delimitati e circoscritti al di fuori di un contesto nazionale e
      dell'ideologia o rappresentazione della guerra tra nazioni.
      Il mutamento dello scenario politico e militare nel confronto USA – URSS
      registrato nel 1972 fu, probabilmente, provocato dall'inizio delle grandi
      trasformazioni dell'economia mondiale, segnate dallo sganciamento del
      dollaro dal valore dell'oro (1971) e dalla crisi petrolifera del 1973.
      Il tramonto dell'opportunità del conflitto bellico ad alta intensità e
      svolto su larga scala (pensiamo alle due guerre mondiali) portò con sé una
      trasformazione tecnica e implicita: la radicale riorganizzazione degli
      eserciti e in primo luogo quello degli Stati Uniti che funzionò come
      nazione – guida di questo cambiamento. In estrema sintesi l'esercito
      diviene professionale e con componenti addirittura mercenarie (anche
      l'Italia rinunciò definitivamente alla componente non professionale
      dell'esercito nella seconda metà degli anni '90) e con una ossatura non
      più rappresentativa di un 'popolo in armi', ma, al massimo, di alcuni
      settori del popolo (negli Stati Uniti segnatamente gli afro – americani e
      i latini, in Italia, nel suo limitato orizzonte etnico, la gente del
      meridione e delle isole) e spesso aperto al contributi di terze parti,
      ingaggiate a diverso titolo e con compiti e competenze specifiche e
      limitate temporalmente. La tradizionale gerarchia militare piramidale,
      formata da una truppa dequalificata, una cerchia intermedia
      professionalizzata e professionalizzante e un comando centralizzato che
      plasmava l'esercito di massa e 'multipotente' della modernità
      (multipotente poiché la stessa professionalità, proprio perché generica e
      massificata, veniva usata in contesti bellici diversi e doveva adattarsi a
      esprimere potenze di fuoco differenti tra loro) fu sostituita da una
      struttura articolata in reparti specializzati fin da subito ad affrontare
      particolari missioni o eventi bellici e da un comando distribuito e
      destinato al coordinamento più che all'inquadramento della truppa, mentre
      la tradizionale centralità della fanteria e dell'artiglieria venne
      rimpiazzata dall'egemonia dell'aviazione e delle unità specialistiche
      della marina. In un quadro organizzativo così disaggregato si è affermata,
      naturalmente, l'importanza del circuito informativo del comando, dei
      servizi e della logistica e contemporaneamente il raffinamento delle reti
      di comunicazione digitale ha permesso di immaginare prima e realizzare poi
      una simile disaggregazione operativa e mansionaria, in un processo del
      tutto biunivoco e interattivo. Questa trasformazione è quella
      contraddistinta dall'adozione del R.M.A. (rivoluzione nell'azione
      militare) alla fine degli anni novanta nell'esercito statunitense.
      Per riprendere il testo: “ … l'apparato militare post – moderno possiede
      molte caratteristiche di quella che gli economisti definiscono la
      produzione post – fordista … l'apparato militare è basato sulla
      flessibilità e mobilità …” (p. 60).
      [Il corpo del soldato] Interessantissima, inoltre, è la descrizione della
      nuova immagine, autenticamente accostabile a quella della fabbrica
      toyotista e all'immagine dell'operaio che lavora nella produzione
      automatizzata, che la guerra post – moderna offre di sé;  la guerra è
      diventata, ovviamente nell'immaginario 'imperiale', sul lato egemonico e
      vincente dell'evento bellico cioè, un FATTO INCORPOREO, dove il soldato
      perde la fisicità, diviene appendice dell'arma e dell'attrezzo bellico (o
      addirittura viene sostituito completamente da quello come nel caso degli
      attuali droni). Questo modello bellico, autenticamente perseguito e
      inseguito dalla nuova organizzazione militare (e per certi versi
      idealizzato dai massmedia e dalla sua rappresentazione massmediatica)
      tende a ridurre davvero e non in modo mistificato il rischio della morte
      per il soldato 'imperiale' vicino allo zero, mentre, in una violenta e
      crudele contrapposizione etica, psicologica ed emotiva la morte diviene
      quasi esclusivo repertorio del nemico e anonima, insignificante, neppure
      degna di essere conteggiata e contabilizzata. Emblematica nei miei
      ricordi, a questo proposito, la presa diretta del 'tiro al tacchino'
      operata e commentata da alcuni aviatori americani contro un gruppo di
      soldati iracheni in ritirata e disarmati, durante la prima guerra del
      golfo, il disprezzo genetico verso il nemico, il 'tacchino', e la
      sensazione di infallibilità e di immortalità che la accompagnava,
      sensazioni riportate ed enfatizzate dalla conseguente cover
      massmediatica di quell'orribile vigliaccata ('vigliaccata' usando le corde
      della tradizionale 'etica bellica').
      Questa DECORPOREITÀ del soldato si realizza per motivazioni a un tempo
      intrinseche ed estrinseche rispetto all'evento bellico. Intrinseche perché
      il soldato 'imperiale' è un professionista altamente specializzato,
      possiede un alto valore aggiunto e ha in custodia e in uso una
      strumentazione raffinata e costosa (un alto valore aggiunto di capitale
      fisso per dirla con Marx); tanto il soldato quanto le sue armi non
      possono, quindi, essere utilizzate come nelle guerra tradizionale, di
      massa e 'dequalificata' professionalmente dove armi e militari erano
      continuamente esposti al rischio di morte e distruzione, di cattura o
      sequestro da parte del nemico per via del continuo e reiterato contatto e
      scontro ravvicinato con quello. Un altro complesso di motivazioni
      intrinseche all'incorporeità del soldato imperiale si trova nel
      potenziamento della scienza balistica e dell'aviazione che allontanano il
      campo di battaglia dai combattenti di terra, dai combattenti umani, e
      rendono il campo di battaglia il più possibile inanimato e virtuale.
      Le motivazioni estrinseche risiedono nella stessa ideologia bellica
      'imperiale' che impone, quantomeno a livello di rappresentazione mediatica
      e di resoconto politico, l'annullamento della violenza fisica e della
      forza dei corpi in battaglia verso un immagine di una guerra
      tecnologicamente e igienicamente perfetta.  Altra categoria di
      motivazioni estrinseche in ordine al successo dell'immagine incorporea
      della guerra del soldato 'imperiale' (del rappresentante armato delle
      politiche internazionali egemoni nel capitalismo, preciserei) è una
      relazione di analogia, un isomorfismo, con  i modi di produzione, le
      forze produttive del capitalismo post -  moderno e globalizzato: il
        soldato incorporeo è perfettamente coerente con la tipologia della
        produzione capitalista dominante post – fordista che pone al suo centro,
        nel suo nucleo qualificante, la produzione immateriale e l'immaterialità.
      La costituzione del 'nuovo modello militare', basato sulla netta
      superiorità tecnologica (missilistica 'intelligente', aviazione
      trasparente alle rilevazioni radar, capacità informativa espressa in tempo
      reale, uso di robot e di droni, possibilità per la fanteria di operare in
      notturna e in generale di ignorare e aggirare gli ostacoli naturali, solo
      per ricordare alcuni elementi di questa innegabile superiorità bellica
      dell'esercito 'imperiale') determina un rapporto militare asimmetrico tra
      l'Impero e i suoi nemici; quello che gli autori definiscono GUERRA
      ASIMMETRICA.
      La guerra asimmetrica incontra solo nella guerra di guerriglia un vero
      ostacolo, anche se le caratteristiche dell'evento bellico attuale rendono
      lo sforzo di guerriglia molto più arduo che negli anni '20 – '70 del
      vecchio secolo, che possono venir considerati come gli anni dell'acme
      della guerriglia e degli eserciti popolari e di liberazione nazionale. Le
      potenze imperiali, infatti, gestendo una guerra 'immateriale', che procura
      pochissime vittime nelle loro schiere, possono permettersi il lusso
      (economia permettendo) di renderla interminabile. “Senza gli orrori della
      guerra ci sono meno incentivi a terminarla e una guerra senza fine …
      rappresenta l'estrema barbarie” (p. 67). Per di più il problema della
      guerriglia, che è per definizione una resistenza reticolare e quindi quasi
      analoga e di egual struttura a quella degli eserciti degli stati
      imperiali, non è sconosciuta al dominio internazionale che ha imparato ad
      affrontarla già nel secolo scorso, ai tempi degli eserciti nazionali che
      si contrapponevano agli eserciti popolari (pensiamo alla sconfitta subita
      dagli statunitensi in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan) e proprio i
      fallimenti patiti hanno portato gli strateghi politico – militari
      dell'occidente egemonico a trasformare il 'vecchio' esercito nel 'nuovo'
      esercito.
      Moltissimi elementi dunque (politici, economici, sociali, tecnologici
      oltre che strettamente militari) hanno concorso al delineamento
      dell'esercito cibernetico, semi – robotizzato, altamente
      professionalizzato e 'immateriale'.
      Due, ancora una volta, interessantissime parole sulla relazione
      conflittuale ma dialettica tra Impero e imperialismo, ovvero tra dominio
      internazionalizzato e dominio nazionalizzato. Vale la pena di citare,
      estrapolando. “Da una parte, ogni singolo impegno militare e
      l'orientamento complessivo della politica estera [degli Stati Uniti in
      particolar modo ma anche dei singoli stati alleati (nota mia)] sono
      espressione degli interessi nazionali e devono essere giustificati in
      questi termini [presso l'opinione pubblica interna (nota mia)] …
      Dall'altra parte, però, ogni singolo impegno militare statunitense …
      implica … l'adozione di una logica imperiale la quale viene giustificata …
      in nome dell'umanità in quanto tale … Non bisogna giudicare la retorica
      umanitaria e universalistica … come una mera facciata che maschera la
      logica degli interessi nazionali. I diritti umani e gli interessi
      nazionali sono reali nella stessa misura” (pp. 82 – 83).
      Infine vengono precisate, in maniera plausibile e in metafora storica, le
      relazioni tra stati – nazione dentro il contesto 'imperiale' (e questa
      precisazione è oggi da rivedere, ma adeguata al 2004): “Gli Stati Uniti
      sono nella stessa posizione del monarca che non può finanziare le sue
      guerre da solo e deve perciò ricorrere alle risorse dell'aristocrazia. Gli
      aristocratici a loro volta replicano: Nessuna tassazione senza
      rappresentanza” (p. 84). Dopo la grande depressione del 2008 credo che la
      'monarchia' sia divenuta sempre più collegiale e si stia trasformando in
      un'oligarchia repubblicana dove gli stati – nazione europei e nord
      americani riscoprono, per certi versi, la loro 'dignità' nazionale. Ma è
      solo un'impressione.
      
      Annotazione. Gran parte delle cose lette fin qui in Moltitudine sono
      condivisibili. Ho una certa riluttanza, però, a condividere un nesso
      troppo lineare e diretto tra modo di produzione e tipologia militare.
      Certamente esiste una prossima parentela tra fabbrica fordista, operaio –
      massa ed esercito massificato e dequalificato, strutturato, come la
      fabbrica delle catene di montaggio, secondo un comando piramidale alla cui
      base stava un soldato / fante indifferenziato bellicamente, la cui dote
      principale era l'adattamento agli ordini, l'obbedienza in battaglia e
      spesso quelle che che viene comunemente detto 'coraggio', vale a dire la
      rassegnazione a una morte altamente probabile. Esiste anche una relazione
      tra il toyotismo, il post – fordismo, le conseguenze produttive della
      quarta rivoluzione industriale, la crescita del valore della produzione di
      beni immateriali e l'esercito orizzontale, specializzato, disaggregato del
      post – moderno. Non è affatto impossibile, però, che si dia
      dell'asincronicità: reperire, per esempio, gli antesignani dell'esercito
      di massa della modernità, che veniva formato attraverso una leva generale
      obbligatoria, già nella rivoluzione francese, dai battaglioni sanculotti
      alla grand armee napoleonica, e in tutta l'Europa
      dell'ottocento; alcune sporadiche anticipazioni le troviamo addirittura in
      epoca pre – rivoluzionaria (nella stessa Francia e in Prussia se non vado
      errato). In questo caso l'organizzazione militare ha anticipato i tempi
      dell'organizzazione economica e produttiva, ideando un modo certamente
      taylorista di concepire la guerra e la milizia: artigiani e contadini
      furono inquadrati nelle file dell'esercito come quasi un secolo più tardi
      gli unskilled saranno inquadrati in fabbrica.
      Ipotizzo che sia accaduto il contrario di quanto sostenuto da Negri e
      Hardt: il mondo militare ha fornito suggerimenti e fascini a quello
      produttivo.
      Non conosco bene la materia, ma l'esercito americano ha cessato di essere
      un esercito massificato e di leva già dopo la seconda guerra mondiale ed
      ha affrontato la guerra di Corea e la parte iniziale di quella del Vietnam
      usufruendo di volontari e di militari di professione. Questo non significò
      già allora la trasformazione delle tecniche belliche ma, soprattutto in
      Vietnam, alcuni reparti dell'aviazione e delle truppe di terra subirono
      una specializzazione spinta, fino al punto di essere impiegate solo in
      determinate e speciali occasioni.
      Nel campo delle tecniche operative, infatti, è da escludere la sfasatura
      temporale rispetto allo stato dei modi di produzione individuata per
      l'organigramma e la struttura dell'esercito tra esercito – massa e
      fabbrica taylorista, ma come il militarismo nazionalista dell'ottocento
      seppe, per certi versi, anticipare i tempi della disciplina e del comando
      sociale nel suo esercito, così la crisi del militarismo nazionalista e
      l'emergere dell'esercito di tipologia decentrata e disaggregata
      anticiparono, anche se di poco, (e questo solo in alcune realtà nazionali
      come gli Stati Uniti e l'Inghilterra) la trasformazione sociale ed
      economica per poi allinearsi, coniugandosi, con quella.
      
      Domenica, 8 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Resistenza. Niente da aggiungere a quello che viene
      scritto; bastino alcune citazioni. Quello che amo in questo testo è il
      fatto che, nonostante si proponga come un'opera filosofica in quanto non
      intende rispondere a domande come “che fare?” (si legge nella prefazione
      che “il nostro libro non può rispondere a domande del tipo 'che fare?')
      (p. 15), mette in campo un'analisi militante. L'analisi militante, come
      scritto proprio nel primo paragrafo di 'resistenza', intitolato non
      casualmente “La resistenza viene prima”, parte dal basso, dalla nostra
      esperienza del mondo, per giungere all'esposizione; che, poi,
      l'esposizione venga prima nella stesura dell'opera, vale a dire il
      risultato si anteponga al suo presupposto (nel nostro caso la
      fenomenologia della guerra 'imperiale' prima della Moltitudine, la contro
      – insurrezione prima dei caratteri dell'insurrezione) è poco importante.
      Analisi militante coincide per me con la costituzione di una
        soggettività che esige di darsi in oggettività, che è tutto il
      contrario della centralità scientifica che rappresenta la finzione
        della neutralità oggettiva che 'naturalmente' si trasforma in
        soggettività, in sapere vero, come se esistesse un rapporto
      causale, una causa – effetto, tra oggettivo e soggettivo.
      A proposito di causa ed effetto sarebbe più onesto parlare e fare
      riferimento alla relazione tra motivazione e risultato e su quella
      costruire la causalità e interpretarla in noi e negli altri. Sarebbe un
      discorso molto lungo che forse un giorno affronterò.
      Analisi militante (che in Impero, nonostante si volesse realizzarla, non
      ho trovato) si dispone anche verso l'individuazione di un quadro operativo
      e quindi etico, non solo di un nuovo scenario, di una nuova oggettività
      quanto anche in un nuovo modo di vedere e chiamare le cose, in una nuova
      soggettività.
      Veniamo al testo al quale, lo ribadisco, c'è poco da aggiungere.
      Sulla Moltitudine come anticipazione analitica dentro l'esposizione in
      atto della guerra che è la grande nemica della Moltitudine si scrive: “Gli
      scenari attuali della produzione e del lavoro … sono in via di
      trasformazione sotto l'egemonia del lavoro immateriale (…) Questo non
      significa che la classe operaia … sia scomparsa, e neppure che siano
      scomparsi i lavoratori agricoli (…) Non significa neanche che il loro
      numero sia diminuito in termini assoluti (…) Quello che vogliamo dire è
      che le qualità e le caratteristiche del lavoro immateriale stanno
      trasformando tutte le forme del lavoro” (p. 88). Il lavoro immateriale è
      quindi la matrice e volano dello sviluppo delle forze produttive nelle
      forme negative dell'estensione dell'attività lavorativa al tempo di vita,
      della precarietà delle relazioni contrattuali e della flessibilità dei
      mansionamenti. Lo è, però, anche nelle forme positive della formazione di
      tipologie di vita sociale e della reticolarità e orizzontalità del
      processo produttivo. Il lavoro 'biopolitico', reticolare e orizzontale è
      una possibilità concreta di democrazia che nasce dalla produzione stessa.
      Per tutte queste cose l'approccio della soggettività della Moltitudine al
      potere e alla guerra imperiale cambia radicalmente, anzi la soggettività
      stessa si trasforma rispetto ai canoni della militanza politica,
      l'organizzazione e l'instaurazione del governo rivoluzionario (movimento →
      organizzazione → presa del potere): “La pratica insurrezionale oggi non
      può più suddividersi in quelle fasi; dal momento che essa le attiva
      simultaneamente” (p. 91).
      È un bel rompicapo, ed è un attualissimo rompicapo e un'analisi militante
      ha proprio il compito di porre i problemi e non certo quello di
      risolverli. In verità, in altre opere abbondantemente precedenti a questa,
      scritte tra gli ultimissimi anni settanta e i primi anni ottanta, che
      lessi a suo tempo (penso, andando a memoria, a 'Marx oltre Marx' e alla
      'Guerra e il comunismo'), Negri anticipò un approccio analitico come
      questo e una teoria dell'antagonismo analoga. Lo fece, però, in maniera
      molto meno determinata e con la mente volta ancora indietro,
      all'esperienza insurrezionale dell'operaio – massa e pur introducendo un
      nuovo soggetto, l'operaio – sociale, alla fine lo rappresentava
        attraverso quello che l'operaio – massa non era potuto essere. In
      quella particolarissima fase della vita politica italiana mi parve che
      Negri cercasse nella vecchia dimensione analitica elementi che
      producessero consolazione rispetto all'innegabile sconfitta politica e
      sociale subita dal movimento comunista e antagonista, piuttosto che
      l'apertura di un nuovo scenario analitico.
      La teoria sull'operaio – sociale, nel 2002 / 2003, attraverso Moltitudine
      si svolge al futuro e non al passato e diviene determinata e precisa.
      L'operaio – sociale descritto da Negri quarantacinque anni fa era un
      soggetto magmatico, quasi il composto di un mosaico di tessere conformato
      dall'operaio dequalificato, dall'operaio professionalizzato e
      consigliarista e, addirittura, da tratti di somiglianza e analogia con
      l'artigiano sanculotto, per alcuni aspetti. Tutti questi elementi,
      compresenti, non si coniugavano nell'intelligenza e nella soggettività di
      una figura produttiva, ma si affiancavano gli uni agli altri senza avere
      relazioni organiche tra loro. Nella Moltitudine (ma già in Impero e, per
      uscire dalla biografia intellettuale di Negri, anche nella Grammatica di
      Virno) l'operaio – sociale riassume tutte le forme produttive e di
      sfruttamento precedenti e assume una fisionomia sua propria, un'egemonia
      su quelle.
      
      Annotazione. [Una cover radiofonica e l'operaio – sociale].
      Durante la presentazione radiofonica di un libro, il suo autore, Angioni,
      ha annotato che un mondo che non sa valutare l'entusiasmo dei giovani e
      l'esperienza degli anziani è destinato a produrre orrore e barbarie. Il
      suo libro descrive liberamente la nascita, nel 1258, in mezzo alla guerra
      interminabile tra Genovesi e Pisani e tra Pisani e indigeni, guerra sorta
      per il predominio sulla Sardegna, di una comunità di profughi isolani su
      un territorio occupato da un lebbrosario e perciò inospitale anche alla
      guerra. La comunità riesce a definirsi, a scrivere uno statuto,
      separandosi dalla guerra che imperversa tutto intorno; ne è il prodotto
      (la guerra ha provocato la fuga dalle città e campagne circostanti e il
      lebbrosario era stato svuotato per via di essa) ma anche la negazione. Gli
      emigrati costituiscono una società che non guarda indietro, per certi una
      comunità priva di memoria, dove convivono in ragione di questa assenza
      donne e uomini, agricoltori e artigiani, profughi bizantini e mussulmani e
      dove ognuno giunge con la sua conoscenza e la mette in comunione. Santa
      Gia (mi pare sia questo il nome del 'non – posto' come lo etichetta
      l'autore medesimo) riqualifica tutte le conoscenze e le inclinazioni ed è
      il luogo dove l'entusiasmo e l'esperienza collaborano liberamente. Le
      relazioni umane, gli stati d'animo e le stagioni della vita diventano
      motori dell'economia e della produzione. Storicamente l'esperienza di
      Santa Gia terminò e in malo modo, per mano dei Pisani, ma l'idea di
      un'economia come risultato di un programma che si costituisce
      nell'entusiasmo e nell'esperienza e prodotto di una separazione dalla
      guerra e da una particolare struttura della memoria, la considererei
      particolarmente attuale.
      
      Lunedì, 9 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Resistenza. L'esposizione prende le mosse dalle
      guerriglia contadina di epoca pre – moderna, giunge all'esercito popolare,
      ritorna alla guerriglia riscoperta nella seconda metà del novecento e
      infine identifica la nuova dimensione e formalità reticolare
      dell'opposizione al dominio post – moderno.
      Tutte queste tipologie possono corrispondere a una particolare fase dello
      sviluppo sociale ed economico anche se “ … non vogliamo dare l'impressione
      di ritenere che le forme della resistenza si sviluppino seguendo il filo
      di una sorta di evoluzione naturale … anche il parallelismo che abbiamo
      articolato tra l'evoluzione delle tipologie della resistenza e i modi di
      produzione economica è ancora troppo astratto” (pp. 118 – 119).
      Sia le forme dell'esercito popolare che quelle della guerriglia sono coeve
      al modo di produzione di fabbrica, anche se, nella stragrande maggioranza
      dei casi, è il mondo contadino a essere stato protagonista della
      resistenza armata (dalla Cina di Mao, a Cuba di Castro, ai Sandinisti e a
      Sendero luminoso) ma soprattutto esigono una centralizzazione politica e
      militare, nell'esercito popolare (Cina, Russia e Vietnam), e militare,
      nella guerriglia (Cuba e Nicaragua). In entrambi i casi fu un'autorità
      gerarchizzata a decidere per il movimento e l'obiettivo era quello di
      fondare un nuovo governo e un nuovo stato, facendo riferimento alla
      legittimazione popolare e al concetto di popolo.
      Per le forme organizzative della post – modernità abbiamo solo elementi di
      passaggio dalla struttura guerrigliera a quella reticolare che corrisponde
      alla resistenza al dominio produttivo costituito secondo modi post –
      fordisti: l'intifada (1987 e 2000) e l'Esercito Zapatista di Liberazione
      Nazionale (EZNL) del Chiapas. Ma si tratta di ibridi, di passaggi,
      appunto, dove la compresenza di tre elementi che vengono ritenuti dagli
      autori indispensabili a qualificare questa nuova forma di resistenza non
      si danno ancora: “Il primo principio è quello del grado di efficacia in un
      determinato contesto storico … Il secondo principio è la necessità di una
      forma di organizzazione politica o militare adeguata ai modi della
      produzione sociale ed economica … Infine … la democrazia e la libertà sono
      i punti di riferimento che guidano lo sviluppo delle forme organizzative
      della resistenza … In molti momenti storici questi tre principi si sono
      trovati in conflitto tra loro … Oggi i tre principi possono finalmente
      coincidere” (pp. 111 – 112).
      L'esempio per questa concezione organizzativa è un esempio etico, è
      l'etica della cooperazione tra gli  individui che ha una matrice
      nell'etica della rete telematica. Tutte le vecchie strategie, tattiche e
      forme di resistenza rivoluzionaria sono inadeguate, “ … tutti questi
      interrogativi risultano vecchi, logori e per molti aspetti già dissolti”
      (p. 113).
      Ci sarei andato sinceramente un po' più cauto, ma direi che davvero la
      parola ora spetta all'analisi e definizione della moltitudine, del
      sostrato vivente di questa nuova forma organizzativa e dunque naturalmente
      si sviluppa la seconda parte dell'opera. Concordo, in ogni caso,  sul
      fatto che il primo segno del proletariato nella dimensione della
      moltitudine è stato il movimento 'no global' da Seattle fino al 2003, come
      convergenza non determinata autoritariamente di gruppi diversi, spesso
      anche in conflitto tra loro su alcune questioni, ma coordinati da
      un'esigenza autoritativa generale: la pratica della democrazia e la lotta
      per la democrazia contro la guerra 'imperiale'.
      Fin qui, comunque, è stata un'analisi 'morfologica' della resistenza alla
      guerra imperiale, ora ci si ripromette un approccio di indagine
      ontologico.
      
      Giovedì, 12 marzo
      
      Annotazione. Sospetto che la 'rivoluzione' sia impossibile da almeno un
      paio di decenni. Ho trovato conferme, dirette e indirette, di questa
      impossibilità tanto nell'ultimo Negri quanto in Huwey Newton e ancora in
      molti altri. Dunque questa è un'idea comune e diffusa. Rimane, però,
      aperto il problema del comunismo che è stato concepito, inizialmente, come
      il prodotto di una fase rivoluzionaria che, senza determinarlo
      direttamente, lo introduce. Si tratta della fase della 'dittatura del
      proletariato' o, secondo altre lezioni, del 'socialismo'. È possibile il
      comunismo senza di quelle, ovverosia senza rivoluzione? E se così fosse
      come potremmo figurarci questo periodo storico che dovrebbe allora nascere
      da una transizione non rivoluzionaria, intendendo il lemma rivoluzionario
      nel senso tradizionale e marxista del termine? Sarà un altro comunismo
      rispetto a quello appena tratteggiato da Marx?
      O ancora di più. Che tipo di transizione rivoluzionaria può generare il
      comunismo, considerato secondo la definizione di un sistema sociale nel
      quale lo stato e le classi sociali si estinguono? Certo è che la
      concezione della 'conquista del potere', della trasformazione
      dell'apparato statale e dell'instaurazione di un governo del
      'proletariato' sotto la forma di una democrazia diretta, allargata, non
      rappresentativa e costruita per distruggere definitivamente la classe dei
      capitalisti, attraverso l'esercizio di una 'dittatura democratica' (per
      usare la terminologia di Troskij), è davvero inadeguata in tutti i suoi
      punti, nessuno escluso. 
      È inadeguata sotto il profilo sociale, perché il 'capitalismo reale' non
      si invera in una classe specifica, e lo è sotto il profilo politico,
      perché non esistono più (almeno nei paesi egemoni e 'sviluppati')
      organizzazioni e gruppi degni di questo nome e capaci di avere un certo
      consenso, muovendosi verso la costituzione di una dittatura del
      proletariato e verso la conquista dello stato; lo è ancora sotto il
      profilo storico, perché gran parte degli elementi del socialismo sono
      stati realizzati, e da lungo tempo, dal capitalismo (il welfare,
      il seguente warfare, la democrazia allargata e anche le ultime
      forme di democrazia non rappresentativa), e lo è, infine, sotto il profilo
      economico, perché l'obiettivo socialista dello sviluppo industriale,
      tecnico e scientifico esteso a tutto il mondo, internazionalizzato o
      addirittura mondializzato, è stato anch'esso raggiunto dal capitalismo.
      Meno certo ed evidente è che il capitalismo abbia eliminato l'attualità e
      l'urgenza del comunismo, anche se il passaggio dal fordismo al post –
      fordismo ha comportato un superamento di quello che potrebbe essere detto
      il 'socialismo del capitale' verso un 'comunismo del capitale' neppure
      troppo occultato. Comunismo del capitale è il luogo storico dove è il
      capitalismo a farsi protagonista della critica allo stato, della critica
      all'omologazione sociale insieme con il contemporaneo elogio alla
      diversità sociale, sessuale ed etnica. È un paradosso che mi è famigliare,
      ormai: lo sviluppo del capitalismo dopo la grande depressione del 1929 ha
      percorso, sotto il suo punto di vista, le fasi storiche previste dalla
      teleologia marxista classica.
      In questo contesto il discorso sopra la rivoluzione e il comunismo è
      diventato non solo difficile ma scivoloso, perché non comporta solo il
      ragionamento su molteplici elementi storici ma richiede anche un'analisi
      dipanata su diversi piani e soprattutto espressa in maniera pluriforme che
      impedisce, implicitamente, di recuperare e utilizzare un linguaggio
      univoco. Il comunismo richiede un nuovo linguaggio, o meglio una
        serie incredibile di linguaggi. Il comunismo, cioè, non può essere,
      al contrario del socialismo e della dittatura del 'proletariato', una
      dimensione culturale e ideologica unificante (per dirla con Negri e Hardt:
      una nuova sovranità) e un discorso unitario, organico sotto il profilo
      politico. Insomma il comunismo è tutto il contrario del prodotto di
        un processo rivoluzionario inteso in senso tradizionale.
      Alla domanda, per me fondamentale, su dove si ubica il punto di rottura
      tra il 'comunismo del capitale' e il 'comunismo dei proletari' si può solo
      fornire  una risposta parziale che risolve  una piccola parte
      della domanda. È inevitabile prevedere, per questa rottura, non un singolo
      punto, ma moltissimi punti, che si trasformano in segmenti e linee, e non
      un unico momento, una contemporaneità, ma numerosi momenti, un'eternità,
      quasi. Come credo avesse pensato anche Marx, nel passaggio dal socialismo
      al comunismo la lotta politica si arricchisce di due aspetti rispetto a
      quelli che avrebbero contraddistinto la transizione dal capitalismo al
      socialismo, l'aspetto antropologico e quello filosofico: il comunismo è
      una 'rivoluzione' nella quale quella che veniva, ancora nel socialismo,
      detta 'sovrastruttura' decide della 'struttura'.
      Immagino che questo confronto, oltre che non addensarsi temporalmente, non
      conoscerà figurazioni 'geografiche', cioè avanzate e ripiegamenti, ma solo
      nuove attestazioni, nuovi scenari, ma nulla che possa essere riferito ai
      concetti di avanzata e ritirata, ai tradizionali effetti delle lotte e
      alla consuete reazioni contro le lotte. Se, comunque, dovessi adottare
      delle figurazioni spaziali e delle semplificazioni geometriche oserei
      affermare che il 'comunismo dei proletari' non può che presentarsi come
      un'avanzata su tutti i livelli e su tutti i 'fronti', a patto di cambiare
      davvero radicalmente il modo di conoscere i livelli e i fronti.
      Stavo ripensando a un'antologia di Rosa Luxembourg (Scritti scelti / Rosa
      Luxembourg ; a cura di Luciano Amodio. - Torino : Einaudi, 1976. (NUE:
      nuova serie ; 2)) e in quelli 'Riforma sociale e rivoluzione' (1899), 'La
      rivoluzione russa' (1918) e 'Assemblea nazionale o governo dei Consigli'
      (1918). Ripensavo, soprattutto, a quei contributi nei quali si critica
      davvero aspramente la metodologia bolscevica in rapporto alla gestione
      centralistica e verticistica del partito comunista russo e si pone la
      democrazia alla base dello sviluppo del processo rivoluzionario, intesa
      come momento interno, implicito e necessario per lo sviluppo di quello,
      mentre si polemizza e si prendono le distanze dal gradualismo e dalla
      mitologia della democrazia sposata dai riformisti (Kautky e Bernstein).
      Questi concetti sono ancora, assolutamente, interessanti oggi, ma,
      paradossalmente, quello in apparenza meno attuale lo è più di tutti gli
      altri: in buona sostanza, sostiene infatti la Luxembourg, nel capitalismo
      imperialista da lei analizzato e conosciuto, solo la rivoluzione può
      garantire il riformismo, o meglio la riforma sociale; questo modo di
      rileggere la tradizione riformista e rivoluzionaria può essere molto
      utile, come punto di partenza e null'altro, per tracciare scenari a
      venire. La classica separazione tra 'purezza rivoluzionaria', proiettata
      costantemente oltre il presente, e cinismo riformista, dominato invece
      dalla necessità di costituire spazi e avanzate nel presente, si può, per
      situazione oggettiva (se siamo davvero nel 'comunismo del capitale' e
      questo concetto ha qualche verità), trasformare in una fortissima
      contaminazione, un una coincidenza, come se l'economia e le sue leggi
      potessero realizzarsi solo attraverso l'etica in centinaia di punti di
      rottura.
      
      Sabato, 14 marzo
      
      Annotazione. Si tratterebbe, ribaltando l'ipotesi della Luxembourg, di un
      riformismo rivoluzionario, che azzera l'immagine tradizionale del
      riformismo quanto quella della rivoluzione. Se la rivoluzione è
      impossibile, perché non è possibile individuare un punto di rottura
      univoco, un crinale oltre il quale si apre un altro mondo, a maggior
      ragione è improbabile, anzi ancora più improbabile, una marcia graduale
      verso il crinale, che già nell'ipotesi classica (per rimanere legato
      all'opera di Rosa farei riferimento a Bernstein e Kautky) doveva
      addirittura costituire, attraverso una serie di passaggi scientificamente
      e positivisticamente determinati, il punto di rottura, il momento
      rivoluzionario. Anche il pensiero riformista, infatti, almeno in
      quell'epoca, non abbandonava la prospettiva rivoluzionaria e non si
      discostava dalle ipotesi del manifesto del Partito Comunista di Marx ed
      Engels, ma me dava un'interpretazione deterministica e meccanicistica.
      Nell'ipotesi rivoluzionaria il momento della rottura era dato e stabilito
      dalla crescita e radicalizzazione della coscienza e della soggettività e
      non era oggettivisticamente prevedibile, nell'ipotesi riformista invece
      era il risultato dello sviluppo armonico ed equilibrato del capitale che
      avrebbe determinato, ineluttabilmente, una naturale crescita della
      consapevolezza nella classe operaia, dei legami di classe e, in fondo, era
      l'economia e non la soggettività a rendere possibile la rivoluzione.
      Oggi l'impossibilità di discernere un punto di rottura e di focalizzarlo
      comporta la necessità di immaginare molteplici piani e numerosi percorsi
      che potrebbero essere associati al riformismo del movimento operaio
      tradizionale, un riformismo, però, scisso, frantumato e molteplice, che
      non avanza perché non ha mete, ma organizza spazi e li mette in
      comunicazione, elabora culture e costituisce istituzioni e organizzazioni
      funzionali alla conservazioni di quegli spazi. Anche gli spazi sono da
      intendersi non come territori liberati e conquiste ma come spazi etici e
      intellettuali, momenti di cooperazione che possono sedimentare istituzioni
      e realtà organizzate provvisorie, trasversali e spesso 'contaminate' con
      altre situazioni e spazi etici e intellettuali, altri saperi insomma.
      Bisogna immaginare un'immensa officina non unificata da alcun comando, che
      si è costituita con pezzi e attrezzi presi qui e là, che è segmentata in
      molti settori; questi settori sono a loro volta dispersi dentro una
      fabbrica ancora più grande, che è costitutivamente e ontologicamente
      sottoposta a un comando unificato, quello capitalistico. Questo dominio
      unificato, però, non può fare a meno di quei pezzi dispersi nella sua
      grande fabbrica. Si tratta di un riformismo che si presenta senza il volto
      della riforma e con quello della collaborazione e cooperazione.
      
      Domenica, 15 marzo
      
      Annotazione. Le pagine di questi giorni sono tesi, tesi nel vero senso
      della parola, che si basano su altre tesi come quella della relazione tra
      riforma e rivoluzione di Rosa Luxembourg e sull'inattualità della
      tradizionale visione rivoluzionaria dell'organizzazione e del potere, tesi
      questa molto più recente ma che nutre insospettabili parentele con la
      prima. La possibilità di un riformismo che, per forza di cose, per
      necessità, deve assumere una facies rivoluzionaria e
      contemporaneamente l'idea che la rivoluzione è impossibile e la parola
      stessa, per continuare a essere adoperata, deve assumere nuovi significati
      (altrimenti è meglio non usarla) sono due tesi complementari. Questi due
      tesi comportano l'idea di un antagonismo puntiforme, disperso e di un
      analogo sviluppo del capitale.
      Quello che è accaduto dal 2003, anno della stesura di Moltitudine (per
      lasciare perdere quanto è accaduto dai tempi della militanza della
      Luxembourg) è molto importante per comprendere quanto queste due tesi, che
      nascono da queste letture, sono verificabili e attuali. La mia sensazione,
      necessariamente empirica (e per empirica intendo massmediatica, poiché
      come molti altri non ho altre fonti di informazioni e materiali da
      analizzare) è che, dopo il movimento contro la globalizzazione capitalista
      degli anni novanta, si sia prodotto un grande riflusso e l'area della
      critica radicale sia stata investita da un profondo disorientamento e
      disarticolazione.
      D'altronde anche il movimento no global si è presentato con un aspetto e
      una strategia massmediatici, ogni sua componente ha inteso proporsi ai
      media secondo diverse sensibilità e strategie; non intendo l'inevitabile
      massmediatizzazione con questo, ma il fatto di pensarsi anche in funzione
      della rappresentazione dei media. È inevitabile mettere in relazione certe
      pratiche militari delle 'tute nere' o black blocks a Genova con
      il calcolo dell'impatto giornalistico e televisivo, anzi come azioni
      studiate in funzione della loro rappresentazione televisiva, come è
      ugualmente inevitabile prendere in considerazione sotto questo particolare
      aspetto il pacifismo programmatico di Agnoletto o la posizione
      'intermedia', ma altrettanto perdente, delle 'tute bianche'.
      Più in generale il movimento dei movimenti si è mosso in relazione ai
      media, seguendo l'esempio di alcuni episodi di lotta del decennio
      precedente.
      La fine del movimento potrebbe essere scambiata con la sua uscita dai
      palinsesti televisivi e dalle pagine dei giornali e dei notiziari.
      Questo è un primo grande problema: non esiste, allo stato attuale delle
      mie conoscenze, un canale informativo strutturato sulle forme di critica
      radicale e non, spontanea e organizzata, delle classi subalterne o, se si
      preferisce il termine, della Moltitudine.  
      Pur con tutti i suoi limiti e le deteriori inclinazioni, il movimento
      comunista tradizionale, la terza internazionale, aveva garantito,
      nonostante censure e disconferme, la diffusione delle informazioni su
      agitazioni, conflitti e forme di lotta. Quella che allora veniva
      considerata informazione 'alternativa' poteva confondersi e strutturarsi
      su quel retroterra  organizzativo che oggi, semplicemente, non esiste
      più. Ergo abbiamo pochissime informazioni su quello che accade
      nel mondo, ma anche nel nostro paese, nel campo delle organizzazioni ed
      esperienze 'alternative' o anche solo banalmente sindacali, come se non
      succedesse nulla o quasi nulla e la sensazione della nullità, della
      mancanza di critica e di una passività quasi assoluta della società è
      dominante.
      Non si tratta, io credo, solo di un problema di visibilità: è un dato di
      fatto che il peso specifico delle azioni antagoniste e dell'organizzazione
      critica dei proletari sia diminuito drasticamente. In secondo  luogo
      è probabile che questo peso, per le radicali trasformazioni avvenute, sia
      disposto in maniera diversa e in ragione della sua nuova distribuzione
      molto meno evidente e misurabile.
      L'impressione generale è che entrambi questi fattori, la riduzione del
      peso e il cambiamento del peso,  stiano lavorando verso questa
      invisibilità dei comportamenti alternativi al capitalismo.
      
      La crisi del 2008 non ha aiutato a rendere visibili i bisogni dispersi,
      anzi mi pare il contrario. La sensazione generale, quasi inconscia, almeno
      nei paesi del 'centro dell'impero', che un tratto tipico del capitalismo
      fordista, vale a dire l'economia basata sull'abbondanza dei beni,
      tramontava definitivamente, dopo aver subito, comunque, una lunga, lenta e
      tenace destrutturazione dagli anni settanta in poi, si è diffusa ed è
      divenuta convinzione rassegnata, un nuovo dato di fatto con il quale
      misurarsi. Non esiste una relazione naturale tra bisogni ed economia, la
      relazione dell'uomo con il mercato è mediata sempre dall'ideologia, è, in
      gran parte, una relazione ideologica. I bisogni dipendono dall'immaginario
      dei protagonisti dei bisogni.
      Questo non significa che nel caso italiano si stia ritornando,
      meccanicamente, a esigenze e ad aspettative anteriori all'affermazione del
      welfare state, e a un'analoga struttura della domanda di beni e
      merci, che si stia tornando, insomma, agli anni cinquanta del secolo
      scorso; l'automobile, la settimanale e quasi rituale spesa al
      supermercato, la vacanze sempre più breve e i passatempi pubblici e,
      soprattutto, privati sono ancora beni e occasioni commerciali disponibili,
      egemonizzando ancora il paesaggio sociale, ma con delle notevoli e ultime
      novità. Innanzitutto (e sarebbe un argomento complesso e articolato) la
      rete telematica ha permesso la fruizione di alcuni passatempi e  un
      modo di impiegare il tempo libero estremamente più economici e frugali, in
      secondo luogo quei beni, seppur 'proletarizzati', diminuiti, non sono più
      garantiti ad ognuno, rimanendo come situazioni di massa, resistendo come
      opportunità generali che, però, non devono essere necessariamente
      condivisi. Anche nell'apparato pubblicitario e nell'immaginario costruito
      dai media è venuto meno l'obbligo della condivisione che, invece, 
      caratterizzava i bisogni e le aspettative qualche decennio fa: la mancata
      condivisione di alcuni di quei beni e opportunità non è più motivo di
      emarginazione ed esclusione ed entra a far parte della normalità, anche se
      disposta in una gerarchia subordinata.
      Si è abbassata, in buona sostanza, la soglia di percezione per la povertà:
      quella che un tempo sarebbe stata detta 'miseria' (e per un tempo intendo,
      limitatamente all'Italia, gli anni che vanno dal 1960 al 2000) oggi è
      diventata una condizione abbastanza diffusa, prodotta anche dal lavoro
      salariato e non, dal reddito da lavoro. Insomma la miseria oggi connota
      chi non ha il danaro sufficiente per affrontare l'intero mese, mentre
      prima era disposta a individuare chi, pur arrivando tranquillamente a fine
      mese, non possedeva un automobile o non si concedeva una vacanza in
      albergo, passando l'estate e le ferie in città o in paese. Si sono
      bruciati molti tesoretti generazionali nei bilanci proletari.
      Analogo abbassamento della soglia di percezione si è verificato sul
      terreno, importantissimo, dell'assistenza sanitaria, dove si è introdotta
      una vera penuria del prodotto sanitario e un suo impoverimento secondo i
      quali l'uso di convenzioni e di assistenza privata è diventata in certi
      casi obbligatoria, per via dei tempi di risposta delle strutture
      ospedaliere pubbliche; a questa si è aggiunto il depennamento di
      moltissime convenzioni con fornitori di assistenza privati  e
      l'allargamento delle fasce soggette al ticket. L'assistenza sanitaria
      pubblica e gratuita non è scomparsa ma è divenuta più rara, meno efficace
      e terribilmente più povera in tecnologie e capacità operativa.
      Il passaggio definitivo e, a mio sindacabilissimo parere che, però, si
      sposa con una convinzione abbastanza diffusa, irreversibile da un quadro
      economico dominato dall'abbondanza a uno scenario di penuria ha provocato
      una vera rivoluzione nella 'teoria dei bisogni' della Moltitudine dei
      paesi occidentali, soprattutto nella gerarchia delle priorità tra quelli.
      Anche i bisogni si sono impoveriti e anche il discorso sui bisogni,
      l'ideologia e la loro rappresentazione, sono diventati assolutamente più
      essenziali, proiettandoci in una specie di ombra povera del
        consumismo.
      
      Due parole sull'iniziativa di Maurizio Landini. Attraverso di lui il
      sindacato (meglio scrivere una piccola parte, anche se significativa, del
      sindacato) ha compreso che qualcosa sta accadendo da almeno trent'anni sul
      mercato del lavoro, e che le organizzazioni sindacali hanno finto di non
      accorgersene o peggio (e sarebbe un sindacato di ebeti) non se ne sono
      accorte: sono accadute entrambe le cose e gli avveduti si sono tirati
      dietro gli idioti, nascondendosi dietro la loro ebetudine.
      Questo processo di mistificazione di sé medesimi, risultata trasparente e
      programmata dai vertici, dai quadri intermedi e anche da parte della base
      sindacale, soprattutto da quella non operaia ma   pubblica e
      statale, è quello che si registra in questi appunti e che da decenni
      descrivono, marginalmente, uomini come Bologna, Virno, Negri e molti altri
      politicamente 'corretti'. Fuor di correttezza, lo stesso premier, Renzi,
      ha usato questo ritardo per criticare apertamente il sindacato e
      delegittimarne il ruolo politico e naturalmente per codificare (abbozzare
      la codificazione della) la nuova realtà del mercato del lavoro, aggirando
      qualsiasi opposizione pretestuosa oppure legittima del complesso
      sindacale.
      Cosa ha scoperto Maurizio Landini? Quello che tutti sapevano già senza
      neppure aver bisogno di avere la tessera sindacale anzi a maggior ragione
      conoscevano proprio perché non l'avevano e non potevano averla: il lavoro
      proletario non è più un lavoro eminentemente operaio, le relazioni di
      sfruttamento sono anche al di fuori della fabbrica e il rapporto di lavoro
      salariato non più è l'unica forma di retribuzione del lavoro dipendente e
      comandato.
      Nonostante l'abissale ritardo (mezzo secolo, quasi), che certo non sarà
      privo di conseguenze anche nella strategia che Landini e la FIOM dovranno
      adottare, questa presa di coscienza è importante, anche solo per un fatto:
      impone un rinnovamento radicale, nelle forme organizzative e nella ragione
      di essere del sindacato italiano. In futuro avremo occasione di ragionarci
      sopra.
      
      Martedì, 17 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Classi pericolose. La Moltitudine non è una nuova
      classe sociale ma il contenitore di un insieme di classi sociali molto
      differenziato. La Moltitudine non si limita a essere un concetto passivo,
      una nuova dimensione spazio – temporale, una nuova categoria sociologica,
      anzi non è proprio questo, secondo Negri e Hardt è un nuovo paradigma, un
      nuovo modo di vivere delle classi o soggetti sociali e quindi non tanto
      una nuova dimensione spaziale e temporale quanto, invece, una nuova
      dimensione collettiva. In questa dimensione le diversità (sociali,
      produttive, culturali ed etniche) convivono e si esaltano; la Moltitudine,
      quando si è espressa come tale, ha rivendicato le differenze nel suo seno,
      le ha presentate come costitutive si sé medesima. Tutto questo ricorda, e
      non troppo vagamente, l'intercomunitarismo di Huwey Newton, del quale ho
      letto qualche mese fa. “Quando affermiamo di desiderare un mondo senza
      differenze etniche o di genere – scrivono gli autori - [ … ] in cui cioè
      non determinano le gerarchie di potere, un mondo in cui le differenze
      possono esprimersi liberamente, questo desiderio è un desiderio della
      Moltitudine” (p. 125).
      Lo sviluppo della Moltitudine in contrapposizione al popolo è il risultato
      dello sviluppo capitalistico:  a un dominio esercitato
      internazionalmente corrisponde una costituzione del lavoro internazionale
      ma, soprattutto, a un comando che si realizza anche al di fuori della
      produzione dei beni materiali corrisponde un lavoro che si estende al di
      là della fabbrica, nella riproduzione del capitale, nella distribuzione e
      che produce infrastrutture tecniche, saperi necessariamente collettivi,
      logistica, stati d'animo e sentimenti. Il target produttivo della
      produzione post – taylorista è quello della produzione immateriale. In
      questa maniera il capitalismo, sia sotto il profilo geografico che
      sociale, tende a occupare tutti gli spazi, escludendo e annientando ogni
      esterno da sé e divenendo, perciò, un non – luogo.
      Il vecchio concetto di classe operaia esce irrimediabilmente sconfitto e
      reso inadeguato da questa trasformazione; non tanto perché nei paesi
      sviluppati, nelle economie egemoni, la produzione materiale, la fabbrica,
      è divenuta fatto residuale ed è stata esportata, è emigrata, verso la
      periferia capitalistica, non tanto, dunque, perché l'operaio è scomparso
      (in realtà sopravvive in altre forme e in altre aree geografiche), ma in
      quanto il rapporto di lavoro salariato, centrale nel capitalismo
      industriale, ha perduto gran parte della sua polarità e la relazione di
      lavoro che conformava (salario espressione diretta della produttività
      oraria e l'idea stessa di produttività oraria) è entrata in crisi.
      Posto il fenomeno al minimo, la produttività oggi si quantifica in altri
      modi che l'orario di lavoro o la produttività oraria, posto il fenomeno al
      massimo, oggi la produttività non è sorgente del valore ed esiste un'altra
      idea di produttività che riguarda quello che un tempo era repertorio del
      'lavoro improduttivo', della sotto – occupazione e dei lavori saltuari;
      conseguentemente flessibilità e mobilità investono anche il lavoro operaio
      e il lavoro salariato contrattualizzato in generale perché i paradigmi
      egemoni e conformanti del modo di produzione capitalistico attuale
      richiedono flessibilità ed elasticità, continua ridefinizione produttiva,
      secondo il modello tipico della produzione immateriale e 'intellettuale'.
      Questa innegabile dispersione e frantumazione delle classi e delle
      relazioni di lavoro dentro una stessa classe subalterna “ … fa sì che il
      concetto di proletariato guadagni la sua definizione più piena,
      comprendendo tutti coloro che lavorano e producono sotto il comando del
      capitale” (p. 131).
      Nella stessa misura in cui il lavoro produttivo di beni materiali perde il
      ruolo stellare nella definizione del valore economico e quindi il valore
      economico perde la sua unità di misura nel tempo di lavoro non necessario
      alla produzione del valore di scambio, come voleva la teoria marxista
      classica, la determinazione del plusvalore e del profitto si
        autonomizzano dal lavoro produttivo materiale e dai suoi schematismi e
        insieme con essi si rende indipendente quella che è l'astrazione reale
        (secondo un'espressione più volte ripresa da Marx) del valore
        produttivo, il danaro. È quest'ultimo un postulato
      interessantissimo e che certamente descrive con efficacia l'ultima
      fenomenologia del capitalismo e anche quella della recente crisi, in base
      alla quale si può tranquillamente denunciare il definitivo tramonto
        dell'economia come scienza, o, meglio, come viene evocativamente
      chiamata, “scienza triste”. La moneta acquisisce un potere e una vita
      autonomi, loro propri che meglio degli autori non avrei saputo scrivere
      (pur mantenendo necessarie alcune verifiche meno empiriche e percettive
      delle mie): “Solo il potere della moneta può effettivamente rappresentare
      la generalità dei valori di produzione e nel momento in cui divengono
      espressione delle moltitudini globali” (p. 184). Ammetto che questo modo
      di concepire la moneta è quasi metafisico, assolutamente non dimostrato
      nell'opera, ma va ribadito che l'analisi è e deve essere militante. Direi
      che la tesi di Negri e Hardt sul danaro è fortemente probabile.
      Sono passato dall'incipit al prologo di questo capitolo non per
      indolenza ma per coerenza critica: la descrizione del proletariato nel
      paradigma della Moltitudine richiede e si esaurisce nel suo opposto, il
      capitalismo nella fenomenologia imperiale. Per la sintesi è inevitabile
      far riferimento ai Lineamenti di Marx che, infatti, sono
      continuamente citati nel capitolo (che è quasi un'opera conchiusa, quasi
      una monografia). Lo scenario della liberazione è soprattutto un percorso
      interno al lavoro, alla cooperazione, al 'comune', all'intelligenza
      collettiva che il capitale vampirizza e comanda come accade da più di un
      secolo, ma che ora per logica di cose e per la logica del suo stesso
      sviluppo non può controllare autenticamente.
      Come all'interno del concetto di proletariato si articola la categoria del
      'povero' o meglio dei 'poveri' (senza salario, migranti e precariato
      occidentale) così all'interno del lavoro si articola il concetto di una
      cooperazione tra gli individui e le 'singolarità', che entra in
      contraddizione con il comando del capitalismo SENZA esserne esterno,
      un'alternativa conclamata ma un'alterità praticata e citando i Lineamenti:
      “È il lavoro non come oggetto ma come attività, non come valore esso
      stesso, ma come sorgente viva del valore” (p. 180). Ancora una bellissima
      citazione su questa sintesi tra capitale e lavoro operaio che non ha più
      nulla a che vedere con il lavoro operaio e dunque anche con la sintesi
      immaginata da Marx: “Una volta cancellata la limitata forma borghese, che
      cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei
      godimenti delle forze produttive [ … ]? Che cosa è se non
      l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative … che rende fine a sè
      stessa questa totalità dello sviluppo … non misurato da un metro già dato?
      [ … ] Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento
      assoluto del divenire” (Lineamenti citati a p. 177). Questa cosa
      io la chiamo comunismo: al comunismo del capitale corrisponde il comunismo
      dei proletari.
      
      Mercoledì, 18 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Classi pericolose. Il concetto di povertà, dentro
      questo quadro sintetico, è nuovo, nuovo rispetto alla tradizione marxista
      e anche rispetto al pensiero, ormai classico, dell'antagonismo italiano.
      Eppure la condizione del povero, è scritto in più punti nel capitolo, è
      condizione unificante, la vera condizione riconoscibile come 'comune',
      frazione caratteristica della comunità dei proletari. Povero è da
      intendersi colui che è privo di un lavoro stabile, il prestatore d'opera
      non necessariamente sottoposto al regime del lavoro contrattualmente
      salariato e il migrante. La povertà acquisisce una visibilità che prima
      non le veniva concessa nelle analisi e nelle rappresentazioni televisive e
      ideologiche e quindi la povertà offre la possibilità di costituirsi in
      comunità.
      Una tesi è questa che va approfondita e verificata. In generale tutto il
      lavoro di Negri e Hardt andrebbe verificato, riempito di dati, di fatti,
      ed essendo il prodotto di un'analisi militante, verificato attraverso la
      lotta di classe di quest'ultimo decennio. Questo mettere alla prova non
      significa arricchire il testo ma riscriverlo e la riscrittura è imposta da
      un'analisi militante.
      
      Venerdì, 20 marzo
      
      Letture. Moltitudine. De corpore. Il titolo è un debito della
      filosofia politica sei – settecentesca che iniziava le proprie trattazioni
      con la descrizione dell'analogia tra corpo umano e corpo politico. Secondo
      questa teoria il corpo politico è la rappresentazione sociale del corpo
      umano, la fisiologia descrive la società che è costituita da un complesso
      di organi equilibrato e dominato dalla ragione. Alla guida, o meglio alla
      testa, di questo corpo politico è, secondo le inclinazioni ideali di
      ciascun autore, o il monarca o un istituto repubblicano ma in entrambi i
      casi non si sfugge a questa visione organicistica della società, intesa
      come un complesso che origina dalla collaborazione armonica tra i diversi
      organi. Questa visione, che non considera nulla al di fuori di questo
      corpo ben formato, è stata conservata tanto dal romanticismo e dal
      positivismo quanto dal pensiero novecentesco ed è il modo di vedere lo
      stato e il popolo (sempre considerato come espressione della nazionalità)
      dell'intera modernità. Poco importa se lo stato e il corpo sorgono dalla
      fine dello stato di natura (come in Hobbes e nel pensiero assolutista) o
      da un contratto che si fonda su una correzione dello stato di natura
      (Locke, Hume e Rousseau), l'elemento basilare rimane nella totalità
      inclusiva di questo corpo sociale, al di fuori del quale non è concepibile
      altro che la natura e gli altri animali.
      Questo corpo, secondo gli autori, è definitivamente tramontato insieme con
      l'ideologia che lo accompagnava poiché il nuovo concetto e realtà del
      corpo politico non può più costituirsi in una unità organica, nel senso
      moderno del termine, ma si presenta, rispetto all'apparato ideologico
      della modernità, come privo di forma, soprattutto perché ha perduto quel
      principio formale che era la nazionalità e il parallelo concetto di
      popolo. Così si legge: “Il corpo politico globale non è il corpo nazionale
      cresciuto smisuratamente [come viene trattato da buona parte della
      sociologia contemporanea (nota mia)]. Il corpo politico possiede una nuova
      fisiologia” (p. 190).
      Non casualmente e appropriatamente apre il capitolo una citazione di Marx,
      a segnare l'auspicabilità della fine di quest'armonia basata sugli stati -
      nazione: “In generale ai nostri giorni il sistema protezionista è
      conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso
      dissolve le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo tra
      borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà di
      commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso,
      signori, che io voto a favore del libero scambio”.
      I passaggi di fondo e schematici nella transizione (che secondo Negri e
      Hardt era ancora in atto nel 2004) da un mondo contrassegnato dalle
      nazionalità e dagli stati – nazioni verso un mondo 'globalizzato' o
      integralmente internazionalizzato sono tre: la denazionalizzazione, la
      costituzione di una gerarchia internazionale o meglio globale e la
      scrittura di una nuova geografia del potere. I tre fenomeni sono
      interconnessi e l'uno presuppone l'altro, costituendo le tre facce del
      medesimo processo.
      Denazionalizzazione (secondo l'accezione di Sassen) non significa la morte
      dello stato nazionale ma la sua trasformazione in un'istituzione che
      collabora sempre più spesso e con maggiore intensità con il nuovo ordine
      mondiale; gli stati nazionali non scompaiono ma “le loro azioni sono
      sempre meno sistematicamente orientate verso gli interessi nazionali e
      sempre più verso la nuova struttura di potere ...” (p. 191). Le gerarchie
      internazionali non si basano più sul confronto tra nazioni, delineando
      quindi nazioni egemoni e subalterne, sviluppate e sottosviluppate, un
      primo e terzo mondo o, infine, un nord e sud del mondo, come secondo la
      classica analisi critica terzomondista e maoista, questo impianto
      analitico è inattuale perché la divisione non passa più tra le nazioni (o
      meglio non passa più solo tra le nazioni) ma anche all'interno delle
      nazioni, definendo aree e addirittura zone urbane diversificate
      socialmente ed economicamente: la diversità tra nord e sud, tra
      capitalismo egemone e capitalismo subalterno e sottosviluppato, è
      interiorizzata nel corpo delle nazioni. La gerarchia internazionale divide
      ancora le nazioni ma anche l'interno degli stati – nazione. Vale dunque la
      pena di trascrivere che “i differenziali del costo della forza – lavoro
      creano processi di dumping biopolitico, di modo che il lavoro di
      determinati lavoratori ha più valore, quello di altri meno … Parlando in
      termine generali, ci sono ancora alcune importanti differenze tra nazioni
      e le maggiori aree geografiche … ma non ci sono più zone omogenee” (pp.
      192 – 193).
      La gerarchia non si fonda sulla geo – politica della modernità dove Europa
      e Nord America erano il modello dello sviluppo e il regno incontrastato e
      incontaminato del capitalismo evoluto e delle economie dell'abbondanza
      mentre Africa, America latina e quasi tutta l'Asia erano territori
      privilegiati della povertà e dello sottosviluppo, la nuova gerarchia,
      invece, si basa sulle relazioni mutevoli imposte alla forza – lavoro.
      Pensiamo alla 'stagione dei pomodori' nel mezzogiorno d'Italia 
      retribuita con salari di uno o due euro all'ora per dodici ore di lavoro,
      eseguita quasi esclusivamente da lavoratori stranieri e alla contemporanea
      sicurezza contrattuale degli operai agricoli italiani che operano nella
      medesima area. Qui un pezzo notevole di quello che un tempo sarebbe stato
      detto sud del mondo si è incuneato, insediandosi transitoriamente, nel
      nord del mondo. La gerarchia produce una nuova geografia che è mobile e
      transitoria precisamente come tendono a esserlo i rapporti di lavoro,
      tanto nei braccianti a giornata senegalesi nell'agro pontino, quanto per
      gli operai campani alla Fiat di Melfi.
      Non sono più le nazioni e i rapporti tra nazioni a disegnare la geografia
      ma le nude relazioni sociali imposte ai lavoratori a fare di un'area
      terreno dello sviluppo o del sottosviluppo. Gli stati – nazione,
      attraverso la loro storia e la loro tradizione, attutiscono o amplificano
      (a seconda dei casi) il processo, ma ne sono irrimediabilmente
      attraversati.
      Al termine dell'esposizione della nuova geografia, gli autori individuano
      il concetto geografico per eccellenza dell'attualità con un aggettivo
      verso il quale io ho una certa idiosincrasia e nutro diffidenza, il
      termine 'globale'. Globale è preferibile a internazionale perché
      quest'ultimo aggettivo implica e si articola sul concetto di nazione,
      mentre globale prescinde da quell'unità di misura e da quel termine 
      di paragone, ignora la nazione e introduce, appunto, l'idea di una
      geografia politica in continuo movimento.
      Questa geografia ha un'istituzionalità concreta e gli autori invitano a
      fare un salto a Davos e al World economic forum, luogo di
      incontro tra esponenti del mondo finanziario, dirigenti e amministratori
      delle multinazionali e di alti burocrati dell'ONU e degli stati nazionali.
      A Davos si riunisce in assemblea l'oligarchia politico – finanziaria del
      capitalismo globalizzato. Questa oligarchia è il risultato della
      cooptazione di elementi degli istituti internazionali (FMI, Banca
      mondiale) e della continua migrazione da attività finanziarie a politiche
      e viceversa dei suoi componenti.  Davos, delle cui riunioni ben poco
      conosco, è la quintessenza della necessità di confronto e coordinamento
      del capitalismo libero – scambista e della necessità persistente
      dell'intervento politico e 'statale' nell'economia.
      FMI e Banca mondiale, seguendo le nuove logiche monetariste così ben
      individuate dagli autori nel capitolo precedente, intervengono
      sull'economia mondiale, esercitando forza e coercizione attraverso la
      persuasione determinata dalle strette monetarie e creditizie, nate dagli
      accordi di Bretton Wood del 1944, tese a organizzare la crisi del secondo
      dopo guerra, le due istituzioni sono, per gli autori, il vero cuore
      strutturante il nuovo ordine mondiale e ne rappresentano il supremo
      livello.
      Le intese tra stati – nazione, periodiche o permanenti (penso all'Unione
      Europea o alla comunità economica – finanziaria nel sud America) ne
      gestiscono il secondo livello. Un terzo livello sono le strutture di authority
      e di autoregolamentazione delle multinazionali che ereditano,
      stravolgendola, la tradizione della lex mercatoria medioevale e
      moderna.
      Al di là della concretezza e della ricchezza di riferimenti storici,
      risultano oggettivamente piuttosto maldefinite le relazioni tra Davos,
      FMI, stati – nazione e multinazionali; era più chiara, sotto questo
      aspetto, l'analisi sviluppata in Impero, anche perché qui è difficile
      intendere chi decida e che cosa decida e soprattutto non si spiegano i
      meccanismi reali che permettono il ricorso alla guerra che è una delle
      caratteristiche di un potere, anche se costituente. La guerra, tra le
      altre cose è una delle fenomenologie più importanti del nuovo potere
      imperiale. Insomma annoto un paradossale 'vuoto di potere' in questa
      analisi. 
      Per rimanere nell'apprezzabile concretezza viene ricordato il
      permissivismo monetario del FMI a favore della Turchia, nazione strategica
      per l'economia globalizzata a causa della sua frontiera medio orientale, e
      la quasi coeva inflessibilità verso l'Argentina della quale si provocò, a
      ragion veduta, il fallimento.
      Lo ribadisco: il nesso tra potere costituente mondializzato – capitalismo
      globalizzato – politiche belliche non è affatto chiaro nell'analisi di
      Negri e Hardt. Ciononostante gli autori individuano una fondamentale e
      innegabile contraddizione che percorre questo nesso non ben definito: se
      l'uso della forza militare non è più subordinato agli interessi nazionali,
      al vecchio refrain protezionista, ma all'esigenza ben più
      generale di rendere possibile la realizzazione del nuovo potere mondiale,
      e quindi alla nuova veste del libero scambio, proprio l'uso della guerra
      deve, con vero paradosso, fare nuovamente riferimento ai vecchi confini
      nazionali e spesso agli eserciti delle diverse nazioni, finendo per
      “ostruire i circuiti globali della produzione e del commercio – ossia le
      fonti dei macroprofitti” (p. 207).
      Potrebbe questo essere il prodotto di una malattia giovanile del
      capitalismo mondiale integrato o globalizzato ma anche un dato strutturale
      e non solo strutturante: l'uso della forza impone riferimenti al moderno,
      al pre – globale e in questo senso le istituzioni nazionali sono destinate
      a sopravvivere, magari in regime di farsa e in simulacro, ma a resistere.
      Credo che la percezione del 2015 confermi quella del 2004: il capitalismo
      mondiale dà l'impressione di essersi fermato a questo livelli di
      evoluzione. Come nel caso della sussunzione reale, dell'intero tempo di
      vita, è per me innegabile che una pausa simile si è verificata nella
      'rivoluzione geografica'. Così come la conservazione della separazione tra
      vita e lavoro è ancora utile al funzionamento dell'economia e alla
      realizzazione della sicurezza sociale, il mantenimento dell'ossatura della
      geografia tradizionale ha un ruolo nell'affermazione della 'nuova
      geografia'.
      La costituzione del diritto globale incontra un secondo ostacolo che è
      costituito dai nuovi orizzonti della proprietà privata. La produzione del
      capitalismo contemporaneo è in larga parte, come veduto, immateriale,
      riguarda i saperi, le conoscenze, gli stili di vita, gli stati d'animo, la
      propensione al consumo, l'informazione, la telematica e le tecnologie. Le
      tecnologie soprattutto, al contrario che nel passato, intervengono su
      settori produttivi immateriali nel loro stesso svolgersi: produzione di
      procedure informatiche, telematiche, genetiche che hanno innumerevoli
      campi di applicazione nell'agricoltura, nell'industria, nella medicina e,
      naturalmente, nella tecnologia stessa. La tecnologia, cioè, come da sempre
      contribuisce ad aggiornare sé stessa con una novità notevole: cambia la
      sua posizione dentro la società e l'economia poiché trasforma non solo i
      mezzi di produzione ma i saperi che stanno dietro la costruzione dei mezzi
      di produzione (non individua soltanto un nuovo utensile ma soprattutto un
      nuovo modo di usarlo, un nuovo contesto operativo).
      Il sapere tecnologico è diventato, molto più di prima, il motore dello
      sviluppo sociale ed economico, il controllo del sapere tecnologico si può
      esprimere attraverso la sua privatizzazione, equiparandolo a qualsiasi
      altro prodotto del lavoro, a tempo di lavoro, che si può monetizzare e
      comprare. La privatizzazione dei saperi, però, come ben descritto in Etica
      Hacker di Himanen, non aiuta la loro crescita e la loro riproduzione,
      anzi, precisamente come il confine e la dogana nel commercio, lo inibisce.
      
      Il sapere scientifico e tecnico nasce dalla cooperazione e collaborazione
      di molti soggetti, dal lavoro di una comunità di forza – lavoro nella
      sincronicità come nel corso del tempo. Il sapere scientifico è il
      risultato di un processo sociale e storico, una collaborazione tra
      generazioni (Euclide ha collaborato con Einstein), il cui filo si è
      dipanato più o meno liberamente, è stato legato a istituzioni più o meno
      autoritarie ma non è stato vincolato alla proprietà privata. Il rischio
      della privatizzazione sta nella rottura di quel filo e nella perdita di
      quel legame, alla fine spontaneo, tra interesse dello scienziato o
      dell'istituzione di ricerca ed esigenze sociali. Certo è che 'esigenze
      sociali' non è una locuzione 'neutra', lo scienziato indirizza la sua
      ricerca verso la parte più visibile e legittimata dall'apparato economico,
      la parte 'dominante' di quello ma, lo ribadisco, mantiene con quella una
      relazione spontanea e genuina. Nel momento in cui il sapere dello
      scienziato si trasforma in proprietà, il sapere informatico, genetico,
      bioingegneristico si codifica, il concetto si 'cripta' e si inserisce in
      una contesto specifico e limitato. Le esigenze sociali vengono sostituite
      dalle esigenze imprenditoriali. In un contesto simile diventa ancora più
      difficile esercitare quel controllo democratico sulla ricerca (soprattutto
      in campo genetico e medico) che Negri e Hardt auspicano in una società e
      una biologia integralmente artificiali come sono quelle contemporanee, che
      lasciano immaginare lo scenario dell'artificiale come il vero scenario
      naturale dell'umano.
      
      Martedì, 24 marzo
      
      Letture. Moltitudine. Tracce della Moltitudine.  E che tracce! Ci
      sarebbe da scriverne per giorni e non per ore.
      In questo paragrafo ci si imbatte in alcune tracce della Moltitudine che
      sono molto più che orme. Queste orme sono concetti vecchi ma recuperati e
      nuovi ma coerentemente messi in relazione con altri preesistenti. 
      L'abitudine e l'atto performativo, oppure quelli di privato, pubblico e
      comune sono i concetti entro i quali si può spiegare il 'movimento',
      l'evoluzione della Moltitudine e le coordinate del suo spostamento nella
      storia. 
      L'abitudine spiega la possibilità del cambiamento senza che si debba far
      riferimento a una soggettività libera e a un approccio idealistico; il
      concetto, ripreso dal pragmatismo di Dewey e James, descrive la
      possibilità di immaginare il cambiamento e la trasformazione nella
      coscienza, nell'immaginazione e negli stili di vita, rispettando un
      impianto materialista. È fondamentale questo sforzo per individuare una
      dimensione materialista in un contesto, come quello descritto intorno alla
      Moltitudine, per il quale la 'scelta' e l'eticità divengono, per certi
      versi, strategiche. Il pericolo di cadere in un'ottica 'volontarista', o
      peggio velleitaria, in un appello esclusivo alla libertà di scelta degli
      individui slegata dalla vera ed effettiva possibilità di operarla, pur
      presente, è evitato. La Moltitudine è strutturalmente produttiva, la
      produzione è la sua essenza, quindi inevitabilmente produttrice di scelte
      che sono però interpretabili come abitudini, cioè di quella cosa che “sta
      così a metà strada fra la stabilità delle leggi della natura e la libertà
      dell'azione soggettiva ( … ) dell'enorme volano della società, che
      fornisce stabilità e l'inerzia necessarie alla riproduzione sociale della
      vita quotidiana” (p. 230). L'abitudine, di per sé conservatrice, è
      un'esperienza sociale che ci viene comunicata dagli altri e che noi
      comunichiamo agli altri; il cuore dell'abitudine è la comunicazione
      sociale e l'interazione e quindi una caratteristica progressiva. Ancora
      più chiaramente si legge: “Le abitudini sono come una seconda natura, allo
      stesso tempo prodotta e produttiva, creata e creativa – un'ontologia della
      pratica sociale portata avanti in comune” (p. 231). L'atto
        performativo nasce nel momento in cui la componente progressiva
        dell'abitudine viene esaltata, fino al punto di suscitare una nuova
        abitudine e una nuova visione dei problemi, delle relazione delle
        interazioni sociali.
      Non vorrei sbagliarmi ma abitudine e atto performativo costituiscono il
      paradigma di un gradualismo rivoluzionario: il cambiamento di
      relazioni, passioni, desideri, dall'interno, a partire da relazioni,
      passioni e desideri precedenti che raggiungono un nuovo grado.
      
      Annotazione. [Tunisi e Torino] Tra confini e loro deformazione è quasi un
      lapsus freudiano pensare, come mi è capitato, l'attentato di
      Tunisi come l'attentato di Torino. Torino è stata a Tunisi, come Tunisi è
      entrata a Torino. È come se le due città si fossero incontrate, fossero
      entrate l'una nell'altra; il pensionato del Comune ucciso da un disperato
      della barriera, il museo del Bardo come il museo egizio. L' ISIS non è
      affatto capace di organizzare certe 'contaminazioni' transnazionali, di
      comprenderle e teorizzarle, ma è capace di cogliere, in maniera plebea e
      necessariamente rozza, sanguinaria e folle, l'impatto sull'immaginario di
      questa tattica, che è un prodotto spontaneo, non misurato. La non
      preordinazione, la spontaneità armata, produce il più forte impatto che si
      possa calcolare: è saltata l'organizzazione verticistica di Al Qaeda, la
      sua fine è stata realizzata, secondo il metro televisivo, dall'uccisione
      di Bin Laden nella squallida stamberga – rifugio nella quale è stata
      rappresentata la sua esecuzione capitale, ora è l'orizzontalità del
      califfato, ora è la rete telematica piuttosto che la verticalità del
      sistema televisivo, a essere usata nella rappresentazione dell'antagonismo
      islamico.
      I confini da sorgenti di benessere (tutela protezionistica del mercato del
      lavoro interno e delle sue regole, della legislazione sociale delle
      diverse nazioni, delle garanzie nazionalisticamente distribuite del welfare
        state) in ragione del protezionismo sociale sono diventati sorgenti
      e fonti di malessere: non garantiscono più la struttura nazionale del
      mercato del lavoro che si è reso permeabilissimo alla
      transnazionalizzazione e servono esclusivamente a legittimare e
      sperimentare l'armamento del nuovo capitalismo mondiale. I confini sono e
      saranno sempre più armati, saranno sempre più confini di guerra senza più
      essere confini nazionali e 'tradizionali'.
      
      Mercoledì, 25 marzo
      
      Annotazione. Non tutti i confini sono e saranno di guerra, ovviamente, ma
      solo quelli che passano e passeranno ai bordi della tettonica a zolle
      imperiale. Non esiste stabilità geologica in materia: il nuovo scenario
      del capitalismo globale integrato è dominato proprio dalla mobilità
      geografica. Pensiamo a come sia diventato una linea bellica il confine tra
      Ucraina e Russia, o quello mauretano oppure quello tra Tunisia e Libia. Le
      aree di crisi si ridislocano con una velocità impressionante.
      A proposito di malessere e benessere, la permeabilità, invisibilità e
      superamento dei confini nazionali e tradizionali sono elementi capaci di
      provocare ricchezze e comunicazione e un radicale rimescolamento delle
      tutele e delle regole del mercato. Questo fenomeno non è, però, libero e
      dunque lineare, non si svolge secondo la linea di una generale
      compensazione economica e neppure in una prospettiva naturale di
      un'elevata comunicazione e socializzazione. Avviene, invece, quasi il
      contrario rispetto a queste linee, tendenze e prospettive che, alla fine,
      si presentano come repertorio dell'utopia. I flussi migratori, i movimenti
      delle merci e le dinamiche del mercato del lavoro insistono sulla
      preesistenza nazionale o ancora di più sulle nuove geografie
      transnazionali (Unione Europea, CSI), creano gerarchie in quelle e
      producono, invece che socializzazione, una produzione, su scala mondiale,
      delle discriminazioni sociali che assumono sempre più spesso un aspetto
      etnico (per esempio in Campania l'operaio migrante non per il suo lavoro
      ma per il suo stato di straniero è pagato un quinto di quello indigeno) ma
      non solo e necessariamente.
      Questo non significa che, per evitare questo innegabile malessere uguale e
      contrario a quello provocato dalla conservazione dei confini, bisogna
      affidarsi alla nostalgia, sognando o peggio progettando un impossibile
      ritorno al passato: il passato non ritorna precisamente come non
        arriva il futuro arriva. Certamente non sarebbe una buona politica
      abbracciare le tesi di chi (come la Lega nord in Italia o il Front
      National in Francia e le svariate concentrazioni neo – naziste ungheresi,
      tedesche e inglesi) vuole fortificare e usare il malessere generato dalla
      permeabilità dei confini per il semplice motivo, semplice e anche
      banalissimo, che, nel contesto del capitalismo mondiale integrato (secondo
      la felice accezione usata e individuata da Deleuze), ricostruire i confini
      sul modello giuridico e costituzionale degli stati – nazione
      significherebbe chiudersi in una comunità di autoconsumo economico,
      sociale, culturale e comunicativo e non riuscirebbe a ripristinare lo
      stato – nazione. Lo stato – nazione, infatti, presupponeva la comunità
      internazionale mentre oggi la comunità internazionale, quella che era
      capace di creare moderata e misurata permeabilità dei confini, non esiste
      più.
      Se la tesi del benessere come possibile prodotto della definitiva
      affermazione del mercato mondiale integrato (sia come mercato delle merci
      che della forza – lavoro) è utopica, la tesi contraria, la teoria del
      ripristino, lo è altrettanto. 
      È comunque più grave e pericolosa la prima utopia che è, va aggettivata e
      qualificata, l'utopia del capitalismo imperiale. Esiste un'innegabile
      pulsione ideale, un'ideologia, del capitalismo contemporaneo, che si fonda
      su alcuni elementi, genetici e viscerali di quello. 1- Il capitalismo è
      l'unico sistema sociale possibile, la sua storia particolare coincide con
      la storia generale e la sua ontologia particolare con l'ontologia
      generale. 2 – Il capitalismo è l'unico sistema di dominio capace di
      governare la complessità delle forze produttive. 3 – Il capitalismo è
      l'unica dimensione realizzata dell'umano e dunque fonte indiscussa
      dell'etica, la relazione sociale che impone è naturale. 
      È chiaro che ai nazistelli nostrani ed europei, che hanno fatto di una
      recitata e demagogica opposizione al capitalismo globale (calcando la
      matita sulla parola globale, molto meno sulla parola capitalismo), questi
      tre assiomi provochino uno sturbo psicopsichico perché è ciò che
      vorrebbero ottenere, amare e sublimare del capitalismo senza, però,
      l'odiatissima  globalizzazione.
      Al contrario di questi interpreti della lotta al capitalismo segnata dalla
      nostalgia e dalla versione populista e demagogica del positivismo e
      nazionalismo ottocentesco, i teorici del capitalismo mondiale integrato
      non sono affatto classisti, razzisti o sessisti, anzi tutto il contrario;
      il capitalismo non propugna le discriminazioni etniche, sessuali o
      sociali, anzi, ne proclama l'abolizione quando non afferma addirittura di
      averle eliminate. I teorici del ripristino, insieme con il loro amato
      stato – nazione o stato – 'sottonazionale' (dipende dalle simpatie
      geografiche), allora, vogliono restaurarle e sono stati, sono e saranno
      capaci di provocare danni sociali e politici immensi ma mai, mai neanche
      per un istante, di controllare e governare (come promettono
      demagogicamente) il processo di sviluppo sociale ed economico.
      Il capitalismo, scrivevo, non propugna discriminazione ma la applica e la
      applica perché la deve applicare. Il sistema capitalistico è una relazione
      sociale di dominio: il suo stato è un relitto dello stato assoluto
      aristocratico e la proprietà privata dei mezzi di produzione, insieme con
      il concetto di possesso esclusivo privo di competitori, deriva dal diritto
      feudale (nemmeno da quello romano dove la proprietà, il praedium,
      era subordinata al diritto di prelazione dello stato: si possedeva a meno
      che, a determinate condizioni). Una tale generazione della proprietà
      privata, sia essa anonima o personalizzata (ma meglio la prima ai fini
      della sua completa libertà di azione e di espressione) richiede un
      apparato coercitivo strutturato tanto verticalmente quanto
      orizzontalmente; verticalmente perché la proprietà si concentra in alcune
      strutture decisionali, orizzontalmente perché si diffonde e segue lo
      sviluppo dell'apparato produttivo. Molte altre riflessioni 
      potrebbero essere aggiunte, ma qui interessa la base, la genesi e le
      viscere del sistema, del complesso capitalista. E sono queste poche, alla
      fine.
      La potenza dei flussi orizzontali, della crescita della produzione, impone
      l'esercizio della proprietà su quelli e quindi la continua sostituzione
      dei principi di utilità sociale e delle strategie che ne deriverebbero. Il
      capitalismo continua, quindi, a esercitare un controllo sulla crescita e
      sulla sua complessità e questo controllo non può, però, rimanere vincolato
      all'orizzontalità degli elementi produttivi e sociali e deve imporre una
      semplificazione gerarchica e una verticalità. Il mondo della produzione
      viene, così, segmentato in categorie qualitative (produzione d'eccellenza,
      di massa, ad alto contenuto tecnologico, a bassa tecnologia etc. etc.), il
      mondo della comunicazione in settori adeguati e inadeguati, il mondo delle
      etnie in gruppi o popolazioni sviluppate e arretrate. Si tratta di 
      diversità oggettivamente determinate, mai di differenze oggettive e
      sostanziali: le diversità possono rimescolarsi e cambiare il loro stato
      qualitativo (oggi l'arabo è in fondo, ieri lo era l'emigrato del
      meridione, domani sarà l'asiatico; oggi è il commesso del supermercato a
      lavorare nella bassa tecnologia, ieri era il bracciante agricolo, domani
      potrà invece esserlo l'impiegato dei servizi pubblici e privati)  e
      non sono mai date a priori ma sempre a posteriori. In questo senso il
        capitalismo è egalitario: la sua eguaglianza è l'intercambiabilità dei
        ruoli.
      Ma proprio così il capitalismo rinnega i suoi tre punti utopici: di essere
      l'ontologia della storia, di saper governare la complessità che produce e
      di essere il rappresentante dell'uomo davanti alla storia. L'apologia del
      capitalismo contemporaneo rispetto a questo momento critico è vecchia e
      semplice: la perseveranza del sessismo, la continuazione del classismo e
      la conservazione del razzismo non sono presentati come prodotti naturali
      del sistema, ma come il risultato di difficoltà storiche e di resistenze
      (arretratezze culturali ed economiche, opposizioni nazionalistiche e
      arcaicizzanti) perché il sistema sarebbe, altrimenti, democratico ed
      egalitario.
      La potenza di fuoco dei massmedia, sulla quale è superfluo e noioso
      soffermarsi su questo taccuino, guidata da questa ideologia, secondo le
      sue numerose declinazioni, ne ha sotterrato l'elemento utopico e ne ha
      fatto un elemento impropriamente realizzato, ma ancora di più la
      configurazione della rete telematica e della telefonia offrono la
      percezione e l'impressione, spesso la concreta esperienza, di questa
      democrazia ed eguaglianza come propositi non utopistici ma realizzati,
      almeno a tratti e parzialmente. Mentre i massmedia a comunicazione
      verticale analizzano e rappresentano il reale in funzione di questa
      utopia, quelli a comunicazione orizzontale e paritetica rappresentano la
      realtà di questa utopia.
      L'utopia del capitale è, però, doppia. Da una parte si manifesta (o meglio
      si nasconde) nello sviluppo naturale e ontologico del sistema economico e
      informativo globale, dall'altra parte nello sviluppo comandato e
      teleologico, là dove, cioè, il capitalismo si organizza come potenza
      cosciente per il controllo del processo sociale, che è cosa ben diversa
      dal controllo 'naturale e implicito' che contraddistingue il primo livello
      dello sviluppo. Qui il capitalismo ha percezione di quello che Hardt,
      Negri e Virno chiamano “Moltitudine”, come potenza dell'evoluzione e di
      un'evoluzione che si fa 'aliena', che applica l'ontologia, il governo e
      l'etica che non vengono applicate dal capitalismo, che, quindi, occupa gli
      spazi lasciati liberi, in questo ambito, dall'ideologia del capitale. In
      questo livello del confronto, piuttosto drammatico (e drammatico anche
      perché nel capitalismo contemporaneo è divenuto quotidiano), il capitale
      si oppone e fa resistenza, assumendo un ruolo frenante, rispetto a quelle
      che sono le sue componenti ontologiche e naturali: perseguendo il suo
      sviluppo, cioè la tendenza alla socializzazione dell'economia,
      all'allargamento della comunicazione, all'estensione coeva della
      comunicazione fino a negarne i limiti, all'interazione sociale sconfinata,
      è costretto a porre limiti a tutte queste bellissime e rivoluzionarie
      tendenze e deve, quindi, istituire limiti al suo sviluppo. Non mi
      stancherò mai di pensarlo: la patologia del capitalismo è la schizofrenia.
      È una contraddizione, questa, antica come il capitale stesso, scoperta da
      Marx un secolo e mezzo fa, ma che ora assume veste nuova perché il
      rappresentante dell'umano (il capitalismo si è sempre pensato sotto questo
      aspetto) per continuare a essere rappresentante dell'umano deve
      distruggere l'umano, come l'etica, per essere affermata sotto il suo
      dominio, è necessario che si ridicolizzi. Siamo entrati in una nuova e
      terribile fase del capitalismo durante la quale è un'immedesimazione
      organica e empatica tra umano e capitale, tra antropologia ed economia
      politica.
      Il disorientamento, la paura, le indecisioni e la percezione del rischio
      divengono struttura dell'ideologia del capitalismo mondiale integrato:
      pensiamo all'incessante rimescolamento massmediatico, alla propaganda di
      alcuni effetti ed eventi e subito dopo di altri effetti ed eventi, stati
      d'animo e subito dopo stati d'animo opposti, immagini che vengono unite
      con la tesi dell'evoluzione naturale, utopica e globalizzata del sistema
      economico e sociale e subito dopo le stesse immagini sono invece coniugate
      con la paura e l'angoscia e con la necessità del ripristino e del ritorno
      al passato: disorientamento, paura, indecisione sono elementi casualmente
      presentati e mescolati dentro una strategia molto precisa.
      Il capitalismo è un'intelligenza collettiva che non è più il prodotto
        della mediazione tra gli interessi individuali, perché il capitalismo ha
        superato l'individualità, le classi e i componenti, segmenti e frazioni
        di classe, ha superato anche la classe dei capitalisti; la sorgente
      della sua intelligenza collettiva è già essa stessa collettiva e quindi
      l'intelligenza e la sensibilità non può avere riferimenti con il
      collettivo (che è pur sempre un insieme di individualità, di ecceitas)
      ma con il generale. Il general intellect di Marx e la strategia
      del dominio del capitale sono la stessa cosa, o meglio fanno parte dello
      stesso processo intellettuale. Anche il dominio nelle forme politiche si
      presenta subito come intelletto generale. 
      
      Giovedì, 26 marzo
      
      Annotazione. Devo spiegarmi meglio il concetto di transnazionale
      nell'accezione da me utilizzata, che è perfettamente concorrente a quella
      che contraddistingue quella di globale. In breve l'etimologia ragionata è
      trans (oltre, al di là) nationem (nazione, comunità
      linguistica). La nazione è un limite ubicato nel passato, che è stato
      superato, ma che rimane presente nella contemporaneità, continuamente
      evocato.
      
      Letture. Moltitudine. Tracce della Moltitudine. Privato, come
      proprietà privata dei mezzi di produzione, dei prodotti e delle idee; pubblico,
      come proprietà privata dello stato, proprietà privata collettivizzata; comune,
      come momento particolare in cui i mezzi, i prodotti e le idee non hanno
      proprietà, non sono né privati né pubblici, come, secondo Marx, le merci
      del negoziante in attesa di essere vendute.
      
      Sabato, 28 marzo
      
      Letture. Moltitudine. La lunga marcia della democrazia. Si svolge una
      rassegna sulla storia del pensiero in materia di democrazia: dal
      superamento della concezione antica della democrazia come governo dei
      'molti', verso un'idea della democrazia come espressione istituzionale dei
      'tutti', sottolineando che anche questo allargamento di epoca moderna
      richiese delle significative esclusioni (donne e uomini privi di
      sostanze).
      La democrazia si manifesta, al contrario che nell'antichità, come
      problema. In primo luogo si presenta un problema organizzativo poiché la
      base territoriale della democrazia, in quanto governo di tutti, si
      estende, coincidendo con i nascenti stati nazionali, per i quali la
      tecnica assembleare usata nella polis greca o nel municipium
      dell'antichità romana, tipici del modello democratico della classicità,
      non sono applicabili. In secondo luogo la democrazia moderna pone un
      problema politico e nasce da un problema politico: la necessità di
      superare le guerre civili del XVII secolo (la guerra civile inglese,
      quella olandese e la terrificante guerra dei trent'anni in Germania) a
      causa delle quali la fondazione del potere sovrano su base democratica
      diviene fondamentale al fine di recuperare a un disegno collaborativo
      energie e processi sociali e politici altrimenti ingovernabili; secondo
      quanto scrivono gli autori: “La violenza dello stato di natura … è in
      realtà il distillato filosofico della guerra civile, proiettato nella
      preistoria o nella stessa natura dell'uomo. Alla sovranità moderna venne
      assegnato il compito di porre fine alla guerra civile [in nota è un
      riferimento a Hobbes]” (p. 276). In terzo luogo la democrazia è, nel XVIII
      secolo, tolte alcune eccezioni nel pensiero rivoluzionario francese
      (Giacobini, Cordiglieri e Sanculotteria), sostanzialmente minoritaria e
      l'istituto democratico viene veduto come una necessità, certamente, ma una
      necessità temuta. 
      Questi tre fattori (estensione territoriale, guerra civile e timore
      pregiudiziale) comportano una radicale revisione delle tecniche
      democratiche dell'antichità (basate più o meno su una democrazia diretta e
      un mandato imperativo nella rappresentanza) e anche delle riflessioni
      sull'argomento di Spinoza. A parte la breve (formidabile e commovente)
      parentesi  giacobina, il modello democratico egemone fino al punto di
      essere oggi sinonimo di democrazia è quello che Max Weber definisce di
      rappresentanza libera, contrapposto a quello appropriativo e vincolato.
      Nel modello rappresentativo libero, il rappresentante viene periodicamente
      eletto dal rappresentato, ma nell'esercizio della sua magistratura è
      completamente libero dal corpo elettorale: ha completa autonomia di azione
      di giudizio (al contrario che nel modello di democrazia vincolata, il cui
      riferimento può essere il mandato imperativo richiesto e a tratti
      praticato da alcuni gruppi giacobini e dagli arrabbiati durante la grande
      rivoluzione).
      La democrazia 'globale' ha il compito, secondo gli autori, precisamente
      come la democrazia nazionale del XVII – XVIII secolo, di affrontare la
      guerra e di risolverla, ma si tratta di ben altro tipo di guerra e di
      fondazione. Il problema è che non si trovano idee precise in merito, né
      tra i detrattori residuali, ma consistenti e lo ripeto dannosisssimi,
      della transnazionalizzazione (che si limitano a propugnare il ritorno alla
      dimensione nazionale della politica e delle istituzioni costituzionali) né
      tra i fautori dello sviluppo della globalizzazione. Il rischio
      oggettivo  è che, per usare le categorie costruite da Max Weber, la
      democrazia 'globale' si avvii a essere un'istituzione a rappresentanza
      appropriata e patriarcale (cioè non elettiva ma cooptativa sui precedenti
      istituiti elettivi).
      
      Letture. La Moltitudine. Le richieste globali di democrazia. Si registra
      l'estrema debolezza, se non la completa illusorietà, della costituzione di
      strutture di potere globali che siano espressione di una legittimazione
      democratica. La formalizzazione di istituzioni di diritto internazionale
      (le thrue commissions, i tribunali internazionali e il tribunale
      penale internazionale) vivono due  contraddizioni, una implicita e
      l'altra esplicita. Sotto il profilo implicito e ontologico queste
      istituzioni non hanno un diritto univoco al quale fare riferimento ed è
      spesso la contingenza a dettare le forme del giudizio. Sotto il profilo
      esplicito questi istituti e il loro operato non possiedono un
      riconoscimento obbligato, ma presuppongono solo un'adesione volontaria
      alle loro delibere dei singoli stati – nazione. Caso emblematico fu quello
      del contenzioso sorto tra il Nicaragua sandinista e gli USA, nel quale il
      tribunale condannò gli Stati Uniti ma l'amministrazione USA non riconobbe
      legittimità alla sentenza e al tribunale.
      Questi istituti, inoltre, finiscono per essere solo uno strumento per
      registrare i rapporti di forza tra gli stati nazionali, legittimando il
      ruolo egemonico a livello transnazionale di alcuni stati e a posteriori
      l'uso della forza da parte degli immancabili vincitori.
      Banca Mondiale e FMI sono ben lontani dall'essere strutture di
      rappresentanza democratica come pure l'Assemblea Generale dell'ONU con un
      voto concesso  a ogni singolo paese, indipendentemente dal suo volume
      demografico o, aggiungo io, dalla considerazione, almeno formale, della
      effettiva democraticità del suo governo. Alla fine, secondo Negri e Hardt,
      che scrivono nel 2004, ma anche secondo me che penso nel 2015, decisiva è
      stata l'esportazione 'imperiale' di alcuni istituti giuridici statunitensi
      allo scopo di preservare lo 'stato di diritto' della globalizzazione. In
      questo contesto la 'democrazia globale' rimane una chimera lontanissima e
      una mistificazione vicinissima e concreta. La richiesta magmatica,
      scoordinata ma autentica di democrazia globale da parte dei movimenti
      degli anni novanta del secolo passato è, solo per questo, stata
      dirompente; una richiesta che non si può, ancora una volta, legare al
      rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali ma al loro
      superamento. Gli stati – nazione assumono ormai, in qualsiasi punto
      gerarchico si collochino, un freno alla possibilità dello sviluppo della
      democrazia.
      In primo luogo sono necessariamente un freno in quanto “ Uno degli effetti
      della globalizzazione è che alcuni leader nazionali, indipendentemente dal
      fatto che siano o non siano stati eletti, acquisiscono sempre più potere
      al di fuori dei loro stati …” (p. 314). In secondo luogo “Gli stati si
      adeguano alle istanze del capitale … per paura di essere declassati
      all'interno del sistema globale” (p. 324).
      Se consideriamo democrazia il contesto parlamentare ed elettorale
      sviluppato, bene o male, nei paesi capitalistici egemoni, la sua
      globalizzazione è decisamente lontana, come l'esempio offerto nel XVII e
      XVIII secolo dai parlamenti feudali era ben lontano dal paradigma di
      democrazia al quale si ispirava la borghesia. Per di più l'11 settembre
      2001, la guerra del golfo e, aggiungo io, l'implosione del capitale
      finanziario e la conseguente grande depressione del 2008 hanno spento la
      forza propulsiva del movimento 'no global' nel campo delle richieste
      democratiche, come in molti altri terreni politici. Persino le iniziative
      ispirate dai paradigmi ecologisti e informativi, centrali negli anni
      novanta, sono rifluite, localizzandosi nuovamente e perdendo il necessario
      e costitutivo orizzonte transnazionale. Anche se gli autori, andando
      contro a quasi tutta la tradizione marxista, riconoscono un carattere
      'progressivo' e profetico alla finanza, che sarebbe stata capace di
      immagazzinare, astraendole all'ennesima potenza, le risorse produttive e
      attraverso questa astrazione di progettare il futuro, dopo il 2001 / 2003
      il segno della 'globalizzazione' si è fatto radicalmente regressivo e
      apertamente repressivo, apertamente sospettoso verso il suo stesso
      progresso, vincolato alla supremazia militare di alcuni stati – nazione
      (USA capofila) e in molti casi volto a una sorta di de – globalizzazione
      di facciata, che, in parte, sembra dare ragione ai nuovi nazionalismi e
      alle riterritorializzazioni neo – naziste.
      Dentro questo nuovo contesto è, però, ancora valido ciò che scrivono gli
      autori a proposito della trasformazione possibile: “Al giorno d'oggi non
      c'è alcun conflitto tra riforma e rivoluzione. Ciò non significa che
      riforma e rivoluzione sono la stessa cosa, ma che nelle condizioni attuali
      non possono essere separate … È inutile romperci il capo per capire se una
      proposta è riformista o rivoluzionaria ...” (p. 336).
      
    
    rivedi marzo
                      
        Inizio anno
               
          
          
        Mercoledì, 1 aprile
      
      Letture. Moltitudine. Le richieste globali di democrazia. La costituzione
      di una forma di rappresentanza democratica su scala globale non è solo
      illusoria ma in contraddizione con i principi della democrazia.
      L'estensione della democrazia elettiva e parlamentare dalla dimensione
      nazionale a quella mondiale comporterebbe necessariamente la costituzione
      di circoscrizioni elettorali forti di decine di milioni di elettori,
      secondo una distrettazione difficile da disegnare e in generale la
      rappresentatività degli eletti sarebbe, davvero, bassa. È quindi
      necessario immaginare altri modelli rispetto a quello elettorale –
      distrettuale – rappresentativo. In buona sostanza gli spazi per la
      democrazia in un contesto globalizzato, gli spazi per una democrazia che
      sia rappresentativa della globalizzazione secondo le forme tradizionali
      per gli stati – nazione, sono veramente esigui e rasentano la
      fantapolitica ovvero la fantascienza.
      Epperò per Negri e Hardt il problema della democrazia e della lotta per la
      democrazia globale è fondamentale. La sua importanza non risiede solo nel
      'bisogno' di democrazia espresso dai movimenti transnazionali degli anni
      novanta ma nel fatto che, come in più punti affermato, lo sviluppo
      economico e produttivo del capitalismo globalizzato presuppone e richiede
      procedure democratiche su molteplici livelli. A livello elitario, le
      'aristocrazie globali' (le grandi multinazionali, gli stati nazionali
      egemoni) richiedono una condivisione amministrativa delle istituzioni
      globali o meglio fanno richiesta della loro formazione. A livello 'di
      base', le popolazioni che, a diverso titolo e secondo una diversa
      gerarchia, sono coinvolte nella globalizzazione, propongono la necessità
      di un controllo democratico su quella e sulla distribuzione delle risorse,
      che spesso può essere tangente alla necessità di condivisione avanzata
      dalle nuove élite dell'epoca 'imperiale'. Sotto questo profilo Negri e
      Hardt ipotizzano anche la possibilità di un'alleanza tattica tra
      aristocrazia imperiale e Moltitudine: l'allargamento della rappresentanza
      dentro la costituente imperiale (il passaggio, per esempio, dalla formula
      del G8 al G20) può essere un transitorio momento di comune aspirazione.
      Il grande ostacolo alla definizione di una struttura giuridica imperiale,
      però, è l'unilateralismo americano che usa le politiche e le economie
      transnazionalizzate per rivendicare la guida del processo costituente.
      Nello stesso momento in cui lo fa attenta alla costituzione imperiale: la
      guida rinnega la sua direzione. L'opposizione aristocratica propone, al
      contrario, una guida multilaterale che sarebbe più adeguata (e anche
      necessaria perché gli Stati Uniti non sono in grado di amministrare il
      processo da soli) alla struttura reticolare dell'impero e alla sua
      direzione.
      Le contraddizioni esistenti (ancora oggi) tra USA e UE, tra Russia e Cina
      rappresentano bene questa opzione multilateralista, come, su un altro
      livello (quello delle élite), la critica di gran parte del mondo
      finanziario ed economico a certe intraprese unilaterali statunitensi
      (soprattutto in occasione della seconda guerra del golfo). Insomma quelle
      che, un tempo, sarebbero state definite contraddizioni interimperialiste
      sono tutte riconducibili alla contrapposizione sorta intorno alla forma
      che dovrà assumere il governo imperiale, ovverosia la guida politica del
      capitalismo mondiale integrato. E se alle nazioni imperialiste si è
      sostituito un insieme nazionale integrato, secondo logiche unilaterali o
      multilaterali (questo, tutto sommato, è un dettaglio di grandissima
      rilevanza storica ma sotto il profilo dell'analisi generale del processo
      ininfluente), allora questo insieme nazionale integrato deve affrontare
      non più il complesso dei popoli ma un insieme integrato di popolazioni, di
      diversità e di singolarità, la Moltitudine.
      Secondo Negri e Hardt inoltre l'unilateralismo statunitense (stanno
      scrivendo nel 2004) non può riassumere e governare la complessità dei
      problemi, così il multilateralismo via via propugnato da parte dell'Unione
      Europea (emblematico ancora oggi il caso tedesco) non risolvono la
      complessità della sfida imposta dalla 'globalizzazione' del capitalismo.
      Alla fine sia unilateralismo che multilateralismo sono relitti del passato
      e fanno riferimento a tradizioni geo – politiche, a punti di vista di
      comodo, incapaci di descrivere autenticamente l'implosione dei confini
      nazionali, il declino della loro stabilità, il venir meno della loro
      verità: “Oggi la geopolitica imperiale non ha né un centro né un fuori: è
      una teoria delle relazioni interne al sistema globale” (p. 374).
      C'è qualcosa, quindi, che il dominio capitalista medesimo su questo
      processo denuncia: l'irriducibilità del nuovo assetto economico e
      produttivo agli schemi della politica classica e quindi della democrazia
      classica. Da una parte le aristocrazie imperiali lavorano per un
      allargamento degli organismi collegiali e della decisionalità secondo un
      modello che è solo lontanamente affine a quello della democrazia
      rappresentativa, nella sua versione appropriativa (secondo lo schema di
      Max Weber), dall'altra parte le forze produttive sviluppate nel nuovo
      paradigma della Moltitudine acquisiscono una nuova immagine della
      democrazia: la democrazia come necessità, come base naturale della nuova
      forma della produzione sociale. Citando Spinoza, gli autori scrivono,
      infatti, che: “La grande maggioranza delle nostre interazioni politiche,
      economiche, affettive, linguistiche e produttive sono sempre basate su
      relazioni di natura democratica. Talvolta queste pratiche vengono
      caratterizzate come formazioni spontanee, altre volte le intendiamo come
      tradizioni e abitudini, ma in verità si tratta dei processi di scambio,
      comunicazione e cooperazione democratica che sviluppiamo e trasformiamo
      giorno dopo giorno … È proprio questa la ragione per cui, secondo Spinoza,
      le altre forme di governo sono distorsioni e limitazioni della socialità
      umana, mentre la democrazia è il suo solo e unico compimento naturale” (p.
      362). 
      
      Annotazione. Se nel 2004 certamente era predominante l'unilateralismo
      statunitense dentro il quadro geopolitico imperiale, oggi, per la mia
      personalissima impressione, è il multilateralismo a prevalere, complici
      molti fattori.
      In primo luogo elementi 'strutturali' quali il sostanziale fallimento
      (ormai registrato anche a livello massmediatico) dell'occupazione di Iraq
      e Afghanistan che hanno frantumato i relativi stati – nazione, generando
      nuove 'nazioni' fondate sul riconoscimento etnico e/o religioso, e gli
      effetti della depressione del 2008 che ha reso insostenibile il peso
      economico della guerra in medio oriente per gli Stati Uniti.
      In secondo luogo un elemento 'ideologico', vale a dire, la presidenza di
      Obama, che ha saputo prendere atto dell'esistenza di questi due fattori e
      ha agito di conseguenza. Gli Stati Uniti stanno ripercorrendo e
      rivalutando gli strumenti di una gestione multilaterale delle
      problematiche globali.
      In questo contesto l'Unione Europea ha recuperato una dimensione 'globale'
      attraverso una simmetrica collaborazione con gli Stati Uniti, simmetria
      che la seconda guerra del golfo aveva interrotto, che si fonda (secondo i
      vizi di fondo della 'costituzione materiale europea') in un'adesione alle
      strategie politiche del FMI e della Banca mondiale, che sono condivise
      dagli Stati Uniti. Russia, Cina e India possiedono un ruolo di
      superpotenze con raggi che si estendono sul medio ed estremo oriente.
      Dentro questo contesto inizia a delinearsi embrionalmente un'unità di
      intenti sovranazionale in medio oriente (Egitto, Siria e Giordania) alla
      quale si contrappone il desiderio egemonico sull'area espresso dall'Arabia
      Saudita e dall'EAU. Qui per via della Russia (che ha costituito un suo
      asse di interesse geo – politico tra Siria e Iran), degli Stati Uniti (che
      hanno costituito un asse Egitto – Giordania – Arabia Saudita) abbiamo la
      sovrapposizione e compenetrazione delle alleanze secondo un gioco
      sistemistico.
      Nel 2015, rispetto al 2004 descritto in Moltitudine, la tettonica a zolle
      geo – politica si è dispiegata quasi pienamente. Non esistono più le
      condizioni per l'unilateralismo statunitense e il multilateralismo,
      affermandosi, enfatizza la mancanza dei suoi presupposti, vale a dire aree
      di interesse geo – politico stabilmente delineate.
      È chiaramente un'interpretazione basata su pochi dati empirici.
      
      Giovedì, 2 aprile  
      
      Ai margini. Moltitudine e Impero. La costituzione imperiale sembra essersi
      congelata. Dopo una prima fase di sviluppo segnata dal crollo del muro,
      dalla prima guerra del golfo e dalle operazioni nei Balcani e in Africa
      orientale (Somalia) e contrassegnata dal multilateralismo e dopo una
      seconda fase, distinta dalla seconda guerra con l'Iraq e l'invasione
      dell'Afghanistan e contrassegnata dall'unilateralismo statunitense, la
      costituzione si è fermata, fermata fino al punto di indurre il sospetto
      che lo stesso processo di costituzione imperiale fosse apparente e quasi
      un prodotto di un'ideologia e di una costruzione narrativa massmediatica
      della quali Negri e Hardt rappresenterebbero, allora, la versione critica
      e antagonista. Senza abbracciare tesi generali e definitive potrebbe
      essere legittimamente individuata quantomeno una combinazione tra fattori
      storici e valutazioni politiche che hanno fermato l'innegabile processo di
      transnazionalizzazione governata e determinata politicamente, vulgo
      globalizzazione politica, inauguratasi in forme conclamate negli anni
      ottanta del secolo scorso.
      Si è, inoltre, venuto a delineare uno scenario paradossale e, per certi
      versi, 'schizofrenico'.
      Da una parte il processo di globalizzazione ha continuato a lavorare alla
      delegittimazione della sovranità nazionale, subordinando sempre più
      rigorosamente le politiche economiche e finanziarie dei singoli stati –
      nazione alla validazione degli organismi internazionali (Fondo monetario
      internazionale e Banca mondiale), dall'altra parte, però, l'unilateralismo
      statunitense, espressosi pienamente nel primo decennio di questo secolo,
      ha puntato, per sua stessa natura, alla diminuzione delle prerogative
      dell'ONU e del Consiglio di Sicurezza, percepiti come inutili ingombri e
      relitti del passato.
      Infine l'insorgenza della grande depressione dell'anno otto ha imposto il
      ridimensionamento del protagonismo statunitense ma la profondità e
      ampiezza della crisi economico – finanziaria hanno impedito la
      ricostituzione di un autentico piano multilaterale, poiché alla crisi
      americana ha corrisposto la crisi finanziaria mondiale: nessuno stato –
      nazione è passato indenne da quest'esperienza eccezion fatta per la
      Germania. Se la Germania ha quasi ignorato la crisi in quanto stato –
      nazione, certamente, però, non l'ha potuta ignorare in quanto stato
      sovranazionale: la capacità tedesca di pilotare l'economia dell'Unione
      europea ha evitato l'impatto della crisi alla Germania come stato –
      nazione, ma ha colpito l'economia del resto dell'Europa e, quindi, alla
      fine anche quella tedesca. La Germania ha evitato i danni diretti ma non
      quelli indiretti della pessima congiuntura economica degli ultimi sette
      anni: per così dire la Germania ha virtualizzato la crisi.
      In un contesto simile gli anni dieci di questo nuovo secolo paiono
      dominati, in geo – politica, da un multilateralismo debole, debole in
      ragione del fatto che sono venuti a mancare a quello due sponde basilari:
      una definizione forte dello stato – nazione e istituzioni legittimate a
      livello internazionale. Gli stati – nazione hanno continuato a
        subordinarsi agli istituti internazionali, mentre gli istituti
        internazionali, delegittimati, non possono offrire garanzie agli stati –
        nazione.
      Lo scenario, ribadisco la clinica, è schizofrenico: lo stato – nazione non
      riesce più a vivere di luce propria ma non esiste altra luce alla quale
      attingere.
      Questo genere di multilateralismo, allora, rischia di tradursi in
      un'estrema frantumazione e friabilità, dove le gerarchie imperiali e la
      tettonica a zolle geo – politica si compenetrano in maniera confusa e
      scoordinata. A mio pare si tratta di una malattia di passaggio, come molte
      altre analoghe nella storia. Non so se la mia analisi possa dirsi corretta
      ma spero sia sufficientemente chiara.
      
      Venerdì, 3 aprile
      
      Ai margini. Moltitudine e Impero. Un'ultimissima considerazione intorno al
      congelamento dell'evoluzione imperiale, almeno sotto il profilo
      istituzionale. Se esiste (ed esiste) isomorfismo tra forze produttive,
      rapporti di produzione e sistema politico, allora va introdotta un'altra
      causa per questo rallentamento nella costituzione del capitale
      transnazionale, la sua 'intelligenza' e progettualità. Come scritto
      altrove in questi appunti, il capitalismo, giunto a questo punto del suo
      sviluppo, lo teme coscientemente; non può fare a meno di svilupparsi ma
      proporzionalmente è consapevole dei rischi, relativi alla sua stessa
      sopravvivenza, di questo sviluppo. Il capitalismo mondiale integrato si
      contrappone al suo stesso sviluppo, obliterandolo attraverso la guerra e
      la crisi. Il capitalismo, quindi, si sviluppa nella guerra e nella crisi
      economica, perché non può fare altrimenti che così.
      È ovviamente una mia ipotesi o meglio una tesi confortata da pochissimi
      indizi: il capitalismo mondiale integrato, insomma il mondo imperiale di
      Negri e Hardt, pur detestando i limiti e avendoli concretamente dissolti,
      li ricrea, interiorizzandoli, nella forma della guerra e della crisi
      economica e finanziaria. Secondo questa tesi, la crisi e la guerra da
      strumenti tradizionali dello sviluppo, da motori del progresso sistemico,
      sono diventati i freni alla briglia del cavallo. In questo contesto i
      confini nazionali, inutili e dannosi sotto il profilo dello sviluppo
      economico, ritornano a essere utili, non riuscendo, però, a essere 'gli
      stessi confini'. Come il limite è diventato un'illusione e una
      mistificazione, così i confini non si basano su di un'esigenza reale e una
      concreta diversità quanto, invece, sulla volontà di rappresentarli.
      Il capitalismo globale ha bisogno di riterritorializzare, di
        inventarsi una nuova tradizione geografica, geopolitica ed etnica e di
        ricombinare continuamente la storia delle etnie e delle popolazioni.
      Tutto questo apre nuove geografie ma produce nuovi limiti, più deboli, non
      più 'strutturali', ma pur sempre limiti.
      Il capitalismo è come la schizofrenia: l'inclinazione a essere ciò che non
      si deve essere e dentro alla lotta e alla resistenza verso “ciò che non si
      deve” vengono fuori, inevitabilmente, elementi paranoici e ossessivi. La
      paranoia del capitalismo è quella di subire la persecuzione da sé medesimo
      e di costituire religioni, etnie e storicità rappresentate che riproducano
      il limite e allontanino definitivamente l'illimitatezza, cioè a dire, la
      libertà. Il fatto di rivedere la storia, interpretare le radici etniche,
      rileggere il territorio, riconfigurando tutte queste cose, è nel
      patrimonio genetico del capitalismo che ha sempre inteso di ridiscutere il
      mondo e di rimodellarlo. Lo ha fatto non in maggior misura dei sistemi
      sociali precedenti ma in maniera diversa. Mentre nelle epoche pre –
      capitaliste l'attualità in sé stessa era una serena prosecuzione del
      passato, anche a costo di mistificarlo, nell'epoca moderna il passato è
      un'altra cosa e l'attualità è rottura consapevole con la storia
      precedente. Il capitalismo è stato e si è pensato come sorgente della
      storia. Anche se ha ereditato moltissime istituzioni politiche, sociali e
      giuridiche dalle epoche precedenti, forse ancor di più di quanto quelle
      non avessero fatto a loro volta, e dunque si è presentato alla storia come
      una forza tradizionalista e conservatrice, ha, però, inteso prendere
      possesso della storia e del mondo e di fare di ciò che era prima di lui
      qualcosa di radicalmente differente.
      Quindi l'aspetto schizofrenico è costitutivo: reinventare il passato, la
      storia e il mondo, rimescolare le tradizioni e le istituzioni; ma lo è
      anche quello paranoide che desidera legare queste tradizioni al presente,
      non compiendo opera mistificatoria ma reinventandole, donando a quelle
      nuove forme che devono essere scambiate con quelle originali. Il
      capitalismo ha sempre infatti preteso di esprimere la verità sulla storia,
      sulla società e sulla politica.
      Quello che rende assoluto l'aspetto schizofrenico e paranoico del
      capitalismo contemporaneo sta nel fatto che il suo raggio di azione
      economica si è esteso alle relazioni umane, come già Debord e i
      situazionisti prima di Negri avevano intuito. Alcuni di quelli chiamarono
      tutto questo 'capitalismo reale' termine che si congiunge con la
      'sussunzione reale' del lavoro profetizzata da Marx. Il capitalismo reale
      è la fase in cui nulla, neanche le emozioni, gli stati d'animo, gli
      affetti e le relazioni umane sono esterne e sconosciute al dominio del
      capitale.
      La schizofrenia e la paranoia del capitale, allora, si sciolgono dal
      capitale medesimo, dal capitalismo come fatto economico, vivono quasi al
      di fuori di quello, guardandolo come un altro da loro, come un oggetto. Il
      flusso massmediatico, tanto quello monocratico, quanto quello policratico
      descrivono il sistema capitalistico non più come sistema sociale e
      politico, esigono di andare al di là della sua determinazione storica e
      spesso la criticano per affermare un'assolutezza che si manifesta,
      naturalmente, al di fuori del sistema, che è l'elemento fondante del
      vivere associato. Il lavoro attuale dei media, vecchi e nuovi, è compiuto
      in maniera indipendente dai rapporti di produzione, che suscitano spesso
      fastidio, è assolutamente dipendente, invece, dalle relazioni umane e
      sociali, da tutto quello che allontana la visione del sistema come
      sistema. Gli atteggiamenti schizofrenici e paranoici insieme con le nuove
      ideologie a quelli collegate divengono, allora, prodotti naturali delle
      relazioni sociali e umane e vengono rappresentati e descritti come il
      risultato di una malattia comunicativa e relazionale e non come il
      risultato della sovradeterminazione dello sviluppo da parte del dominio e
      delle gerarchie e delle discriminazioni tra popolazioni e geografie. Il
      sistema non esiste e anche gli eventuali nemici non hanno un sistema:
      tutto è determinato dalla casualità delle combinazioni umane. Lo
      spettacolo dell'umano sotterra la realtà dell'umano, lo spettacolo di un
      mondo privo di sistema di comando, nasconde la concretezza del comando,
      dandone una rappresentazione apparentemente concreta.
      Proprio perché, come gli autori di Moltitudine e Impero, sono persuaso di
      una definitiva estensione del campo d'azione del sistema capitalistico,
      sono ugualmente convinto del fatto che lo 'spettacolo del capitalismo'
      come rappresentazione di un sistema senza sistema e dunque di un complesso
      di umanità, di relazioni sociali e interazioni sociali abbia un fondo di
      realtà, anzi sia innervato dalla realtà delle cose, cioè dalle relazioni
      concrete stabilite dagli individui o dai gruppi di individui nel corso del
      ciclo produttivo. Il versante schizofrenico del capitalismo, qualora sia
      liberato dalla sua paranoia e quindi dal timore di sé stesso, è anche il
      versante lungo il quale si può sviluppare il movimento del valore d'uso,
      anzi quello sul quale il capitalismo è già diventato, con orrore dei suoi
      strateghi e filosofi più avveduti, il movimento del valore d'uso.
      Per riprendere la terminologia usata in Moltitudine il concetto di
      'comune', mistificato come 'pubblico' e ridotto a rappresentazione
      massmediatica delle relazioni sociali, cessa di essere un luogo del 'non
      privato', abbandonato dal privato ma non appropriato dal collettivo, un
      terreno, quello del comune, sospeso che preconizza la libertà nella
      proprietà, per poi riportarsi verso l'antica libertà della
      proprietà,  un terreno neutro, una zona grigia, che ammanta di
      libertà il seguente momento di appropriazione privatistica e lo giustifica
      in tal senso (con le parole della libertà imprenditoriale); smette di
      essere il luogo di una 'comunità' potenziale, svelando la sua attualità
      attraverso la critica alla privatizzazione del comune.
      Il movimento del valore d'uso, continuamente ricondotto allo scambio,
      resiste e permane come momento d'uso, evitando, inoltre, la trappola della
      sua trasformazione in proprietà pubblica, del suo 'farsi stato'. Il
      movimento del valore d'uso non è pubblico né privato, non si avvicina né
      al diritto pubblico né al diritto privato, non costituisce un diritto e
      una giurisprudenza (malgrado se ne serva) ma afferma una pragmatica
      comunicativa, distributiva e creativa. Il sistema, allora, davvero non
      esiste più perché tutto è diventato cooperazione, collaborazione e
      produzione di cooperazione e collaborazione.
      La schizofrenia è stata oltrepassata, il capitalismo non teme più
        l'illimitato, non ha più limiti: non è più capitalismo.
      
      Sabato, 4 aprile
      
      Annotazione. Mi pare appropriato descrivere una critica definitiva
      all'idea tradizionale di rivoluzione e soprattutto di 'percorso
      rivoluzionario', riprendendo alcune riflessioni di qualche giorno fa e la
      memoria di alcuni appunti perduti (sull'umanesimo comunista e, non a caso,
      su qualcosa che all'epoca, a metà degli anni ottanta chiamai, certamente
      con dubbio gusto, “riformismo rivoluzionario”), riflessioni emerse proprio
      nel corso della lettura di Moltitudine e nel tentativo di dare a questa
      un'interpretazione valida oltre la contingenza, al di là, cioè, del 2004 e
      del dispiegarsi del 'movimento dei movimenti'.  È necessario mettere
      definitivamente al bando (e so che questo disgusterà molti come me) l'idea
      di una trasformazione della società eseguita attraverso tecniche
      rivoluzionarie. Per tecniche rivoluzionarie intendo quelle composte da tre
      momenti e / o componenti: la costruzione di un partito, la strutturazione
      di un contro – potere istituzionale e il finale abbattimento dello stato.
      Questi tre costituenti sono sempre stati considerati come fasi storico –
      politiche precise e momenti ben individuati della lotta politica e la
      lotta politica è stata pensata sulla loro base.
      Oggi, però, la politica è un'altra cosa, come ben descritto da Negri e
      Hardt in Moltitudine “Nell'orizzonte dell'Impero … la guerra, la politica,
      l'economia e la cultura diventano un modo di produzione unificato della
      vita sociale della sua globalità … Avvalendoci di un lessico diverso,
      potremmo dire che, nell'Impero, il capitale e la sovranità tendono a
      sovrapporsi” (p. 385). Ancora più illuminante, specifico e diretto è Virno
      nella 'Grammatica della Moltitudine' quando registra il fatto che la
      politica è diventata il repertorio di un esercizio virtuosistico, un'arte
      da solisti della retorica, giacché le decisioni politiche non sono più un
      prodotto della politica ma nascono altrove nella produzione e cooperazione
      sociale. La politica, allora, aggiungo io, diviene sempre più la
      rappresentazione mistificata della decisionalità, la spettacolarizzazione
      e rappresentata personalizzazione (secondo la 'individualizzazione e
      umanizzazione' massmediatica e televisiva) delle risoluzioni adottate dal
      complesso economico e produttivo. Se, continuo ad annotare, in epoca
      moderna la politica aveva determinato e suscitato la nascita e la
      creazione degli organi informativi di massa (dalle numerose tribune a
      stampa giacobine alle televisioni di stato), già nell'ultima fase del
      capitalismo industriale e  a maggior ragione nella post – modernità
      la relazione si è rovesciata: sono i media, oggi, a suscitare e sostenere
      l'apparato politico che, senza di quelli, non esisterebbe più e sarebbe
      privo di qualsiasi senso compiuto. Prima, cioè, il senso della politica
      era una complessità che proveniva dalla società e che generava, comportava
      e informava i media e la comunicazione di massa, ora, invece, il senso dei
      media, lo spettacolo, informa e compone la politica che è, in massima
      parte, un prodotto massmediatico; lo spartiacque storico di questo
      processo fu, in Europa, l'esperienza in materia di comunicazione di massa
      maturata da nazismo e fascismo e, negli Stati Uniti, dal new deal
      roosveltiano. È un fatto innegabile che questo rovesciamento si sposi alla
      perfezione con l'indebolimento della sovranità nazionale e della
      rappresentanza politica a quella connessa.
      La fine della politica non provoca solo il tramonto dell'ipotesi
      rivoluzionaria e dei suoi percorsi ma anche e, forse ancor di più, di
      quella del riformismo tradizionale, ipotesi nelle quali sovranità e
      rappresentanza cambiavano di segno, perché oggi non esiste una possibilità
      di esprimere una sovranità e una rappresentanza in senso tradizionale.
      Buttare a mare Lenin non significa, però, glorificare Bernstein, proprio
      perché l'ipotesi riformista, con i suoi riferimenti continui alla
      rappresentanza e alla sovranità nazionale o anche sovranazionale, esce
      ancor di meno da una rappresentazione della politica come riduzione del
      molteplice all'unità, che, almeno, nel pensiero rivoluzionario si
      presentava come necessaria ma non costituiva. Non si tratta, quindi, di
      rivalutare la trama di strategie e mediazioni (necessariamente e spesso
      ipocritamente illusorie) che hanno innervato il pensiero riformista fino
      (per rimanere vincolati ad esempi italiani) a Nenni, Togliatti, Berlinguer
      e De Martino. 
      C'è  un'ulteriore valutazione in proposito. Nel tardo capitalismo
      industriale e ancora di più in quello contemporaneo, per sua stessa
      struttura, lo sviluppo del capitale non concede margini di mediazione e
      oscillazioni dentro una forbice di opportunità di sviluppo perché non
      esiste più la forbice e lo sviluppo si volge secondo una retta – limite e,
      inoltre, il contesto dell'azione politica si è spostato in due direzioni e
      cioè o verso la rappresentazione massmediatica o verso la concretezza del
      vivere sociale, e in una sempre più profonda contaminazione tra
      rappresentazione e concretezza, tra unicità e molteplicità, tra semplicità
      e complessità. In un contesto simile, il punto di riferimento di tutto il
      pensiero riformista tradizionale, l'autonomia della politica dalla
      società, la possibilità di progettare attraverso la politica la società, è
      venuto meno, determinando il declino del potere delle tradizionali
      istituzioni in cui si esprimeva (parlamenti, organi di rappresentanza
      regionali e comunali, ma anche sindacati e persino il famigerato 'sistema
      dei partiti' italiano).
      Il riformismo e la rivoluzione oggi non possono più individuarsi come
        processi differenti per un medesimo obiettivo, l'emancipazione politica
        e sociale dell'umanità, non sono più interni a quell'obiettivo e non
        possono più essere processi storicamente credibili.
      Anche in questo campo, nel campo della liberazione e dell'emancipazione
      politica e sociale dell'umanità, la paranoia del capitalismo deve essere
      oltrepassata e bisogna dare via libera alla sua schizofrenia, liberare la
      briglia al cavallo del capitalismo: come il capitalismo non deve avere
      limiti per realizzarsi, ma ha bisogno di limiti per organizzarsi e
      conservarsi, così il pensiero comunista non deve legarsi ai limiti del
      capitalismo (come facevano le tradizionali teorie rivoluzionarie e
      riformiste quando pretendevano di rappresentare veramente i popoli e di
      possedere la verità sul popolo) poiché significherebbe sposare la paranoia
      del capitale in forma inversa, costituire un delirio antagonista, una
      contro – società che immagina  la società reale, relegandosi
      inevitabilmente a un'attività testimoniale e a un auto – esclusione dallo
      sviluppo. Non solo, alla fine sarebbe inevitabile defluire, magari in
      maniera inconscia,  verso ipotesi e politiche profondamente
      conservatrici, quando non apertamente reazionarie, secondo le quali
      l'autonomia del politico è l'unica garanzia e sinecura contro lo sviluppo
      capitalistico e ritrovarsi a condividere i modi di sentire della nuova e
      vecchia destra demagogica e populista per la quale  il futuro, lungi
      dall'essere visto quale effettivamente è, cioè, un cadavere in
      putrefazione, tra investimenti tattici e strategici viene considerato come
      il corpo resuscitato e purificato dell'ordine politico e culturale del
      passato.
      Il rinnovamento del passato attraverso la sua proiezione nel futuro è
      stato un meccanismo valido fino a mezzo secolo fa, come, certamente, aveva
      senso fino a quel tempo fare riferimento e usare, strumentalmente, i
      limiti e i difetti nello sviluppo del capitale per costituire
      l'alternativa politica (riformista o rivoluzionaria) al suo dominio. Oggi,
        al contrario, è necessario essere più capitalisti del capitale e
      sotterrare l'autonomia del politico per affermare l'autonomia del sociale
      e della produzione.
      
      Annotazione [Fascismo, nazismo e new deal]
      Quando scrivo di fascismo, nazismo e new deal come spartiacque
      (e lo sono stati insieme con gli anni trenta del secolo scorso sotto
      molteplici aspetti) nella relazione tra media e potere, introduco
      un'esagerazione. Nel modo di amministrare l'informazione dei tre 'sistemi
      politici' si può leggere, al contrario, il trionfo della
      sovradeterminazione della politica sui media: le emissioni della radio di
      stato in Italia iniziano proprio nei primi anni venti, i discorsi
      radiofonici di Roosvelt (i famosi 'discorsi dal caminetto') sono di metà
      dei trenta e, in genere, Mussolini, Hitler e Roosvelt usarono, in forme
      diverse, secondo eredità storiche, sensibilità culturali e capacità
      tecniche differenti, radio e cinematografo.
      Tanto, però, nell'esperimento 'straccione' e 'popolaresco' italiano, ma
      per questo non meno profetico, quanto in Germania e soprattutto negli
      Stati Uniti si segnalano i primi segni di un'indipendenza dei media.
      Questa autonomia origina direttamente dalla loro specificità; il loro
      linguaggio coinvolge direttamente l'affettività e l'emotività del pubblico
      e partecipa, autenticamente, alla produzione di affetti e stati d'animo,
      rivelandosi come più efficace del linguaggio politico tradizionale che si
      basava sugli stilemi comunicativi della carta stampata. La filmografia
      americana degli anni trenta è emblematica in tal senso: senza mai citare e
      mettersi in relazione diretta con il nuovo corso economico e con
      l'assistenzialismo statale, una serie notevole di produzioni
      cinematografiche evidenziarono l'umanità ed eticità che riposavano dietro
      la limitazione degli effetti negativi del capitalismo sotto il profilo
      sociale e umano imposta nel new deal. L'intelligenza collettiva
      del capitalismo veniva messa in pellicola sotto forma di un complesso di
      relazioni umane rinnovate e ravvedute (Frank Capra ne è stato il migliore
      interprete). Questa libera interpretazione dell'intelligenza del capitale
      è il primo segno di un cammino verso l'indipendenza dei media, al termine
      di questo processo l'intelligenza collettiva del capitale, lungi
      dall'essere ancora considerata come un prodotto della politica, come la
      prova dell'intervento vincente della politica sulla società, diventa la
      naturalità dell'umano, la rappresentazione (è davvero il caso di scrivere
      questa parola) della sostanziale armonia sociale e anche là dove si
      raccontano i conflitti e le contraddizioni la stessa struttura narrativa
      impone la loro soluzione, anche nel caso sia drammatica. La prossimità tra
      opera e prodotto massmediatico (e mi sto riferendo anche al singolo
      notiziario televisivo) e romanzo ottocentesco è, per me, impressionante.
      Il potere massmediatico (il famoso 'quarto potere') offre la possibilità e
      descrive la necessità della riconciliazione armonica delle contraddizioni
      e frantumazioni sociali, che sfugge il più delle volte alla retorica 
      della politica (istituendo una retorica sua propria), ma non solo che si
      scopre capace di rappresentare meglio e di stimolare essa stessa lo
      sviluppo sociale ed economico, poiché, al contrario della politica, del
      suo mondo e dei suoi apparati ideologici, lo segue con passione, essendo
      divenuto, invece di quello politico, il detentore di un linguaggio
      produttivo. La relazione di capitale investe più profondamente i
        media che non la politica.
      La scomparsa del capitalismo personalizzato e privatistico e la
      definizione politica di un'intelligenza collettiva del capitale, cose che
      fascismo, nazismo e new deal affrontarono, processo che vide
      compiersi il trionfo della politica, dello stato e della sua autonomia,
      paradossalmente è stato il presupposto della crisi definitiva,
      esistenziale, della politica e dello stato come funzione della politica e
      della rappresentanza politica.
      
      Domenica, 5 aprile
      
      Letture. Moltitudine. Democrazia delle Moltitudine. Epilogo di Negri e
      Hardt necessariamente vago, proprio per il taglio e il proposito
      dell'opera, un epilogo che non è conclusivo, dunque. La democrazia è un
      prodotto naturale della nuova forma produttiva ma non è un prodotto
      spontaneo: la democrazia sarà una conquista.
      Gli autori non scendono nel dettaglio di questa conquista e si limitano a
      stabilire alcuni assiomi e alcune caratteristiche di fondo e rigorosamente
      potenziali.
      È impossibile immaginare la democrazia della Moltitudine come la
      proposizione di una nuova sovranità, della riduzione a unità del complesso
      delle relazioni e nella costituzione di un nuovo corpo sociale e politico.
      Si legge letteralmente: “ … la Moltitudine non è un corpo sociale per
      questa precisa ragione: la Moltitudine non può essere ridotta a unità e
      non si sottomette al potere dell'uno. La Moltitudine non può essere
      sovrana” (p. 380). Questo ha effetti diretti sul concetto della democrazia
      che dovrà affermarsi e che si afferma: “la democrazia, che Spinoza
      definisce assoluta, non può essere considerata una forma di governo nel
      senso tradizionale del termine, poiché essa non riduce la pluralità delle
      differenze di ciascuno alla figura unitaria della sovranità” (p. 380). In
      verità l'unitarietà della sovranità, espressa nella storia sia in forme
      monarchiche, aristocratiche o democratiche, è stata una finzione, una
      rappresentazione: in ogni sua forma il potere è stato bipolare, da una
      parte il governo dall'altra i subalterni. Sempre e in ogni caso il potere
      ha dovuto suscitare da un minimo a un massimo di consenso e non è mai
      esistita una forma statale che si sia sostenuta solo con la forza bruta.
      Per dirla in altri termini e vedendo la questione dal punto di vista dei
      'dominati' e dei cittadini o sudditi, la sovranità ha sempre suscitato
      investimenti di desiderio nei suoi soggetti, immedesimazione e
      riconoscimento: il potere non è mai stato trascendente (lo è solo
      nell'ideologia) ma è un prodotto immanente e condiviso nell'immanenza.
      Chiarissimi, a questo proposito, gli autori che scrivono: “La forza
      militare può essere utile per la conquista e per il controllo a breve
      termine ma la violenza, da sola, non può stabilizzare il potere e la
      sovranità. La forza militare, dato il suo sbilanciamento unilaterale, è
      infatti la più debole forma di potere: è dura, ma anche fragile” (p. 382).
      È, inoltre, chiarissimo che la democrazia globale non è riconducibile alle
      forme di democrazia che nascono nella sovranità nazionale e nutre verso di
      quelle una lontanissima parentela: la democrazia non è un fenomeno
      istituzionale ma immanente alla produzione e alla vita sociale. Questo può
      accadere perché “ … il fatto che i prodotti del lavoro non siano beni
      materiali, bensì relazioni sociali, reti comunicative e forme di vita,
      mostra chiaramente che la produzione economica implica immediatamente una
      sorta di produzione politica o la produzione della società stessa” (p.
      383). Al punto attuale dello sviluppo del capitalismo, dunque, la
      produzione è politica e l'organizzazione produttiva può trasformarsi in
      organizzazione politica senza perdere la sua natura ed entrare in
      conflitto con sé stessa. Le forme della democrazia avranno, dunque, le
      forme della produzione. Virno, nella 'Grammatica della Moltitudine' sotto
      tutt'altro punto di vista denuncia questa intromissione della politica nel
      mondo del lavoro; per lui il virtuosismo retorico, la capacità di giocare
      sugli stati d'animo, l'opportunismo e il servilismo, doti squisitamente
      politiche, sono entrate con forza nel mondo del lavoro. In Virno
      l'intromissione si è verificata sotto il segno negativo della politica
      deteriore, in Negri e Hardt tutto il contrario. Probabilmente gli autori
      scrivono del medesimo processo, ma Virno lo analizza sub specie
      del capitale, del comando che viene espresso sul processo, mentre Negri e
      Hardt sotto la specie della Moltitudine, del libero sviluppo del processo
      produttivo. Innegabilmente, sotto diverse forme, la politica è entrata nel
      lavoro.
      Ci troviamo davanti, comunque, non solo una nuova visione della democrazia
      ma anche della politica. La democrazia e la politica non sono più un
      prodotto mediato del sistema sociale, una sua espressione, ma un prodotto
      immediato, per certi versi uno dei tanti beni immateriali, e, per come è
      conformato l'apparato di produzione, la sua dimensione politica non può
      che essere democratica.
      Questa immagine lascia due punti da chiarire criticamente. Alla base di
      questa immagine della democrazia e della politica è un'idea della
      tecnologia, del sapere scientifico e dei processi produttivi (già
      manifestata in Impero) sostanzialmente 'neutra', presentata come sequenza
      ideale e operativa indipendente, nella sua essenza, dal comando del
      capitale. È certamente vero che “le istanze dell'innovazione in rete
      possono essere ricondotte all'immagine di una orchestra senza direttore”
      (p. 389) ma è anche vero che la produzione open – source non è
      un paradigma egemone nella produzione informatica e che la democraticità
      dei saperi scientifici non si risolve nel carattere collettivo della
      ricerca, che garantisce solo la sua bontà, la sua efficacia ma non la sua
      funzionalità; per la sua funzionalità democratica sono necessari dei
      codici di rispetto che rimandano a qualcosa di esterno al naturale
      sviluppo della comunità e alla volontà e determinazione di quella comunità
      di costituirsi in comunità. Ci deve essere qualcosa che si contrappone al
      comando del processo, imponendo una distanza da quello in ragione di un
      altro ragionamento su di esso. Se certamente lo sviluppo del capitale ha
      aperto la strada alla rete comunicativa orizzontale e se
      fenomenologicamente questa rete si presenta come autenticamente
      reticolare, non è affatto scontato che lo sia. Non bisogna dimenticare che
      il capitalismo ha messo in produzione l'antropologia (la comunicazione,
      l'interazione, gli affetti e il tempo libero) e quindi la determinazione
      stessa dell'umano. Il 'comunismo del capitale' non è la liberazione
      dell'umano, ma un dominio espresso direttamente sull'umano, qualcosa che
      nella storia dell'umanità non si era mai realizzata.
      Analogo approccio critico è necessario verso il concetto di democrazia,
      che viene pensato come il prodotto della neutralità della scienza perché,
      come scrivono gli autori, “nella misura in cui la distinzione tra la
      produzione economica e il potere politico si sta decomponendo, la
      produzione comune da parte della Moltitudine anima contestualmente
      l'organizzazione politica della società” (p. 390) e poco oltre, ribadendo
      la centralità del modo di produzione informatico in questo assunto
      “Possiamo quindi raffigurarci la democrazia della Moltitudine come una
      società open – source, una società il cui codice sorgente è
      pubblico, così da permetterci di lavorare insieme per sistemare i suoi bug
      e per avere nuovi e sempre migliori programmi sociali” (p. 391).
      Anche qui tutto assolutamente vero, e lo scrivo con autentico entusiasmo,
      ma al contempo tutto potenzialmente falso. Il pregio di questa
      impostazione sta nel concetto della democrazia come fatto operativo,
      attuativo, auto – realizzante che mette alla berlina le incartapecorite
      forme di rappresentanza borghese e liberali, ma il rischio è quello di
      abbracciare una concezione formalistica della democrazia, come forma,
      appunto, del processo produttivo e, quindi, ancora una volta come
      strumento e prodotto 'neutro'. 
      La democrazia, invece, non è neutrale né implicitamente perché non esiste
      una perfezione nella rappresentanza degli interessi ma sempre
      inevitabilmente si devono compiere discriminazioni e scelte, né
      esplicitamente perché la tradizione democratica è costituita sull'eterna
      ideologia del governo della maggioranza e mai della totalità.
      Proprio a partire dalla notevolissima intuizione degli autori, vale a dire
      dall'apparente ma solo potenzialmente autentica (secondo la mia
      correzione) coincidenza tra produzione e politica e tra modo di produzione
      immateriale e democrazia, preferirei collocare il concetto di democrazia
      in un contesto costitutivamente dinamico (roba da rivoluzione permanente
      di Troskji); amerei e riterrei adeguata l'idea della democrazia come
      processo e come procedura del processo democratico. Una volta che il
        sistema produttivo si struttura come un sistema democratico, la
        democrazia rimane solo una scelta, non una necessità, non un automatismo
        e non una conseguenza meccanica del modo di produzione. Il sistema
        produttivo richiede collaborazione e cooperazione ma non collaborazione
        e cooperazione democratica; richiede un lavoro collettivo e addirittura
        la determinazione di un luogo 'comune', cioè di uno spazio collettivo né
        privato né pubblico, né personale né sociale, uno spazio privo di
        proprietà, ma non la trasformazione del lavoro da collettivo a comune e
        del comando sul lavoro da collettivo a comunista.
      Si individua, insomma, una tendenza verso la democrazia e un comando
      sociale democratico e diffuso ma può solo essere una 'decisione', un
      intendimento, a produrre una procedura che intervenga sul flusso
      produttivo e che 'paradossalmente' ignori il suo carattere collettivo in
      quanto tale ma nel flusso produttivo sappia individuare alcuni elementi,
      selezionandoli ed eleggendoli a struttura, e altri elementi, tagliandoli e
      rimuovendoli dalla struttura. La valutazione alla base di queste
        selezioni, elezioni, tagli e rimozioni dovrà essere la funzionalità e
        non l'efficienza e l'efficacia, la bontà sociale e non la bontà tecnica,
        o meglio tenderà continuamente a comparare le due cose (funzionalità ed
        efficienza, bontà sociale e bontà tecnica) e ad accrescere realmente la
        partecipazione alla produzione e alla costruzione dei saperi.
      Ancora una volta la critica alla produzione e ai saperi, soprattutto
      espressa contro la loro neutralità, potrà essere fonte di nuova produzione
      e di nuovi saperi: non possiamo accontentarci di sicuro della libertà
      schizofrenica del capitalismo, credo. La novità dell'oggi è che questa
      critica potrà essere svolta in forma democratica, o meglio è essa stessa
      un processo che costruisce la democrazia e la sua procedura.
      Da questo punto di vista, almeno il mio punto di vista, il problema
      dell'uso della forza nell'affermazione della democrazia e della lotta
      politica si risolve in modo naturale.
      Vale la pena di appropriarsi di una citazione tratta dal testo: “Che la
      vittoria rimanga a quelli che avranno fatto la guerra senza amarla” (p.
      395, citazione di Andrè Malraux, Antimemorie). È per me questo un a priori
      irrinunciabile: i comunisti non devono amare la forza, se la amano non
      sono comunisti. In altra epoca, Rosa Luxembourg descriveva l'uso della
      violenza come una triste necessità per il movimento socialista, nella
      lotta verso la democrazia sociale e politica e verso l'emancipazione della
      maggioranza dei subordinati dell'umanità.
      Non starò a dilungarmi sul motivo per il quale, purtroppo, le grandi
      trasformazioni sociali e politiche sono state accompagnate dall'uso della
      forza contro le persone e che questo uso è stato qualche volta necessario
      altre volte gratuito. Farò un esempio semplicissimo e introdurrò, inoltre,
      una forte semplificazione, giacché le cose, in verità sono state molto più
      complesse, anche per l'esempio 'semplicissimo' che espongo: nelle giornate
      dell'agosto 1792, durante la rivoluzione francese, fu un atto necessario
      arrestare Luigi XVI, condannarlo al silenzio politico, relegarlo nella
      prigione del Tempio e togliere lui ogni possibilità di comunicare con gli
      emigrati e gli aristocratici di Metz, e fu un atto ancora più necessario
      proclamare la repubblica, dimissionare in blocco le alte gerarchie
      militari ed espropriare l'aristocrazia di ogni residua proprietà
      fondiaria, assegnando il comando dell'esercito ai sanculotti e
      distribuendo le terre ai contadini poveri, fu un atto solo necessario
      ideologicamente e politicamente, ma non sotto il profilo del concreto
      sviluppo del processo rivoluzionario, invece, condurre il re sul patibolo
      ed eliminarlo fisicamente e conseguentemente mandare alla ghigliottina
      l'aristocrazia come classe sociale. Furono, sotto il profilo etico, atti
      assolutamente gratuiti: l'omicidio politico non è mai necessario
      politicamente e la pena capitale non è una condanna ma una semplice e
      primitiva vendetta. La neutralizzazione dell'avversario non può passare
      attraverso la sua eliminazione fisica, quando la si compie significa che
      qualcosa nel processo rivoluzionario non sta funzionando più.
      Diversissimo ma non dissimile è il caso delle battaglie di strada e delle
      fasi di guerra civile che, spesso, accompagnarono i processi rivoluzionari
      e per questi valga davvero il detto appena proposto  sulla vittoria
      che arride a chi non ama la guerra.
      Perché non si deve amare la forza ed è giusto e profondamente
      rivoluzionario considerarla una triste e inevitabile necessità che va nei
      limiti del possibile evitata? Per il semplice motivo che se il nostro
      obiettivo è la liberazione dell'uomo e quindi l'uomo è il nostro fine,
      usare l'uomo come mezzo è la negazione stessa del nostro fine. L'uso della
      forza impegna l'uomo come mezzo: nel carnefice che diventa mezzo,
      strumento, di morte, di qualcosa che non gli appartiene, che è al di fuori
      di lui e della vita, e nella vittima che diventa strumento e mezzo di
      testimonianza dell'inattualità della sua esistenza. In maniera pragmatica
      e niente affatto moralistica, molti anni fa si era soliti dire che ogni
      omicidio politico, anche quello compiuto ai danni del peggiore nemico, era
      una sconfitta per il movimento della liberazione sociale, perché si
      rinunciava a una vita, a un'intelligenza in potenza per la costruzione
      della società comunista. Questo argomento, ovviamente, non sgombra il
      campo al problema della forza, ma il fatto che il 'comunismo del capitale'
      ha prodotto un complesso di relazioni 'biopolitiche' nel mondo della
      produzione rende questo approccio etico al problema della forza e della
      violenza politica attuale.
      Esiste, inoltre, un aspetto strategico nella problematica dell'uso della
      forza e della violenza che non va sottovalutato: la violenza richiede e
      impone forme organizzative che si oppongono a una pratica democratica e a
      una procedura democratica. È sempre stato difficile coniugare la forza con
      la democrazia. La militarizzazione dei movimenti è sempre stata la loro
      tomba  anche quando la vittoria sorrideva, perché a ottenerla non era
      stato più il movimento e il processo rivoluzionario nel loro insieme, ma
      il sostituto militare del movimento e del processo (pensiamo, per rimanere
      alla rivoluzione francese, al Comitato di Salute Pubblica contrapposto
      alla convenzione repubblicana e democratica o come ben sottolineato da
      Negri e Hardt nel testo in questione per il caso cubano e vietnamita).
      L'uso della violenza e dell'organizzazione militare deve essere
      occasionale, sporadico, limitato e governato da pregiudiziali etiche ma,
      soprattutto, non deve essere determinante nella struttura del movimento e
      del processo. Per ripulire ulteriormente il campo da macerie molto
      ingombranti in materia, la pratica della lotta armata e di qualsiasi
      struttura clandestina è un palese controsenso, o meglio un non – senso dal
      punto di vista comunista e lo è sempre stato in qualsiasi fase storica e
      politica (non solo oggi perché siamo di fronte al 'comunismo del
      capitale'). Esistono certamente situazioni nelle quali l'azione
      democratica non può che darsi in clandestinità e spesso rigida, ma anche
      in assenza della possibilità di agire alla luce del sole, anche sotto una
      dittatura militare ad esempio, non si giustifica il ricorso pregiudiziale
      alla lotta armata e, soprattutto, all'omicidio come pratica politica. Si è
      spesso affermato che, di fronte a stati autoritari, fascisti e anti –
      democratici, autentiche tirannie, l'unica opzione fosse quella della
      resistenza armata, proprio allo scopo di evitare un gran numero di vittime
      innocenti tra gli oppositori che, altrimenti, sarebbero stati sacrificati
      inutilmente. Purtroppo i numeri hanno dimostrato che la militarizzazione
      dell'opposizione non ha certamente aiutato a salvaguardare i militanti
      'civili'. Anche dal punto di vista degli effetti pratici l'opposizione
      armata non è mai riuscita a essere decisiva: gli scioperi del marzo '43
      hanno contribuito più di cento attentati a determinare le dimissioni del
      luglio di Mussolini. Altro discorso sugli stati, terribili, di guerra
      civile ma questo aprirebbe un argomento immenso. In generale, però, si
      possono scrivere almeno due cose: che è sempre meglio e più produttivo non
      cadere nell'usata trappola della guerra civile perché là dove è guerra
      civile è molto lontano l'orizzonte del comunismo, i linguaggi si sono
      semplificati, si sono disposti intorno a due poli, hanno messo in campo la
      finzione della diversità e hanno sostituito alla politica e alla socialità
      la guerra. Spesso si è stati costretti a partecipare alla guerra civile,
      come è stato per moltissimi in Italia tra 43 e 45, ma i primi sconfitti,
      fin da subito e costitutivamente, sono stati coloro che pensarono che
      dalla guerra potesse scaturire una grande trasformazione e liberazione
      sociale, perché la guerra è implicitamente la negazione della liberazione,
      la guerra è uso massificato della condanna capitale.
      Per tornare a Rosa Luxembourg e concludere questa riflessione ai margini
      di Moltitudine è meglio ricordare con lei che anche la democrazia attuale,
      quella 'realizzata', elettorale e rappresentativa e in vigore negli stati
      capitalistici egemoni e 'sviluppati', esercita normalmente la forza e la
      violenza, la coercizione e la persuasione coatta verso i 'cittadini';
      scriveva Rosa che se noi vedessimo un uomo chiuso a chiave in una stanza
      di cinque metri quadrati per l'intera durata della sua vita o anche solo
      per qualche anno, chiameremmo la sua situazione orrenda e cercheremmo di
      liberarlo dal sadico che lo ha costretto in questa condizione, ma se sulla
      porta chiusa a chiave è scritto 'Real carcere prussiano', allora riterremo
      questa condizione legittima.
      In generale, come annotava ancora Rosa, i comunisti preferiscono lasciare
      al capitale armi, soldati, polizia, galere e il monopolio dell'uso della
      violenza perché tutto questo deve far parte del suo spettacolo e non
      entrare a far parte del loro.
      Naturalmente buona Pasqua. 
      
      Lunedì, 6 aprile
      
      Letture. Moltitudine. La democrazia della Moltitudine. Per Negri e Hardt
      esiste un nesso tra uso della forza e affermazione della democrazia: la
      nuova forma della democrazia, infatti, non comporterebbe solo la
      costituzione di un 'sistema politico', ma anche di un modello sociale,
      produttivo e comunicativo. È inevitabile, dunque, attendersi una
      resistenza da parte del dominio: lo  stato di guerra interminabile
      che gli autori hanno individuato ne è un aspetto. I problemi dell'uso
      della forza e della democrazia vivono insieme e devono convivere proprio
      in ragione della natura del movimento verso la democrazia globale che non
      è solo un movimento politico.
      Ieri mi 'sono seduto sul testo' e ho posto delle pregiudiziali rispetto
      all'uso della forza che in quello non sono contenute: sono pregiudiziali,
      infatti, che vengono ancora prima di quelle esposte da Negri e Hardt. L'ho
      fatto soprattutto per via della pesante eredità che la scelta della lotta
      armata ha lasciato alle generazioni seguenti gli anni '70, soprattutto
      quando i 'tribunali del popolo' delle Brigate Rosse o di Prima Linea
      emisero sentenze di morte e le eseguirono e quando le organizzazioni
      combattenti pretesero di essere la quintessenza dell'antagonismo. Fu una
      terribile e fallimentare esperienza sia dal punto di vista politico quanto
      umano.
      In Moltitudine si propongono tre pregiudiziali rispetto all'uso della
      forza che sono tutte politiche e strategiche e perseguono lo scopo di una
      coerenza con l'obiettivo democratico. Sarò schematico.
      Come prima cosa l'azione militare, ovviamente quando si rende necessaria e
      vedremo quando, deve essere subordinata alla politica. Il riferimento alla
      pratica guerrigliera del Chiapas è esplicito. Là dove, dunque, la
      democrazia è attaccata militarmente la risposta democratica deve tenere
      conto dei soggetti della democrazia e della loro volontà politica:
      l'esercito guerrigliero è in primo luogo un organismo politico e solo dopo
      militare. Una risposta esclusivamente militare alla guerra imperiale è
      perdente in partenza: il volume di fuoco che l'Impero è in grado di
      esprimere è incommensurabile. Inoltre “la subordinazione della violenza
      alla politica non è ancora una ragione sufficiente perché l'uso della
      violenza possa dirsi democratico” (p. 395).
      Il secondo principio di un uso democratico della violenza è quello in base
      al quale il suo uso deve essere difensivo. Si tratta di difendere gli
      spazi conquistati e costituiti dall'aggressione militare ma anche qui, nel
      secondo postulato sulla 'violenza democratica', si pone il problema delle
      forme di questa violenza che non deve essere necessariamente quella del
      fucile, inadeguata a fronteggiare la superiorità tecnica del nemico e
      spesso funzionale alla sovradeterminazione organizzativa dei movimenti. Il
      problema della violenza non è quello della scelta dell'arma alla quale,
      invece, si sono vincolati i movimenti rivoluzionari del passato (nel testo
      diretto il riferimento alle black panthere) ma la consapevolezza
      che l'arma e l'uso della forza, armata o no, “ … non crea nulla, ma può
      solo preservare ciò che è stato creato” (p. 396). La logica secondo la
      quale solo l'uso delle armi e solo la lotta armata sono garanzia del
      movimento e del suo corretto sviluppo è negata. Quella logica, spesso e in
      maniera perversa, ha stabilito una relazione tra la 'pesantezza'
      dell'armamento e la profondità del processo rivoluzionario. Ebbene questa
      logica non deve appartenere ai movimenti quando sperimentano l'uso della
      forza.
      Questa seconda pregiudiziale è estremamente limitata, costitutivamente
      limitata. Precisamente come per il sapere, la scienza, il lavoro e la
      democrazia, gli autori presuppongono una 'neutralità' nella forza. L'uso
      della forza non è mai neutro, sia nella versione difensiva che offensiva.
      (ammesso che quando si entra nella logica dello scontro violento si possa
      distinguere tra difesa e offesa, tra attacco e contrattacco, poiché,
      solitamente, quando si entra nella dimensione bellica non c'è mai nessuno
      ad ammettere di essere stato l'aggressore ma tutti si reputano e
      proclamano aggrediti) rispetto allo sviluppo dei movimenti: quando un
      movimento sceglie o è costretto a scegliere l'uso della forza, compie un
      atto che avrà delle conseguenze inevitabili sulla struttura e sul
      ragionamento su sé stesso e anche quando dovesse rispettare le
      pregiudiziali etiche di conservazione della vita umana. L'uso della forza
      è una scelta che deve essere sempre associata alla consapevolezza della
      sua gravità e alla creazione di anticorpi rispetto all'uso della forza e
      alla sua mitizzazione (ironia, distacco, assenza di autoglorificazione
      militare e via discorrendo). Insomma il limite di questa seconda
      pregiudiziale introdotta e adottata dagli autori di Moltitudine sta
      nell'essere solo un elemento strategico, secondo un'idea dell'azione
      politica molto tradizionale e nel aver ignorato il 'miracolo incompiuto'
      della lotta armata del Chiapas e le decine di passamontagna con i quali il
      subcomandante Marcos finge di mascherarsi il volto.
      Il terzo principio è abbastanza semplice ma onestamente vago: “l'uso della
      violenza deve essere organizzato democraticamente” (p. 397). Io preciso
      questo principio con quello che scrisse Troskij nella sua 'Storia della
      Rivoluzione russa', descrivendo la giornata insurrezionale dell'ottobre.
      Di fronte agli autentici bagni di sangue che avevano accompagnato le
      rivoluzioni precedenti (quella inglese, francese e americana) a
      Pietroburgo i proletari avevano occupato il potere senza un morto, al
      termine di un'azione sempre più democratica, estesa e unanime che aveva
      sciolto gli argini e polverizzato i bastioni del nemico. Quando gli operai
      e i soldati armati giunsero al palazzo, dunque, non c'era più nessuno al
      quale sparare e nessuno che lo difendeva, perché tutti avevano disertato.
      La base della democrazia e di un processo rivoluzionario come quello
      appena descritto non dipende solo da un dato 'strutturale' e 'oggettivo',
      vale a dire dalla conformazione 'biopolitica' della società “nella
      produzione della Moltitudine, la distinzione tra economia e politica tende
      a sparire e … la produzione dei beni economici tende a identificarsi con
      la produzione delle relazioni sociali e, in ultima analisi, con la
      produzione della società stessa” (p. 403) ma anche da un dato
      'sovrastrutturale' e 'soggettivo', l'amore e il realismo politico.
      Quindi oggettività biopolitica e relativa soggettività, amore e realismo
      politico, sono le due strutture del movimenti democratici globali.
      L'azione politica “capace di far convergere in un tempo e in uno spazio
      determinati il potere comune” (p. 404) è dunque fondata su due stati e
      disposizioni dell'animo.
      L'amore governa il momento progettuale, strategico della Moltitudine, è il
      riconoscimento del nostro agire comune e della sua necessità: “l'amore è
      la base stessa dei nostri progetti politici in comune e della costruzione
      di una nuova società. Senza questo amore non siamo niente” (p. 405). Si
      tratta, facendo riferimento a un'opera di Negri degli anni '80 (mi pare
      fosse Anomalia selvaggia), dell'amore come legame tra gli individui che
      cooperano e lavorano insieme, convivono le stesse contraddizioni,
      presentato in un'edizione nuova ed estesa. Amore come solidarietà,
      partecipazione, immedesimazione, potenza etica e sociale che è il motore
      stesso dell'organizzazione democratica contemporanea. 
      Poi viene il realismo politico che governa la prassi, la tattica e segue
      l'amore per realizzarlo, perché: “Questo processo non ha nulla di
      spontaneo e improvvisato. La distruzione della sovranità deve essere
      organizzata in parallelo con la costituzione di nuove istituzioni
      democratiche” (p. 407). E la dote del realismo politico è proprio quella
      di rendere possibile l'amore della Moltitudine come potenza politica, il
      realismo politico è la capacità di confrontare l'amore con la situazione
      concreta. Questo, come annotano gli autori, ha sempre fatto accomunare il
      realismo politico con il pensiero conservatore e reazionario, ma il
      realismo politico sussunto dalla strategia dell'amore propone un nuovo
      genere di realismo “I rivoluzionari non devono essere meno realisti dei
      reazionari: a Valmy Saint Just non era meno realista di Metternich” (p.
      410).
      Il realismo politico diventa soggettività oggettiva, rilettura della
      realtà, scommessa sulla realtà: “Possiamo già renderci conto di come oggi
      il tempo sia diviso tra un presente che è già morto e un futuro che è già
      vivente – l'abisso che li separa è enorme. Un giorno, un evento ci
      proietterà come una freccia verso questo futuro che già vive. Questo sarà
      il momento di un vero atto d'amore politico” (p. 411). Nuovamente un po'
      vago ma evocante e un bel epilogo. Non credete?
      Buon lunedì dell'Angelo.
      
      Mercoledì, 8 aprile
      
      Letture. Arte e Multitudo / Toni Negri ; a cura di Nicolas Martino. - Roma
      : Deriveapprodi, 2014. - 1. ed. (Doc(k)s)
      È una raccolta di lettere sull'arte scritte alla fine degli anni '80,
      alcune alla fine dei novanta e infine nel 2001 e 2014. L'editore ha
      raccolto anche dei brevissimi saggi e pamphlet. 
      Si legge bene. Le lettere degli anni ottanta sono pervase da uno spirito a
      tratti davvero romantico (nel senso storico e filosofico del termine) che,
      pur essendomi estraneo e non appartenendomi, mi induce alla riflessione.
      La sconfitta del movimento degli anni settanta, la 'contro – rivoluzione'
      è un'ombra che si insinua ovunque in questi testi e fa ricordare e fa,
      sinceramente, ancora adesso soffrire. Essendo laureato in Storia dell'Arte
      ed avendo l'approccio accademico e storicista in uso nei primi anni '80,
      spesso fatico, non tanto paradossalmente, a comprendere quell'entusiasmo
      di Negri verso il fenomeno artistico che, per me, è un fatto produttivo
      come un altro che magari diverte solo un po' di più chi lo mette in atto e
      chi lo incontra. Letteralmente 'diverte solo un po' di più' perché nella
      produzione artistica c'è la libertà di creare e la libertà di trovarcisi
      in mezzo e coinvolto, anche se il termine 'libertà' è inappropriato e
      bugiardo: l'arte non è una fabbrica, non è un laboratorio artigiano e non
      è uno studio professionale, ma è una particolare fabbrica, laboratorio e
      studio. L'arte non è produzione metalmeccanica, informatica o scientifica
      ma lo è anche.
      L'arte non è lavoro comandato ma ha una relazione con quello, anche perché
      se non ci fosse lavoro comandato non esisterebbe lavoro artistico e non
      avrebbe nessun senso distinguerlo dal resto del lavoro. Trasferirei, alla
      fine, (e l'ho sempre fatto anche a costo di figurarmi arido) il fatto
      artistico nella vita quotidiana, collocando l'arte in un posto che non
      abbia più senso chiamare arte e l'eccedenza dell'essere là dove deve
      esprimersi. Sto descrivendo e chiedendo la fine dell'arte? Credo di sì.
      Non si tratta di proclamarla in funzione della banalizzazione della vita
      quotidiana, come si è fatto in passato (penso alla retorica fascista e
      nazista contro l'arte che non fu casuale, comunque per  decretarne la
      definitiva massificazione secondo l'equazione niente arte, niente
      desiderio, niente 'eccedenza dell'essere', per usare la felice espressione
      di Negri), ma per mettere in campo un circuito di trasformazioni
      molecolari, lievi ma essenziali, per spostare leggermente l'orizzonte,
      stabilire una potenza che si accumula. L'arte diviene, allora, un prodotto
      che si distribuisce, irriconoscibile come prodotto specifico e come fatto
      merceologico.
      
      Sabato, 11 aprile
      
      Annotazione. [Senza prendersi troppo sul serio. Altri mondi]
      Altri mondi è solo un punto di vista che è cosciente di esserlo, un punto
      di vista che viene fuori da quella che Negri, Hardt e Virno nominano come
      Moltitudine. Non esige e impone severità e rifiuta categoricamente un
      discorso sul futuro. L'ho scritto e continuerò a scriverlo: ogni discorso
      sul futuro puzza di cadavere e il futuro è il cadavere del quale ci
      dobbiamo liberare. È buona politica lasciare il ragionamento e la
      progettazione sul futuro ai bilanci contabili dei residuali e patetici
      stati – nazione perché il futuro si è ridotto a faccenda di
      amministrazione economico – finanziaria. È necessario liberarsi dall'idea
      del futuro che è stata la fonte dell'attività politica in occidente dal
      XVII secolo in poi. In nome del futuro si è suicidato il presente: si
      pretendono rinunce, sacrifici e cinismo nell'oggi per gioie, felicità e
      illusioni nel domani, deroghe alla morale in ragione della futura morale e
      abrogazione delle libertà per libertà future. Alla fine quando il futuro
      viene è già vecchio, non essendo altro che il presente inumato e
      travestito.
      Il pensiero rivoluzionario (e anche il pensiero comunista) è stato la
      quintessenza di un modo di affrontare il presente in funzione quasi
      esclusiva del futuro; senza esserne consapevole ha interpretato, in
      maniera davvero seria, l'esigenza di governare il tempo (e quindi anche il
      tempo storico) che è essenziale nel capitalismo. Ho l'impressione che
        il capitalismo sia spesso andato a lezione di conservazione presso i
        rivoluzionari e le rivoluzioni.
      Qualcuno obietterà che il problema del futuro è una costante della cultura
      dell'umanità. In effetti va ammesso che, almeno dall'affermazione del
      cristianesimo (si badi bene che il mio ragionamento è limitato al mondo
      'occidentale'), il destino dell'umanità è diventato una tematica morale e
      politica importante. La percezione della contraddittorietà del presente e
      dei suoi limiti è una conquista dell'epoca alto – imperiale, dominata
      dalla formazione, in Europa, di una grande istituzione 'transnazionale' e
      dalla crisi delle primitive magistrature repubblicane che avevano ancora
      relazioni con la cultura tribale, seppur molto indirette, tutta orientata
      all'amministrazione di contraddizioni tra apparati, culture e lingue
      etnicamente affini.
      La res publica romana, nella sua versione imperiale, nella sua
      versione inter – tribale, affrontava problemi del tutto nuovi (pensiamo
      all'emergere del concetto, probabilmente nuovo, di nationes nel
      III secolo e il passaggio da repubblica a impero contiene certamente delle
      concordanze con il recentissimo passaggio da moderno a post – moderno). Si
      fece strada l'esigenza di una nuova lingua, un nuovo annuncio (che fu di
      Augusto e, sotto tutt'altra veste, di Cristo) da proporre al mondo, inteso
      come repubblica universale, che teneva nelle mani il governo dello spazio,
      la geografia, insieme con quello del tempo, perché l'unificazione dello
      spazio dell'orbis terrarum richiedeva l'unificazione del tempo o,
      meglio, la permetteva.
      L'unificazione del tempo predisponeva la creazione di misure unitarie:
      passato, presente e futuro. Come la visione augustea usciva dal localismo
      italiciano, così l'ottica cristiana si emendava dal nazionalismo ebraico.
      Nasceva, quindi indiscutibilmente, non solo l'idea ma il discorso sul
      futuro e sul destino dell'umanità; non nasceva, però, la pretesa di
      progettarlo e di determinarlo, l'idea del futuro come risultato di una
      trasformazione progettata nel presente; il futuro si limitava a essere il
      prodotto di 'buone opere' eseguite nel presente, nel miglioramento del
      presente, un po' come in tanti contratti d'affitto medioevali in cui
      l'affittuario si impegnava a meliorare lo stato e le
      infrastrutture del podere ma certamente non a farlo divenire un altro
      podere. Quindi, alla fine, l'idea del futuro come entità separata dal
      presente, come oggetto di una trasformazione cosciente e finalizzata, di
      una teleologia immanente, non esisteva. Sia per Augusto che per i
      cristiani la nuova epoca nasceva rigorosamente nel presente e lo stesso
      pensiero apocalittico (pagano e cristiano indifferentemente) collocava il
      trionfo finale della giustizia non nella storia ma nella fine della
      storia: l'avvento del futuro era la fine stessa del futuro.
      L'epoca moderna  (soprattutto l'illuminismo) ha del futuro tutt'altra
      immagine: è il prodotto di una trasformazione scientifica del presente
      (scientifica intesa in senso allargato) che dispone il futuro con un'altra
      dimensione temporale in radicale opposizione a quella attuale.
      Paradossalmente, però, affinché il futuro sia configurabile, è necessario
      che per esso siano validi gli stessi assiomi del presente, che rendono
      autenticabile il presente, idea che né Augusto né i discepoli di Cristo
      avrebbero mai sottoscritto: nell'epoca che ha idolatrato il futuro, esso
      nasce già vecchio. La critica alla tradizionale forma dell'attività
      politica non può che discendere dalla critica a questa immagine della
      configurazione del futuro che la post – modernità ha certamente
      depotenziato, limitandola in buona sostanza alla scienza economica e alla
      gestione contabile degli stati. Questo è, a mio parere, un grandissimo
      passo in avanti che l'umanità (parola terribile ma non riesco a trovare
      un'altra) ha compiuto: il futuro per quello che è, scienza contabile e
      tecnica del dominio.
      E allora il futuro è definitivamente 'in crisi'?
      Non organizzerei troppi trionfi o funerali in proposito. Se la teleologia
      scientifica e immanente si assottiglia e rivela, così, la sua paternità
      autentica (la scienza contabile, l'economia, la finanza e l'astrazione
      reale del danaro), dall'altra parte, per quanto la progettazione del
      futuro si riduca a essere economia, l'economia assume un tale livello di
      astrazione, di assolutezza dalle concretezze sociali e produttive, da
      essere una filosofia politica attuale, inverata e effettiva: l'unica
      filosofia possibile, con tutta la severità del caso. 
      Precisamente come la teleologia immanente, cacciata dalla porta alla fine
      del capitalismo moderno e manifatturiero rientra dalla finestra, così
      l'attività politica, come critica al finalismo immanentista del capitale,
      deve rientrare obtorto collo tra le necessità della liberazione
      sociale? Risponderei così: la teleologia immanentista si ripropone come
      necessità ma patisce lo stesso depotenziamento dell'immanenza
      capitalistica. Ho un solo timore a questo proposito (lo ribadisco, però,
      questi appunti non vanno letti con troppa serietà) che come il capitalismo
      ha assolutizzato il suo essere, il suo futuro, il suo 'fuori dalla storia
      e dal tempo', ci sia un'isomorfa tentazione nel fronte critico, attraverso
      l'assolutizzazione di concetti come Moltitudine e Comune; il rischio è
      quello di porre alla base dello sviluppo analitico e di inventarsi una
      vecchia scienza con vecchi assiomi e nuovi concetti da articolare,
      percorrendo, insomma, un cammino solo in apparenza opposto o meglio
      inutilmente opposto a quello dello sviluppo del capitalismo.
      Oggettivamente sento ben pochi diritti di tracciare giudizi severi e
      conclusivi (e il riferimento precedente alla serietà limitata è
      necessario) dopo anni di radicale rifiuto della politica e dell'analisi
      politica, che non fosse quella che mi portava alla constatazione
      dell'inutilità di entrambe, e sto scrivendo questo taccuino in movimento
      con un certo imbarazzo: per me è davvero molto difficile pensare
      l'attività politica e non ricordo affatto con nostalgia quella della mia
      adolescenza, lontana, ormai.
      Sono ovviamente consapevole del fatto che dalla fine degli anni settanta e
      per tutti gli anni ottanta si è sviluppato un processo di trasformazione
      repressiva impressionante, che ha coinvolto centinaia di migliaia di vite,
      alcune in forma brutale e diretta: quasi un'intera generazione politica
      (quella nata grossomodo nel secondo lustro degli anni cinquanta e nei
      primissimi anni dei sessanta) è stata eroinizzata, incarcerata e chiusa in
      una grandissima riserva e ghetto intellettuale dove è stata indotta al
      silenzio e spesso all'abiura e all'apostasia, il più delle volte
      assolutamente spontanee. Anche l'Italia come Cile e Argentina ha avuto una
      generazione di desaparecidos, soltanto che è stata la potenza
      dell'informazione e dei meccanismi sociali e non l'esercito e l'energia
      militare e poliziesca a provocarne la scomparsa. In molti come me, credo,
      ci siamo detti “mi terrò le mie idee ma non le userò mai più, né le dirò
      mai più”, un po' come il protagonista del 'Rosso e il nero' di Stendhal.
      Questo affetto che non è stato né di delusione né di pentimento ma di
      disincanto si è però accompagnato al suo contrario: a quello
      dell'innocenza. Siamo stati una generazione di innocenti, nel significato
      etimologico di quelli che non nuocciono, che si sono tirati da parte e che
      rifiutano ulteriori entusiasmi e investimenti, una generazione grigia e
      silenziosa che non ama esprimersi. 
      L'idea di riaprire l'animo all'attività politica induce il timore di
      perdere entrambi questi stati d'animo soprattutto se si associa a quella
      la persuasione, non assoluta ma forte, dell'inutilità dell'agire politico,
      inteso come agire politico tradizionale, con le bandiere distese sul
      futuro e la convinzione di essere l'unico futuro umanamente sostenibile.
      Immaginare, però, una nuova forma di agire politico appare un'impresa
      dagli esiti improbabili, destinate a farci muovere tra relitti del passato
      e macerie, riverniciature dei ruderi e nuove architetture che rimangono
      invisibili.
      
      Ai margini. Arte e Multitudo. Il testo continua a leggersi bene e io lo
      sto leggendo bene non per quello che si scrive intorno all'arte (che non
      condivido con assoluta radicalità: troppo romanticismo, troppe ispirazioni
      a me del tutto estranee) ma ciò che Antonio Negri scrive dietro l'arte, mi
      si perdoni l'interpretazione dicotomica, che è al contrario molto
      interessante. C'è un'idea dell'arte e del Comune, io scriverei dell'arte
      come fenomenologia sociale, che è fertilissima.
      
      Giovedì, 16 aprile
      
      Annotazione. Ho spesso ragionato, come tutti credo, sulla televisione e il
      suo ruolo, nell'ordine (ordine d'importanza e d'impatto) culturale,
      sociale, politico ed economico.
      Il sistema televisivo ha avuto quindi una rilevanza antropologica e questo
      sotto due punti di vista: uno sostanzialmente in linea con i sistemi di
      comunicazione di massa antecedenti, che sta nella sua diffusione
      capillare, che investe, in tendenza, ogni individuo con un messaggio
      omogeneo, il secondo, ben più importante e caratteristico del mezzo, del
      media, che inerisce al suo stesso linguaggio, che è quello di fare
      riferimento all'umano utilizzando quasi tutti gli strumenti della sua
      biologia, della sua sensitività e di suscitare una nuova sensitività e
      percezione della biologia. Il linguaggio televisivo interferisce con gli
      individui come un linguaggio naturale, immediato e fisico che coinvolge
      gli organi percettivi: parla alla ragione e all'emotività (come la carta
      stampata o le forme artistiche del passato) ma in maniera 'biologica' e
      fisica. Il linguaggio televisivo istituisce una 'seconda realtà fisica' e
      quindi una seconda realtà percettiva. Lo scopo del linguaggio televisivo,
      come quello dei sistemi di comunicazione di massa precedenti, è quello di
      formare stati d'animo ed emozioni oltre che elementi discorsivi e logici,
      ma un programma televisivo è esso stesso uno stato d'animo, un'emozione e
      un'informazione, molto diversi da una copertina di un libro e da una
      testata giornalistica: il programma televisivo non introduce
      l'informazione e l'informazione è già introdotta, implicita, nel
      programma.
      Per linguaggio specifico intendo quel complesso di tecniche comunicative
      che dipendono dalla tecnologia usata per costruire l'informazione e per
      diffonderla. La costruzione e trasmissione che, contemporaneamente, danno
      forma alla fruizione, non sono indifferenti alla tecnica usata. La tecnica
      televisiva prevede una fruizione immediata dell'informazione, senza
      un'interpretazione intermedia, al contrario di quanto accade per la stampa
      che richiede una decodificazione della scrittura, l'assemblaggio delle
      parole e infine la ricostruzione del senso. Il linguaggio televisivo
      annulla questo spazio intellettuale, questo lavoro sul testo che impone
      l'edificazione dell'informazione, preliminare ineliminabile
      dell'informazione a stampa. Un po' come per il cinema e teatro,
      l'esercizio intellettuale viene dopo o, al massimo, in corso d'opera. Due
      cose, però, separano il teatro dalla televisione: il fatto che il teatro
      impone la condivisione di uno spazio fisico, la presenza in quello dello
      spettatore e uno spazio comunicativo geometricamente determinato; il
      teatro richiede la partecipazione dei corpi al passaggio
      dell'informazione, nello spettacolo televisivo questo passaggio
      informativo avviene in uno spazio incorporeo, in uno spazio non
      precisamente delimitato e percepibile con i sensi.
      Già il cinema ha emancipato il passaggio dell'informazione dalla
      spazialità concreta, ma la sala cinematografica, come luogo nel quale
      siedono gli spettatori, rimane lo strumento di trasmissione della tecnica
      cinematografica, che è indifferente alla fisicità della platea ma non può
      prescindere da quella, a rischio di non essere cinema. Il cinema è solo un
      antenato tecnologico della televisione per tutto ciò che riguarda
      l'ottica, ma non lo è affatto per la tecnica informativa: il cinema non è
      l'antenato linguistico della televisione.
      La radio per modo di costruire l'informazione, di trasmetterla e di
      disporne la fruizione è il vero antenato linguistico della televisione:
      come quella va verso l'individuo, predisponendo una fruizione singolare e
      indifferente al suo luogo. Entrambe, inoltre, condividono un elemento
      tecnologico che è decisivo per la loro stessa struttura informativa e
      narrativa, quindi linguistica; cinema e teatro basano le loro finzioni, i
      loro trucchi e stratagemmi informativi sulle leggi della meccanica,
      dell'ottica e dell'acustica, cioè sulla fisica classica (esempio migliore
      di questa subordinazione  tecnico – scientifica è negli spettatori
      che fuggivano la locomotiva dei fratelli Lumiere, o il dubbio in teatro
      sulla verità degli spazi e sull'omicidio dell'attore), televisione e radio
      fondano, invece, la distribuzione delle informazioni sulle leggi
      dell'elettromagnetismo e dell'elettronica.
      La finzione teatrale e cinematografica è palese, conclamata, fa parte
      dello spettacolo, può anche giocare con quello, la finzione radiofonica e
      televisiva è nascosta, impercettibile e l'informazione si presenta,
      apparentemente, per quello che è, priva di veli. Le leggi della fisica
      classica rendono possibile l'illusione ma facile lo smascheramento e la
      disillusione, le leggi della fisica quantistica sono del tutto trasparenti
      alla nostra percezione: le informazioni giungono immediate, tanto da non
      essere informazioni, elaborazioni, ma dati di fatto. Per questo sia il
      linguaggio radiofonico sia quello televisivo 'doppiano' la realtà e,
      doppiando la realtà, finiscono per doppiare loro stessi: l'informazione
      diviene un dato di fatto che nuovamente diventa informazione, una volta
      guardando al dato di fatto, una volta all'informazione.
      Ovviamente non intendo ridurre la diversità tra radio e TV e gli altri
      sistemi di comunicazione di massa (cinema, teatro e carta stampata) a una
      questione tecnologica: moltissimi sono gli elementi che costituiscono tale
      discrimine. La costruzione e trasmissione dell'informazione quantistica,
      però, permette la realizzazione di una manipolazione qui e ora, subitanea
      e istantanea, dell'informazione, trattata come il fatto reale che si
      conforma nel tempo reale. Se questo imparenta radio e televisione, quello
      che le separa è la fisicità, ovvero la possibilità di creare una seconda
      realtà per la percezione, adeguata alla prima, quella concreta e vissuta
      'naturalmente'. Nella televisione l'artificiale diviene naturale e il
      fittizio reale; nella radio questo processo, seppur abbozzato, non riesce
      a compiersi, anche se di questo tratto genetico è testimonianza il fatto
      che, mentre teatro, stampa e cinema nacquero come eventi 'liberi' e
      liberamente disposti sul mercato, la radio nacque come istituzione
      pubblica e statale, nella stessa maniera della televisione. La possibilità
      di rendere reale e fisica, biologica e dotata di vita di un'esistenza
      propria e antropomorfa l'informazione interessò fin da subito il potere
      politico che trovava in Tv e radio la realizzazione in quintessenza della
      sua rappresentazione: essere informazione, rimanendo con l'aspetto di un
      dato di fatto, esercitare il potere nascondendone l'esercizio.
      Nella decodificazione dell'informazione, scrivevo prima, la stampa
      richiede uno sforzo intellettuale e biologico e un esercizio preventivo:
      la scoperta delle parole, la sequenzialità dei concetti e infine la
      visualizzazione dell'immagine informativa. Anche la TV richiede un
      esercizio intellettuale ma estremamente abbreviato:  chi legge un
      notiziario televisivo è un corpo che parla, nel presente, e l'informazione
      si genera antropomorfa. Quasi mai, leggendo un giornale, immaginiamo il
      giornalista mentre lo scrive, la verità del suo lavoro, che, invece,
      rimane un'attività svolta dietro le quinte, nascosta dai caratteri di
      stampa, lontana dalla fisicità e dall'umanità.  La visione del
      giornalista rimane una questione per gli addetti ai lavori e questo fa
      parte della gerarchia in cui è organizzato il linguaggio giornalistico.
      “Uccide la moglie perché non gli fa vedere San Remo”, questo fu un
      titolone esemplificativo di un certo tipo di giornalismo scandalistico e
      'popolare', dove il dato di fatto inequivocabile che l'omicida abbia
      commesso il delitto per poter vedere il festival di San Remo (ed è un dato
      di fatto, confessato dall'omicida) diviene un'informazione sul mondo
      familiare, per poi tornare a essere occasione di cronaca. La televisione
      fa uccidere sempre la moglie per futili motivi, si interroga anche sul
      futile  non per negarlo ma per rappresentarlo meglio; per sua logica
      non esce dall'occasione immediata di un evento. Questo è il suo paradigma
      anche quando rivela il futile oppure quando lo nega e lo indaga e
      approfondisce, anche quando, e lo fa sempre più spesso, racconta sé
      stessa, anche quando si analizza e si siede sul lettino
      dell'autocoscienza.
      Lo scenario televisivo, anche quello più complesso, ha bisogno di contesti
      semplici, o di molti contesti semplici concatenati, che sono gli unici a
      costituire complessità in TV, ma mai profondità.
      La radio, che pure è distribuita verso l'individuo e ha una trasmissione
      incorporea e uno spazio scenico imprecisato, non riesce a recuperare
      questo sdoppiamento tra fittizio e reale nella rappresentazione dell'unità
      tra informazione e dato di fatto, se lo facesse cadrebbe immediatamente
      nel ridicolo, nella rudezza propagandistica o informativa direttamente
      percepita. La televisione, invece, può essere semplice e semplificare, la
      semplificazione è nelle sue tecniche comunicative e nelle sue tecnologie.
      
      Venerdì, 17 aprile
      
      Annotazione. Dopo gli sproloqui di ieri, annoterei, in estrema sintesi,
      che è un dato di fatto che radio e televisione e il loro spazio non
      euclideo (l'etere) sono diventati, in Italia, proprietà privata dello
      stato. Nessun organo di stampa o casa di distribuzione cinematografica
      sono stati controllati così strettamente dallo stato come l'etere e la
      tecnologia radio – televisiva. Si è instaurato un regime di monopolio che
      è durato mezzo secolo per la radio e venticinque anni per la televisione.
      Questo è stato un prodotto della specificità storico – politica italiana
      ma anche un dato che sottolinea la  forza comunicativa che radio e
      televisione possiedono. Insomma l'anomalia italiana c'entra eccome ma
      denuncia una generalità e normalità: i linguaggi di radio e televisione
      sono terribilmente efficaci e preziosi, fino al punto che  il potere
      politico ha cercato di non condividerli con altri.
      Gran parte di quanto annotato finora si riferisce all'Italia e a quella
      che si potrebbe storicizzare come la prima fase del linguaggio televisivo,
      quello dei grandi canali nazionali, rigorosamente espressi in lingua
      nazionale, orientati all'informazione politica e agli interni e
      soprattutto canali unici, senza competitori. La semplificazione qui era
      palese ed esplicita e la televisione si è manifestata per quella che era e
      aveva ottenuto un'enorme successo proprio in ragione del suo linguaggio
      rudimentale: un media semplice, univoco e non multimediale, una banalità
      fatta a immagine dell'uomo, antropomorfa.
      Anche il teatro e poi il cinema, quando passavano in TV, cessavano di
      essere quello che sono e diventavano un racconto sull'opera, inquadrature
      sull'opera teatrale e interpretazione filmografica di quella; per il
      cinema lo svuotamento è più sottile e meno evidente: le televisione
      riduceva alla sua dimensione lo schermo ideale del cinematografo, lo
      appiattisce e interviene sui tempi della proiezione. La televisione
      rappresenta gli altri media, imprimendo loro la sua univocità e
      semplicità, a polivocità e complessità può solo alludere. Questo sempre
      anche oggi. Già allora, però, possedeva questa forza e potenza
      comunicativa nell'essere antropologica e antropomorfa, un inveramento
      artificiale dell'umano e una seconda realtà fisica non più euclidea e
      quindi uno stato d'animo e sensitività fini da subito. Questo è stato ed è
      la struttura atomica del linguaggio televisivo, che poi combina molecole e
      costituisce elementi molari.
      
      Domenica, 19 aprile
      
      Annotazione. Negli anni cinquanta e sessanta il movimento critico contro
      la comunicazione televisiva, moralista e trombonesco, colse e prese a
      pretesto questo carattere semplificatorio. Ergendosi a difensori della
      carta stampata, questi critici sottolineavano la banalità e semplicità
      congenite del linguaggio televisivo: la televisione non sarebbe mai potuta
      essere un buon media ed era condannata a un ruolo sottoculturale. La
      televisione lo è stata e lo è: tutte le altre espressioni culturali (la
      stampa, il cinema, la fotografia, il cinema, la musica e le arti visive)
      sono nella TV ma perdono la loro autenticità, sono schiacciate dentro la
      dimensione unimediale del mezzo televisione che abolisce le differenze,
      anziché sottolinearle, e che le ha consentito di essere il mezzo di
      comunicazione per eccellenza. Proprio il fatto di usare un linguaggio
      semplificato e sottoculturale, di non voler elaborare una cultura
      indipendente, ha reso la televisione una potenza culturale, una seconda
      realtà democratica e una specie di Pier Paolo Pasolini nel suo contrario.
      Nonostante la parentela, questa operazione non poteva realizzarsi
      attraverso la radio, che pure, come la televisione, scende tra gli
      individui in maniera non spazializzata e non asincrona. Anche la radio è
      una presenza e si configura come una scena diffusa e reale, come l'unità
      che si diffonde. Alla radio mancava però l'aspetto della visualità, la
      finzione della presenza fisica. 
      Più le banconote sono ben imitate, più i falsari imitano il reale, più il
      danaro è falso. La televisione, nella sua prima fase, costruiva una
      seconda realtà, denunciandone, però, il carattere: palinsesti rigidi,
      divisi secondo spazi tematici, rivelavano l'edificazione del prodotto,
      informavano lo spettatore del fatto che quello era un messaggio
      televisivo. La finzione della presenza fisica rimaneva manifesta, mentre
      la costruzione dell'informazione televisiva si teneva ben lontana
      dall'importare e mettere in scena la realtà quotidiana, gli stati d'animo
      e gli affetti. I programmi televisivi che sono naturalmente confezioni di
      stati d'animo uniti con informazioni, in quanto il media è antropomorfo e
      riproduce antropometricamente la realtà, nella prima fase della
      comunicazione televisiva, teneva a distanza la realtà fisica e
      l'immaginario come potenze da non utilizzare. Questo contribuiva a
      rinforzare le critiche contro la banalizzazione e semplificazione
      televisiva, anche se quei critici oggi inorridirebbero sperimentando i
      nuovi orizzonti della televisione che si confonde con la realtà e la
      produce. 
      Nella sua prima fase il sistema televisivo si limitava a rappresentare la
      realtà e si guardava bene dall'entrare nella realtà, provocando eventi in
      quella; questo è un passaggio che in Italia si realizza nei primi anni
      ottanta e che curiosamente è analogo e anche coevo con la trasformazione
      che subì la chiesa cattolica sotto il pontificato di Giovanni Paolo II,
      che passò da un atteggiamento di critica registrazione morale dei tempi e
      da un appoggio esterno alle forze politiche conservatrici a un
      comportamento attivo e 'politico' sui tempi storici, un comportamento che
      fu equiparato a quello di un partito politico. Sia il sistema televisivo
      che la chiesa cattolica ebbero percezione del fatto che il corpo sociale
      stava perdendo quell'autonomia energetica e produttiva sulla quale avevano
      lavorato e che la semplice rappresentazione della realtà rischiava di
      svuotare le loro istituzioni e di privarle di funzione: il corpo sociale,
      infatti, si stava svuotando e stava cessando di essere un corpo,
      rappresentabile come un insieme di organi. Le trasformazioni sociali, il
      passaggio dal welfare state al warfare state hanno
      avuto un'influenza fortissima su entrambi questi processi, sia la chiesa
      cattolica sia il sistema il televisivo sono sistemi di comunicazione di
      massa che hanno percepito la perdita di terreno e di significato della
      socialità nel corpo sociale che le politiche neo – liberiste
      determinavano; si disegnava uno 'spazio vuoto' nelle relazioni sociali che
      imponeva e rendeva anche produttivi economicamente gli interventi diretti
      dentro la società allo scopo, prima, di ricostituire fittiziamente quel
      corpo di relazioni, poi, di sostituirle con altre (pensiamo alla parabola
      che parte da 'Profondo nord' e finisce con Samarcanda e poi ancora con
      Anno zero).
      Nella prima fase della sua storia, così, il sistema televisivo subiva la
      concorrenza di quello radiofonico, anche perché quello, non avendo la
      potenza imitativa della realtà propria della televisione, e pur rimanendo
      vincolato (come quello televisivo) allo stretto controllo del potere
      politico, poteva con maggiore spregiudicatezza estendere il suo linguaggio
      e in due direzioni (estensione che rimarrà nel codice genetico del sistema
      comunicativo radiofonico): una volta verso un'apertura alla realtà
      quotidiana e agli stati d'animo (pensiamo alla celeberrima trasmissione
      radiofonica degli anni sessanta 'Chiamate Roma 3131', a programmazioni
      come 'Alto gradimento', Superonic, Per voi giovani e moltissime altre),
      l'altra volta verso la cultura e lo specifico radiofonico (la linguistica,
      la letteratura e soprattutto la musica e la sua storia) e in genere a un
      ragionamento, a volte implicito ma spesso esplicito, sulla radio, cose che
      mancarono completamente al sistema televisivo della prima fase.
      Già allora, comunque, scrivere di televisione significava scrivere di un
      aspetto significativo della società e della vita sociale ma non, come sarà
      per la seconda fase della storia della televisione, della vita sociale
      stessa, dell'esplosione dei palinsesti, della commercializzazione
      dell'etere, della produzione di una realtà fisica, emotiva, passionale e
      affettiva parallela, dove la banconota del falsario è quasi identica a
      quella corrente, dove il falso è tanto falso da entrare a far parte del
      reale ed è più potente del reale, dove la moneta cattiva scaccia e
      nasconde quella buona e dove si mettono in discussione i parametri di
      verità e realtà; una fase questa inaugurata dopo il 1976 e andata avanti
      fino alla vigilia del nuovo millennio. Dopo, la proliferazione della
      realtà virtuale, della comunicazione telematica, delle reti dei dati e la
      strutturazione del cyberg – spazio hanno imposto alla seconda realtà
      fisica, al mondo parallelo televisivo di sperimentare nuove tecnologie e
      nuove strategie e di avviare una nuova fase sviluppo.
      Se la prima trasformazione  ha accompagnato il passaggio dal welfare
      al warfare e il temporaneo rafforzamento degli stati – nazione
      come potenze militari, quest'ultima ha assistito il parto di un
      altrettanto apparente istituzionalità internazionale; entrambe, comunque,
      condividono un mondo del lavoro transnazionalizzato e un modo di
      produzione demassificato nel quale la progettazione è tutto, la produzione
      solo una conseguenza della progettazione e gli eventi, intesi come
      risultati di progetti particolari, sono il cuore della produzione
      generale.
      In questi nuovo contesti, il monocratismo e la confezione rigida della
      prima generazione televisiva rimane come vezzo, richiamo erudito, evento
      particolare esso stesso, ma non è più essenza, modo di essere e attributo
      della produzione televisiva.
      
      Giovedì, 23 aprile
      
      Annotazione. La televisione costruisce una 'seconda realtà fisica', che ha
      un impatto emotivo simile alla prima e che tende a coincidere con quella.
      Desidera coincidere in primo luogo perché, molto semplicemente, entra a
      far parte di quella, precisamente come qualsiasi altro sistema di
      comunicazione; a differenza di quelli, però, la presenza televisiva
      suscita il noto e non casuale luogo comune secondo il quale: “entra nelle
      case”. La televisione è, quindi, invasiva ed invasiva per sincronicità,
      fisicità ed emotività, queste tre condizioni conformano la componente
      passiva dell'invasività televisiva, quella, appunto, che 'entra nelle
      case'.
      Esiste, però, una seconda componente della invasività televisiva, che,
      ovviamente, dipende dalla prima e cioè dalla presenza diffusa e sincrona,
      secondo la quale, usando un motteggio altrettanto banale, “dove è
      televisione è casa”. La presenza televisiva, quindi, non si limita a
      entrare nelle case ma anche a istituire una socialità della casa, non
      mettendo in relazione i singoli spazi domestici ma facendo in modo che le
      case si assomiglino tutte, partecipando allo stesso tessuto
      comunicativo.  Luoghi comuni, per quanto banali, sono, a proposito
      del sistema televisivo, veri proprio perché, e non si tratta solo di un
      gioco di parole, il sistema televisivo è un luogo comune.
      Al contrario di stampa, cinema e teatro la televisione definisce alla
      stessa maniera tutti i luoghi, qualsiasi luogo, come possibile platea,
      uditorio e convegno di spettatori; anche un gabinetto, anche una baracca,
      anche una capanna costruita secondo le tecnologie del neolitico, possono
      essere (invasività passiva) e trasformarsi (invasività attiva) in
      televisione, in luoghi di fruizione televisiva. La seconda realtà
      percettiva entra, così, prepotentemente nella prima.
      È ozioso il tentativo di distinguere tra mondo delle relazioni reali,
      magari configurandole come 'autentiche', e mondo delle relazioni
      televisive. La televisione e gli eventi televisivi istituiscono una
      comunità che attraversa quella reale, anche se, certamente, la comunità
      televisiva della prima fase ha delle caratteristiche molto diverse da
      quelle posteriori; in verità la struttura della comunità televisiva segue
      molto da vicino quella della comunità reale, anche perché il prodotto
      televisivo è il prodotto della comunità reale che, come molti altri
      prodotti, interviene in quella, ritornandoci.
      Il 'potere' della televisione sta nell'impatto di questo ritorno che, per
      le ragioni legate allo specifico linguaggio televisivo, è molto forte e
      incisivo. Su questo aspetto, però, cercherò di soffermarmi più avanti; ora
      mi preme sottolineare gli elementi distintivi del linguaggio televisivo al
      di là delle sue diverse fasi, al di là della sua storia e del suo
      sviluppo, e nella sua essenza.
      Il primo carattere è quello di un non luogo, come la seconda
      caratteristica è quella di essere una forma si spettacolo e comunicazione
      distribuita capillarmente, con omogeneità e sincronicamente. Il terzo
      elemento è quello di essere antropomorfa e antropometrica, cioè di
      costituire una seconda realtà visiva, percettiva, sensoriale ed emotiva.
      Questi elementi costituiscono l'involucro dell'informazione che permettono
      di conformare gli eventi mediatici secondo una struttura particolarmente
      efficace. In televisione non è messa in rappresentazione la realtà, come a
      teatro, al cinema o in radio, ma qualcosa che pretende di essere la
      realtà.
      La struttura narrativa dell'informazione è offerta in tempo reale, nella
      contemporaneità e nel concreto svolgersi del tempo storico che è il
      contenitore dell'evento e degli eventi televisivi che, quindi, accadono
      nella realtà. L'involucro del linguaggio televisivo consente e impone
      questo sbilanciamento del tempo della realtà, storico, verso il tempo
      televisivo.
      Per descrivere gli altri elementi della struttura narrativa televisiva ho
      ritenuto interessanti alcuni concetti che la psicanalisi associa
      all'interpretazione dei sogni e anche ad alcune patologie: spostamento,
      condensazione e rimozione. La realtà onirica ben si adatta a fornire gli
      elementi analitici per la seconda realtà televisiva: la parentela tra
      sogno ed evento televisivo è per me evidente. Tanto nel sogno, quanto
      nella realtà, inoltre, la trama del tempo è analoga, sogno e realtà
      intrecciano il tempo nella stessa maniera, anche questa, mi pare, un buona
      parentela.
      
      Sabato, 25 aprile
      
      Annotazione. Questi tre elementi, pur essendo costitutivi della struttura
      narrativa usata dalla TV, ne hanno movimentato la storia, nel senso che la
      loro mescolanza, il peso reciproco, non è stato uguale nelle diverse fasi
      storiche del mondo televisivo. C'è un secondo elemento che ha contribuito,
      cambiando, a determinare la storia del sistema televisivo: l'invasività.
      Sinteticamente l'invasione televisiva ha sempre più assunto caratteri
      attivi, di determinazione degli spazi che investiva, attraverso la
      definizione 'sociale' della platea, là dove la fruizione definiva anche il
      fruitore, facendo in modo che divenisse qualcosa di diverso da quello che
      era prima di assistere all'evento televisivo. Questo modo di coinvolgere
      lo spettatore è certamente condiviso da cinema e teatro, ma solo con radio
      e televisione diventa un fatto privato, individuale e intimo,
      un'esperienza e contatto, per di più, continuato.
      L'invasività televisiva non si limita, però, all'aspetto della fruizione,
      ma anche a quello della costruzione e progettazione. Qui la struttura
      narrativa della cultura televisiva investe il reale, direttamente. La
      televisione 'monocratica' si limitava a registrare (utilizzando gli
      strumenti di condensazione spostamento e rimozione) la realtà e gli eventi
      arrivavano al fruitore come sorpresi, commentati e riassunti dalla realtà
      concreta; si presentava, in un aggettivo, come passiva rispetto alla
      realtà.
      Contemporaneamente la generale pervasività tanto passiva che attiva
      nell'ambito della fruizione entrava far parte del linguaggio televisivo
      nella sua interezza, nel senso che non esiste un elemento senza l'altro e,
      soprattutto, l'invasività passiva nella fruizione del prodotto / evento /
      stato d'animo rende possibile proprio perché tale, perché interviene
      continuamente e individualmente sull'emotività e la relazione sociale,
      l'invasività attiva.
      Ancor di più il discorso è valido se passiamo dal livello della fruizione
      a quello della costruzione del prodotto, evento e stato d'animo. La
      fruizione passiva e attiva dei prodotti televisivi conferma un sostrato,
      una sorta di pavimentazione o asfaltatura, distribuito omogeneamente
      nell'immaginario; questo sostrato è un'attitudine generalizzata a
      percepire la realtà anche attraverso la mediazione televisiva e a credere
      a quel tipo di percezione. Credere non significa affatto condividere,
      lasciarsi convincere e confondere le informazioni televisive con quelle
      acquisite 'naturalmente', credere è sinonimo di un confronto intimo,
      quotidiano ed emotivo con una media informativo antropomorfo e
      antropometrico, è la stessa cosa che avere davanti a sé, costantemente,
      una persona, sentirne la presenza, i sentimenti, le angosce e le paure, le
      azioni e e le reazioni.
      La fruizione passiva e attiva costruisce quel sostrato sul quale il
      sistema televisivo ha sperimentato per la prima volta di intervenire
      direttamente nella realtà: vale a dire non solo di rappresentare gli
      eventi e di determinarne contesto e scenario ma addirittura di suscitarli.
      L'avvento della televisione polifonica, avvenuto in Italia tra la fine dei
      settanta e i primi anni ottanta, una televisione che non esercita una sola
      narrazione ma più narrazioni, è segnato dal passaggio conclamato dalla
      costruzione passiva e registrante (rappresentativa) a quella attiva. Se
      vogliamo le professionalità necessarie alla realizzazione del linguaggio
      televisivo nella TV monofonica e monocratica erano più alte e raffinate:
      condensazioni, spostamenti e rimozioni andavano attentamente progettati e
      la confezione del prodotto più elaborata perché secondo quel modello la
      televisione non poteva interferire direttamente nella verità e quindi
      doveva nascondere e occultare la sua interpretazione linguistica. La
      televisione polifonica e policratica banalizza l'operazione culturale e
      rappresentativa, la semplifica, lavorando sulla quantità, sul complesso
      informativo e non sulla qualità e sul singolo evento narrativo.
      Sto usando, ovviamente, termini inappropriati che, comunque, espongo. Per
      monocratica e monofonica intendo la televisione come diretta espressione
      del potere politico e da quello controllata e sorvegliata (i famosi canali
      unici italiani fino al 1976 ne sono un esempio) e quella governata da
      palinsesti rigidi, formalizzati, che scandiscono con costanza e uniformità
      la narrazione, e infine quella nella quale la linea editoriale è coerente
      e non prevede contraddittori e dialettica, che possano mettere in
      discussione quella linea narrativa. Per policratica e polifonica intendo
      la televisione nella quale la programmazione cessa di essere diretta
      espressione del potere politico e quindi è consentita la proliferazione
      dei canali pubblici e privati, e dove i palinsesti si differenziano
      notevolmente e mutano di frequente e la linea editoriale e narrativa è
      dominata dall'incoerenza (quanto meno recitata e rappresentata) che
      comporta contraddittori, confronti, contributi eterogenei e programmi
      apparentemente contrapposti e in contrapposizione.
      Non si fraintenda: la democrazia non c'entra nulla. La TV è, in verità,
      tutta monocratica, non prevede la costruzione dell'informazione attraverso
      contributi esterni e sotto l'aspetto del processo produttivo non conosce
      esterni da sé. Questa caratteristica è condivisa anche da altri sistemi
      massmediatici, ma il fatto di essere un complesso informativo chiuso e
      isolato è rappresentativo in modo bio – psichico (biologico, percettivo ed
      emozionale) della realtà ha delle conseguenze profonde: la realtà viene
      offerta in una semplificazione informativa ed emotiva. Questa
      semplificazione vale tanto per l'epoca monocratica quanto per la fase
      policratica: nella prima la semplicità è unica, nella seconda è
      molteplice, secondo una giustapposizione, però, di numerose semplicità. La
      semplificazione, modo di essere che tanto fece inorridire i primi critici,
      è rimasta la fenomenologia fondamentale della comunicazione televisiva. La
      televisione ha la forza di proporre la realtà in maniera semplificata, il
      linguaggio del reale si semplifica, perde ricchezze e contaminazioni,
      diventa asettico, selezionato, televisivo, appunto.
      Visualità, sincronicità, aspazialità e antropometria permettono alla
      televisione di proporre la semplicità e subito dopo la semplicità concorre
      alla forza  dello strumento comunicativo. Questa interazione è resa
      efficace e piena di effetti comunicativi perché la complessità percettiva
      offerta dalla televisione (occhio, orecchio, spazio antropometrico, stati
      d'animo, passioni) nasconde la sua semplicità e la rende accettabile. La
      televisione offre una forma di piacere, di godimento, produce emozioni,
      trasmette informazioni senza richiedere sforzi interpretativi e
      costituisce una realtà, spesso drammatica e spaesante ma mai pericolosa e
      offensiva: concede il piacere di essere nella realtà senza partecipare ai
      rischi di questa presenza. Lo spettatore televisivo è uno spettatore
      inesistente, è colui che sta dentro la realtà senza esserci: lo spettatore
      ha l'illusione dell'invulnerabilità.
      Questo aspetto della televisione come piacere è emerso nella seconda fase
      della sua storia, quando la corsa verso la realtà e la discesa verso la
      realtà è diventata distintiva e l'uso di spostamento e condensazione è
      diventata preminente rispetto alla rimozione degli elementi del reale.
      
      Giovedì, 29 aprile
      
      Ai margini. Arte e Multitudo.
      Avevo annotato sul libro, a matita, e ai margini di un intervento sulla
      transavanguardia  che la transavanguardia era tutto ciò che non avrei
      voluto dall'arte se mai ho chiesto qualcosa all'arte.
      Per me è qui il punto: Negri spiega l'arte e la spiega come 'eccedenza
      dell'essere'. Mi può star bene. Il problema è perché quest'eccedenza piace
      o è piaciuta, perché ha avuto spazio. La risposta rischia di essere
      metafisica. L'eccedenza copriva una mancanza? O come scrive Marx da
      qualche parte l'arte ha avuto la funzione di ripulire la coscienza delle
      classi dominanti o di nascondere la loro cattiva o falsa coscienza? Temo
      che oggi il tema di eccedenza, mancanza e coscienza sia del tutto fuori
      luogo e sgombrerei il campo da qualsiasi considerazione 'metafisica'
      perché la storia lo ha fatto.
      Non è più possibile scrivere oggi né, credo, domani di eccedenza, mancanza
      e coscienza e quindi di arte. Se mai è esistita l'arte, oggi non esiste
      più. Non si tratta di una affermazione potenzialmente neo – romantica che
      presupporrebbe una nuova avanguardia artistica, nascondendola anche a sé
      stessa come si nasconde un amore che non può che essere clandestino, ma
      della fredda e realistica registrazione della realtà. Se l'arte non esiste
      più, bisogna inforcare nuovi occhiali per spiegare l'arte del passato o
      meglio quello che veniva inteso come arte nel passato.
      Questi nuovi occhiali ci provocheranno dolori agli occhi ma non terribili
      visioni, anzi serene visioni: non ha più nessun senso separare l'arte dal
      sapere e questa separazione appartiene solo al linguaggio del mercante e
      alle sue terribili visioni, le forze del mercato.
    
    rivedi
                                        aprile
                      
      Inizio anno
             
        
        Venerdì, 1 maggio 
          
        Letture. Che cos'è un popolo / Alain Badieu, Pierre Bordieu,
        Judith Butler [et al.]. - Roma : Deriveapprodi, 2014. (Fuori gioco, 46).
        Da qualche giorno sto leggendo, piuttosto distrattamente, 'che cos'è un
        popolo' di alcuni autori francesi dei quali non so nulla. Mi ha
        avvicinato al libro la curiosità sul concetto di popolo, depotenziato e
        nei fatti criticato da Negri e Hardt. Non ho trovato nulla nel testo che
        giustifichi il suo reintegro, anche nell'analisi espressa nel primo
        contributo “24 glosse sull'uso della parola popolo” di Alain Badieu.
        Badieu recupera una visione marxista del concetto, ma fatica
        notevolmente a collocarlo; convengo con lui che il sostantivo seguito
        dall'aggettivo di appartenenza ('popolo italiano') assume immediatamente
        un significato 'di destra', rimandando all'identità nazionale, ai valori
        dello stato e della nazione e a un'unità popolare mistificata.
        Più controverso l'uso dell'aggettivale 'popolare', che nel caso di
        'esercito popolare', 'guerra popolare' può richiamare un'idea
        progressiva e NON unitaria del popolo e identità particolari costruite
        in seno al popolo. Scrive a tal proposito Badieu che “popolo è un
        termine che acquisisce il suo valore o nelle forme, transitorie, delle
        guerre di liberazione nazionale o in quelle, definitive, delle politiche
        comuniste” (p. 11). Seppur quando ragiono da internazionalista nel senso
        storico, anarchico e comunista del termine posso sottoscrivere quanto
        affermato da Badieu, ho la chiara sensazione che rispetto
        all'elaborazione, davvero interessante e illuminante, di Virno e Negri
        il problema sia riproposto anche bene, ma su un terreno ormai
        sorpassato.
        Anche l'internazionalismo comunista ha perduto gran parte della sua
        grammatica perché, per dirla in un motto, come il capitalismo ha perduto
        le nazioni, così il comunismo ha perduto i popoli, ed entrambi non hanno
        più la possibilità di individuare un coordinamento tra i rispettivi
        riferimenti geografici (cioè appunto nazioni e popoli). Questa
        confusione in materia coinvolge tutti, anche le ideologie della destra
        che sbandano pericolosamente tra momenti regionalisti e localistici
        (rinnegando e non usando l'idea di popolo e delle nazioni tradizionali,
        pensiamo ai 'padani' e alla 'padania' della Lega nord) e momenti
        nazionalistici e populisti (sempre la Lega nord sotto la 'direzione
        strategica' di Salvini); qui addirittura si creano popoli e sotto –
        popoli a seconda delle occasioni politiche. La confusione coinvolge
        anche le ideologie dell'internazionalismo neo – liberista e le
        oligarchie finanziarie multinazionali.
        
        Sabato, 2 maggio
        
        Letture. Che cos'è un popolo. Popolare. Pierre Bordieu introduce la
        definizione o meglio usa (sostituendo / scomponendo i termini di lingua
        nazionale e popolare) la definizione di lingua legittima o dominante e
        lingua dei dominati o illegittima. Il concetto 'popolare' viene
        ulteriormente scomposto in gerghi regionali e locali, secondo una
        visione nella quale la lingua si frantuma in molti insiemi e
        sottoinsiemi che corrispondono a diversi tessuti delle relazioni sociali
        e a diversi luoghi di uso ed elaborazione della lingua.
        C'è il bar, la scuola, il lavoro e via discorrendo. Della realtà
        linguistica non si prende in considerazione solo il lessico ma anche gli
        argomenti utilizzati, la politica al bar e 'da bar', il linguaggio
        femminile (quello che si stabilisce nelle relazioni tra donne,
        soprattutto tra casalinghe), solitamente orientato all'amministrazione
        della casa e ai rapporti con la sanità e le istituzioni scolastiche, e i
        linguaggi giovanili orientati a descrivere il tempo libero, il
        divertimento e i sentimenti. Mi pare che la grande frattura linguistica
        passi tra la lingua legittima e codificata (scolasticamente e
        mediaticamente) e tutte le altre, ma è una frattura morbida che si
        realizza secondo gradienze diverse. Nella lingua femminile è minima,
        perché le donne cercano di emulare il linguaggio delle istituzioni,
        essendo uno dei compiti delle casalinghe mantenere le relazioni con il
        mondo burocratico e con l'assistenza pubblica destinata alla famiglia.
        Più forte la separazione con la lingua da bar dove spesso le parole
        comuni e lessicalmente perfette sono caricate di nuovi significati che
        così si avvicina alla lingua della malavita, con i suoi modi di dire
        specifici. Netta, per l'analisi tutta francese di Bordieu, la distanza
        tra la lingua giovanile dei banlieu popolati da immigrati di
        prima o seconda generazione e la lingua dominante; anzi proprio lì la
        lingua legittima si presenta come immagine del mondo, come un estraneo
        che costringe, in alcuni contesti specificati dalla presenza del potere
        linguistico e dell'ufficialità, la lingua dominata, parlata e
        colloquiale al silenzio, poiché la priva di qualsiasi legittimità.
        Scrive Bordieu in proposito: “ … che li condanna a uno sforzo più o meno
        disperato verso la correzione o al silenzio” (p. 30).
        
        Domenica, 3 maggio
        
        Letture. Che cos'è un popolo. Noi, il popolo (Judith Butler). Questo
        contributo inizia con un'analisi semantica di 'noi, il popolo' come
        momento di dichiarazione che include e parimenti esclude gli altri. Non
        è questo che mi ha felicemente impressionato quanto, invece, l'idea, o
        meglio il tentativo di elaborare l'idea, di sostituire tutto quello che
        concerne l'umano e i suoi diritti con un nuovo fondamento conoscitivo ed
        etico. L'idea di uomo si è ormai profondamente legata alla metafisica
        dell'umano che in antropologia e filosofia si sostanzia nel concetto
        storico di stato di natura e in giurisprudenza e in scienza morale nei
        diritti umani inalienabili e imprescrittibili, mentre la Butler propone
        l'idea di corpo organico.
        Il corpo organico non si riduce alla biologia ma è inerente alla
        psicologia, che è vista come una funzione dell'organico biologico e con
        la fisica poiché il corpo occupa un spazio. Attraverso i corpi organici
        e la loro disposizione si comunicano e manifestano programmi e idee
        politiche; i corpi costituiscono lo spazio politico. 
        Il corpo organico è un complesso di bisogni e di esigenze nella stessa
        proporzione nella quale non è autofondante e autosufficiente ma fondato
        e generato e ha, quindi, bisogno del sostegno e della collaborazione di
        altri corpi. Come il concetto di umano, lo stesso concetto di popolo,
        che pure performativamente può ancora essere usato, va
        ricondotto a questa materialità organica, che non si risolve in un'idea,
        diritto e principio conclusivo, ma è necessariamente relazionale: nessun
        corpo basta a sé stesso come nel no man is an island di Berkeley.
        La Butler cerca (ribadisco che  mi pare un tentativo) di
        ricostituire l'umano senza pagare il dazio del passaggio all'ontologia
        metafisica dell'umano e cerca di ricostituire un'immagine della
        mobilitazione e azione politica che si allontani dagli schemi delle
        mobilitazioni e contemporaneamente le spieghi. Spiega molto, a mio
        parere, questo passo secondo il quale la manifestazione, l'aggregazione
        dei corpi in quanto tale, è già un programma politico: “Quando
        supportiamo diritti quali la libertà di riunirci, di costituirci in
        popolo, li affermiamo secondo le nostre pratiche corporee. Possono
        essere enunciati, ma l'enunciato sta già lì nell'assemblea …” (p. 60).
        Altrove e in più punti l'autrice denuncia la 'crisi' della corporeità,
        dell'espressione corporea in politica e nella vita sociale e, aggiungo
        io, l'astrazione dell'umano, che è la descrizione di un umano dove il
        corpo è un accidente, una questione estetica e di presenza e percezione
        idealizzata. Il corpo stesso è rimasto coinvolto nell'astrazione
        idealizzante dell'umano, come oggetto accidentale della mercificazione,
        del messaggio televisivo, dell'azione pubblicitaria e della umanità del
        mercato.
        Il corpo è un oggetto accidentale, non un valore ma un problema, un
        limite per la teoria della metafisica dell'umano ma, contemporaneamente,
        questa componente accidentale dell'umano trova una sua nuova
        collocazione, e per certi versi un riscatto, nell'idealizzazione del
        corpo come fonte di una corretta estetica, presenza e bellezza. In
        questo caso, allora, a questo livello della rappresentazione, il corpo,
        emancipato dalla sua accidentalità, diviene necessario.
        La metafisica dell'umano, proprio perché odia l'accidente e ricerca il
        necessario da istituire e su cui istituirsi, odia anche il corpo, i suoi
        bisogni e la sua vulnerabilità; ha necessità, quindi, di rendere il
        corpo, l'accidente, un'altra cosa, un diverso da sé, che si elevi a
        essere concepito come sostanza, come verità e a quella si lega. Questo
        processo ha molti aspetti e uno di quelli riguarda certamente il metro
        contemporaneo ma anche moderno della bellezza: secondo questo metro,
        ormai quasi tradizionale, il modello fisionomico occidentale si associa
        a caratteristiche morali ed etiche e determina e prova le diseguaglianze
        economiche, sociali ed etniche.
        
        Sabato, 9 maggio
        
        Annotazione. La televisione si è banalizzata dopo la sua prima fase, i
        giochi raffinati di rimozione e condensazione si sono semplificati. Il
        non detto elemento predominante della prima televisione in base a una
        maniera produttiva che imponeva il silenzio su gran parte degli eventi,
        rispettando una censura politica, etica, una selezione dell'emotività,
        degli stili di vita e che adottava la rappresentazione di una realtà eletta
        è venuto meno o è stato fortemente circoscritto.
        Faccio un esempio relativo alla cronaca politica: una grande
        manifestazione che degenera in scontri di piazza veniva rappresentata
        con qualche fotogramma commentato brevemente. Nelle foto non si coglieva
        mai l'elemento della battaglia di strada, ma si proponevano immagini
        d'insieme; nel commento, breve, le motivazioni della dimostrazione e il
        suo andamento venivano entrambi riportati con poche parole concise. Il
        peso specifico delle parole usate era altissimo: “alcuni elementi della
        non meglio definita sinistra extraparlamentare hanno provocato incidenti
        ai margini del corteo” era quasi un topos.
        Alla rimozione delle informazioni (in questo caso il numero dei
        dimostranti violenti, le loro parole d'ordine, i loro obiettivi e i
        dettagli delle armi usate) faceva riscontro un'altissima condensazione
        informativa e nessun tipo di spostamento. La descrizione del corteo non
        lasciava spazio a nessun elemento immaginifico e imponeva un
        ragionamento al di fuori del televisivo sull'evento. Qui la televisione
        passava la palla alla stampa politica, alla cronaca locale oppure ad
        alcune rubriche specializzate del suo palinsesto che, solitamente non
        preannunciate, a giorni o settimane di distanza, si occupavano
        analiticamente dell'evento.
        Se si pensa alla cronaca etica, ovverosia al costume, le relazioni
        interpersonali si riducevano a due categorie: le relazioni sul lavoro e
        quelle matrimoniali. I temi dell'amicizia e delle relazioni
        extraconiugali erano poste in assoluta minorità, presentati entrambi
        come momenti della vita sociale che avevano poca o nessuna influenza.
        L'omosessualità maschile vagamente accennata  attraverso meccanismi
        di autentico spostamento (solitamente, infatti, l'omosessualità e altre
        'devianze' come alcolismo, tossicodipendenze e malattie mentali venivano
        affrontate nella cronaca giudiziaria e nera e lo stesso concetto di
        'devianza' non era ancora emerso rispetto a quello di 'normalità', era
        un concetto pressoché privo di cittadinanza) l'omosessualità femminile
        ignorata in ogni sua forma, manifestazione e risultato. Tutto quello che
        richiamava alla conflittualità dentro le relazioni interpersonali era,
        quindi, o rimosso o condensato o spostato in altro.
        Dentro il linguaggio televisivo la cronaca nera era fortemente
        supportata dalle immagini in movimento ma seguendo delle regole ben
        precise: ci si limitava a interessarsi a fatti di sangue e ad episodi in
        cui era stato fatto uso di armi da fuoco, le immagini escludevano
        qualsiasi possibile ed eventuale 'presa diretta' dei fatti, anche se
        disponibile, ed erano circoscritte allo scenario dell'evento (l'esterno
        della banca, del negozio o il portone dell'edificio). Raramente,
        inoltre, si scendeva in dettagliate descrizioni dei fatti, la dinamica
        rimaneva vaga, il ruolo dei protagonisti non veniva mai precisamente
        individuato e anche per questi particolari si passava la palla agli
        altri mezzi di informazione di massa.
        La rappresentazione della realtà offerta dalla prima televisione era
        estremamente selettiva e seguiva meccanismi di scelta abbastanza rigidi
        e preordinati fino al punto che era abbastanza facile prevedere se un
        determinato evento sarebbe o no arrivato in televisione.
        
        Lunedì, 11 maggio
          
        Annotazione. Il capitalismo è un sistema complesso che negli
        ultimi quarant'anni ha reso la complessità sinonimo di impenetrabilità.
        La complessità economica e sociale è, infatti, presentata come un
        fenomeno governabile, esclusivamente, dal dominio del capitale, la
        ricchezza informativa e relazionale si tramuta, così, nel suo contrario:
        povertà e disorientamento, che non possono essere altro, se posti al di
        fuori di quel dominio, segmentazione, parcellizzazione, disaggregazione
        e solitudine. Da quarant'anni a questa parte, rispettando e nello stesso
        tempo usando questa complessità, il capitalismo ha elaborato un
        messaggio semplice, costante e proposto in maniera complessa (sotto le
        forme del complesso e della complessità).
        La prima parte di questo messaggio, costruito in forme articolate,
        trasmesso in maniera indiretta e spesso contraddittoria, volutamente
        contraddittoria, è riducibile alla svalutazione degli standard di vita
        delle classi subalterne nei paesi capitalistici egemoni. Se nella
        precedente fase del capitalismo il punto di riferimento per la qualità
        della vita proletaria era lo standard operaio inglese
        (professionalizzato, otto ore al giorno, il tardo pomeriggio al pub, il
        sabato e domenica festivo, la partita di calcio ogni fine settimana e
        una gita fuori porta, che usufruisce di servizi buona qualità nei
        trasporti e nella sanità) e dopo il 1945 lo standard dell'operaio –
        massa americano (ugualmente sindacalizzato, immerso nel tempo libero,
        navigante tra eventi televisivi e sportivi) e in genere il 'vitto e
        alloggio' era escluso dalle problematiche esistenziali, dopo Reagan e la
        Thatcher e gli anni ottanta il giro di boa è stato notevole, anche se
        presentato come graduale, rappresentato gradualmente e come graduale,
        nulla di rivoluzionario, qualche piccolo passo specifico e limitato.
        Lo spettro dell'economia della penuria ha iniziato ad aggirarsi tra gli
        stati a capitalismo sviluppato e l'economia della penuria e la sua
        necessità sono state introdotte e presentate utilizzando ogni paradigma
        disponibile, in primo luogo, ovviamente, quello economico, poi quello
        sociale e addirittura quello ecologico: tutto ha contribuito a
        dimostrare che lo sviluppo non poteva più darsi in forma libera,
        anarchica e lineare, ma che comportava necessariamente crisi (paradigma
        economico), individualismo e isolamento  (paradigma sociale) e
        sostenibilità (paradigma ecologico). Gli schemi ecologici sono stati in
        gran parte esportati in economia e sociologia: la sostenibilità è
        diventata il sostantivo fondante l'ideologia dello sviluppo.
        
        Giovedì, 14 maggio
        
        Annotazione. Il modello di vita speso sul lavoro si è spostato dapprima
        verso il Giappone e la Corea, stravolgendo il concetto stesso di
        produzione in serie e provocando un rivoluzionario cambiamento delle
        forme e forze produttive, ma non uno stravolgimento del modello nel suo
        complesso, il paradigma preso a prestito dall'ecologismo, la
        sostenibilità, non ha cambiato radicalmente la relazione tra reddito e
        lavoro e mutato le aspettative sulla qualità della vita dei lavoratori
        subalterni. Si è trattato di una serie di aggiustamenti, di una graduale
        mutazione delle vedute che, facendo spesso riferimento diretto alle
        teorizzazioni ecologiste intorno a uno sviluppo sostenibile verso
        l'ambiente, non ha prodotto un abbandono degli stili di vita precedenti;
        siamo grosso modo tra anni ottanta e novanta. Scomponendo questo dato
        negli anni ottanta (Reaganeconimcs e Thatcherismo) si
        privilegiò l'elemento della regressione economica, la rappresentazione,
        cioè, di un ritorno a un passato nella spesa delle famiglie, negli anni
        novanta, al contrario, emerse l'elemento 'progressivo': una delle tante
        facce delle poliedriche ideologie della globalizzazione faceva
        riferimento al problema ambientale e al problema economico come elementi
        di un unico processo, l'elemento regressivo, la 'crisi', passò in
        secondo piano e propagandisticamente anche l'impostazione neo –
        liberista venne posta in una prospettiva secondaria: decisiva era la
        razionalizzazione dello sviluppo secondo paradigmi di sostenibilità
        ambientale che richiedevano, ovviamente, compressione di spesa, consumi
        e domanda.
        Dopo il 2003, dopo Afghanistan e Iraq si è iniziato ad abbandonare
        questo terreno ideologico e rappresentativo andando, però, in una
        direzione che è volutamente ignota e mal definita. È venuto fuori in
        tutta la sua potenza il carattere cadaverico del futuro.
        Nessuno nei paesi capitalistici egemoni (anche questa definizione è
        ormai inadeguata, forse meglio scrivere 'capitalistici tradizionalmente
        egemoni') ha il coraggio e l'interesse oltre che il coraggio, di fare
        riferimento a Cina, Malesia, India o Romania e al loro modello di vita
        speso sul lavoro nella relazione con il reddito che produce per chi
        lavora. Cina , Malesia, India e quelli per essi rimangono come un'ombra,
        spesso un ricatto non voluto e non preordinato ma reale, che sta nelle
        cose, un problema di concorrenza sleale ma efficace e legittima.
        Muoversi verso quegli standard di vita e forme organizzative della
        produzione significherebbe abdicare al concetto stesso di sviluppo
        capitalistico (come storicamente si è dato in epoca moderna e tardo
        medioevale) e quindi rinunciare proprio all'egemonia tradizionale:
        affermare che il capitalismo non ha più un centro, che è realtà assodata
        da almeno un secolo, ma neppure un polo privilegiato che è novità degli
        ultimi tre – quattro decenni, affermare, dunque, che mezzo millennio di
        storia dello sviluppo capitalistico non ha più continuità. Il
        capitalismo mondiale integrato non ha ancora la forza intellettuale,
        politica e costituzionale per compiere questo passo: è necessaria una
        ridefinizione generale del modello di sviluppo e delle relazioni tra i
        diversi corpi del capitalismo transnazionale, ridefinizione che alle
        volte fa immaginare una guerra in senso quasi tradizionale, un conflitto
        che va oltre le singole specificità e aree regionali, dove le
        contraddizioni possano emergere in maniera sincronica e non, come
        adesso, diacronica.
        Bisognerebbe individuare meglio la natura di queste contraddizioni. Non
        possiamo dirle interimperialiste in senso compiuto: ogni stato  -
        nazione, per quanto potente, non cerca di esportare i suoi rapporti di
        produzione, anche perché non è davvero più possibile scrivere di
        borghesie e padronati nazionali come di capitalismi nazionali, ma,
        invece, utilizza rapporti omogenei, per certi versi neutri, e certamente
        transnazionali. Non è tutto così lineare, però: Cina e India spesso
        esercitano un ruolo imperialista che faticosamente si integra con quello
        'imperiale' descritto da Negri e spesso le vestigia ancora notevoli
        dello stato – nazione funzionano da surrogato, da rappresentazione (e
        non rappresentanza) della borghesia nazionale.
        Il cammino verso la costituzione di un organismo politico mondiale
        integrato è lungo e forse non è neppure un cammino interessante per chi
        dovrebbe esserne il naturale effettore. In questo senso il rischio della
        guerra quasi tradizionale è ancora presente, precisamente come in piena
        epoca moderna era ancora necessario risolvere le grandi contrapposizioni
        feudali e di lignaggio ereditate dal medioevo.
        
        Mercoledì, 20 maggio
        
        Annotazione. Ai margini. Che cos'è un popolo. La definizione di popolo è
        un succedaneo, una conseguenza, di quello di nazione. Non è stato il
        popolo a costruire la nazione, ma la nazione a determinare il popolo,
        inteso come comunità etnica e linguistica. Quando, molti anni fa, Rosa
        Luxembourg criticava il principio leninista di autodeterminazione dei
        popoli, lo definiva vuoto e utopico. Utopico perché un popolo, inteso
        come noi intendiamo popolo, non avrebbe avuto interesse a costituirsi in
        nazione, vuoto perché una comunità etnica e linguistica allo stato puro
        non si è mai realizzata nella storia.
        La comunità linguistica ed etnica, che poi si è riconosciuta
        storicamente in una nazione, ha avuto principalmente riferimenti
        geografici: le scienze geografiche, grazie alla loro capacità di
        descrivere i nodi amministrativi e politici, di circoscrivere le
        varianti regionali e fornire dei contorni alle specificità storiche e
        linguistiche, hanno fornito il palinsesto per la costituzione dell'idea
        di nazione. La definizione dei confini e della trama distrettuale
        attuata nella Francia durante la grande rivoluzione emblematizzano
        l'aspetto fondamentalmente geografico della nazione. La geografia del
        XVIII e XIX secolo ha metabolizzato le esigenze amministrative, le
        varianti dialettali, le minoranze linguistiche e le tradizioni storiche
        in un organo che si caratterizza attraverso dei confini eterni ed
        immutabili ed è di per sé stesso pensato come eterno e immutabile: il
        popolo e la corrispondente nazione. Questi confini eterni e immutabili
        separavano la nazione da un'alterità che annullava le diversità interne,
        privandole di statuto ontologico.
        La nazione, come complesso geografico, distrettuale, militare e
        amministrativo costituisce il concetto di popolo a sua immagine e
        somiglianza, che non è mai stato, neppure in epoca giacobina, un
        concetto rivoluzionario a patto di non esaltare e fare riferimento alle
        differenze in seno al popolo, e dunque alla separazione e alla
        divisione, che nell'indivisibilità produce logicamente frattura e
        alterità.
        Se la nazione non si è fondata sulla comunità etnico – linguistica, non
        si è neppure basata su una comunità economica: la nazione ha invece
        fatto sue e usato alcune omogeneità linguistiche ed economiche,
        spingendole verso un'astratta, forzata ed esogena coincidenza: la
        comunità linguistica è stata estesa verso il limite del confine
        nazionale (pensiamo alla lotta contro i dialetti, all'emergere stesso
        del concetto di dialetto e all'ostilità contro le minoranze
        linguistiche), così come la comunità economica (pensiamo alla lotta
        contro i dazi interne e le tradizioni monetarie particolari).
        
        Venerdì, 22 maggio
        
        Annotazione. Rimango legato alla vecchia tesi secondo la quale la genesi
        della nazione e del popolo è un prodotto dei rapporti di produzione
        capitalistici e di una combinazione tra le esigenze centralizzatrici
        della monarchia assoluta tardo – medioevale e gli istinti dell'emergente
        classe borghese. La monarchia aristocratica e il suo mercantilismo
        lavoravano sul versante istituzionale e geografico, costituendo la
        nazione, mentre l'economia di mercato su quello delle relazioni
        linguistiche, sociali e culturali, costituendo il popolo. L'economia si
        faceva popolare, mentre lo stato si faceva nazionale. 
        L'indifferenza feudale nei confronti delle diversità etniche e
        linguistiche era superata (esemplare il fatto che la Francia medioevale
        poté svilupparsi per interi secoli pur separata in un'area occitanica e
        un'area d'oil). Questo superamento non avvenne in funzione di un
        riconoscimento delle comunità etniche e linguistiche, ma in funzione
        della costruzione di una nuova comunità (per restare in Francia si deve
        scrivere di un'unificazione linguistica sulla langue d'oil, favorita dal
        fatto che la principale divisione delle grandi pertinenze feudali non
        corrispose al confine linguistico). La costruzione della nazione si basò
        certamente su un elemento 'popolare', come quello linguistico, ma l'idea
        di lingua nazionale fu il prodotto e non il presupposto di quel
        processo: rimane comunque importantissimo e genetico il fatto che la
        nazione per costituire il suo popolo usò politiche linguistiche, usò la
        lingua.
        
        Sabato, 23 maggio
        
        Annotazione. Il fatto che si usi la lingua non è indifferente alla
        natura del processo storico, anzi la rivela.
        La lingua per come la descrive Bordieu in 'Che cos'è un popolo', ma
        anche Migliorini in un'opera completamente diversa (Storia della lingua
        italiana) è il risultato di un mercato, anzi è un mercato. In questo
        mercato distinguiamo ufficialità, vale a dire valore di scambio, che
        Bordieu identifica nella lingua 'dominante' e 'legittima' e che
        Migliorini risolve nel concetto di lingua nazionale, e un complesso di
        valori d'uso, che si intersecano e contaminano vicendevolmente con
        l'ufficialità: questi sono i gerghi, lo slung e le varianti
        dialettali e regionali.
        Come nel mercato, almeno sotto il profilo strettamente fenomenico, è
        indifferente la presenza di un oggetto in quanto valore di scambio o
        d'uso, ma è il valore di scambio a decidere della sua oggettualità,
        della sua effettiva esistenza, anche nella lingua il lessico e la
        struttura lessicale vengono decisi a livello 'metalinguistico',
        costruiti secondo la confluenza di moltissimi lessici e strutture,
        valori d'uso linguistici che, validati, costituiscono il valore di
        scambio, la lingua 'dominante e legittima'. L'operazione è, precisamente
        come per l'economia di mercato, politica: si stabilisce che la
        circolazione degli oggetti è sottoposta a una valorizzazione esterna a
        quelli.
        La formazione di un mercato nazionale è isomorfa alla costruzione di una
        lingua nazionale, c'è una fortissima analogia anche se, mi preme
        sottolinearlo, non una coincidenza perfetta. È, dunque, abbastanza
        semplice e parimenti vero affermare che alla formazione di un mercato
        transnazionale (o globalizzato che dir si voglia) corrisponderà
        l'istituzione di una lingua 'isomorfa' con le immancabili varianti
        regionali, dialettali e gergali, i residuali valori d'uso obliterati,
        comunque, dal valore di scambio, protesi anche quelli a una somiglianza
        verso la lingua legittima e dominante.
        Ma non è questo il punto capace di spiegare il successo dell'elemento
        linguistico nella formazione del complesso di popolo e nazione: la
        similitudine è più profonda.
        La lingua e gli oggetti sono in una relazione più profonda: la lingua è
        un modo di descrivere gli oggetti. Per oggetti non intendo solo le cose
        fisiche ma anche quelle immateriali (sentimenti, stati d'animo, stati
        sociali, figure sociali e situazioni economiche); sempre e in ogni caso
        la lingua ha una relazione con gli oggetti e impone per sua stessa
        funzione un'interiorizzazione di quelli, per certi versi è un ponte tra
        oggetti esterni e oggetto interno (l'uomo che parla dell'oggetto e lo
        chiama). Attraverso la lingua gli oggetti entrano in noi.
        In estrema sintesi (tutto questo in realtà imporrebbe un ragionamento su
        memoria, ricordi e loro associazioni e poi sulla lingua e il lessico in
        relazione con i gesti e la gestualità) la lingua ci definisce rispetto
        alla realtà esterna a noi e ci colloca dentro quella come un oggetto in
        mezzo agli altri oggetti.
        Per usare una terminologia 'retrò' la lingua è viscerale intima e il
        primo fattore del nostro riconoscimento, della nostra 'appercezione', è
        il fattore più immediato e primitivo di quella. In epoca tardo –
        medioevale e moderna (direi tra XIII e XVII secolo) questo modo
        viscerale, intimo e immediato di essere al mondo è stato accostato alla
        nuova realtà oggettuale del mercato delle merci: il mercato delle merci
        si è appropriato degli oggetti, trasformandoli da valori d'uso in valori
        di scambio, e la natura della lingua ha acquisito anch'essa un nuovo
        valore. L'elaborazione di lessici e strutture linguistiche che andassero
        oltre il localismo feudale e in genere pre – moderno è stata
        un'operazione molto simile a quella che ha determinato la formazione del
        mercato delle merci. Come il mercato delle merci trovava un proprio
        limite nelle potenzialità logistiche dell'epoca, nella geografia che le
        esprimeva e definiva, limitando i suoi orizzonti linguistici ai confini
        della monarchia feudale, così il mercato linguistico si formalizzava
        secondo variabili storiche molteplici, cercando una coincidenza con
        l'estensione della monarchia nazionale, del mercato che si riproduceva
        alla sua ombra. Questo schema, realizzato solo in particolari realtà
        storiche, ma seguendo questa sovradeterminazione sarebbe appropriato
        scrivere geografiche (Spagna, Francia, Portogallo, Inghilterra, Olanda e
        paesi scandinavi) ha funzionato poi da palinsesto per i 'risorgimenti'
        ottocenteschi del resto d'Europa (Germania, Austria, Ungheria, Italia e
        Grecia) che, coniugandosi con motivazioni e ideologie nuove,
        'recuperarono il ritardo' (secondo un modo di dire e pensare tipico
        della storiografia positivista sullo sviluppo equilibrato) di alcune
        aree geografiche dell'occidente in materia.
        Il prodotto di questo processo è stato, sotto il profilo dell'ideologia,
        una visione antropologica del mercato, della nazione e del popolo:
        mercato, nazione e popolo erano i prodotti naturali di un'antropologia,
        l'antropologia etnica, là dove le etnie venivano preventivamente e con
        naturalezza ridotte al contesto nazionale insieme con tutti i suoi
        potenti e vivaci deragliamenti dialettali, regionali e gergali. Alla
        vivacità e specificità del mercato sarebbero state associate analoghe
        caratteristiche della lingua, a una vocazione economica predominante,
        un'inflessione linguistica predominante.
        In questo contesto ideologico e analitico i riferimenti alla storia
        linguistica dell'impero romano, che però presentò un vero processo di
        omologazione linguistica antesignano di quelli moderni, sono rari e
        spesso imbarazzati e con ragione per questa rarità e imbarazzo. La
        repubblica romana non fondò un'operazione etnica, ma l'omologazione
        linguistica percorsa e realizzata si basò proprio sul misconoscimento
        assolutamente arbitrario dell'ethnos e sulla valorizzazione
        dell'anthropos (ma sarebbe meglio dire dell'aner, del
        vir) secondo un'ideologia per la quale le diversità etniche,
        pur innegabili e nei fatti rispettate, non potevano costituire la base
        della 'nazione romana', come pure l'impero non poteva essere
        l'espressione del predominio di un'etnia sulle altre (quantomeno
        dichiarato e formalizzato).
        Il latino e il greco, suo omologo orientale nell'impero, furono le
        lingue transnazionali, le lingue dell'uomo in quanto uomo, in quanto
        ragiona in maniera adeguata sulla realtà e sugli oggetti che lo
        circondano. Il post – moderno ha grandi debiti verso la classicità.
        
        Mercoledì, 27 maggio
        
        Annotazione. Un tempo, con estrema semplicità, abbracciavo l'idea che la
        nazione fosse il prodotto del popolo, la formalizzazione giuridica del
        popolo e che, a sua volta, il popolo fosse il risultato della formazione
        della borghesia in lingua per la quale i confini del mercato
        corrispondevano, grosso modo, a quelli della diffusione della lingua.
        Secondo questo schema, che, credo, sia fedele a un'analisi marxista del
        fenomeno nazionale, nazione – popolo – lingua e mercato si confondevano
        e coincidevano, nutrendo tra loro delle ovvie differenze e delle
        interdipendenze, tutte poste, però, sotto il medesimo ambito. C'è una
        parte di verità, per me ancora adesso, in questo approccio che coglie
        un'unità ma la fotografa secondo una prospettiva rigidamente frontale;
        esiste, al contrario, la possibilità di un'altra prospettiva.
        La prospettiva frontale aiuta a spiegare il fenomeno ma non aiuta
        affatto a comprenderlo e soprattutto la prospettiva frontale è
        costituita da moltissimi punti di vista che hanno anch'essi una
        corrispondenza nella frontalità ma non la pretesa di essere frontali.
        Insomma intendo dire che l'analisi di un fenomeno non si chiude mai e un
        fenomeno non è mai chiuso e circoscrivibile nella prospettiva  che
        lo dice chiuso; chiusura, circoscrizione e visione prospettica sono
        utili alla divulgazione, alla distribuzione degli elementi analitici, ma
        non all'analisi: si devono, al contrario, afferrare tutti i fili
        lasciati liberi nella frontalità per tirarli e costituire una nuova
        frontalità e una nuova chiusura.
        Nel caso specifico, suscitato dalla lettura di 'Che cos'è un popolo', ho
        tirato la prospettiva sul concetto di nazione, inteso come complesso
        giuridico e costituzionale sorto nel tardo – medioevo e sviluppato in
        epoca moderna (il passaggio dal titolo 're dei Franchi' a quello di 're
        di Francia' e più tardi, occasionalmente, 're dei Francesi').
        Da un punto di vista strettamente fenomenologico la formazione degli
        stati nazionali olandese, inglese e francese si è data in maniera
        rivoluzionaria (lotta di liberazione nazionale contro la monarchia
        spagnola, insurrezione contro l'assolutismo monarchico in Inghilterra e
        Francia) che conforta e ha confortato lo schema unitario di nazione,
        popolo, lingua e mercato: all'affermazione di nuovi rapporti di
        produzione, forze produttive, culture e lingue ha corrisposto la
        necessità di una trasformazione radicale della forma – stato. È un
        approccio ed è una fotografia. Questa fotografia spiega popolo e
        nazione, chiude l'analisi ed è diventata rapidamente un'ideologia.
        Questa ideologia è abbastanza semplice: la nazione è un prodotto
        naturale (etnico e antropologico, nel senso che ogni uomo appartiene o
        ha bisogno naturale di appartenere a un gruppo) e i rapporti di
        produzione egemoni al suo interno lo sono altrettanto. Senza volerlo il
        materialismo dialettico ha fornito le migliori molecole alla
        costituzione di questa metafisica. Porre, al contrario, l'accento sulla
        nazione nella descrizione di questo processo, cioè sulla componente
        coercitiva e sui numerosi elementi di continuità tra stato assoluto
        aristocratico e stato nazionale borghese è tirare il filo verso una
        prospettiva nella quale l'idea di popolo e anche quella di marcato
        cambiano. Il mio assunto è che il popolo è il prodotto della nazione e
        che la nazione sia già nello stato assoluto aristocratico. Omogeneità
        linguistica e culturale basano la fondazione dello stato nazionale,
        secondo l'analisi classica, mentre al contrario sono stati il risultato
        di un'azione di omologazione disposta dallo stato nazionale attraverso
        un'infinità di dispositivi e in un lungo periodo. L'idea di popolo che
        viene fuori è esclusivamente ideologica, come l'omogeneità stessa
        corrisponde a una sovradeterminazione ideologica della realtà; sia ben
        chiaro, però, che nessuna ideologia o sovradeterminazione può astrarsi
        dalla materialità del rappresentato: dunque il popolo è davvero esistito
        ma non la verità e stringenza con cui è stato rappresentato.
        
      rivedi
                                            maggio
                        
          Inizio anno
                 
      
    Mercoledì,
              3 giugno
            
            Letture e annotazione. Decennio rosso : romanzo / Massimo
            Battisaldo, Paolo Margini. - [s.l.] : Paginauno, 2013. - (Narrativa,
            8). Secoli senza narrativa, poi è arrivata questa, divorata in tre
            giorni, che è la storia del progressivo avvicinamento e poi della
            militanza in un'organizzazione combattente (Prima Linea e Rosso
            militare – Formazioni combattenti comuniste). È stata una mia
            lettura e contemporaneamente una lettura di un altro, un continuo
            riconoscersi e non riconoscersi nei personaggi. La struttura
            narrativa, sciolta, ha aiutato questa oscillazione, la rivelazione
            di qualcosa di sconosciuto e poi il suo disvelamento. Scritto usando
            termini razionali la lotta armata come perfetto estraneo al
            movimento degli anni settanta e nello stesso tempo l'ipocrisia di
            questo modo di interpretare quegli anni.
            Quanto c'era di me, e di gente come me assolutamente critica verso
            le organizzazioni combattenti, dentro Sofia, Elio, Vlad e molti
            altri personaggi del testo mi è impossibile stabilirlo, sicuramente
            facevamo parte della stessa storia anche se non della medesima
            vicenda; c'è un filo che ci lega e poi si spezza, continuamente. Con
            paradosso sono proprio gli anni, il tempo trascorso, a rendere
            meglio visibile il filo, laddove nell'immediato presente appariva
            più facilmente occultabile, laddove dall'altro capo del filo si
            diceva fossero 'compagni che sbagliano', allontanandoci dall'errore,
            dunque, senza renderci conto che quell'errore, anche se non avevamo
            sparato, imbracciato mitra e occultato pistole, anche se non ci
            eravamo messi in clandestinità e anche se avevamo aspramente
            criticato la lotta armata, era anche nostro e ci apparteneva, nel
            bene e soprattutto nel male. Questo non significa che, secondo la
            banalità che ha sempre contraddistinto la stampa e i media,
            riconosca con quelli che il movimento degli anni settanta è stato un
            immenso fenomeno di fiancheggiamento al 'terrorismo', ma che in chi
            ha praticato la lotta armata era anche una parte di noi, in certe
            argomentazioni, in certe analisi e in un certo modo di sentire la
            vita.
            
            Giovedì, 4 giugno
            
            Annotazione.  Non ci resta che lavorare. La vita sociale è
            ridotta al lavoro (precario, fisso, indeterminato, determinato,
            salariato, atipico, tutte questi aggettivi poco importano), questo
            si sa, ma c'è dell'altro e appunto quest'altro è che non ci resta
            che lavorare. Se anche continuasse a esistere un tempo
            autenticamente sollevato dal lavoro, sarebbe un tempo privo di
            senso.
            Pensiamo un po' a quello che è diventata la politica, un tempo
            attività sociale per eccellenza, ora un pettegolezzo organizzato
            secondo rituale; qui non interessa denunciare cosa stia dietro
            questo pettegolezzo, chiamare e descrivere i mattoni con i quali è
            costruito, ma il fatto che è un pettegolezzo anche se ritualizzato
            ufficialmente. Le dimensioni della politica e anche conseguentemente
            le sue parole sono stabilite al di fuori della politica, senza
            possibilità di appelli. Faccio un riferimento all'attualità politica
            per esemplificare: alle ultime elezioni regionali si è discusso di
            tematiche nazionali, a quelle nazionali di problemi europei e a
            quelle europee di nulla. Un'esagerazione, di sicuro, ma
            rappresentativa della vuotezza del discorso politico che è capace
            solo di rimandare ad altro, fino a quando, esaurita la possibilità
            di rimandare e spostare e giunto davanti a sé stesso, al suo senso,
            diventa silenzio. 
            
            Venerdì, 5 giugno
            
            Annotazione. La politica non rappresenta che sé stessa, ma proprio
            questa mancanza di rappresentanza è rappresentanza. I meccanismi
            politici hanno una nuova funzione e, soprattutto nei sistemi basati
            sulla democrazia elettorale, le scadenze hanno il compito diretto di
            fornire un sondaggio, una specie di saggio degli 'umori del popolo',
            che spesso si esprime in maniere che ricordano i plebisciti e a
            quelli nella logica si ispira, e il compito indiretto di
            formalizzare, giuridicamente e costituzionalmente, il governo sul
            'popolo'.
            Mancano, ormai, alla verità della rappresentanza, intesa in maniera
            tradizionale, il concetto di popolo come idea univoca e non prodotto
            di una manifesta, politicamente, interpretazione e di corpo politico
            che costituivano il cuore di questa tradizione.
            
            Venerdì, 12 giugno
            
            Annotazione. Ripensavo alle facce televisive di Tor Sapienza, di
            quella gente durante la 'rivolta' contro un centro di accoglienza
            per immigrati. Volti, espressioni, parole giunte secondo una
            casualità molto sospetta alle telecamere, che riproducevano discorsi
            contraddittori e confusi, uniti dall'unica portante informativa “non
            siamo razzisti ma i negri qui non li vogliamo”, che è un po' come
            dire “non sono un assassino ma sono d'accordo con chi uccide”. Molta
            ipocrisia, insomma, anche se vestita di furia plebea e di molta
            confusione.
            A tratti si era tentati di usare l'odiosissima categoria 'popolare'
            statunitense del 'rifiuto bianco', che è odiosa ma cinicamente
            calzante. Il rifiuto bianco è il proletario bianco che non ha retto
            la concorrenza del mercato del lavoro flessibile e razzialmente
            gerarchizzato e si è fatto superare da settori ancora più deboli del
            suo nella gerarchia del riconoscimento sociale, solitamente composti
            da proletari neri e latini. Il rifiuto bianco non è tanto una
            categoria sociologica quanto culturale che si fonda su un 
            particolare stato oggettivo. Quella del rifiuto bianco è una
            soggettività che influenza e rinforza una oggettività.
            Secondo questa cultura lo scivolamento sociale del quale si è
            vittime è il risultato di una sperequazione politica e giuridica
            svolta a favore dei neri contro gli elementi più deboli socialmente
            dei bianchi ed è anche uno strumento per non ammettere questa
            condizione sociale di partenza, questo svantaggio. Il fenomeno ha
            effetti concreti: sempre più  il proletario che fa parte del
            'rifiuto bianco' non si sente partecipe di nulla, tende ad
            approfondire una concezione del tempo libero come spazio privo di
            comunicazione sociale e a vivere il quartiere secondo una nuova
            territorialità: il quartiere diventa una proprietà di chi ci abita,
            ma non una proprietà comune e collettiva, dove le proprietà singole
            compenetrano nelle altre, si relazionano e producono relazioni,
            analisi e nuove immaginazioni sul quartiere. Il quartiere diventa
            una sorta di sommatoria non coordinata di proprietà private.
            La solidarietà che si sviluppa tra i proletari è, allora, una
            relazione che ha come scopo l'occultamento della propria solitudine
            sociale, che cerca di strutturare una 'tradizione' e che ambisce
            alla conservazione, né a un miglioramento né tanto meno a un
            peggioramento delle condizioni dell'esistenza. Il proletario
            afflitto dal 'rifiuto bianco' sembra che non ambisca a nulla né in
            modo individuale né ancora meno collettivo, se non a 'difendersi'
            dal costante attacco che ha molti volti alcuni immaginari e altri
            certamente concreti.
            A fronte del passaggio ormai consolidato da un'economia
            dell'abbondanza a una della penuria, della fine dello stato
            assistenziale, delle garanzie sulla sanità pubblica e della
            sicurezza della pensione e dell'invecchiamento socialmente
            assistito, di un sistema contrattuale basato sugli alti salari e il
            lavoro a tempo indeterminato si è determinata una sostanziale e
            complessiva coercizione a un 'fai da te' proletario (che mette in
            discussione la tradizione proletaria italiana e lo stesso concetto
            di proletario, con effetti ideologici che sarebbe difficile
            analizzare) dentro un continuo rimbalzo tra diverse situazioni di
            lavoro, reddito e salario che produce sempre una costante: il
            progressivo peggioramento delle condizioni e qualità della vita
            unita alla diminuzione o annullamento di qualsiasi aspettativa di
            miglioramento o conservazione. E non è  questo un volto
            immaginario, ma concreto e reale, aggravato dal fatto che nella
            fattispecie locale Roma ha perduto gran parte delle risorse
            economiche che le derivavano dall'essere capitale politica e
            amministrativa.
            Questo, comunque, al di là di Tor Pignattara e del suo caso, è un
            fenomeno generale: l'ideologia del 'rifiuto bianco' è potenzialmente
            più diffusa di quanto si creda e per certi versi incombente perché
            fa riferimento ad angosce che originano da una generalizzata
            mancanza di riconoscimento e di aspettative sociali. Le stesse
            ideologie che si generano e che stanno influenzando sempre più
            quelle complessive, elevate e ufficiali, le ideologie nate
            nell'università e nei luoghi istituzionalmente preposti al loro
            parto ed elaborazione, sono ideologie a componenti, frammentarie,
            molecolari, formati di rielaborazioni di un vissuto e di biografie
            nelle quali la combinazione degli elementi subordina il disegno
            sintetico. È questo uno scenario vecchio, ormai, di trent'anni: un
            vero 'noi e gli anni ottanta' reiterato nei decenni.
            Il volto immaginario sta nel già descritto rinnegamento della
            propria situazione svantaggiata di partenza e nel timore che il
            proletario migrante sia capace di muoversi meglio in questo 'fai da
            te' imposto, per via delle minori aspettative, per l'abitudine a
            condizioni di vita limite e che, quindi, infine, si venga a trovare
            in una situazione di vantaggio; questo timore conferma ulteriormente
            al proletario bianco quello che non intende ammettere neppure a sé
            stesso: quello di poter divenire l'anglosassone 'rifiuto bianco',
            cioè colui che non ha saputo approfittare del suo vantaggio razziale
            nella stratificazione del mercato del lavoro e delle opportunità di
            vita.
            L'incubo dello sfratto o della perdita dell'appartamento ai quali
            faccia seguito un'occupazione da parte di gente di colore e di
            'nuovi venuti' (in questo complesso onirico oggi la Lega nord ha
            introdotto con virulenza immaginifica anche i Rom) è emblematico di
            questa angoscia, quando si distende al campo del vivere sociale e
            della riproduzione sociale: la perdita di sé come soggetto, come
            elemento radicato e tradizionale insieme con la fine di ogni
            relazione altrettanto tradizionale con il territorio e l'emergere in
            quello di nuove tradizioni. Il territorio e il quartiere si
            rivoltano contro chi lo abita.
            
            Martedì, 16 giugno
            
            Impressione. La mafia (nella mafia includo il fenomeno inteso in
            senso stretto, ma anche camorra, ndrangheta e alcuni segmenti,
            sempre più estesi, della criminalità organizzata) è nata a causa di
            molti fattori storici, influenze ambientali contingenti,
            particolarità geografiche  e geopolitiche; la mafia, dunque, ha
            una sua singolarità anagrafica in base alla quale è stato
            oggettivamente un discorso mafioso quello del “la mafia non esiste
            perché tutto è mafia”.
            La 'mafia dell'agrumeto', la mafia agricola, è il prodotto della
            crisi del sistema feudale unita alla contemporanea difficoltà per lo
            stato centralizzato e assoluto di affondare radici e istituzioni
            credibili socialmente in particolari aree geografiche; la mafia, in
            quei casi, ha sostituito le sicurezze del sistema feudale e ha
            offerto un coordinamento amministrativo 'ombra'. Rispetto a un mondo
            economico che si dirigeva verso l'economia di mercato non poteva che
            divenire un sistema nascosto e illegale di potere, un sistema di
            'dominio ombra', appunto. La mafia agricola è stata direttamente
            coestensiva alla crisi del sistema feudale e antiteticamente
            coestensiva all'affermazione dell'economia di mercato. La mafia ha
            conservato gran parte dei suoi rituali, delle forme di iniziazione e
            dei modi di costituire la sua formalità gerarchica di origine, a mio
            parere, squisitamente signorile, perché, sotto il profilo del
            comando interno all'organizzazione, funzionano; l'impresa mafiosa ha
            un organigramma generato e sostenuto secondo principi feudali e
            signorili.
            La mafia è una delle prove della verità della legge sullo 'sviluppo
            diseguale' del materialismo dialettico.
            La coestensività della mafia, però, è profondamente cambiata.
            La mafia non poteva essere direttamente coestensiva al capitalismo
            industriale, nel quale la produzione e la distribuzione delle merci
            erano rigorosamente subordinate alla costruzione del loro valore in
            tempo di lavoro e il lavoro diveniva misura del valore. In questo
            scenario era assolutamente necessario un complesso di regole, le
            leggi del mercato, che stabilisse la proprietà della merce e il suo
            valore. Questo complesso di regole stabiliva la legittimità della
            merce, ovverosia ciò che era merce e ciò che non lo era: la legge
            della domanda e dell'offerta non risolveva da sola il mercato, il
            mercato ha sempre avuto bisogno di leggi e regole, di una
            coercizione extraeconomica per realizzarsi, e conseguentemente il
            mercato escludeva la produttività mafiosa e malavitosa in genere che
            si fondava su leggi e regole 'ombra e clandestine' che non facevano
            riferimento al tempo di lavoro necessario e alla regolazione del suo
            sfruttamento. Anche la malavita organizzata più evoluta
            merceologicamente (banalizzando penso alla raffinazione dell'oppio
            per la produzione dell'eroina) era esclusa dal mercato.
            Il capitalismo industriale e la mafia erano opposti, anche se spesso
            la mafia riusciva a inserirsi in alcuni settori produttivi, lo
            faceva secondo una logica accidentale e sporadica.
            La situazione è radicalmente mutata dopo il declino del capitalismo
            produttivo e la crescita del biocapitalismo e del peso di
            quello che un tempo era detto capitalismo finanziario in quello.
            
            Mercoledì, 17 giugno
            
            Impressione. Il valore della merce si è allontanato dal valore del
            lavoro e la merce ha assunto una nuova valorizzazione e un nuovo
            aspetto sociale. Questo è un mondo di merci astratte che sono merci
            non in quanto prodotti del lavoro ma in quanto le condizioni
            generali del lavoro umano permettono la costituzione della merce,
            tra molte altre cose. Le condizioni dell'esistenza, che si è
            sussunta al lavoro, richiedono la produzione e riproduzione della
            merce: la merce è entrata a fare parte delle relazioni umane e a
            essere essa stessa una passione, uno stato d'animo. I confini
            tradizionali dell'essere merce sono stati aboliti.
            Il danaro che era la merce astratta, ovverosia l'astrazione delle
            merci per eccellenza, è diventato una merce tra le altre, fino al
            punto che per le merci e il danaro bisognerebbe ideare un altro
            nome, perché quello di merce sta diventando fuorviante e inadeguato.
            
            Giovedì, 18 giugno
            
            Impressione. Quando la merce perde rapporto con il lavoro succedono
            infinite cose, alla merce, al lavoro e alla struttura del mercato ed
            è successo qualcosa, anche qui di strutturale, alla malavita
            organizzata nei termini della relazione tra quella e il mercato. Lo
            sfruttamento del lavoro cessa di avere una relazione diretta con il
            valore della merce, la merce si autonomizza dal lavoro e
            diventa astratta: la trama di diritti e regole che circondava la
            produzione della merce, conseguentemente, perde concretezza e
            diventa cosa astratta, i diritti e le regole diventano ideologia e
            cultura e non sono più strumenti per la definizione del concetto di
            merce e di mercato; la trama dei diritti e delle regole rimane come
            punto di riferimento 'storico' ancora necessario per alcune
            misure sociali ed economiche, ma non più fondante la società e
            l'economia. Il mercato tout cour  ne esce stravolto,
            per certi versi sembra di tornare al libero scambio in forme pure,
            cosa che spiega una parte del successo delle ideologie neo –
            liberiste. Il riferimento storico al valore della merce come valore
            del lavoro reificato nella merce è importante, è una coordinata e
            una delle molte coordinate che disegnano l'asse cartesiano del
            biocapitalismo.
            Il nuovo asse comprende altri paradigmi: oltre quello 'naturale'
            vale a dire industriale, paradigmi mercantilistici, libero –
            scambisti, protezionistici, artigianali, autoconsumistici e
            microimprenditoriali.
            Il danaro è il collante e descrittore delle forze agenti in questo
            asse, proprio perché si è slegato da una relazione con la merce in
            quanto prodotta da un tempo di lavoro precisato.
            In epoca industriale, il danaro aveva un rapporto stretto con il
            capitale: il danaro prodotto attraverso la produzione e riproduzione
            del capitale era l'unico danaro legittimo. Oggi stabilire la
            legittimità del danaro, sotto il profilo dell'ontologia e della
            genesi, è un compito sempre più arduo: è necessario fare riferimento
            esclusivo alla legge positiva, alla storia, e non ai rapporti di
            produzione reali.
            
            Venerdì, 19 giugno
            
            Impressione. Anche la legislazione fatica a seguire la legittimità
            del danaro e si ha sempre più la sensazione che in tema di mafia (ma
            a dire il vero in molto altri campi) la legislazione e gli apparati
            giudiziari siano inadeguati e quantomeno anacronistici. È un
            anacronismo inevitabile perché le nuove forme strategiche di
            allocazione del profitto e dei capitali sono quelle della finanza,
            il libero scambio in rappresentazione per antonomasia.
            La mafia ha un'occasione favorevolissima per entrare a far parte del
            cuore del capitalismo internazionale, da quando il gioco in borsa da
            scommessa per speculatori e da momento di parziale tesaurizzazione
            delle risorse produttive è diventato lo strumento per definire i
            quadranti dell'asse cartesiano e per determinare e descrivere al
            contempo le strategie del biocapitalismo.
            Secondo un'analisi svolta nella contingenza, gli investimenti
            finanziari sono ovviamente quelli più trasparenti per la mafia; ma
            non si tratta di constatare una semplice preferenza tattica, è in
            questione, invece, una ritrovata coestensività della mafia con il
            sistema economico egemone. La fine della merce e del capitalismo
            industriale ha reintrodotto condizioni sociali che parevano superate
            per sempre. Qua e là emergono rapporti di produzione servili, in
            base ai quali la manodopera è venduta e acquistata non attraverso il
            lavoro salariato, ma attraverso la concreta riduzione del suo stato
            biologico a 'cosa'. Pensiamo solo alla filiera produttiva che fa
            profitti sull'immigrazione: dal trasporto, alla collocazione
            lavorativa, all'ospitalità e alla creazione di stati d'animo sociali
            rispetto al processo immigratorio. Si può affermare che la mafia si
            trova perfettamente a suo agio in un contesto di riduzione dell'uomo
            a merce (si bade bene non a merce in quanto forza – lavoro) proprio
            perché la prima coestensività sociale ed economica la mafia l'ha
            avuta con la tarda feudalità.
            Questo non significa che la mafia ha subito il capitalismo
            industriale (quello dell'uomo come merce in quanto forza – lavoro),
            anzi ha interiorizzato alcuni valori dominanti di quella forma di
            produzione e di mercato, costruendo una rete produttiva e di
            riproduzione di merci illegali, un capitalismo illegale che
            associava / associa al valore della merce non tanto i costi della
            sua produzione quanto il rischio della distribuzione.
            Questa esperienza storica, una vera fase della biografia collettiva
            mafiosa, è stata importantissima per traghettare la malavita
            organizzata verso il capitalismo finanziario che si riconosce, al
            contrario del capitalismo precedente, nella costituzione del valore
            al di fuori del lavoro e nel rischio connesso alla redistribuzione a
            interesse del danaro.
            Quindi non è più mafioso affermare che tutto è mafia e la mafia non
            è altro che una multinazionale finanziaria tra le altre? Oppure che
            l'intero sistema economico è un sistema mafioso?
            
            Sabato, 20 giugno
            
            Impressione. Rispondo di no, senza molti tentennamenti, non certo
            per assolvere l'etica di questo sistema economico, ma per
            individuare una verità, utile anche a una maggiore comprensione del
            sistema economico. La mafia non è né una buona buona né una cattiva
            multinazionale, è una multinazionale tra molte altre ma ha una
            particolare struttura: quella di avere alla base una associazione a
            delinquere che sottopone la proprietà privata a diverso titolo e a
            diverso livello a un diritto di prelazione. Questo impedisce alla
            mafia di essere coessenziale al capitalismo biologico o post
            moderno, ma solo coestensiva (anche se quello che compiono alcune
            multinazionali in campo agricolo e minerario nei paesi del 'terzo
            mondo' è spesso configurabile come coessenziale, nei metodi, al modo
            di agire mafioso).
            Le grandi multinazionali a base e struttura legale, inoltre, si
            portano dietro una tecnica del managment, un modo di
            cooptare classe dirigente e di costituire il loro organigramma che è
            ancora legato agli schematismi (non alla pratiche) del capitalismo
            industriale. Anche se le multinazionali non traggono più la quota
            più alta del profitto dal lavoro industriale e produttivo, i loro
            insediamenti produttivi costituiscono ancora un elemento di
            riconoscimento, dando continuità al marchio. Per le multinazionali
            legali l'apparato produttivo svolge lo stesso ruolo che nella mafia
            viene svolto dalla famiglia: è una radice, un elemento identitario
            che impedisce alla Sony di essere la Ericsson e come ai Casalesi di
            essere i Corleonesi.
            Gli organigrammi sono strutturati per aree geografiche, raramente
            per settori transnazionali, procedendo poi e solo dopo
            gerarchicamente verso una maggiore estensione delle competenze
            geografiche, fino alla struttura amministrativa mondiale: la
            'globalità' non si presenta immediatamente ma usufruisce di
            localismi.
            La famiglia mafiosa è la radice produttiva, bioeconomica,
            dell'organizzazione mafiosa: al contrario che nelle multinazionali i
            legami familiari funzionano concretamente nel definire organigrammi
            e reti di comando, o forniscono una matrice per definirli quando si
            estendono a terze parti estranee all'omogeneità anagrafica della
            famiglia.
            Questo determina e ha sempre determinato una specificità della
            territorialità mafiosa che si estende là dove arriva la famiglia, la
            sua rete di influenza e i vassallaggi esterni a quella e che
            persegue una politica di progresso per aree limitrofe. Questo è lo specimen
            mafioso rispetto ad altre realtà imprenditoriali.
            Il biocapitalismo, però, ha introdotto uno scenario nel quale questa
            specificità può più facilmente diffondersi, in estrema sintesi: il
            lavoro come valore non definito economicamente, rapporti di
            produzione in parte servili e dove il servile viaggia come un'ombra
            e una possibilità, la merce slegata dal valore del lavoro e
            l'importanza della geografia virtuale e dei saperi.
            
            Mercoledì, 24 giugno
            
            Impressione. Nella nuova forma che il capitalismo ha assunto la
            mafia trova una nuova coestensività: la merce astratta, il danaro
            come merce tra le merci astratte e un modo di intendere lo spazio e
            la geografia come risultato della circolazione dei saperi e dei
            flussi informativi.
            Tutto questo è profondamente mafioso.
            La mafia è un potere territoriale e 'feudale' costituito dalla
            capacità di organizzare saperi e codici di comportamento,
            ottenendone la validazione sul territorio. In determinate aree
            geografiche la mafia continua ad estendersi seguendo la fisicità e
            le leggi di prossimità, ma, contemporaneamente, è diventato,
            precisamente come il mercato, un processo extraterritoriale,
            indifferente alla geografia. La mafia ha bisogno di un territorio di
            fondazione per la parte iniziale del suo ciclo produttivo e qui
            segue le normali leggi della fisica, della geografia e
            dell'antropologia, per poi svilupparlo oltre la dimensioni delle
            singole corporation locali e regionali (le famiglie).
            L'extraterritorialità era stata sperimentata già nel secolo scorso,
            sul mercato dell'eroina che è stato il volano della
            internazionalizzazione dell'impresa mafiosa, si trattava, però, di
            'colonizzazioni' tese a definire nuovi territori, non una nuova
            dimensione negli investimenti. Questo non è più il modo di sviluppo
            centrale della malavita organizzata oggi, per la quale famiglia e
            territorio sono il retroterra, un modo di costruire classe dirigente
            e manodopera, ma non l'obiettivo strategico.
            La mafia degli appalti, oltre a registrare una specificità italiana
            (vulnerabilità delle istituzioni alle infiltrazioni illegali),
            rappresenta un ibrido di questo sviluppo, posto tra la mafia
            agricola e quella post – moderna. La mafia che investe in borsa e
            acquisisce e controlla gli investitori o che ha una sua cordata tra
            gli investitori è il nuovo modello di questo sviluppo.
            Da una parte la mafia mantiene una sua specificità, un suo impatto
            sociale e visibilità, dall'altra questa specificità si volatilizza.
            Il secondo elemento che mi preme sottolineare è che le
            trasformazioni nel mercato (il cambiamento della genesi della
            merce), reintroducendo un modo di organizzare il lavoro di tipo
            'servile' o dove lo spettro del servile si percepisce, sta
            avvicinando la mafia alla normale imprenditorialità: gli strumenti
            di comando della manodopera, nelle situazione dove il valore del
            lavoro non è più misura del valore della merce, non possono fare
            riferimento naturale alle regole e alle leggi del mercato del lavoro
            industriale ma slittano verso forme di comando personalizzato che
            sono coessenziali a quelle mafiose.
            
            Giovedì, 25 giugno
            
            Letture. L'intelligenza collettiva : per un'antropologia del
            cyberspazio / Pierre Levy ; traduzione di Donata Feroldi e Maria
            Calò. - Milano : Feltrinelli, 1996.
            Non avrei saputo scrivere meglio e dunque trascrivo ampi brani del
            capitolo 'L'economia dell'intelligenza collettiva'.
            “L'ultima frontiera risulterà essere l'umano, ciò che non è
            automatizzabile: l'apertura di mondi sensibili, l'invenzione, la
            relazione, la creazione continua del collettivo.
            Al di là della loro diversità, le professioni contemporanee hanno
            quasi tutte in comune certe attività di cooperazione, relazione,
            formazione e apprendimento permanente ( … ). Si curano più
            efficacemente i pazienti introducendoli alla dietetica, all'igiene,
            al riconoscimento dei sintomi, all'autonomia sanitaria in generale.
            La produzione antropica del futuro si basa su due elementi
            indissolubili: la cultura delle qualità umane – di cui fanno parte,
            come è noto, le competenze – e l'edificazione di una società
            vivibile. Tutto si svolge come l'umano, in tutta la sua estensione e
            varietà, fosse diventato la nuova materia prima ( … ).
            L'intelligenza collettiva: fonte e fine di tutte le altre ricchezze,
            aperta e incompiuta, output paradossale perché interiore,
            qualitativo e soggettivo. L'intelligenza collettiva: prodotto
            infinito della nuova economia dell'umano ( … ).
            Nell'epoca industriale ( … ) gli operai trasformavano le materie
            prime e gli impiegati trattavano le informazioni. Oggi la ricchezza
            delle nazioni è garantita dalla capacità di ricerca, di innovazione,
            di apprendimento rapido e di cooperazione etica tra i popoli ( … ).
            Oggi il nuovo proletariato non lavora più sui segni o sulle cose, ma
            direttamente sulle masse umane ( … ). [I nuovi proletari, nota mia]
            producono le condizioni di ricchezza, lontano dalle luci della
            ribalta, perché il suo lavoro è al contempo il più duro, il più
            necessario e il peggio retribuito ( … ). Questi nuovo proletari si
            fanno carico in prima linea delle relazioni di massa, del legame
            sociale intensivo ( … ) e a causa della mobilità e
            dell'accelerazione dei flussi, tutti vivono al limite
            dell'esclusione, rischiando di cadervi.
            Il nuovo proletariato si emanciperà soltanto unendosi, superando
            precedenti categorie, stringendo alleanze con coloro che svolgono un
            lavoro affine ( … ). Il giorno in cui il nuovo proletariato diverrà
            cosciente di sé, deciderà di sopprimersi in quanto classe, istituirà
            la socializzazione generale dell'educazione, della formazione e
            della produzione di qualità umane. La tentazione al particolarismo è
            forte ( … ) invece di valorizzare la propria singolarità. È più
            facile ( … ) aggrapparsi a immagini arcaiche e ad identità stabili,
            piuttosto che secernere soggettività dinamiche e mutanti ( … ) a
            fronte di una variazione continua e massiccia delle conoscenze
            specifiche, la canalizzazione della trasmissione – utile in altri
            tempi – può diventare un freno o costituire addirittura una
            strettoia fatale. Alla deterritorializzazione dei flussi economici,
            umani e dell'informazione, all'emergenza di un nomadismo
            antropologico proponiamo, dunque, di rispondere con una 
            deterritorializzazione dell'iniziazione e dell'umanizzazione stessa
            ( … ) la trasmissione, l'educazione, l'integrazione, la
            riorganizzazione del legame sociale devono cessare di essere
            attività separate. Devono essere composte dall'interas società verso
            la sua stessa totalità, e potenzialmente da qualsiasi punto sociale
            in movimento verso qualsiasi altro.” (pp. 52 - 54).
            
            Domenica, 28 giugno
            
            Letture. L'intelligenza collettiva. Interessante è la distinzione
            sviluppata tra molarità e molecolarità nelle relazioni sociali. Gli
            apparati molari sono quelli che hanno dominato la storia
            dell'umanità, sono il trascendente rispetto all'immanente, per dirla
            in filosofia, sul campo costituzionale, istituzionale ed economico.
            La democrazia e la televisione sono i più evidenti esempi di questa
            trascendenza e molarità e sono per Levy, che utilizza un discorso,
            un enunciato, descrittivo e non critico, sostanzialmente inadeguati
            a descrivere, rappresentare e governare la nuova economia: ci
            troveremmo, quindi di fronte a un'aporia, implicita, al sistema e la
            crisi è nelle cose, non serve denunciarla, basta descrivere le cose.
            In generale, però, la molarità ha sempre rappresentato un elemento
            di inadeguatezza, genetica, disponendo verso un piano unitario la
            molteplicità; Levy scrive: “Il gruppo molare [lo stato, annotazione
            mia] attua una sorta di termodinamica dell'umano, una canalizzazione
            esterna dei comportamenti e dei caratteri, scarsamente economica
            rispetto alla qualità delle persone ( …). Anche la trascendenza e la
            separazione sono tecnologie molari, a caldo e a freddo, perché nei
            gruppi organizzati in base ai loro principi i cambiamenti costano
            cari, sono brutali e spesso catastrofici: colpi di stato,
            rivoluzioni, sommosse” (p. 66).
            La politica e l'organizzazione sociale in genere, annota Levy, si è
            sempre fondata su gruppi identitari per ottenere effetti molari,
            cioè adeguati a sé stessa e al livello di sviluppo raggiunto, ora la
            costituzione di elementi identitari è, a un tempo, inadeguata alla
            realtà presente ma contemporaneamente è una tradizione, un modo di
            pensare, quasi una struttura stessa del pensiero. Come fare a meno
            di molarità, di trascendente e di identità, senza ricostruire
            un'altra molarità? O come rifondare una molarità, che è momento
            necessario quando si esce dall'ambito del gruppo ristretto
            (storicamente il clan e la tribù), senza dotarla di una
            trascendenza, senza ricreare il meccanismo che la separa dai suoi
            costituenti?
            Per Levy la rete telematica offre questa possibilità, ricreando
            molarità in dinamica e continua ridisegnatura. Le possibilità
            tecniche e logistiche esistono, ma non è un problema tecnico ma
            politico nel senso più puro del termine.
            Contro Levy annoto che il fatto che sia emersa la rete telematica è
            una risposta a nuove esigenze economiche e sociali, la rete ha una
            genesi 'politica', è una progettazione collettiva, una nuova forma
            di produrre e progettare. Quindi la rete è già 'politica'. Non credo
            proprio che il successo della telematica sia slegato dalla crisi del
            taylorismo e dall'emergere di nuove forme di produzione nel campo
            del lavoro subordinato e orientato agli 'oggetti'.
            La rete telematica innerva un nuovo modo di produrre che mette in
            discussione gli assetti produttivi precedenti, non solo li scardina
            ma rende possibile la strutturazione di quelli nuovi.
            Contemporaneamente, per il solo fatto di esistere, non è capace di
            realizzare una democrazia produttiva né tanto meno economica: la
            democrazia si intravede, e lì, nella nuova etica della rete, nelle
            relazioni che si organizzano ma non riesce a essere il cuore della
            rete, il suo senso. Produrre in rete avvicina la democrazia ma non è
            la democrazia. Va anche scritto che esistono forze, all'interno
            della rete, che pur lavorando per la diffusione delle informazioni,
            le organizzano secondo parametri trascendenti e identitari (basta
            pensare ai riferimenti categorici, i filtri, utilizzati dai
            principali motori di ricerca). Eppure Google non è una situazione
            informativa estranea alla rete, è, per certi versi, la rete stessa.
            Insomma la rete continua ad avere una caratteristica di tutte le
            tecnologie del passato: non è un semplice strumento, non è solo
              un mediatore e non è neutrale ed è parte integrante delle forma di
              potere.
            
            Martedì, 30 giugno
            
            Annotazione. I sistemi politici (molari, per usare la terminologia
            di Levy) vanno avanti ad accumulazione di masse di energia sociale
            con improvvisi adeguamenti a quelle, nel tentativo di riportare il
            loro valore vicino allo zero. Questo modello si evidenzia bene nelle
            crisi rivoluzionarie ma è sempre stato il modello dello sviluppo dei
            sistemi politici e molari.
            I sistemi sociali, inoltre, (il complesso dei rapporti di
            produzione, forze produttive, modi di produrre, forme produttive,
            saperi tecnici, mentalità, immaginari) viaggiano a velocità diverse
            e secondo un modello diverso. Tendono anch'essi a costituire una
            massa inerziale e ad assomigliare ai sistemi politici, e dunque ad
            acquisire, sempre con Levy, molarità, in misura minore le forze
            produttive e i saperi tecnici, spesso intermedia le mentalità e gli
            immaginari e massima i rapporti di produzione che, non a caso, hanno
            una forte coessenzialità con i sistemi politici (nella sua
            componente legislativa e politica). In genere i sistemi umani hanno
            energie di sviluppo diseguali e all'interno di quelle i sistemi e le
            ideologie politiche hanno sempre avuto il compito di nascondere
            queste diverse velocità, riportandole a una sola velocità.
            L'ideologia è sempre stata rappresentazione di un'unità e anche
            quando ha cercato di comprendere in sé la molteplicità lo ha fatto
            immaginandola come elemento di un solo organismo.
            
          
    rivedi giugno
                                
                  Inizio
                                      anno
                          
        
        Mercoledì, 1 luglio
        
        Annotazione. Le crisi rivoluzionarie hanno evidenziato, in forma
        chimicamente pura, questa massa inerziale e i suoi effetti, e le
        ideologie rivoluzionarie ( per come si sono manifestate e date alla
        storia tra XVII e XX secolo) sono diventate la quintessenza della
        riduzione a unità e hanno, in modo assolutamente inconsapevole, fornito
        la matrice per ogni ideologia d'epoca moderna: lo scopo dell'ideologia
        politica è diventato l'enunciazione di una progettazione complessiva e
        unitaria. L'ideologia è diventata l'involucro di una spiegazione
        complessiva e totalizzante della società e del suo sviluppo. Tutti gli
        operatori politici, dal XVII secolo in poi,  sono andati a scuola
        dalla rivoluzione, senza saperlo. Oggi, però, le scuole di rivoluzione
        servono più a poco, soprattutto ai rivoluzionari e in genere ha perduto
        senso il termine stesso, come quello di conservatori e insieme con
        quello di destra e sinistra.
        Gli involucri progettuali ai quali questi termini fanno riferimento
        mancano di fondamento e di sostanza. Questo non significa che non esiste
        più un pensiero rivoluzionario e uno conservatore, esistono eccome e,
        sottolineo, molto più di
          prima (e chi oggi scrive di assenza di destra e sinistra è
        un'ipocrita che assolutizza una registrazione banalmente eseguita) ma
        nulla hanno a che vedere con sinistra e destra 'storiche'.
        
        Mercoledì, 8 luglio
        
        Annotazione. Cosa sta succedendo alla democrazia? Meglio  chiedersi
        cosa sta succedendo al simulacro residuale della democrazia? Un
        referendum mal posto, quello greco, è stato scambiato per una grande
        operazione democratica: segno dei tempi.
        Il referendum non rilancia una pratica democratica in Europa e
        nell'Unione europea ma, semmai, ne finge il rientro, come rientra in
        scena una comparsa teatrale. Nulla di operativo in questa democrazia,
        quando Zipras continua a rivolgersi ai soliti lodi arbitrali ai quali
        recita, grazie al referendum, la difficoltà della sua situazione.
        Certamente non si può fare a meno di simpatizzare per il governo greco,
        ma giusto tifare, disponendosi nella stessa logica del referendum. 
        Un momento di democrazia dovrebbe, invece, possedere decisività e
        operatività, mentre qui tutto serve a dimostrare, teatralmente, che
        anche il simulacro della democrazia è inaccettabile. Non credo affatto
        che la Merkel o chi per essa sperasse nella vittoria del sì, sperava,
        forse, che le ragioni del no si rappresentassero teatralmente e
        continuassero a calcare il solito palcoscenico: un nazionalismo, uno
        stato nazione, che si scopre rappresentante sindacale del 'popolo' e
        sfida altri nazionalismi, altri stati nazione e altri rappresentanti
        sindacali di 'popoli'. In questo contesto, su entrambi i fronti, che non
        sono fronti reali ma fronti recitati, può solo crescere una forma di
        fascismo, nostalgico del 'socialismo del capitale', un socialismo
        nazionalista del capitale.
        
        Giovedì, 9 luglio
        
        Annotazione. La finzione della democrazia è radicatissima oggi; la
        democrazia fa parte del DNA dei paesi capitalistici egemoni: l'esistenza
        stessa di istituzioni democratiche li qualifica e li riconosce. I paesi
        capitalistici egemoni devono presentarsi come democrazie, quasi che
        governi, prefetture e tutto l'apparato di controllo sociale e finanche
        le banche e le borse fossero espressione di una volontà e potere
        democratici e appartenessero ai cittadini. I correntisti sono i veri
        proprietari delle banche e i cittadini del governo e quindi direttamente
        responsabili dell'andamento dell'economia, della finanza e della
        società: la partecipazione al mercato è partecipazione alla democrazia,
        anzi è democrazia.
        Mentre la democrazia tradizionale, la democrazia rappresentativa, ha
        perso gran parte della sua funzione istituzionale, del suo peso concreto
        e storico (nel senso della determinazione della storia e degli equilibri
        politici), mantenendosi come relitto, riferimento archeologico,
        bandiera, stendardo di passate virtù, la sua finzione, invece, investe
        l'intera società; si è allargata (correntisti, piccoli azionisti,
        risparmiatori, piccoli proprietari di immobili, attivisti in comitati e
        associazioni e via discorrendo). Questo allargamento non determina una
        relazione con la democrazia tradizionale ma, anzi, lo preclude, lo nega
        e lo vive come sbarramento, ostacolo e difficoltà.
        L'astensionismo elettorale e il successo che ottiene il modello mafioso
        sono, tra molti altri segni, il sintomo della crisi del ruolo della
        democrazia nella strutturazione dei sistemi politici. La democrazia, se
        mai è esistita, oggi è davvero solo apparenza, tecnica del fenomeno,
        tecnologia rappresentativa nel doppio senso che usa la rappresentazione
        del fenomeno attraverso gli strumenti massmediatici e lo rappresenta
        politicamente solo in quanto fenomeno e in quanto fenomeno rappresentato
        massmediaticamente.
        Si badi bene, non si è data rottura sostanziale nella storia della
        democrazia: la rappresentanza politica, la delega, avevano in sé
        medesime il presupposto per la loro riduzione a tecnologia e
        rappresentazione del consenso.
        
        Venerdì, 10 luglio
        
        Annotazione. Il giudizio sulla democrazia va contaminato con quello
        sull'esperienza di Zipras perché sono due giudizi affini. Quello di
        Zipras è un tentativo eroico, per certi versi commovente, ma di eroismo
        la storia non sa che farsene, serve dell'altro per cambiarla, più
        coraggio intellettuale che, ovviamente, non può risiedere tutto in
        Zipras e che a Siriza non può essere chiesto. Zipras sta sbagliando, ma
        non può che fare altro che sbagliare, per il tipo di battaglia che ha
        scelto e per la logica che sta perseguendo nello scontro. L'errore di
        Zipras sta nel far riferimento, vivificandole, alle istituzioni della
        democrazia tradizionale e alla mitologia della rappresentanza, unita
        inevitabilmente alla retorica della sovranità nazionale, cose che, però,
        le hanno permesso, proprio queste, di ottenere un innegabile successo
        nel mondo elettorale. Questa è l'aporia contenuta in qualsiasi discorso
        sulla democrazia basata sulla logica della rappresentanza: si ottiene un
        consenso volatile e sottoposto e prigioniero delle mitologie che lo
        hanno prodotto e strutturato. La struttura della rappresentanza ha le
        stesse forme del riconoscimento identitario fondato sulla sovranità e da
        queste forme non si può uscire.
        Non so quanto Siriza sia avveduto di questa trappola logica, di questo
        paradosso e aporia, e, appunto, di quanto sia consapevole del proprio
        eroismo e dell'inutilità di questo, ma di tutte le cose dette e scritte
        a proposito di questa vicenda, una è vera, anche se non nel senso con la
        quale viene presentata: vale a dire che Zipras è un segnale. È, però, il
        segnale dell'inadeguatezza della democrazia rappresentativa e della
        teoria della rappresentanza.
        
        Domenica, 12 luglio
        
        Annotazione. Zipras sembra il topo che spaventa l'elefante e lo è. Tutta
        questa confusione di proposte, veti, aperture poi chiusure, tutte
        rigorosamente false (una verità pubblica e ufficiale) rappresentano /
        mettono in scena questo spavento, lo descrivono secondo i linguaggi
        della verità pubblica, ufficiale e approvata televisivamente. Il
        problema politico è il problema contabile (e gli stati nazionali non
        sono altro che funzionari contabili, amministrati da addetti al
        bilancio) di una contabilità che l'unione europea finge di garantire; lo
        spavento non dipende dalla contestazione della contabilità ma dai suoi
        potenziali effetti sulla finzione, che potrebbe, cioè, essere costretta
        a rivelarsi.
        
        Lunedì, 13 luglio
        
        Annotazione. L'elefante si spaventa del topo e il topo si spaventa
        dell'elefante, ovviamente. L'elefante è costretto a prendere sul serio
        il topo perché la moderata indisciplina contabile della Grecia non mette
        in discussione tanto la contabilità europea (stiamo, in verità, parlando
        di poche decine di miliardi di euro) ma un disegno, un progetto generale
        dentro il quale la contabilità greca, la poverissima contabilità greca,
        è ininfluente, in quanto fatto contabile, ma serio in quanto fatto
        politico. Politico in quale senso? Nel senso che in Grecia, come
        sostengono molti ammiratori di Siriza fino al punto di farne un modello
        di azione per la 'sinistra' europea, la democrazia si sta finalmente
        opponendo all'oligarchia, ai poteri forti europei? Risponderei che il
        mio senso del politico è davvero un altro. Nel senso che la Grecia è una
        nazione, come sostengono anche molti ammiratori di Zibras nella 'destra'
        europea, che si sta opponendo, eroicamente, alla globalizzazione
        dell'economia? Direi a maggior ragione di no, perché il mio senso
        critico verso la 'globalizzazione' non prevede il passaggio attraverso
        la riesumazione degli spiriti nazionali.
        Scriverei, al contrario, che ciò che spaventa l'elefante e gli fa
        rincorrere il topo, terrorizzandolo, è quello che in realtà si trova
        dentro di lui e che non potrebbe essere accettato dalla strategia del
        capitalismo mondiale integrato se, a causa della piccola contraddizione
        contabile greca, dovesse mettersi in produzione: in Grecia non si tratta
        né di democrazia né di nazione, ma della difesa e della resistenza di
        alcuni standard di vita, di immaginari, di culture e anche di saperi,
        conquistati i primi e costruiti i secondi, in una lotta e processo
        secolari. La grande Germania non c'entra nulla o, meglio, c'entra
        davvero poco: è solo un'occasione storica, un accidente, ma non è il
        fondamento di questa strategia; fa parte dell'asse strategico, magari,
        ma non è in grado di determinarlo. Insomma la grande Germania, come
        qualsiasi altra grande nazione, è forte ma non abbastanza.
        L'intransigenza tedesca, quindi, (contaminata dal gioco delle parti,
        delle cifre e dei bilanci pubblico e massmediatico) contro la Grecia
        possiede le stesse attitudini, gli stessi atteggiamenti che,
        storicamente, hanno assunto le grandi confederazioni sindacali verso le
        federazioni minori: sacrifica i tuoi iscritti affinché io non sia
        costretto a sacrificare i miei. È sicuramente meglio che siano i
        proletari greci a sperimentare le terapie 'oggettive' del mercato
        internazionale che non quelli dell'intera Europa. 
        La Grecia e Zipras sono a un tempo, così, un falso e vero problema:
        falso  in quanto problema contabile e concreto, vero in quanto
        problema progettuale e ideologico. La concretezza dell'economia, il suo
        buonsenso, è una qualità che non appartiene più all'economia; l'economia
        si presenta come concretezza contro Zipras e la sua democrazia
        nazionale, sfidando le leggi della concretezza, perché le sue leggi
        generali non sono economiche.
        Nella confusione rappresentativa e massmediatica esiste solo la prima
        concretezza ed è quella che, come al solito, ha egemonizzato il
        dibattito e le analisi. Anche quando si scriveva e teorizzava di una
        riforma dell'Europa non si è usciti da questo ambito analitico che ha
        accomunato tanto la 'sinistra' quanto la 'destra'. Pensiamo alla
        ridicola e improvvisata passione verso il sig. Draghi di gran parte
        della sinistra 'radicale' (quasi un eroe e un paladino della
        democrazia), oppure la retorica di molta destra 'tribunizia' intorno al
        popolo greco come ultimo apologeta del concetto di nazione (includendo
        in quest'orgoglio il fatto che, alla fine, i Greci, oltre un certo
        limite, avrebbero dovuto 'fare da sé' e risolversi nazionalisticamente
        la loro crisi, senza pesare sugli altri sacrosanti nazionalismi) e
        infine la denuncia della follia dissipatrice della cicala Zipras di
        'sinistra e destra realiste'. Tutti, alla fine, marciano separati e
        contrapposti condividendo la stessa ideologia, la medesima sensibilità
        analitica, evocando lo stesso rotocalco televisivo dove litigare
        innocuamente.
        
        Martedì, 14 luglio
        
        Letture. Castel del Piano : la perla dell'Amiata : origini, economia,
        casati / Enzo Fazzi. - Arcidosso : Effigi, 2014. - (Genius loci, 56). Un
        po' infelice e fuorviante il sottotitolo che rischia di farlo scambiare
        per una marchetta turistica, al contrario ci si imbatte in un'opera
        abbastanza lontana da ogni intento di erudizione e compiacimento
        localistico, con continui riferimenti a informazioni di archivio e una
        particolare sezione dedicata all'organizzazione del territorio e alle
        strutture di potere nell'altomedioevo. Non indifferenti alcuni interessi
        urbanistici dilatati fino alla contemporaneità.
        
        Domenica, 26 luglio
        
        Annotazione. Delle lingue nazionali. Grande parte delle parole che
        costituiscono definizioni, che definiscono, cioè, delimitazione di un
        fenomeno, evento e processo oggettivo, non si danno nelle lingue
        nazionali ma in una lingua internazionale.
        La lingua internazionale, l'inglese, premetto, riduce anche l'inglese a
        lingua nazionale, perché è un derivato dell'inglese ma non è l'inglese:
        non si tratta di un imperialismo linguistico, del predominio di una
        lingua nazionale sulle altre, ma della strutturazione di una lingua
        transnazionale, una sorta di iperlingua.
        Proprio perché iperlinguistiche, le definizioni di questa lingua
        conformano la categoria dell'oggettività linguistica che, anche
        nell'inglese nazionale, andranno tradotte e interpretate.
        L'ambito di questa iperlingua è evidentissimo in informatica, politica
        e, soprattutto, economia.
        Come la formazione di questo vocabolario iperlinguistico sia isomorfa ai
        nuovi orizzonti, istituti e dinamiche del capitalismo transnazionale (ma
        mai come trattando questo argomento risulta adeguato il termine
        biocapitalismo) è chiarissimo. A una trascendenza economica corrisponde
        una trascendenza linguistica e come le economie nazionali hanno fatto
        spazio all'economia 'globalizzata', così le lingue nazionali hanno
        perduto il potere di definire le cose della 'trascendenza', riducendosi,
        in questo campo, a parlate, 'vulgate', cedendo il passo a una
        iperlingua.
        L'iperlingua non è una lingua internazionale ma un complesso di
        vocaboli, di termine e di definizioni internazionale. Tutto questo ha
        degli innegabili effetti sulle lingue nazionali non solo e non tanto in
        fatto di contaminazione e importazione ma soprattutto nel modo di
        percepire l'uso della lingua e nel peso che le parole e le regole
        sintattiche stesse delle singoli lingue nazionali perdono.
        A fronte dell'iperlingua, oggettiva, razionale e quindi in relazione
        diretta con il trascendente, vero centro gravitazionale terminologico,
        la lingua nazionale diviene sempre più soggettiva, immanente e
        centrifuga e si interrompe un processo di centralizzazione linguistica
        che aveva caratterizzato i grandi stati nazionali del XIX e XX secolo.
        Paradossalmente, sono proprio i puristi della lingua, coloro che
        cristallizzano, a denunciarne soggettività, immanenza e volatilità: a un
        pianeta che ha perduto la stella non rimane che l'orbita, qualunque essa
        sia. Io preferisco il deragliamento da ogni orbita, a maggior ragione se
        essa perde senso, in mancanza di un centro gravitazionale.
        L'iperlingua ha dei precedenti storici. Molti di questi sono legati a
        discipline scientifiche, basta pensare al greco nelle scienze mediche e
        biologiche, e in genere questa iperlingua agisce in maniera analoga alle
        'lingue disciplinari e specialistiche' (vampirizza, cioè, le risorse di
        una particolare lingua parlata proiettandole in un contesto
        concettualizzato, indifferente all'immanenza originale, anche se
        affascinata da quella e per certi versi ispirata), ma il processo
        attuale non ha precedenti per l'ampiezza del suo ambito; non il latino,
        non il greco e neppure il francese e lo stesso inglese in epoca più
        recente, hanno saputo fornire elementi iperlinguistici in un campo d'uso
        così allargato.
        Al contrario di quello che accade difficilmente per le lingue
        disciplinari e specialistiche, inoltre, l'iperlingua viene coniugata
        dentro le parlate nazionali, producendo neologismi che sono, quasi
        sempre, interdisciplinari (pensiamo solo e banalmente al termine start
          up, mutuato dall'informatica e passato all'economia e alla
        politica, o ai nuovi significati assunti dalla traduzione
        'aggiornamento' di upgrade / update, o ancora a default
        etc. etc.). Anzi l'elemento dell'interdisciplinarietà, della
        polivalenza, della multilocazione è caratteristico dei termini di questo
        nuovo vocabolario.
        
        Lunedì, 27 luglio
        
        Annotazione. Questa nuova lingua non si spiega e ricorre alle singole
        parlate nazionali per spiegarsi. Scrivere che questa nuova realtà
        lessicale è la lingua tecnica (contabile, informativa e comunicativa)
        del dominio, mi pare forte, anche se istituisce e si fonda al contempo
        su un modo di concepire la relazione tra significante e significato che
        è autoritario. Si badi bene autoritario di sicuro e, contemporaneamente,
        umano e biologico, di una biologia che si sussume al dominio in uno
        degli elementi distintivi della nostra specie, la comunicazione
        linguistica.
        L'iperlingua presenta i suoi significati come decisivi e risolutivi,
        rispetto a quelli, anche corrispondenti, delle lingue nazionali; quando,
        in alcuni casi, per provincialismo o altro, vengono mantenuti i
        significanti in lingua, si verifica una sfasatura semantica tra la
        parola nel momento in cui è usata in maniera iperlinguistica e quando
        non lo è. Per riprendere la 'traduzione' di aggiornamento, il termine ha
        realmente cambiato natura sotto molteplici punti di vista; era un
        termine strettamente istituzionale (usato nell'ufficialità militare,
        burocratica e amministrativa e con scarsissima frequenza nel linguaggio
        parlato), associato con il significato di 'rivedere', di 'fissare una
        nuova seduta', tutti significati non operativi e progettuali.
        Aggiornamento in iperlingua ha invece un significato esecutivo: è
        l'esecuzione di un passaggio di stati, politici, culturali ed economici
        e indica un processo reale che comporta il completamente non solo di
        alcuni dati ma dello scenario e del contesto creativo dei dati.
        Aggiornamento nell'interpretazione iperlinguistica presuppone il
        concetto di compatibilità dei dati con lo scenario che costituiscono, un
        nuovo modo di produrre i dati, e poi di descriverli e nominarli.
        Aggiornamento descrive la realizzazione di un nuovo stato operativo.
        
        Martedì, 28 luglio
        
        Annotazione. Le lingue nazionali erano gelosissime di sé stesse quando
        descrivevano i fenomeni istituzionali e i processi economici, perché la
        descrizione è appropriazione, rivendicazione di proprietà e
        manipolazione. I fenomeni nazionali dovevano essere appropriati e
        manipolati da una lingua nazionale. Chiamare una cosa è, in genere,
        trasformarla in concetto, trasformarla da evento esterno a fatto
        interiore. Questa possessività sta venendo meno e i vocaboli nazionali
        perdono legittimità: sono i termini internazionali o di origine
        internazionale a definire i fenomeni. L'interiorità collettiva ha
        spostato il suo piano.
        
        Mercoledì, 29 luglio
        
        Annotazione. O meglio, l'interiorità collettiva e politica, la
        rappresentazione del collettivo e del politico (che nel trascendente
        vengono pensati come coincidenti) si è spostata su un livello
        iperlinguistico. Questo ha degli indubbi effetti sulla lingua parlata in
        termini di legittimità e, implicitamente, peso e credito.
        Il peso, il valore delle parole nazionali, diminuisce in ragione del
        fatto che queste sono strumenti per tradurre altre parole e descrivere
        concetti  che parole, generate altrove, al di fuori del contesto
        nazionale, definiscono e delimitano. La definizione sta al di fuori
        della lingua e così la potenza linguistica. La condizione del mercato
        linguistico (ben descritto dal seppur datato Migliorini) cambia
        radicalmente e, probabilmente, quello linguistico non è più un mercato.
        
        Giovedì, 30 luglio
        
        Post per FB. Ricordo ai miei amici l'anniversario della strage di
        Bologna che fece 85 morti, non so quanti feriti e danni emotivi,
        psicologici e politici incalcolabili. Bologna si inserisce in quella
        collana di episodi (partendo da Piazza Fontana, passando per l'Italicus
        e Piazza della Loggia, per finire alla strage di Natale del 1984) che
        rendono la storia di questa repubblica (prima o seconda) anomala, perché
        in parte sottoposta a forze occulte, segrete e sotterranee e quindi non
        è neppure precisamente quantificabile il volume di questa parte. Alla
        fine non è precisamente valutabile la struttura stessa della repubblica
        italiana. Furono episodi violenti, con qualche esecutore materiale e
        nessun mandante, episodi ancor oggi 'galleggianti' sotto il profilo
        storico e dunque politico, episodi che evidenziano un grave limite nello
        sviluppo della democrazia parlamentare in questo paese.
        
        Venerdì, 31 luglio
        
        Post per FB. Questa scia di omicidi di massa irrisolti introduce il
        sospetto che ancora oggi la democrazia parlamentare italiana sia
        condizionata e condizionabile, un complesso istituzionale sottoposto,
        oltre che alle pressioni fisiologiche delle grandi lobby e delle
        concentrazioni di affari e di interessi pubblicamente dichiarate, a
        gruppi di potere occulti che per tre decenni hanno espresso
        concretamente i loro veti,  hanno fatto sentire la loro forza
        politica e hanno perseguito un  progetto e strategia politici. Che
        la vita della seconda repubblica non sia stata più segnata da stragi e
        omicidi di massa non significa affatto che quei poteri non esistano più,
        probabilmente hanno cambiato forma e strategia e probabilmente qui si
        costituisce una delle differenze tra la cosiddetta prima e la cosiddetta
        seconda repubblica. Fino a che, però, non si farà piena luce sulle
        stragi degli sessanta, settanta e ottanta, un filo di continuità rimarrà
        tra le nostre beneamate repubbliche, un filo invisibile ma
        indimenticabile.
      
    rivedi
                                                        luglio
                                    
                      Inizio
                                          anno
                              
           
      Giovedì, 13 agosto
      
      Ceti medi senza futuro? : scritti, appunti sul lavoro e altro / Sergio
      Bologna. Roma : Deriveapprodi, 2007. - (Deriveapprodi, 68).
      Letture. Mi preme registrare questo passo: “È un non sense parlare del
      lavoro come di un'attività immateriale, non esiste forse attività umana
      dove la fisicità, l'impegno, lo sforzo, il senso di disciplina,
      l'adattamento all'ambiente, la flessibilità, sono sottoposti a maggiori
      sollecitazioni che durante l'esercizio di una mansione lavorativa” (p.
      91). Mi preme per la concretezza, che contraddistingue il pensiero di
      Sergio Bologna da sempre, e che gli impone di tenersi lontano da certe
      infatuazioni intorno alle nuove dimensioni del lavoro salariato e non.
      Anche se, va sottolineato a difesadi Lazzarato che viene preso di mira
      dalla critica di Bologna (Lazzarato, Lavoro immateriale, del 1997),
      paradossalmente Bologna usa tutti gli aggettivi ed espressioni che
      rimandano all'immateriale, quando descrive la fisicità persistente nel
      lavoro (senso, adattamento, flessibilità) e che chiamano in causa
      atteggiamenti sentimentali piuttosto che impegno corporeo e corporeità. La
      decorporeità del lavoro non è, però, tipica del post fordismo ma è
      implicita allo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo: è stato
      una tendenza subitanea e naturale, fin da subito il lavoro vivo e stato
      tendenzialmente sostituito da quello morto, ma anche MA soprattutto nel
      lavoro manuale, nel lavoro operaio; Lazzarato, quindi, insieme con molti
      altri enfatizza un processo antichissimo e non nuovo, addebitandolo tutto
      al post fordismo.
      “Le merci possono essere immateriali – non il lavoro” (p. 92) scrive
      Bologna e ha ragione nella misura in cui,però, la materialità del lavoro
      viene associata alla sua decorporizzazione e si istituisca il concetto di
      una nuova materialità e fisicità del lavoro, per certi versi incorporee
      (senza naturalmente dimenticare settori operai nei quali l'uso del corpo
      conta ancora molto, non fosse altro per la necessità dello spostamento
      geografico per eseguire la mansione). Proprio questa incorporeità
      consente, in buona parte, di realizzare il processo che Bologna denuncia
      (e che i teorici, anche anticapitalisti, della immaterialità ignorano),
      vale a dire il “prolungamento degli orari di lavoro di fatto” (p. 92).
      questo prolungamento più che dalla tipologia della merce (prodotto
      immateriale) dipende, e qui vado contro l'autore, dalla decorporizzazione
      del lavoro, dalla possibilità di produrre beni in ogni luogo. Questo ha
      generato non solo la possibilità di estendere l'orario di lavoro,
      l'attività lavorativa, ma anche di generare un paradigma che coinvolge
      tutto il lavoro, anche quello corporeo: il lavoro è un'attività che tende
      a eliminare lo schema orario.
      Il testo di Bologna non è un testo, è una miniera: poco più oltre l'autore
      svolge una critica alla nostalgia del posto fisso, alla nostalgia del
      fordismo, universo ormai irripetibile, affermando la progressività,
      fecondità sociale e politica, del lavoro 'precario', che può essere
      trasformato in un nuovo modo di affrontare il ciclo produttivo, il mercato
      del lavoro e il lavoro stesso. Oggettivamente per un comunista l'obiettivo
      dovrebbe essere il lavoro come attività libera, svolta al di fuori si
      schemi orari, in continua trasformazione e trasferimento; per il mio modo
      di immaginarlo, nel comunismo si cambierà spesso lavoro, anzi non avrà
      proprio senso usare il termine 'cambiare lavoro'. Il posto fisso ricorda
      una garanzia socialista, il risultato di un'oltrepassata da decenni
      dittatura del proletariato, di stato proletario, che oggi sono inattuali e
      inadeguati, e forse, in un paradosso della storia, può essere teorizzato,
      con ogni accessorio rivisitato rispetto alla tradizione socialista di un
      secolo fa, dalla 'moderna' estrema destra nazionalista.
      Il nostro problema, credo, non è quello di rivendicare il posto fisso, ma
      di richiedere e imporre la possibilità di vivere nel lavoro 'precario',
      nell'attività,  di seguire e supportare autonomamente lo sviluppo
      sociale, retribuiti e garantiti. La prospettiva sindacale del posto fisso
      e di ottenere garanzie attraverso il posto  fisso o il contratto a
      tempo indeterminato è di destra, l'ideologia delle garanzie sul lavoro in
      genere su ogni tipologia contrattuale è (solo) un primopasso per rifonadre
      un pensiero di sinistra non solo sul lavoro ma sulla società.
      Sono abbastanza convinto del fatto che se si sviluppasse una
      ricomposizione delle 'singolarità' della 'moltitudine' (per usare Negri)
      su una strategia del genere, i conservatori e il capitalismo
      denuncerebbero, con piagnistei, il danno sociale provocato nel passato, se
      ne pentirebbero pubblicamente e si farebbero alfieri del recupero della
      tradizione, della salute e della stabilità del posto fisso, oltre che,
      ovviamente, cercare di lavorare sul mondo 'flessiile', per scomporre il
      fronte. Forse sta succedendo da qualche parte, non sono molto informato.
      
      Sabato, 22 agosto
      
      Ai margini. Letture Ceti medi quale futuro?. Bologna è autore che stimo e
      per il quale nutro simpatia, anche umana. Certe cose della sua vita
      assomigliano alle mie, altre no. Il testo procura un sentimento: angoscia;
      viene descritta, inconsapevolmente e sopra e sotto le righe, la storia di
      un isolamento dei soggetti produttivi, che è quasi più forte di qualsiasi
      altra considerazione, notevole, che l'opera impone.
      Forzando e allargando (Bologna mi perdoni) il paradigma classico
      dell'imprecisa delimitazione della categoria 'ceto medio', mi sentirei di
      scrivere che, secondo un'ipotesi sociologica che mi è passata per la
      mente, il ceto medio è stato obliterato nei suoi stili di vita e nelle
      forme di attaccamento e relazione con il lavoro in epoca post – fordista,
      mantenendo come elemento distintivo alcune aspettative di vita,
      necessariamente soggette alla variabilità del mercato e dell'andamento
      economico, quindi non uno 'zoccolo duro', il fondamento di una categoria
      sociologica. Il ceto medio è quindi morto, ma la sua forma obliterata è
      diventata modello egemone socialmente, anche per i lavoratori dipendenti a
      diverso titolo e a diversa modalità contrattuale. 
      Il post – fordismo ha rimescolato con radicalità molte carte, inventandosi
      un nuovo gioco. Ha mescolato elementi e comportamenti sociali organizzati,
      altri in buona parte spontanei, segni di una nuova soggettività come il
      rifiuto organizzato del lavoro operaio degli anni sessanta e settanta, il
      diffuso rifiuto giovanile del posto fisso persistente  dai settanta
      fino alla prima metà dei novanta e il venire fuori di nuovi atteggiamenti,
      comportamenti, stili di vita ed etiche. Li ha uniti, inoltre, con elementi
      oggettivi, che hanno in parte aiutato la crescita di queste nuove
      soggettività, in parte le hanno indotte e in parte sono state una risposta
      a quelle, tra questi il modo di produzione toyotista, l'inapplicabilità di
      un contesto produttivo generale rigido (e organizzato secondo modelli
      rigidi) e la nuova mobilità ed elasticità del mercato del lavoro e delle
      merci.
      Il post – fordismo, poi, si è trasformato in un'epoca quando non solo ha
      imparato a mettere insieme tutti questi nuovi elementi ma ha saputo dare a
      quelli stabilità, un senso, uno spessore culturale,  intelligenza e
      riflessione su sé stessi, in una parola li ha messi in prospettiva. Questa
      nuova cultura e consapevolezza dello sviluppo sociale e produttivo ha
      affidato nuovi compiti alla sfera pubblica (spesso limitandone le
      competenze), allo stato, ai servizi e all'apparato scolastico ed
      educativo. Qui è nata una nuova epoca, quella del biocapitalismo e della
      post – modernità e insieme con quella il ceto medio diffuso che ho in
      mente. Questo ceto medio è la nuova faccia del proletariato, del lavoro
      non salariato che diventa tale anche quando è regolato da contratti che
      prevedono il salario, ma nel quale il salario è sempre più chiaramente
      slegato dall'orario e dalla produttività oraria.
      
      Mercoledì, 26 agosto
      
      Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Dovendo interpretare
      storicamente questo fenomeno si potrebbe così riassumere: è questa l'epoca
      nella quale il lavoro salariato rimane una forma e un punto di riferimento
      nelle relazioni tra capitale e lavoro, ma non è più la sostanza di questo
      rapporto. Il lavoro salariato è diventato un istituto contrattuale slegato
      dalla sua funzione originaria, che era quella di misurare il valore reale
      del lavoro per individuare il pluslavoro e il relativo plusvalore; è
      diventato, invece, una forma tra le altre di elargizione del reddito. Il
      concetto stesso di lavoro necessario ha perduto senso, se riferito al
      lavoro vivo, perché quasi tutto il lavoro necessario nella produzione dei
      beni viene eseguito dalle macchine. Il lavoro vivo, sia quello svolto
      nella produzione sia, ancora di più, quello svolto nella riproduzione del
      capitale è un'attività di controllo, supervisione e coordinamento dei
      flussi lavorativi.
      Anche là dove il lavoro vivo si mantiene indispensabile (nell'edilizia,
      nei trasporti, nel commercio e nei servizi), poiché determina in maniera
      decisiva l'esecuzione dell'attività e la costruzione del prodotto, e anche
      nelle qualifiche più basse, il lavoro conserva una forma oraria, un
      riferimento orario, ma la fonte del suo valore non è il tempo di
      esecuzione ma la prestazione singola, la sommatoria di risultati e
      obiettivi raggiunti.
      
      Giovedì, 27 agosto
      
      Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Lo schema del
      processo lavorativo, spostandosi dalla produzione dei beni (materiali o
      immateriali poco importa) eseguita in una cooperazione parcellizzata
      (esemplari di questa la linea di montaggio taylorista in metalmeccanica o
      la serie manovale –  operaio comune - specializzato in edilizia) a
      una produzione di beni attraverso una cooperazione allargata, è
      profondamente cambiato. Il concetto marxista e classico di lavoro
      necessario non è venuto meno solo a causa dell'automazione, ma soprattutto
      a causa della trasformazione della collaborazione richiesta ai lavoratori
      da singolare a plurale. In qualsiasi campo produttivo non è possibile
      distinguere quello che è stato realizzato nel processo da un singolo
      operatore da quello al quale ha contribuito un altro. Il lavoro necessario
      oltre che essere diminuito è diventato comune e collettivo. I processi di
      automazione dei beni materiali e immateriali hanno provocato in larga
      parte questa collettivizzazione estrema del lavoro che è diventata il
      nuovo paradigma e ha formato la nuova immagine del lavoro.
      Non importa, comunque, stabilire le cause ma individuare e precisare gli
      effetti: sono cambiati i poli, i criteri gravitazionali e i palinsesti
      organizzativi del lavoro. Là dove la linea di montaggio e la corrispettiva
      produzione in serie costituivano un'esperienza valida e adeguata a
      considerare ogni genere di lavoro e a valutarlo, ora il flusso
      pluridirezionale è intersecato con altri flussi, le serie produttive sono
      contraddistinte dalla congiunzione con altre serie, spesso anche da
      contaminazioni, dalla perdita della loro natura originaria, da
      sconfinamenti e quindi l'insieme di prestazioni spesso diverse comporta il
      risultato produttivo.
      Sembra paradossale, scrivendo di un mondo del lavoro misurato sul
      nanosecondo e che può realmente misurare la produzione sulla base di un
      nanosecondo, il fatto che, mentre la produzione meccanica poneva al centro
      del processo la velocità di esecuzione del processo stesso, come
      opportunità di riduzione del lavoro necessario, oggi non è la velocità a
      essere importante ma la flessibilità, l'elasticità, la snellezza, la
      complessità e la diramazione del processo lavorativo. È importante il
      complesso armonico non l'avanzamento direzionale.
      Conseguentemente non sono più valori fondamentali la quantità dei beni
      prodotti e la linearità e semplicità del processo produttivo, ma la
      capacità del processo produttivo di comprendere sé stesso, di coinvolgere
      soggetti diversi professionalmente tra loro, di costituire delle
      collaborazioni e delle armonie 'spontanee'. La fonte del profitto si
      identifica sempre più spesso nel risparmio delle risorse e non nella loro
      moltiplicazione: la fluidità prevale sulla velocità, la diramazione dei
      processi prevale sulla loro portata.
      Qualche anno fa, nella sua 'Grammatica della moltitudine', Paolo Virno si
      imbatteva nuovamente e con altri occhi nel concetto marxista di lavoro
      improduttivo e in tutto l'imbarazzo che aveva provocato nel sistema
      marxiano, soprattutto a proposito del calcolo del suo valore e della sua
      misura economica. Il marxismo si imbarazzava giustamente in un mondo dove
      il paradigma del lavoro di fabbrica dominava il mondo del lavoro. Oggi è
      altrettanto imbarazzante constatare che le qualità espresse durante
      l'esecuzione del lavoro improduttivo (artista, progettista, impiegato,
      cameriere, cassiere, commesso, barista etc. etc.) sono diventate le virtù
      centrali del lavoro, anche di quello produttivo secondo l'accezione
      tradizionale, anche del lavoro di fabbrica.
      
      Venerdì, 28 agosto
      
      Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Sotto un profilo
      storico ancora più generale, sotto un'analisi epocale, l'attuale
      costituzione del lavoro, il complesso di elementi che egemonizzano la sua
      costituzione (misura del suo rendimento economico, forme organizzative,
      relazione del lavoratore con la produzione, relazione del lavoratore con
      il mercato delle merci e con quello del lavoro e giornata lavorativa
      sociale) hanno abbandonando o stanno largamente abbandonando gli archetipi
      propri del capitalismo industriale. Il modo di produrre, il modo di
      lavorare e di intendere il lavoro sorti nel tardo medioevo, quelli in base
      ai quali il tempo, la sua scomposizione, frazionamento e misurazione
      costituivano l'intelaiatura della giornata lavorativa, sono declinati.
      Nasceva, mezzo millennio fa, il concetto del tutto nuovo per l'umanità di
      'tempo di lavoro', inteso come spazio cronologico esclusivamente,
      interamente e rigidamente dedicato al lavoro, un involucro chiuso che
      escludeva qualsiasi altra attività umana. Contro questo involucro ci fu
      lotta, lunga e spesso violenta: artigiani e operai agricoli rivendicarono
      per tutto il XIV e XV secolo il tempo tradizionale, un tempo nel quale la
      vita e il lavoro si compenetravano e spesso facevano riferimento al tempo
      divino, al tempo teologico in questa loro battaglia e resistenza e spesso
      ancora assalivano orologi pubblici e laici.
      Oggi questo nuovo concetto, inventato nel XIV secolo, è venuto meno
      insieme con la convinzione della sua misurabilità economica e della sua
      opportunità produttiva, il capitalismo deve rivedere le sue teorie sul
      profitto; è venuto meno, inoltre, insieme con le basi scientifiche delle
      sue forme organizzative, il pensiero scientifico è cambiato; è venuto
      meno, infine, insieme con la necessità di fissare un limite e
      un'estensione alla giornata lavorativa sociale, il sindacalismo non ha
      orizzonti se non li cambia radicalmente.
      La scienza galileiana (per rimanere nei dati epocali), che ha accompagnato
      lo sviluppo del capitalismo e delle sue misurazioni, non è più adeguata a
      organizzare intellettualmente questa nuova costituzione sociale è, in una
      parola, sorpassata. 
      Sotto molti aspetti, come in epoca classica, non esiste un'unità di misura
      che stringa l'orario con il lavoro, il tempo con la produzione
      dell'essere; quasi duemila anni fa, l'editto sui prezzi di Diocleziano
      descriveva il lavoro, sotto il profilo della sua retribuzione, come
      diurni, giornata lavorativa, o come caput, prestazione a corpo. Come in
      epoca classica, inoltre, tolta di mezzo la forza tradizionale del
      riferimento orario non esiste un modello egemone in materia, ma diversi
      rapporti di produzione concorrono ad edificare una sinergia generale. La
      parabola del lavoro salariato corre il rischio di ripercorrere, in senso
      inverso, quello della mezzadria medioevale che da relazione di sussistenza
      e acquisizione diretta dei prodotti della terra, di spartizione con la
      proprietà delle risorse per la sopravvivenza, divenne una relazione
      contrattuale orientata al denaro e alla remunerazione della singola
      prestazione d'opera. Oggi il lavoro salariato rischia di ridursi da
      strumento di relativa autonomia economica a forma di elargizione di un
      reddito compatibile con la sopravvivenza.
      
      Domenica, 30 agosto
      
      Annotazione. Questo non significa affermare la fine del lavoro salariato,
      precisamente come constatare la fine della misurabilità del lavoro
      necessario non equivale a dire che il lavoro, grazie all'automazione, non
      serve più. Sono, però, venuti meno alcuni parametri fondanti il classico e
      tradizionale rapporto di lavoro salariato che ha, così, un altro
      fondamento sociale.
      Tornando all'esempio della mezzadria o di altro istituti contrattuali
      simili della società feudale, la loro trasformazione da emolumenti
      misurati in natura a emolumenti elargiti in danaro e il loro cambiamento
      da strumenti per una divisione delle risorse prodotte a una retribuzione
      complessiva per il lavoro di una stagione non hanno significato la
      scomparsa dell'istituto (il lavoro di mezzadria è stato abolito in Italia
      solo nel 1961). Il rapporto di mezzadria, pur cambiato nella forma,
      conteneva una verità sostanziale su quella relazione sociale; il rapporto
      di lavoro salariato, pur cambiato nella sostanza, contiene una struttura
      formale che esprime una relazione sociale: il tempo di lavoro rimane la
      fonte della produzione e il capitalismo continua a pagare 'formalmente' il
      tempo.
      Molto tempo fa, circa tre decenni fa, nel pieno della restaurazione post –
      fordista e post – moderna (il termine restaurazione è narrativo ma
      inadeguato), immaginai che il nuovo orizzonte sociale del capitalismo
      sarebbe stato dominato dal non – lavoro. Da una parte l'automazione,
      minimizzando il lavoro umano necessario al profitto, avrebbe consentito la
      riduzione drastica degli occupati nella produzione dei beni materiali,
      liberando, al contempo, risorse enormi da investire nella riproduzione del
      capitale. Nella mia ipotesi, questo si sarebbe tradotto in una giornata
      lavorativa allungata nel settore della produzione primaria e secondaria e
      nella drastica diminuzione della giornata lavorativa nel settore della
      produzione di beni immateriali e dei servizi; questa diminuzione sarebbe
      stata tradotta dal dominio in non – lavoro che immaginavo supportato da
      forme alternative di erogazione del reddito, certamente di bassa
      consistenza ma compatibili con il processo di riproduzione del sistema e
      con il sostegno della domanda e dei consumi.
      Era una visione fordista che cercava di decifrare il post – fordismo e
      dunque, certamente, inadeguata, ma il valore del processo, il processo
      messo a nudo, era quello; non pensavo che il capitalismo avrebbe saputo
      oltrepassare la valorizzazione oraria tradizionale, eppure è riuscito a
      farlo.
      
    
    rivedi
                                                            agosto
                                          
                          Inizio anno
                                 
                    
                    
                  Sabato, 19 settembre
      
      Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / Karl Marx ; introduzione
      di Friederich Engels ; a cura di Giorgio Giorgetti. - Roma : Editori
      Riuniti, 1973. 4. ed (Le idee, 24). Letture.
      Potrei scandalizzare qualcuno con queste righe ma sarà uno scandalo utile.
      Riprendere in mano un'opera come questa, che a suo tempo avevo percepito
      come straordinariamente lucida, innervata di realismo rivoluzionario, anzi
      di realismo rivoluzionario messo a stampa, e illuminata da uno sguardo a
      un tempo disincantato (realismo) e critico (rivoluzionario) sulla storia,
      mi ha procurato una strana sensazione, quasi, a tratti di sconforto. Tutto
      quello che mi appariva innovativo, irriverente e trasgressivo, ora mi si
      presenta davanti come cinico e reazionario, al punto che questi quattro
      articoli scritti nel 1850 in Londra non sono più un contributo
      rivoluzionario ma controrivoluzionario, se interpretati in funzione di un
      approccio analitico alla contemporaneità. Non dipende dall'autore e il
      controrivoluzionario non è Marx, ovviamente, ma controrivoluzionaria, e
      davvero in senso estremo e assoluto, è l'epoca in cui viviamo non per
      essere uscita completamente dagli schemi immaginati da Marx, ma per averli
      oltrepassati senza avere avuto il coraggio e la necessità di rinnegarli,
      per essere un'epoca cinica nella sua essenza.
      Secondo Marx storico, seconda la filosofia della storia marxiana, lo
      sviluppo della borghesia avrebbe comportato l'evoluzione del proletariato,
      fino al punto da farne una classe capace di eliminare tutte le classi, per
      prima sé stessa. Al contrario lo sviluppo della borghesia ha determinato
      la fine della borghesia come classe, e in un autentico nonsense
      della storia (sotto il profilo marxista), il mantenimento del proletariato
      come classe 'formale'. Al contrario che nella teleologia marxiana, la fine
      della borghesia non ha comportato la fine del capitalismo e un
      proletariato senza borghesia, cioè la verità di oggi, sarebbe una vera
      assurdità per il marxismo classico.
      La concezione e l'idea di borghesia, che Marx aveva nel 1850, non hanno
      nulla in comune con quella che si deve usare per descrivere i gruppi
      dirigenti economici attuali, mentre lo sviluppo capitalistico non fa più
      riferimento alla dialettica tra capitale e lavoro immaginata e descritta
      da Marx; con ciò non intendo che non esiste più il capitalismo o che il
      capitalismo si è dissolto nel popolo (anche se è accaduto qualcosa di
      molto simile, almeno per l'ideologia contemporanea) ma che si è realizzata
      un fase storica in cui il capitalismo sopravvive senza la sua dialettica
      costituiva.
      Rimane la freschezza, la 'macchina del tempo' storiografica contenuta in
      questi quattro articoli, insieme con l'incrollabile convinzione
      dell'autore di aver individuato il motore dello sviluppo, la verità nella
      storia e la necessità di questa verità. Adottata oggi, quest'impostazione
      è, subdolamente (più di quanto si pensi), reazionaria, nel 1850 era
      certamente altra cosa.
      
      Martedì, 22 settembre
      
      Annotazione.  Ceti medi: quale futuro? / Sergio Bologna. Bologna si
      dice convinto del fatto che l'operaismo fu un fenomeno di pensiero post
      comunista. In genere, questa fenomenologia andrebbe estesa dall'operaismo
      al movimento degli anni settanta nel suo complesso, ponendo il suo culmine
      nell'anno 1977 e Bologna lo fa coerentemente, pur dedicando pochissime
      righe all'argomento. Anche io che militavo in uno dei molti gruppi di
      quegli anni, nonostante i continui riferimenti alla tradizione comunista,
      non potevo rimanere insensibile al fatto che stavamo partecipando a
      qualcosa di nuovo rispetto a quella tradizione, e che i continui
      riferimenti verso di quella erano spesso, anzi più che spesso, critici.
      Il movimento del 1977, poi, non fece che ufficializzare questa critica,
      rendendola manifesta e radicale. Il movimento del '77 non fu un movimento
      comunista nella misura in cui la politica comunista si riduceva alla
      costruzione del partito e del sindacato e alla loro teoria.
      Se, fino a quell'anno, era possibile parlare di partito e sindacato, anche
      se ormai nei termini di un nuovo partito non leninista e liberato dal
      leninismo e dalla militanza di professione, ed era possibile teorizzare un
      nuovo organismo di massa, neanche più definito come sindacato (vocabolo
      che era già uscito dal lessico costruttivo), non più progettato come
      cinghia di trasmissione di massa della linea del partito, in quell'anno
      certi discorsi e certe teorie, anche le più critiche e innovative, anche
      quelle che facevano riferimento al pensiero operaista, diventarono tanto
      improvvisamente quanto palesemente inadeguati. Riutilizzando, in maniera
      necessariamente impropria, la terminologia della tradizione comunista,
      quei discorsi e quelle teorie divennero, nel '77, 'controrivoluzionarie'.
      Il rompicapo proposto in quell'anno fu che l'esperienza comunista
      tradizionale venne rifiutata, trattata come si tratta, durante le
      rivoluzioni, un fronte controrivoluzionario, ma non si progettò una
      rivoluzione alternativa e i vocaboli stessi 'rivoluzionario e
      controrivoluzionario' persero qualsiasi significato. Cambiò radicalmente
      la prospettiva, quella che potrebbe essere detta la prospettiva
      proletaria: dalla critica al presente, tipica del processo comunista
      tradizionale e 'rinnovato', si passò alla critica al futuro: il presente
      andava ricostruito e trasformato, non il futuro. In questo scenario, i
      problemi di tattica e strategia politica, croce e delizia della storia del
      movimento comunista, semplicemente scomparivano.
      
      Mercoledì, 23 settembre
      
      Annotazione. Il '77 è stato un anno mitico. Anch'io ne ho costruito la
      mitologia lungo la mia vita.
      Si cantava in una canzone, dei primi anni ottanta e della disperazione
      rispetto al restauro politico imperante: “Chiedi a 77 come si fa”. La
      bellezza di quella domanda è che sapeva di non poter avere risposta e
      dunque diveniva un verso struggente, per chi lo comprendeva. 
      Il 77 non aveva risposte, ricette e soluzioni; eppure su quell'anno si è
      cercato di istituire un patrimonio da ereditare, quando, invece, il
      movimento non aveva né proprietà né possessi e neppure, come disse
      Berlinguer del '17 russo “una spinta propulsiva”.
      
      Giovedì, 24 settembre
      
      Annotazione. Molte bugie, enormi, sul '77 da parte di Cossiga, della
      stampa di allora e di oggi e della storiografia. Come annota giustamente
      Sergio Bologna insieme con molti altri, non è ancora possibile trovare una
      trattazione storica semplicemente decente su quell'anno e più in generale
      su quel decennio. Per la storiografia ufficiale sono gli anni di piombo,
      gli anni del terrorismo (neppure della lotta di classe che deviò nella
      follia armata, secondo qualche altra riduttiva e menzognera
      interpretazione), gli anni del rapimento Moro, di piazza Nicosia e
      null'altro o quasi. La solarità di quegli anni è stata cancellata dalla
      grigia immagine degli 'anni di piombo'. Questo è stato un sistema di
      bugie, un sistema esegetico, l'ideologia sul 1977 e gli anni settanta.
      Non sono però mancate altre bugie che non hanno avuto al forza e la
      possibilità di costituirsi in sistema; le bugie di una parte degli
      sconfitti degli anni settanta, le bugie di una parte dei protagonisti di
      quel movimento e sconfitti e protagonisti, in questo particolare caso,
      spesso coincidono ma non sempre e dunque non necessariamente. Non c'è
      stata perfetta identificazione tra i protagonisti del movimento intorno al
      suo senso e significato storico.
      Gli unici a dire qualche verità su quegli anni e soprattutto su quell'anno
      sono stati coloro che hanno smesso fin da subito di parlarne, quelli che,
      usando una terminologia desueta, potrebbero essere definiti la 'base' di
      massa del fenomeno e che per la neonata La Repubblica e buona parte della
      pubblicistica di allora erano etichettati come 'area' del movimento o come
      'il movimento', in modo generico e astratto. Questo numeroso gruppo di
      protagonisti si sono certamente sentiti, almeno in certi momenti e secondo
      alcune argomentazioni, 'sconfitti', ma generalmente hanno rifiutato le
      categorie di sconfitta e di vittoria, esattamente come 'il movimento' non
      sapeva che farsene di tattica e strategia. Questo settore, assolutamente
      maggioritario, si è limitato a dire (a dire, si badi bene, non a
      constatare con rassegnazione) “è successo” e “abbiamo fatto”, ma “ora non
      può succedere” e “ora non lo possiamo fare di nuovo”. In moltissimi di
      costoro è calato il silenzio.
      Una parte più contenuta numericamente, assolutamente minoritaria in
      relazione alle potenzialità quantitative del movimento di quegli anni,
      invece, prescindendo, completamente o in parte, da questo evidente
      frammento di verità, hanno cercato di spiegare 'il movimento' e anche loro
      stessi nel movimento, usando i metri della rinnovata tradizione comunista,
      metri elaborati durante l'espressione stessa dei movimenti che a vederli
      oggi odorano di aggiustamenti (mentre sinceramente allora puzzavano),
      evidenze adatte a rincorrere in qualche maniera quell'insorgenza.
      Costoro, spesso, e ancora usando una terminologia desueta e per il loro
      caso assolutamente inadeguata, possono essere definiti e, spesso, sono
      stati definiti seriamente dalla stampa come 'avanguardie' di quel
      movimento che, in verità, non conosceva né avanguardia né retroguardia e
      neppure le parole corrispondenti a quei concetti.
      Sono autocritico: facevo naturalmente parte di questi.
      
      Venerdì, 25 settembre
      
      Annotazione. Il termine 'agitatore' e 'organizzatore', recuperato dalla
      migliore tradizione sindacale, andrebbe recuperato per sostituire quello
      di 'avanguardia'. Nei fatti, nel concreto agire, fu sostituito il termine
      'avanguardia', anche se non ci fu niente di formale e di stabilito
      ufficialmente.
      Quel movimento non ebbe né avanguardia né retroguardia ma solo
      un'incredibile schiera di 'agitatori e organizzatori'.
      Torniamo, però, alle verità parziali, a una specie di assenza di verità
      (un movimento senza verità) che lo contraddistinse e alla piccole bugie
      con le quali si è cercato di interpretarlo nella sinistra che valga la
      pena di essere considerata tale.
      Personalmente scelsi una di quelle e le sono rimasto fedele per
      lunghissimi anni, anche se, confrontata con la mia percezione immediata
      che proveniva dalla diretta partecipazione al movimento, la trovai subito
      riduttiva; ma era comoda e tranquillizzante. È una piccola bugia,
      intelligente credo, che ho anche ritrovato in Paolo Virno, in suo
      contributo ad Arte e Moltitudine di Negri (credo nuovamente). 
      La bugia era una tesi e la tesi era semplice. 
      In quegli anni e segnatamente tra '73 e '77, si manifestò, in embrione,
      una nuova composizione di classe, il cosiddetto 'operaio sociale', che
      sarebbe stata egemonica nella nuova costituzione di capitale. Fu proprio
      l'immaturità, la gioventù di questo soggetto a determinare la sua
      esplosiva manifestazione sociale e politica: quella nuova composizione era
      appena prefigurata, abbozzata, e intravedeva appena i nuovi scenari del
      lavoro e dello sfruttamento sulla scorta, però,  dell'esperienza e
      percezione della composizione di classe precedente, l'operaio – massa. La
      combinazione tra la percezione e la soggettività dell'operaio di fabbrica
      dequalificato e l'esperienza di questo nuovo soggetto si tradusse in
      un'ulteriore e radicale assunzione dei comportamenti politici dell'operaio
      – massa da parte del nuovo soggetto. Questo aveva portato a un
      cortocircuito tra linguaggi, ideologie e stili di vita in via di
      sparizione e sotto attacco per via della ristrutturazione industriale,
      quindi costretti sulla difensiva (l'operaio di fabbrica, le sue culture e
      le sue forme di lotta) e reti, gruppi emergenti che ereditavano questa
      complessità conflittuale solo nella misura in cui e perché potesse essere
      tradotta in un'ipotesi e dimensione offensiva. Si prefigurava, quindi, un
      nuovo scontro di classe usando, radicalizzandoli, gli strumenti di quello
      vecchio.
      Con questo si potevano spiegare molte cose e non ultima il relativo
      successo propagandistico delle organizzazioni combattenti, che
      rappresentavano, in maniera mistificata, l'ipostasi dell'offensiva
      dell'operaio – massa. Il problema, per molti, fu quello di trasferire, in
      qualche modo, l'antagonismo espresso dall'operaio della fabbrica
      all'operaio escluso dalla fabbrica o che rifiutava la fabbrica.
      La seconda bugia, meno intelligente, nell'interpretazione di quegli anni,
      fu confezionata, infatti, intorno a un problema che per il movimento non
      esisteva e che non si era volontariamente e coscientemente posto, il
      problema organizzativo. Essendo impossibile individuare avanguardie e
      individuarsi come avanguardie, si ritenne che il momento organizzativo
      espresso dal movimento dovesse essere eminentemente ed esclusivamente
      politico, seppur speso in forme magmatiche e quasi inconsce. Si sarebbe
      dovuto verificare, alla fine e detto con cinismo, un secondo pasto sul
      corpo del movimento, come si diceva a proposito del cadavere del 68, ma
      questo non fu possibile per moltissimi motivi contingenti e congiunturali
      e soprattutto perché il 77 non fu un nuovo 68 e gli anni settanta sono
      stati diversi, almeno in Italia, dagli anni sessanta e infine perché la
      stretta repressiva, incuneandosi in questa chiara debolezza politica,
      colpì mortalmente le forme organizzate, che facevano riferimento a questa
      analisi.
      In effetti nulla di più lontano dagli anni settanta era l'idea di una
      nuova lotta sindacale svolta sul terreno economico (cosa che consentiva di
      pensare alla costruzione di una direzione esclusivamente politica del
      movimento), ma ancora più lontana era l'idea di una sostanziale autonomia
      del politico svolta con sensibilità e strategie rivoluzionarie, in una
      riproposizione del leninismo. In questa seconda ipotesi, in questa seconda
      bugia, quindi, si scambiò l'assenza o l'indifferenza verso rivendicazioni
      di carattere strettamente sindacale con la volontà di far emergere una
      direzione politica.
      La stretta repressiva, per qualche anno, veramente anni troppo lunghi,
      venne considerata come la causa principale del fallimento del movimento
      degli anni settanta, recuperando una visione quasi bordighista dello
      scontro sociale, mentre, al contrario, la restaurazione, in ogni epoca e
      in ogni luogo e non solo alla fine degli anni settanta in Italia, è un
      fenomeno un tantinello più complesso, non reprime per restaurare, ma
      rinnova per restaurare e per reprimere.
      Il movimento italiano 73 – 77 in Italia non fu né un cortocircuito tra
      composizioni di classe e nemmeno un orfano involontario della direzione
      politica comunista che non poté costituirsi, o meglio non solo questo.
      
      Domenica, 27 settembre
      
      Annotazione.  Se c'è del vero nell'analisi che ho ritrovato in Paolo
      Virno, perché fa i conti con il movimento, ce n'è ben poco nella seconda,
      perché non vede il movimento.
      Che gli anni centrali di quel decennio abbiano rappresentato la
      manifestazione esplosiva di un nuovo soggetto e che questa manifestazione
      abbia avuto tutte le caratteristiche comportate dalla sua 'immaturità' è
      un'interessante tesi storica e sociologica, ma lì rimane, nella storia e
      nella sociologia. Al punto iniziale, l'immaturità, non mi pare sia seguita
      la parabola che ci sarebbe dovuta attendere, se l'assunto della tesi era
      corretto, almeno in Italia. Insomma per l'Italia questa tesi non è valida,
      anche se interessante e utilizzabile, per certi versi: il nuovo soggetto,
      sottoposto alle classiche regole di sviluppo dell'antagonismo e
      apparentemente rispettandole e confermandole ai suoi esordi nella storia,
      non ha più seguito queste regole.
      Fenomeni coevi e precedenti (soprattutto nel mondo giovanile) potrebbero
      aiutare per comprendere questo deragliamento dalle regole. Il movimento
      punk, la swinging London e anche quel multiforme movimento di stili di
      vita e di forme politiche etichettato in freack nel mondo americano; tutte
      quelle cose che si usava dire, un tempo, controculturali o alternative. Le
      due definizioni sono inadeguate: si tratta solo di culture. In queste
      culture, infatti, nel loro concreto e quotidiano costituirsi, nelle
      relazioni tra gli individui che le fabbricano, non ha prevalso affatto
      l'elemento alternativo, l'elemento ideologico, ma l'elemento concreto:
      quello che permetteva di affrontare il presente in maniera non solitaria,
      comunitaria ma non organizzata. Questi movimenti o fenomeni sociali non
      hanno preteso di costituire un'identità (l'anarchico, il comunista, il
      ribelle) ma una comunità basata sulla diversità dei suoi componenti.
      Cosa può c'entrare quello che era detto l'operaio sociale con questa
      comunità basata sulla diversità? Molto. 
      L'ambiente di lavoro, la relazione con il lavoro e con il mercato perdeva,
      per l'operaio sociale, l'omogeneità caratteristica per l'operaio di
      fabbrica.
      Nel periodo 73 – 77, in Italia, insieme con tutte le forme politiche
      tipiche della generazione operaia (ma ormai sarebbe meglio dire
      proletaria) precedente, e quindi un'apparente omogeneità di segni e
      linguaggi politici, venne fuori, per la prima volta, la disomogeneità dei
      movimenti giovanili intesa come valore antagonista.
      Tutte le esperienze giovanili di massa, nel pensiero comunista
      tradizionale e non, erano state considerate (quando venivano prese in
      considerazione) espressione generica del disagio sociale, prodotto
      dell'inadeguatezza del sistema e sempre segni, sintomi (alla fine
      patologie) dell'ingiustizia sociale e del deserto esistenziale che il
      capitalismo provoca. Al pari della malavita, dell'alcolismo, delle
      tossicodipendenze e finanche delle 'trasgressioni sessuali', i movimenti
      giovanili non potevano essere la risposta al capitalismo ma solo gli
      effetti secondari della critica spontanea al capitalismo.
      L'operaio sociale, al contrario che in tutte le teorie dello scontro di
      classe precedenti, pretese di rimanere nella categoria dell'effetto
      secondario, non ambiva a essere la risposta e a ricostituire una
      composizione di classe: l'operaio sociale usciva dalla dialettica.
      Come tale, in molte sue componenti, (e bisogna inevitabilmente rientrare
      in questo argomento perché è la logica stessa del ragionamento che lo
      impone) riprese il linguaggio dell'operaio – massa e lo estremizzò per
      manipolarlo e riforgiarlo al punto di renderlo capace di rappresentare
      quella separazione che, invece, era del tutto estranea alla sua ideologia
      e alla sua soggettività. Questa manipolazione estremistica in funzione
      della separazione, divenne separazione secondo le vecchie grammatiche del
      comunismo che poteva anche (in particolari casi umani) condurre alla lotta
      armata e alla pratica costante della violenza e della forza di piazza,
      oppure, su tutt'altro versante, giungere a un resuscitato e reimportato
      dal mondo anglosassone universo delle 'controculture' e della 'creatività
      alternativa'. Questo è accaduto soprattutto tra 76 e 77 in maniera
      strisciante e  tra 78 e 80 in forma conclamata. Questa era l'unica
      omogeneità percorribile e la si poteva percorrere solo come omogeneità
      politica e ideologica, riprendendo in mano, stravolgendole, la
      soggettività dell'operaio di fabbrica e la tradizione della sinistra
      comunista.
      Tolte queste componenti, importanti, che non riuscirono mai a essere
      maggioranza e a segnare autenticamente lo sviluppo del movimento, nel 77
      l'omogeneità e l'identità di classe tradizionali al mondo comunista
      furono, in tutta semplicità, ignorate; il 73 – 77 sono l'elogio della
      complessità e della differenza. 
      Contrariamente a ogni previsione e contro ogni forza testimoniale
      posteriore, l'operaio sociale italiano ha rispettato l'assunto originario
      della sua prima manifestazione storica: si è sciolto nella società,
      scomparendo politicamente.
      
      Lunedì, 28 settembre
      
      Annotazione. Di qui in poi non posso che ragionare per sommi capi e
      scrivere analogamente. La mia militanza, ormai poco convinta, terminò nel
      1985 e il mio interesse verso gli eventi della politica scemò, fino che
      arrivai al punto, dopo il '95, di praticare una specie di blocco
      informativo, un autentico e radicale rifiuto della politica.
      Gli anni ottanta furono un incubo, i novanta un enigma e dopo l'ignoto
      insondabile. Sono stato un piede che continua a camminare su un callo: la
      memoria mi impediva di camminare diritto ma mi faceva sentire il cammino.
      Per me, la fine definitiva della politica ha coinciso con una riforma
      istituzionale, che considerai e considero tutt'ora il suggello della
      restaurazione avviata alla fine degli anni settanta: l'abbandono del
      sistema elettorale proporzionale, sia per quello che è stato, sia per come
      è stato ottenuto. 
      Il sistema proporzionale garantiva la possibilità di una rappresentanza
      molto allargata, (spesso caotica ma cosa importa quando è in tema la
      democrazia?) l'accesso, magari in maniera falsificata, di soggetti diversi
      alla rappresentanza parlamentare; il maggioritario era la negazione della
      polivocità, ormai lo ammetto residua, della politica italiana. Se i
      cosiddetti 'inciuci', gli accordi elettorali, di potere e di clientela,
      con il proporzionale venivano dopo le elezioni ed erano necessariamente
      frammentati e deboli, descrivendo abbastanza fedelmente le intenzioni (lo
      ribadisco, falsificate) dell'elettorato, e davano vita a un'instabilità
      politica veritiera, con il sistema maggioritario gli 'inciuci' erano
      definiti prima, nelle segreterie dei partiti e nelle amministrazioni
      locali, erano centralizzati, apertamente posti al di sopra del corpo
      elettorale, che sceglieva solo dopo la costituzione del cartello e non
      entrava nella sua formazione.
      In secondo luogo, mi scandalizzò il plebiscito con il quale era stato
      ottenuto quel risultato: non ci furono, sostanzialmente, oppositori
      all'eliminazione della proporzionale: l'elettorato ratificò una decisione
      già presa nelle principali segreterie dei partiti e nelle direzioni delle
      organizzazioni imprenditoriali e, probabilmente, in gruppi di potere
      economico internazionale. La fine del proporzionale fu coerente, in
      maniera cinica e maligna, con sé stessa.
      Qua e là, in quei lunghi decenni, sprazzi di luce, come la marcia dei
      migranti nel luglio 2001 a Genova, in occasione della contestazione del
      G8, oppure un altro referendum, a fine anni ottanta, sul nucleare, dove
      l'accordo delle segreterie e delle organizzazioni imprenditoriali venne
      ampiamente disatteso; eventi, però, subito rinnegati da una miriade di
      episodi uguali e contrari.
      Quando mi metto a scrivere di quegli anni, dall'ottanta al 2010, trenta
      lunghissimi anni, è come se tirassi fuori i fatti da un ricordo inconscio,
      da una sequenza senza logica apparente, che non sia quella onirica.
      L'instaurazione della sedicente seconda repubblica (che si è detta così,
      da sola) e la coeva e imprescindibile per quella legge elettorale furono
      il segno profondo della irrimediabile stabilità raggiunta dalla
      restaurazione, stabilità preannunciata dai risultati di un altro
      referendum, quello sulla scala mobile del 1984. La restaurazione italiana
      ha assunto, così, un consenso di massa e un aspetto bonapartista, con il
      buonsenso dell'uomo forte, anticipato secondo gli stilemi della 'prima
      repubblica' da Bettino Craxi, con il populismo e la demagogia, propri
      della 'seconda repubblica', di Berlusconi e con la recente fioritura
      massmediatica di Matteo Renzi.
      La spinta propulsiva del '77, spinta mitologica e nei fatti inesistente,
      se misurata con i metri della politica moderna, con i concetti di
      rappresentanza e organizzazione della rappresentanza, si incrinava anche
      nell'immaginario e gli anni settanta si allontanavano sotto ogni punto di
      vista.
      L'allargamento della democrazia si era trasformata nell'elezione diretta
      del capo dell'esecutivo, spacciando la fortissima e arrogante limitazione
      della democrazia rappresentativa per un balzo in avanti verso la
      democrazia diretta. La lotta sindacale, dopo l'accordo governo – sindacati
      sul costo del lavoro (anche questo, come la riforma elettorale, non a caso
      quasi coevo alla genesi della 'seconda repubblica') si era ridotta ad
      alcuni settori dell'impiego pubblico e ad ancora più ristretti settori del
      lavoro privato, conformando ideologicamente e nell'immaginario, una comoda
      casta da contrapporre al resto dei lavoratori, precari, indipendenti,
      autonomi e via discorrendo. La lotta di classe, se ricercata secondo le
      fenomenologie precedenti, era scomparsa.
      Insomma era il solito piagnisteo del reduce, vero, ma del tutto inutile,
      tanto inutile quanto era inesistente la spinta propulsiva del
      millenovecentosettantasette.
      
      Martedì, 29 settembre
      
      Annotazione. L'analisi della situazione italiana di fine anni settanta e
      ancora di più degli ottanta, sotto un profilo marxista, avrebbe certamente
      richiesto la formazione di un'organizzazione politica, di una sorta di
      direzione politica delle forze residue e testimoniali degli anni settanta,
      alla fine, per la durezza dei tempi, un'organizzazione di stampo
      leninista, anche se non dichiaratamente leninista.
      Quelle stesse forze residuali e testimoniali, aggiunte a poche altre
      nuove, andavano, però, verso altre direzioni; la principale tra queste fu
      l'esperienza dei centri sociali che tutto erano fuori che la proposizione
      di una direzione politica.
      Nella misura in cui le teorie classiche del marxismo richiedevano, per
      certi versi esigevano, una stretta organizzativa a fronte di una
      composizione di classe ancora inespressa o che si esprimeva secondo forme
      non previste e decifrabili, il marxismo diveniva ogni giorno più
      inadeguato.
      
    
      rivedi
                                                            settembre
                                          
                          Inizio anno
                                 
                  
                
      Sabato, 3 ottobre
      
      Annotazione. Il mito del '77, in me, è definitivamente tramontato nel
      2008, di fronte alla grande recessione. La crisi, esclusivamente
      finanziaria, nella fenomenologia, del 2008 e, soprattutto, il suo
      prolungamento indefinibile (più che indefinito), ha introdotto una nuova
      fase nell'epoca della post modernità e, anche se non ho gli strumenti
      necessari per avvalorare questa tesi, la parabola dell'operaio sociale, o
      meglio di quel soggetto che per comodità continuo a definire così, è
      finita insieme con quella; se mai c'è stata (e non c'è stata) è terminata
      la spinta propulsiva del '77 e la sua mitologia.
      Si potrà scrivere: “Il '77 è morto, viva il '77”.
      Quale percezione dell'operaio sociale in Italia? Sotto i metodi analitici
      tradizionali nessuna. L'operaio sociale non si è fatto indagare, non si è
      lasciato interpretare e ha fornito pochissime informazioni di sé. Sotto
      questo aspetto assomiglia alla costituzione di capitale che lo ha
      'affrontato'; il capitalismo post fordista è trasparente, non ha volto,
      non in quanto sia volontariamente restio a rendersi visibile e a
      manifestarsi, non perché cerchi di occultare i suoi centri e le sue forme
      di potere, ma perché non li ha. Non li ha nelle forme tradizionali e
      conosciute.
      Il capitalismo post fordista, ma io amo moltissimo il termine affermativo
      di biocapitalismo, non è un nuovo capitalismo finanziario, anche se, preso
      attraverso un'analisi classica, potrebbe sembrarlo; non è il nuovo
      capitalismo produttivo, anche se la produttività investe ogni aspetto
      della vita sociale. Mi piace scrivere di biocapitalismo anziché di post
      moderno, post fordista o anche di società imperiale, proprio perché la
      produzione si è sciolta, in tutti suoi aspetti, nella società, diventando,
      appunto, una componente biologica dell'essere in società, o meglio essere
      in società è produrre, ed è impossibile non produrre e questo avviene con
      la stessa ineluttabilità di una legge di natura (biologica). Post moderno,
      post fordista e impero colgono solo alcuni aspetti di un assetto più
      generale.
      Nel biocapitalismo, il capitalismo finanziario si presenta come facciata
      del sistema, come modo di essere della naturalità, come estetica della
      naturalità economica, e anche se è una presentazione la facciata
      finanziaria è veritiera in quanto la concentrazione e centralizzazione
      della progettualità produttiva non è più il cuore dello sviluppo ma lo è
      la sua diffusione. Il comando d'impresa non si progetta nell'impresa ma in
      una realtà collettiva e sociale che la traborda e che la investe;
      l'aspetto finanziario registra e organizza concretamente questa nuova
      forma di comando capitalistico.
      Questo aspetto della costituzione di capitale, come realtà produttiva
      diffusa ma concentrata finanziariamente (che ciò avvenga in maniere
      multinazionali o no è del tutto indifferente) istituisce un vero dominio
      politico senza l'ausilio della politica, un vero dominio di classe
      espresso in forme pure, cioè completamente astratte, impersonali, neutre.
      È questa la novità della seconda fase del capitalismo post fordista che ha
      esplicitato i contenuti della prima.
      L'operaio sociale ha dovuto affrontare questo sistema; ha cooperato in
      questa economia diffusa e progressivamente deprivata di momenti di 
      comando visibile e individuabile, per il quale la stessa idea di azienda è
      in crisi e pare inadatta a rappresentare una realtà concreta e autentica
      sotto il profilo produttivo, per diventare una realtà 'affettiva' e un
      luogo operativo dove si opera una 'riterritorializzazione' del lavoro, un
      recinto produttivo e relazionale e non una vera e indipendente realtà
      economica. 
      L'operaio sociale, per forza di cose, non ha una relazione stabile con
      l'azienda, perché l'azienda non ha più una identità economica e quindi una
      relazione stabile con sé medesima; stabile per l'operaio sociale è
      divenuta la relazione con la produzione e il mercato, mediata
      (dall'azienda) o immediata e il lavoro è entrato direttamente sul mercato,
      anche il lavoro formalmente subordinato e dipendente direttamente dalle
      aziende.
      Si è tornati al prefordismo, si è tornati a situazioni prekeynesiane, ma
      con enormi diversità di scenari, tecnologie, stili di vita e retroterra
      culturali. L'operaio sociale è stato protagonista e oggetto di questa
      schizofrenia della storia e della società.
      
      Martedì, 6 ottobre
      
      Annotazione. Che fine ha fatto l'operaio sociale? Domandarsi di
      un'eventuale spinta propulsiva del '77, applicando le categorie storiche
      del marxismo rinnovato negli anni sessanta e settanta, è chiedersi
      necessariamente di questo, almeno secondo la mia primitiva (sotto ogni
      punto di vista) analisi. Se ne è fatto un gran parlare, tra la fine degli
      anni settanta e i primi ottanta, in certi ambienti intellettuali, poi, che
      io sappia, l'operaio sociale è scomparso dall'analisi.
      Il paradigma introdotto da Negri e Hardt, agli inizi di questo secolo, la
      'moltitudine', è tutt'altra cosa dall'operaio sociale. Non descrive una
      composizione di classe, non individua un soggetto sociale, ma è un
      concetto 'geo – sociale', un nuovo modo di intendere l'ambito nazionale e
      l'identità nazionale; un'idea epocale, insomma, che riassume la fine dello
      stato nazionale e del corrispettivo concetto di popolo.
      È chiaro che esiste una relazione tra la teoria dell'operaio sociale e
      quella della moltitudine, ma l'ambito d'azione della prima era molto più
      circoscritto, limitato e specifico: l'operaio sociale era una determinata
      composizione di classe, mentre la moltitudine presuppone, invece, una
      relazione con la geografia, la geopolitica e le frontiere; in una parola
      moltitudine disegna una nuova umanità della quale l'operaio sociale
      potrebbe essere solo un frammento, anche importante, piazzato in una
      particolare fase storica. La teoria dell'operaio sociale, così, è rimasta
      come un complesso di cavi scoperti, abbandonati, dentro un'asfaltatura che
      a tratti li nasconde e nessuno sa esattamente a cosa servono.
      A mio pare servono ancora perché da troppo tempo (che io sappia) si è
      smesso di scrivere di composizione di classe. Negri e Hardt hanno
      affrontato il problema con la necessaria, rispetto all'economia della loro
      opera, frammentarietà e indifferenza; gran parte dell'opera di Sergio
      Bologna, invece, offre un approccio molto specifico ai temi del lavoro
      post fordista che introduce il problema, con concretezza, ma non lo
      affronta.
      Questi atteggiamenti sono interessanti ed eloquenti e sono già, forse
      senza volerlo, un logos intorno all'operaio sociale.
      
      Giovedì, 8 ottobre
      
      Annotazione. Ho, molto frettolosamente, fatto qualche ricerca,
      esclusivamente in rete, sull'operaio sociale e mi sono trovato davanti un
      fossile informativo. Non dico che tutto sia rimasto fermo all'intervista
      di Antonio Negri del 1978, 'Dall'operaio massa all'operaio sociale', ma
      davvero poco oltre. Quelli che poi hanno cercato ancora, pochissimi in
      verità (a meno che la fretta non abbia influenzato i risultati della mia
      ricerca), di occuparsi della questione fanno riferimento a Moltitudine e
      Impero, a Paolo Virno della 'Grammatica della moltitudine', a Vercellone
      (che mi propongo di leggere) e poche altre opere.
      La portata, però, del concetto di operaio sociale è completamente diversa
      da quello di Moltitudine e la tendenza a identificarli, anche se ovvia, è
      sbagliata nella misura in cui è superficiale. La relazione o meglio
      l'affinità tra la teoria dell'operaio sociale e il paradigma della
      moltitudine sono profonde, invece, ma proposte nella maniera in cui l'ho
      letta e interpretata sono superficiali, sciocche e, per fortuna e ad onore
      della linearità, neanche affermate direttamente.
      Personalmente sento questa relazione e affinità profonde dal punto di
      vista conoscitivo, nel senso che è impossibile intendere e considerare
      veramente la moltitudine senza essere passati attraverso l'operaio sociale
      e la sua interpretazione. Se la teoria dell'operaio sociale non fosse
      valida, e magari si fosse trattato di un piacevole, intelligente ma vano
      sproloquio, allora anche la teoria della moltitudine non lo sarebbe. Non
      si tratta, comunque, solo di una faccenda conoscitiva, di una correttezza
      logica: se lo scenario, che la genesi dell'operaio sociale avrebbe
      determinato, ha altre origini, struttura e natura, questo ha innegabili
      conseguenze sull'analisi politica e sullo stesso modo di concepire e
      interpretare la nostra vita quotidiana.
      Probabilmente, infatti, ha seriamente scritto dell'operaio sociale chi ha
      descritto la vita quotidiana e le sue metamorfosi in epoca post fordista;
      Sergio Bologna è tra questi: quando descrive il nuovo lavoro autonomo in
      Italia, il lavoro 'indipendente', sta, probabilmente, scrivendo
      dell'operaio sociale italiano e Bologna fa questo in una forma d'inchiesta
      che è perfettamente commisurata con le caratteristiche di questo, lo
      ribadisco ipotetico, soggetto. L'operaio sociale si fa conoscere dal di
      dentro, non dal di fuori e la sua inchiesta è un'inchiesta interna.
      
        Venerdì, 16 ottobre
      
      Annotazione. Sotto l'aspetto della fenomenologia politica, tolta la
      evidente e chiassosa irruzione tra '73 e '77, in Italia l'operaio sociale
      non è esistito; dopo aver 'compresso' su di sé le forme del precedente
      antagonismo operaio e le nuove contraddizioni del lavoro e della vita
      fuori dalla fabbrica, l'operaio sociale è scomparso. Ha lanciato schegge e
      frammenti e l'esperienza dei centri sociali è certamente da mettersi in
      relazione con questi elementi politicamente residuali, ma non ha lasciato
      una traccia continuativa, un'abitudine politica e una prassi.
      Molto spesso l'ideologia residua dell'operaio sociale ha fatto
      riferimento, per tutti gli anni ottanta, a una versione 'decompressa'
      dell'operaismo tradizionale e non a un nuovo operaismo che non si
      costituiva, come a dire: dopo l'operaio – massa il nulla. La critica al
      lavoro di fabbrica è rimasta riferimento della critica generale alla
      società, mentre il lavoro salariato ha continuato a essere identificato
      con il lavoro dipendente. Quest'asse categorico non è stato toccato, anche
      se è stato vissuto come ormai inadeguato, non è stato sostituito con un
      nuovo asse cartesiano, probabilmente perché non era possibile farlo. La
      'decompressione' ha comportato il più che giustificato rifiuto della
      retorica sul lavoro, ma anche quella relativa al rifiuto del lavoro, sulla
      difesa del posto di lavoro e sulla disoccupazione, evitando di scambiare
      il declino dell'occupazione nella fabbrica con il declino dell'occupazione
      in generale; il nuovo mercato del lavoro, però, era paradossalmente
      accettato secondo il metro di quello vecchio e quindi se non si usava il
      termine disoccupazione, si finiva per descrivere una situazione lavorativa
      flessibile con gli schemi validi per una situazione rigida. Il '77, alla
      fine, aveva fatto proprio questo ed è come se tutti siano rimasti figli di
      quel movimento, ma nella sua inattualità piuttosto che nella sua
      attualità.
      
      Martedì, 20 ottobre
      
      Annotazione. E veniamo, se sono capace di questa guida, all'attualità. Lo
      ripeto ho davvero trrovato poco sull'operaio sociale, né inteso secondo la
      definizione originaria, adottata dal pensiero rinnovato del marxismo
      italiano degli anni settanta, né inteso e interpretato secondo le nuove
      lenti e il nuovo scenario che si può riferire al concetto di Moltitudine.
      L'operaio sociale è scomparso e non ne è rimasto neppure il fantasma che
      si aggiri in Europa come nel famoso passo del Manifesto. Dunque, la
      ricerca, ostacolata dalla mia povertà documentale e dalla mia
      soggettività, sarà ancora più difficile, ma come per l'esistenza di Dio
      secondo la scolastica medioevale, sono convinto della sua esistenza.
      Se non fosse esistito l'operaio sociale, io dico, non sarebbe esistito
      neppure il capitalismo post moderno, il biocapitalismo sarebbe
      un'illusione, una rappresentazione, spesso, non a caso, il nuovo
      capitalismo ama rappresentarsi proprio così: come una non essenza,
      un gioco, una virtualità e quasi come il campo di produzione di un
      divertimento tutto vale quanto il suo contrario.
      
      Mercoledì, 21 ottobre
      
      Annotazione. Il sistema sociale dell'attualità è un sistema che ha reso
      pane quotidiano la guerra e la crisi economica; il suo modo di essere, di
      presentarsi, di organizzarsi e alla fine di rappresentarsi è quello della
      crisi e della guerra, costanti e continue: non c'è pace e non c'è
      sicurezza.
      Una serietà così disarmante, una gravità vera e propria, una forza fisica
      che spinge continuamente verso il basso e in una sola direzione, danza,
      però, sull'orlo del gioco. 
      E tutto questo cosa ci entra con l'operaio sociale? Con il nostro Dio che
      per il fatto stesso di essere pensato, o essere stato pensato, esiste o è
      esistito, e per il fatto stesso che esiste nel pensiero, esiste?
      C'entra, eccome se c'entra.
      L'operaio sociale è stato  ideologia di guerra ed economia del
      trapasso dall'abbondanza alla penuria,  è stato il protagonista di
      queste due situazioni e cioè colui che, con il tempo di lavoro e con il
      tempo di vita, ha reso possibili uno stato di guerra endemico, guerra
      esterna e intestina, guerra senza confini definiti, guerra senza il nome
      della guerra, e un passaggio da una domanda forte e da redditi alti a una
      domanda depressa e a redditi bassi. Ha nascosto questa novità, rendendola
      sostenibile, e ha contribuito a realizzarla senza che la dimensione
      bellica e pauperistica divenisse egemone. Questo è stato il suo miracolo:
      ha per certo versi preservato il mondo dal suo cambiamento.
      
      Giovedì, 22 ottobre
      
      Annotazione. È una grande fortuna non avere gli strumenti necessari per
      scrivere dell'operaio sociale in maniera scientificamente determinata.
      Credo che non serva un profilo intellettuale per descrivere questa
      composizione di classe, anzi sono convinto del fatto che sarebbe dannoso.
      È, al contrario, una descrizione interna quella che dovrebbe dominare la
      scena, che dovrebbe venir fuori da quella 'intellettualità di massa', che
      ha contrassegnato il primo manifestarsi di questo soggetto. Una
      descrizione interna è, in primo luogo, una non descrizione e
      contemporaneamente un'azione operativa, una registrazione che propone una
      trasformazione dei contenuti della registrazione.
      Bisognerebbe rileggere il principio di indeterminazione di Heisenberg per
      definire meglio questa parte del processo conoscitivo.
      La prima caratteristica manifesta, che balzò proprio agli occhi fin dagli
      anni '70 per poi conservarsi anche dopo, fu quella di essere un fenomeno
      intellettuale di massa e non un movimento politico di massa. L'operaio
      sociale, cioè, dava vita soprattutto a situazioni intellettuali,
      culturali, comunicative che non si traducevano immediatamente in
      un'ipotesi politica linearmente legata a quelle situazioni.
      L'intellettualità dell'operaio sociale non dipendeva direttamente dal
      livello di scolarità, non è stato un concetto circoscrivibile alla
      sociologia, ma veniva fuori dalla maniera nella quale la scolarità di
      massa ottenuta da un paio di generazioni pervadeva l'intera società, in
      generale, e gli strati proletari, in particolare. L'operaio sociale
      istituiva reti e linguaggi culturali, funzionali alla sua riproduzione
      intellettuale e funzionanti indipendentemente dal dato iniziale stabilito
      dal tasso di scolarità. Queste reti e linguaggi funzionavano rigorosamente
      meglio al di fuori del contesto scolastico ed educativo ufficiale, anzi
      funzionavano autenticamente solo fuori da quello.
      In secondo luogo, l'operaio sociale non tendeva a costituirsi, seguendo la
      tradizionale fenomenologia marxiana, in 'classe operaia' e quindi in
      composizione di classe; parimenti, però, continuando a contraddire la
      prospettiva marxiana, pur non costituendosi in classe, non si abbandonava
      al ruolo, altrettanto tradizionale, di 'forza lavoro', di massa produttiva
      passiva. L'operaio sociale non è stato né l'una né l'altra cosa; di qui la
      difficoltà gnoseologica che impone, di qui l'esigenza del presupposto
      quasi scolastico sulla sua esistenza.
      Il terzo carattere, anch'esso non immediatamente manifesto ma facilmente
      esperibile, fu il rifiuto del lavoro manuale, che era percepito come
      un'attività residuale, anacronistica e quasi archeologica, la cui
      necessità era valutata  una trappola distesa dentro il mercato del
      lavoro. Per l'operaio sociale, la componente decisiva del lavoro era
      quella intellettuale e comunicativa e quelli dovevano essere i nuovi
      orizzonti del lavoro sociale; chi affermava il contrario mentiva.
      Questi sono stati i tre modi di essere dell'operaio sociale italiano negli
      anni '70, dai quali discendono molti altri modi, sviluppatisi nei decenni
      posteriori.
      
      Venerdì, 23 ottobre
      
      Annotazione. I tre modi di essere principali dell'operaio sociale, in
      estrema sintesi, sono stati: nuova intellettualità, rifiuto volontario e/o
      impossibilità di costituirsi in classe e rifiuto del lavoro manuale.
      Questi tre modi possono essere detti anche diversamente come critica al
      ruolo dell'intellettuale, critica alla politica e critica al lavoro
      salariato. Queste tre critiche, apparentemente esplosive e antagoniste,
      però, non hanno sortito alcuna esplosione e da quelle sono discesi altri
      caratteri, modi di essere, quasi impercettibili, sotto l'aspetto
      culturale, politico ed economico.
      Questi caratteri, quasi nascosti, privi di bandiere e barricate, si sono
      però mantenuti nell'involucro originale delle tre critiche.
      
      Giovedì, 29 ottobre
      
      Annotazione. La composizione di classe è un fatto oggettivo e soggettivo:
      oggettivo quando il soggetto guarda al suo modo di essere forza – lavoro,
      soggettivo quando guarda alla sua costituzione in classe operaia. Questa
      la veduta, che ancora condivido, del marxismo rinnovato italiano e non
      degli anni sessanta e settanta. Nel primo caso la composizione di classe
      si identifica e ricompone in quanto  sottoposta al ciclo produttivo,
      nella misura in cui partecipa a un determinato modo di produzione, nel
      secondo caso, invece, si ricompone perché si riconosce protagonista del
      ciclo e individua la possibilità di intervenire e riorganizzare il modo di
      produzione. Da un punto di vista economicista, quando la composizione di
      classe ragione in termini oggettivi ha in mente il salario e la
      produttività, nel secondo caso reddito e stili di vita.
      Questa dicotomia, nel caso dell'operaio sociale, è scomparsa e non
      sbagliando del tutto i teorici degli anni '70 avevano individuato la
      possibilità che il piano della soggettività fosse strutturante
      nell'operaio sociale, traducendo questa caratteristica, dal punto di vista
      della dialettica marxista classica, nella potenzialità di un'immediata
      acquisizione di elementi comunistici, in un'attualità e urgenza del
      comunismo e in un sacrosanto rinnegamento della necessità della
      transizione socialistica e dello stato 'proletario'.
      
      Venerdì, 30 ottobre
      
      Annotazione. In questa maniera, alla novità furono fatti indossare gli
      abiti della rivoluzione leninista, con molto sforzo e molti rattoppi e
      aggiustamenti. Dopo di allora le teorie che solo indirettamente (poiché si
      smise di scriverne apertamente) facevano riferimento alla nuova situazione
      sociale, determinatasi dopo la fine degli anni settanta, nel soggetto
      'nascosto' sottolineavano il ruolo di forza – lavoro, terribilmente
      esposta ai ricatti del nuovo mercato del lavoro contraddistinto dalla
      flessibilità  e dalla mobilità. C'era, negli anni ottanta, un diffuso
      modo di sentire, soprattutto in alcune riviste (Wobblie, Metroperaio, ma
      anche, in area istituzionale e patinata, Alfabeta), secondo il quale la
      fine della centralità della fabbrica aveva prodotto un proletario –
      zombie, un orfano del lavoro. Nostalgici della fabbrica e del rifiuto del
      lavoro che la fabbrica permetteva, questi soggetti erano schizofrenia
      fatta a persona, o meglio un soggetto sociale schizofrenico e
      irrimediabilmente scomposto. La retorica sul precariato, sul diffondersi
      di contratti a tempo determinato e sul frazionamento temporale
      generalizzato del lavoro dipendente, governò lo scenario: il lavoro
      stabile, salariato e  a vita rimaneva il paradigma di rifermento per
      descrivere la contemporaneità e criticarla. Erano, comunque,  tanti
      modi (più o meno eleganti, più o meno intelligenti) di scrivere di operaio
      sociale senza citarlo e senza prenderlo in carico analitico; si faceva
      questo a ragione veduta, poiché si aveva, probabilmente, l'inconsapevole
      consapevolezza di non essere in grado di rappresentarlo se non in modo
      generico, approssimativo e limitato. Di quel processo sociale era ben
      descritto il distacco dalla fabbrica che imponeva, dai suoi luoghi, dalle
      sue abitudini, dai suoi effetti collaterali, ma vigeva un sostanziale
      silenzio sulla direzione che quel distacco indicava. Solo Metropoli, tra
      tutte le pubblicazioni che frequentavo, dirigeva lo sguardo verso il
      'dove', cercando di ignorare quell'ingombrante 'da'.
    
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                                                            ottobre
                                        
                          Inizio anno
                                 
                  
                
      Mercoledì, 4 novembre
      
      Annotazione. Questo soggetto irrappresentabile e ai limiti dell'esistenza
      stessa, come è stato rappresentato ed è esistito? Negli anni ottanta la
      contrattualistica italiana ha scoperto forme di relazione di lavoro, quasi
      tutte orientate verso il mondo giovanile, a tempo determinato; questo
      tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. L'oggetto di questa
      nuova disposizione contrattuale era, al contrario che nel passato quando
      si svolgeva verso lavori di bassa qualifica e manuali, il lavoro
      intellettuale. Assunzioni a tempo nella scuola (paradigmatiche le
      supplenze annuali), gruppi di lavoro a tempo e progetti circoscritti nel
      privato hanno dominato la scena di fine settanta e di tutti gli anni
      ottanta. Le assunzioni a tempo (spesso i Contratti di Formazione Lavoro)
      sono state usate anche nel settore creditizio, assicurativo e
      manifatturiero come strumento per istituire un salario di ingresso e un
      periodo effettivo di prova e tirocinio. Il mercato del lavoro dipendente,
      pur conservando le sue caratteristiche di fondo, si segmentava e
      frantumava. Il costo del lavoro rimaneva alto nei settori a tempo
      indeterminato si abbassava in tutti gli altri.
      
      Giovedì, 5 novembre
      
      Annotazione. Il costo del lavoro si abbassava non solo in ragione del
      fatto che l'inquadramento formativo era solitamente eseguito a un livello
      contrattuale più basso di quello corrispondente e previsto per il tempo
      indeterminato, ma soprattutto perché, spesso, prevedeva interruzioni e
      reintegri, sospensioni e nuove assunzioni, quindi continue soluzioni di
      continuità e gli enti pubblici  che rendevano la relazione più
      leggera economicamente. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, in
      Italia, sono stati il pubblico impiego e gli enti pubblici a funzionare da
      pilota in questa sperimentazione contrattuale. Importantissimi, sotto
      questo profilo, i progetti a carattere tecnologicamente elevato, volti
      all'innovazione dei sistemi informativi, che hanno predisposto un uso
      sistematico e contrattualmente spregiudicato di manodopera a tempo. 
      In quest'ultimo specifico settore, inoltre, lo stato, le regioni e le
      università si sono portati, già negli anni '80, ancora più avanti,
      aggirando la necessità di avviare relazioni di lavoro dipendente
      contrattualizzato e affidandolo a 'risorse formalmente esterne'
      all'impresa. L'uso di contratti di collaborazione temporanea e di ditte
      individuali è diventato normale nei settori di ricerca e sviluppo. Negli
      anni '80, l'impresa pubblica, a dispetto dell'immobilismo proverbiale, ha
      posto le basi per il superamento del rapporto contrattualizzato di lavoro
      dipendente, in quanto relazione assolutamente egemonica, là dove nel
      privato rimaneva il punto di riferimento principale.
      
      Sabato, 7 novembre
      
      Secondo Corradino Mineo quando parla con Civati, Renzi è in balia
      sentimentale e politica della Boschi, mentre la Boschi sarebbe in balia
      della sua ignoranza e presunzione. Un'analisi perfetta quella di Corradino
      perché politicamente adeguata a descrivere gli standard dell'analitica
      contemporanea.
      
      Mercoledì, 11 novembre
      
      Annotazione. Credo che in USA, negli anni '50, sia emersa una figura
      simile a quella italiana degli anni ottanta e successivi. Là dove il
      valore della produzione diminuiva rispetto a quello della riproduzione del
      capitale. Penso all'enorme spazio propagandistico, alla propaganda post
      bellica che metteva in rappresentazione lo stile di vita americano; lo
      penso sia dal punto di vista della rappresentazione che del rappresentato:
      entrambi, infatti, sono parte dello stesso processo e la parola
      propaganda, proprio per questo, è inadeguata.
      
      Giovedì, 12 novembre
      
      Annotazione. La storia americana dell'operaio sociale è più lunga di
      quella italiana ed europea. Come non mettere in relazione tante
      sceneggiature cinematografiche nord americane dei '40 e '50 con lo stile e
      le abitudini di quel soggetto? Penso all'investigatore privato free
        lance, all'apolide cosmopolita, all'avventuriero internazionale, al
      bank robber, che sotto la trama della 'propaganda' rappresentava
      una nuova biologia sociale. Ho in mente soprattutto gli anni sessanta, la
      freack generation, la lotta contro la coscrizione obbligatoria,
      il movimento dei neri, le rivolte dei ghetti bianchi e neri e la
      sconfinata epopea delle gang giovanili e proletarie. Ho in mente, ancora,
      l'impostazione forzatamente terzomondista e leninista del black
        panther party dove la fabbrica non è all'orizzonte, ma lo è la vita
      sociale, il quartiere e dove sono le strutture di comando del capitale
      disposte sul territorio a essere l'oggetto principale di critica. Ho in
      mente il movimento americano degli anni sessanta e della prima metà degli
      anni settanta nella sua complessità dove non esiste un'avanguardia
      riconosciuta e neppure un tessuto unitario, ma alcune minoranze si
      muovono, rimanendo minoranze e conservando le loro identità 'minoritarie'
      e qui ancora una volta, più che l'elaborazione teorica l'esperienza
      concreta e 'politica' del BPP, seppur leggibile secondo le metriche del
      marxismo leninismo tradizionale o del maoismo, è importantissima e
      illuminante.
      
      Martedì, 17 novembre
      
      Annotazione. In un contesto simile, il primissimo imprinting
      dell'operaio sociale italiano è stato quello della dequalificazione
      mansionaria. Siamo nella seconda metà degli anni '70 quando, tipicamente,
      il nuovo soggetto produttivo andava a ricoprire ruoli e impieghi lasciati
      liberi dal lavoro dipendente e garantito del tempo indeterminato, ruoli e
      incarichi dove il contratto a tempo indeterminato era inutilizzabile dal
      comando d'impresa. Questo processo si è realizzato sia nei lavori a
      contenuto manuale sia in quelli a contenuto intellettuale; si è, inoltre,
      manifestato o attraverso assunzioni a tempo determinato, ottenute in varie
      dorme e a diverso titolo, sia, e soprattutto, nel campo del lavoro svolto
      a favore della pubblica amministrazione, attraverso la formazione di
      società di persone (solitamente in forma cooperativa) che avevano
      nell'oggetto sociale medesimo la fornitura di servizi alle imprese
      pubbliche. In queste relazioni di lavoro, egemone era l'elemento di una
      relativa libertà dall'impegno contrattuale tradizionale; il vincolo del
      lavoro dipendente perdeva forza sia sul lato dell'imprenditore sia sul
      lato dell'operaio; mancava, inoltre, quasi completamente, un logos
      sulla professionalità del lavoro, sul mansionamento, mentre era centrale
      l'esigenza di ottenere un reddito. Seguendo gli assiomi dell'operaio –
      massa, il reddito rimaneva svincolato dalla produttività e dunque operaio
      sociale e operaio massa si assomigliavano fino, quasi, a confondersi.
      Inoltre, seppur ampiamente ignorata, la contrattazione collettiva forniva
      ancora un adeguato quadro di riferimento, una sponda, e l'immagine
      egemonica del modo di produrre e di lavorare.
      
      Giovedì, 19 novembre
      
      Annotazione. Aggiungo, inoltre, anticipando alcune (probabili) riflessioni
      che la mancanza di un legame stretto tra reddito e produttività per
      l'operaio di fabbrica fu un fatto sensazionale, il risultato di una lunga
      serie di atti rivoluzionari e sovversivi sul contesto produttivo e
      contrattuale e di una ondivaga e difficile assunzione di soggettività,
      mentre per l'operaio – sociale è diventato banalità e regola, la regola
      stessa del contesto produttivo e contrattuale in cui era inserito, con
      tutte le ambivalenze del caso. Questa ambivalenza, negli anni settanta e
      nella prima metà degli ottanta, non era ancora pienamente esplicita e per
      moltissime di queste situazioni di lavoro lo svincolamento dalla
      produttività e da una relazione contrattuale stabile manteneva il
      carattere di una rivendicazione e strutturazione di un reddito garantito e
      in buona misura indipendente dal lavoro autenticamente fornito.
      Non è affatto vero, dunque, che gli anni sessanta e settanta non abbiano
      lasciato traccia, ma è vero il contrario proprio là dove si crederebbe
      meno di trovarne l'eredità e cioè sul terreno dello scontro sociale e del
      mercato del lavoro. È rimasto, infatti, un profondo segno sia nella
      costituzione del capitale, sia nella soggettività del proletariato. Queste
      tracce non sono, però, linearmente predisposte, come non sono, altresì,
      sotterranee, ma sono forti e potenti anche se di una nuova forza e
      potenza.
      Questa potenza e forza hanno avuto la forma di una nuova epoca,
      radicalmente diversa da quella precedente, con nuovi metri, stili, modelli
      intellettuali e modi di interpretare non solo la realtà ma il pensiero
      stesso sulla realtà.
      Questo non significa che tra settanta e ottanta non si abbia motivo di
      dipingere una sconfitta: la strutturazione di ampi settori di precariato
      ha progressivamente eliso il legame tra lavoro e reddito, trasformando la
      liberazione del lavoro dalla dipendenza produttiva in una liberazione
      dalla produttività economicamente insostenibile. Il 'precariato', dunque,
      è stato  costretto a ridisegnarsi e ripensarsi, è stato costretto a
      farlo e ha subito passivamente un processo che era caduto sotto la guida
      di altre mani, estranee al movimento di liberazione dal lavoro salariato
      dei due decenni precedenti: per dirla con Marx il valore d'uso si era
      nuovamente trasformato in valore di scambio.
      Letture. Anche se non troveranno margini in questo diario in movimento,
      devo segnalare la lettura di Convenzione e materialismo di Paolo Virno,
      testo del 1986 che ho lungamente rincorso e che in questi primi capitoli
      rimbalza tra Heidegger e Benjamin.
      
      Venerdì, 20 novembre
      
      Annotazione. Il passaggio, almeno in Italia, è stato politico nel senso
      essenziale del termine: il dominio capitalistico ha ripreso il controllo
      del lavoro. Facendo così, ha ribaltato la sostanza della nuova epoca che
      iniziava ad aprirsi: la liberazione dal lavoro è diventata
      marginalizzazione nel mercato del lavoro, il rifiuto della produttività si
      è trasformato nell'instaurazione di un nuovo comando d'impresa che, in
      effetti, non si concentrava più sui valori della produttività e che
      emergeva slegato e, per certi versi, emancipato dalle ragioni e dalla
      razionalità dell'economia classica e dopo di quella da quella marxista. Il
      persistere dell'egemonia, almeno fino ai primi anni novanta, della
      contrattazione collettiva, che continuava a rivendicare centralità per il
      lavoro dipendente e salariato in maniera tradizionale, non ha affatto
      contribuito a combattere il processo, anzi lo ha favorito, rafforzando le
      separazioni che il dominio via via innalzava. La responsabilità del
      sindacato in Italia nel determinare questa sconfitta è stata enorme: l'ha
      amministrata e l'ha resa politicamente accettabile, l'ha spesso
      interpretata come una sconfitta della 'nuova destra' quando, al contrario,
      venivano minate le fondamenta di una riedificazione sotterranea, lenta e
      difficile, dell'unica sinistra possibile. Ma sarebbe un discorso molto
      lungo.
      
      Lunedì, 23 novembre
      
      Annotazione. Dopo undici mesi è inutile tornare a Parigi, se non per
      vederla sempre più separata dalla sua periferia, araba e mussulmana, con
      alcune schegge islamiste. Inutile ribadire che i casseur
      protagonisti di reiterati riots sono stati affrontati come un problema di
      ordine pubblico e che una piccola minoranza di quelli, posta al crocevia
      tra integralismo reinventato e post moderno (nel quale, secondo un vecchio
      detto anarchico, “l'odio di classe si è trasformato in odio contro
      l'umanità”), reinterpretazione di una guerra di indipendenza nazionale,
      che ricorda certe metodiche e teorie delle pantere nere, traffici
      internazionali di armi e di manodopera e l'attività dei servizi segreti,
      ha presentato il suo conto.
      Ha presentato questo conto nell'unico luogo doveva poteva presentarlo: nel
      centro della metropoli e dei suoi divertimenti, nel cuore del tempo libero
      negato alle banlieu e in un nuovo livello dello scontro contro
      l'ordine pubblico, secondo il quale le armi da fuoco e gli esplosivi hanno
      sostituito le pietre e le bottiglie incendiarie. Il palinsesto ideologico
      islamista radicale si presta perfettamente a questa sintesi che è davvero
      tranquillizzante politicamente per tutti: individua un nemico univoco,
      rende lineari le cose, evita analisi più articolate e semplifica la paura.
      Una paura semplice è facilmente amministrabile e può essere terribilmente
      efficace in politica.
      Già negli ultimi riots, se non ricordo male, l'odio
      indiscriminato contro tutto e tutti si era  manifestato, come quando
      i dimostranti, assalendo gli autobus, principiarono a incendiarli con i
      passeggeri ancora a bordo, episodi incomprensibili se letti dentro una
      logica normale, anche quella estremizzata dei black bloc. Era già tutto
      scritto lì, per arrivare ai fucili mancava un testo, in questo caso un
      testo sacro, e il conseguente partito armato, in questo caso verniciato di
      santità.
      
    
    rivedi
                                                            novembre
                                        
                          Inizio anno
                                 
                  
                
      Sabato, 5 dicembre
      
      Annotazione. Il passaggio è stato politico perché la stessa contingenza
      imponeva il protagonismo della politica. La critica e l'insubordinazione
      operaia e sociale, in Italia, avevano assunto una fortissima
      caratterizzazione politica, avevano determinato il sorgere di movimenti,
      partiti e di una miriade di situazioni organizzative e, addirittura, lo
      strutturarsi di una nuova corrente nel pensiero comunista o più
      generalmente antagonista. Non era assolutamente possibile prescindere
      dalla politica in Italia, se si voleva accompagnare l'attacco sociale ed
      economico all'operaio di fabbrica. Tra la fine degli anni '70 e il primo
      lustro del decennio seguente, infatti, si attuò una radicale ridefinizione
      degli assetti istituzionali italiani, pur compiuta nel rispetto delle
      formalità stabilite dalla costituzione del 1948.
      Si fece strada l'idea, del tutto estranea al parlamentarismo della 'prima
      repubblica', di un governo forte e personalizzato, che garantisse e
      giustificasse la regia di uno spettacolo teso a rivedere la legislazione
      sociale, l'estensione dello stato di diritto e il potere contrattuale
      della forza lavoro.
      Lo scenario fu dominato dalla legislazione d'emergenza, dall'ideologia del
      complotto rivoluzionario e del sospetto, dall'uso del carcere secondo
      logiche in gran parte informate dalla punizione politica e
      dall'equiparazione dell'antagonismo sociale con il terrorismo delle
      organizzazioni combattenti. Riuscendo a unire la critica al marxismo con
      la critica al 'totalitarismo' sovietico e con la lotta al terrorismo
      rosso, la lotta di classe da valore relativo del primo assetto
      costituzionale si è trasformata nel negativo per antonomasia, effetto e
      causa ad un tempo della fine delle solidarietà, dei valori umani e della
      crisi della società: lotta di classe e il termine stesso 'classe'
      divennero parole proibite, un contro natura storico e politico, per quanto
      atteneva all'esperienza sovietica e al socialismo reale, e umano ed etico,
      per via della loro parentela fiancheggiatrice e ispiratrice verso i gruppi
      armati.
      Questa reazione ideologica e politica ebbe specificità tutte italiane,
      sulle quali la guerra anti terroristica esercitò il peso maggiore ed
      contribuì a fornire la facciata formale all'intero processo, che fu
      davvero uno stato di guerra senza quartiere contro il movimento degli anni
      settanta. L'opposizione di classe venne disorientata, spesso distratta
      verso tematiche minoritarie, disarticolata, instupidita e ridotta al
      silenzio, tanto attraverso procedure repressive quanto grazie a una
      potentissima, diretta e coordinata mediaticamente offensiva svolta sul
      piano ideologico, politico ed etico. Si mise in scena, spesso utilizzando
      le sottigliezze ideologiche e filosofiche acquisite dal campo antagonista
      e libertario durante i sessanta e i settanta, l'impossibilità e
      l'inattualità dell'antagonismo che veniva considerato un fenomeno
      residuale, arretrato e pre - moderno.
      L'attacco economico e sociale, la struttura, si confuse in maniera
      perfetta con l'attacco politico e ideologico, la sovrastruttura. Questa
      combinazione produsse un impatto al quale le forme organizzative e le
      strutture teoriche medesime della soggettività proletaria non seppero
      resistere, anche perché intrinsecamente deboli e vulnerabili proprio a
      quell'attacco che fu svolto in forme politiche e ideologiche, spesso
      becere, ma capaci di cogliere il segno di una debolezza nel fronte nemico:
      l'attualità del capitalismo si scontrò con l'inattualità
      dell'organizzazione comunista.
      Il passaggio è stato politico, però, anche perché il quadro generale, il
      nuovo scenario del capitalismo internazionale, richiedevano il
      protagonismo della politica, o meglio un nuovo protagonismo della
      politica. Nella misura in cui l'economia si slega dal valore tradizionale
      del lavoro, dalla sua misurazione in forme orarie come autentica base del
      profitto, esercita un comando diretto sul corpo sociale, anzi il comando
      tende a trasformarsi in dominio, espresso, si badi bene, in maniera non
      strettamente coercitiva, in forme che non implicano, cioè, la riesumazione
      di forme di potere pre – moderne (anche se ha recuperato da quelle più di
      un elemento).
      Questo comando dell'economia è immediatamente politico e dunque l'economia
      sussume realmente la politica; la sussunzione reale della politica
      all'economia non comporta, però, un'immediata visibilità dei luoghi del
      potere economico come luoghi del potere politico, ma, invece, un nuovo
      modo di fare politica.
      La sussunzione reale, il processo autentico, va occultato; come se
      l'economia non avesse assunto direttamente il controllo della vita sociale
      senza la mediazione del lavoro e del mercato che hanno rappresentato il
      cuore della mediazione politica del capitalismo moderno e dunque la
      struttura della politica e delle ideologie dell'ottocento e del novecento.
      La crisi delle ideologie è inevitabile in questo contesto ed è stata ben
      rappresentata, già negli anni ottanta dalla reaganeconomic e
      dalla offer side economy, vale a dire da ideologie economiche,
      immediatamente politiche, e dalla sopravvivenza dell'unica ideologia
      politica possibile, il cosiddetto neo – liberismo. Il neo – liberismo dice
      la verità, nascondendo la sorgente della verità: la mediazione non è più
      possibile, la mediazione appartiene al passato, non sono percorribili
      alternative ideali mentre il mercato e il profitto di impresa devono
      regolare il mondo e ristabilire una mediazione immanente all'economia,
      anzi ne sarebbero la realizzazione. La fine della mediazione, però, e il
      trionfo del neo liberismo insieme con quella sono possibili proprio in
      ragione della morte del mercato, del plusvalore e del lavoro salariato
      tradizionale, cioè dei fondamenti del liberismo nuovo o vecchio.
      
      Domenica, 6 dicembre
      
      Annotazione. Ovviamente anche il mondo economico ha subito una
      trasformazione complessiva, a qualcheduno piace l'aggettivo globale, nella
      direzione di una perfetta integrazione delle vecchie economie nazionali e
      dei diversi piani della produzione (manuale, intellettuale, informativo e
      via discorrendo) in un'insieme organico, nel quale le parti e il tutto non
      sono più individuabili. Questo radicale cambiamento ha richiesto la
      destrutturazione dello stato sia come espressione della sovranità
      nazionale che come fornitore di assistenza sociale (la profetica deregulation 
      reaganiana). Lo stato, dagli anni ottanta in qua, si è fatto impresa,
      diventando un'agenzia economica inserita in un disegno complessivo più
      ampio delle sue competenze e pertinenze geografiche e più forte della sua
      consistenza economica e finanziaria, quando pensiamo al fatto che il
      fatturato di molte multinazionali oltrepassa il PIL di alcuni stati
      nazionali o che i flussi finanziari determinati da una settimana di
      movimenti in borsa sono più ampi dell'intero debito pubblico europeo. 
      Questo non significa che lo stato ha cambiato funzione, quella cioè di
      rappresentare in maniera ufficiale gli interessi contrapposti all'interno
      di un particolare e delimitato contesto sociale e geografico e di
      privilegiare tra questi gli interessi preminenti economicamente, e ha,
      quindi, mantenuto la relazione con la sua base fondante, il corpo sociale
      circoscritto dalla nazione, il popolo. Ha continuato ad esercitare questo
      compito, però, solo in funzione della trasmissione, in forme politiche,
      delle necessità imposte dal capitale multinazionale o globalizzato che dir
      si voglia. Il centro genetico dello stato capitalista moderno è venuto, in
      realtà, meno: i gruppi preminenti nell'economia non sono più gruppi che
      hanno riferimento con le nazioni e i popoli nazionali, non sono più la
      borghesia nazionale.
      Inevitabilmente, in questo contesto, i margini di manovra, di lavoro, le
      possibilità operative concesse dalla storia ai singoli stati non
      permettono  significative dialettiche e oscillazioni e ancor meno
      alternanze di forme ideologiche e di forme di governo diverse e
      contrastanti, di strategie di lungo respiro diverse e polemicamente
      opposte. Lo stato nazionale, però, nonostante la cogenza di questo
      processo, per logica di cose, per tradizione e abitudine storica e per
      comodità istituzionale, questo soprattutto ma non solo là dove si conserva
      un simulacro di democrazia rappresentativa, conserva un ruolo di estrema e
      ultima mediazione, posta ai margini del processo, quasi in una 'sotto –
      politica', nella sostanza ininfluente, ma nella spettacolarità del
      simulacro rappresentativo donato di importanza.
      Il capitalismo, il biocapitalismo, non può fare a meno dello stato, poiché
      non ha alcun interesse a farsi stato direttamente: l'interesse pubblico,
      che è sempre più il nuovo comunitarismo capitalista, le infrastrutture
      produttive  possono possedere l'intelligenza strategica, la
      rappresentazione e la narrazione loro necessarie, solo quando sono poste
      fuori dall'intelligenza, rappresentazione e narrazione del sistema
      economico. Continua ad esistere, quindi, un'autonomia del politico nella
      progettazione e nella teoretica del capitalismo, poiché l'autonomia del
      politico preserva l'assoluta indipendenza dell'economico: l'intelligenza
      politica è oggi la destrutturazione definitiva e irreversibile
      dell'intelligenza della politica sui processi economici.
      
      Martedì, 8 dicembre
      
      Letture. Convenzione e materialismo / Paolo Virno. A proposito o per un
      inquadramento possibile dell'operaio sociale e della corrispondente
      fenomenologia del lavoro, è capitato alla mia lettura questo brano di
      Virno, quasi come quando si apriva il vangelo a caso allo scopo di trarne
      ispirazione. Il testo, scritto del 1985, descrive davvero questa
      trasformazione nella sociologia del lavoro.
      “L'irreversibilità di una crescita autopropulsiva del sapere separato dal
      lavoro, mentre condanna senza appello ogni mitologia sulla ricomposizione
      di mano e mente, sviluppa le condizioni per cui già oggi il lavoro
      salariato tradizionale si presenta sovente come un'escrescenza
      parassitaria, come faux frais (falso costo), al pari di certi
      'costi di circolazione' nelle pagine di Marx. Non l'attenuazione, ma
      l'approfondimento dell'autonomia del general intellect
      costituisce, oggi, una condizione di emancipazione, o almeno un principio
      – speranza. È questa accentuata autonomia che modifica alla radice la
      morfologia del processo produttivo, facendo del lavoro intellettuale la
      forma generale dell'attività umana, il pilastro centrale nella produzione
      diretta della ricchezza (…) è l'insieme dei paradigma di volta in volta
      disponibili e utilizzati che spiega la struttura della produzione
      contemporanea, non viceversa. La discussione epistemologica centra il suo
      obiettivo allorché riesce a chiarire la strumentazione del lavoro
      intellettuale: ma in tal caso, perché è questa strumentazione a definire
      quel lavoro, la discussione epistemologica diventa senz'altro analisi del
      processo produttivo (…). La principale fra queste argomentazioni … è, per
      dirla nei termini di una discussione canonica del movimento operaio, la
      non riducibilità del lavoro potenziato e complesso a lavoro semplice. (…)
      nell'argomentazione marxiana questa 'riduzione' ha luogo attraverso il
      confronto fra i diversi valori di scambio … delle forze lavoro. (…)
      È  chiaro che essa è possibile solo a condizione che il mercato
      funzioni effettivamente come trasparente sintesi sociale (…) affinché il
      mercato possa esprimere convenientemente la 'riduzione', è necessario che
      la cooperazione lavorativa sociale risulti interamente trasferita e
      rappresa nel capitale fisso, di modo che il lavoro semplice, dipendente
      dalla macchina, costituisca la permanente unità di misura sia del lavoro
      in genere sia del valore delle merci (…).
      Ebbene proprio in questo diretto materializzarsi della 'riduzione'
      all'interno del processo lavorativo si situa il punto critico (…). La
      socializzazione non ha il suo limite nel sistema delle macchine ma si
      sviluppa a monte e valle di esso: ampi strati di forza lavoro svolgono
      attività di 'sorveglianza' e di 'coordinamento' nei confronti della
      produzione immediata (…). L'atto di produrre viene progressivamente a
      coincidere con l'atto di comunicare e la predominanza dell'agire
      comunicativo segna un avanzamento delle forze produttive che non si
      traduce linearmente in forza produttiva del capitale, ma si trattiene e
      sedimenta all'interno della struttura complessiva del lavoro vivo (…). La
      riduzione è impossibile … il lavoro complesso moderno … rappresenta una
      catastrofe permanente per la teoria del valore in quanto misura vera di
      proporzioni reali” (pp. 65 – 67)
      Ora questo lungo passo potrebbe essere un insieme di note alle mie
      riflessioni sull'operaio sociale ma anche all'operaio sociale in quanto
      tale, inteso come concetto sociologico ed economico. Ancora di più, per
      quanto ho capito dei Grundisse, la descrizione di Virno pone, in questa
      fase dello sviluppo capitalistico, quello che era il nucleo stesso del
      progetto comunista, inteso come evoluzione ultima del socialismo,
      estinzione dello Stato e fine dell'economia classica. 
      
      Venerdì, 18 dicembre
      
      Letture. Convenzione e materialismo / Paolo Virno. Ancora su questo
      scritto degli anni '80, certamente utile a comprendere il soggetto
      presupposto e indimostrabile insieme con il capitalismo post – moderno.
      Emerge in questo brano quasi una perdita del materialismo in nome del
      materialismo stesso che è disorientante. Nel momento in cui Virno propone
      di individuare i fondamenti di un nuovo ethos materialistico,
      oltre Kant e decisamente antitetico a Hegel, produce alcuni brani
      notevoli, disorientanti ma, credo, utili.
      “È  la pienezza dello sviluppo storico a determinare, per la prima
      volta, un'autonomia non mistificata dell'ethos (…). La 'seconda
      natura', compiutamente intellegibile, cui tendeva la legge morale
      kantiana, si presenta come realtà empirica immediata, l'universalità è
      realizzata … la base della produzione della ricchezza non risiede più nel
      pluslavoro operaio, ma nell'autoproduzione del sapere sociale,
      nell'autonoma potenza del sapere astratto, nella scienza come principale e
      immediata forza produttiva (…). A venire meno è la coincidenza, spinta
      talvolta fino alla sinonimia, fra il concetto di universalità reale e
      quello di una generale equivalenza. Il denaro, nelle sue diverse figure,
      non è più esempio eminente dell'incarnazione mondana dell'universale.”
      (pp. 101 - 103) 
      
      Lunedì, 21 dicembre
      
      Ai margini. Convezione e materialismo / Paolo Virno. Cosa può entrarci
      l'esistenza e natura dell'operaio sociale nel noumeno di Kant? Il noumeno
      kantiano è uno sviluppo che crea le sue regole, le trova in sé affidando
      un ordine logico al mondo. Le regole dello sviluppo derivano da e sono un
      sistema operativo logico. L'operaio massa era il risultato di una realtà
      nella quale il rapporto causa – effetto, il macchinico e il meccanico,
      erano decisivi; il soggetto che gli tiene dietro affronta una realtà nella
      quale il rapporto causa – effetto è generato dall'operatività sociale. Il
      lavoro non dipende più da un sistema esterno, dato, che sottopone
      l'individuo a delle regole scientifiche di produzione; la nuova scienza di
      Virno, al contrario, rende il lavoro una potenza interna al processo
      produttivo (come nel fabbrichismo taylorista, in verità, ma in forma
      potenziata all'ennesima volta). Riprendere Virno di Convenzione e
      materialismo per 'spiegare' l'operaio sociale è certamente audace, troppo
      audace, a tratti intellettualmente disonesto, quasi inconcepibile. Ed è
      vero. C'è un ma, però c'è un ma. 
      Se è vero che il noumeno kantiano si è trasformato in elemento produttivo,
      in schema della produzione capitalista contemporanea, è anche il vero il
      fatto che questo spostamento ed estensione del suo ruolo impediscono di
      scrivere ancora con certezza e onestà di produzione capitalista. La
      produzione capitalista non esiste più, esiste la produzione (il noumeno) e
      la sua specificazione capitalistica è solo uno dei suoi fenomeni. Allora,
      seguendo questo filo logico, è naturale che l'operaio sociale sia un
      soggetto indimostrabile, indimostrabile come produttore, operaio, perché
      esattamente come la produzione l'essere operaio è solo una specificazione
      del lavoro, una determinata fenomenologia. Si può però leggere meglio
      questo assunto. Se la produzione è una potenza scientifica indipendente,
      esterna al capitalismo, se ne possono trarre due conseguenze
      importantissime; il capitalismo non ha più forme produttive sue proprie e
      non esiste quindi un concorrente economico possibile al capitalismo, un
      modello di sviluppo residuale e preesistente o contemporaneo ma
      alternativo, proprio perché la produzione capitalista è diventata l'unico
      modello e schema di produzione fino al punto che il sapere produttivo
      percepisce il capitalismo come un accidente e un attributo indispensabile
      ma non strettamente necessario alla produzione; ma soprattutto l'operaio,
      la forza lavoro, non ha più modelli di lavoro esterni al rapporto di
      capitale, che è il rapporto di lavoro e quindi oggi ognuno è operaio, fino
      al punto di rendere superflua la parola operaio e la parola forza –
      lavoro.
      
      Martedì, 29 dicembre
      
      Annotazione: il professore di storia e filosofia del liceo affermava, in
      un periodo che difficilmente avrebbe accolto le sue parole quantomeno in
      molti ambienti intellettuali, che il comunismo richiedeva una preliminare
      trasformazione dell'uomo, un salto morale, come lo diceva, un
      miglioramento di sé e che solo dopo, solo in presenza di questa
      condizione, sarebbe stato possibile realizzarlo.
      L'etica, quindi, veniva prima dell'economia e aveva il compito di
      determinare l'azione politica.
      Rifiutavo con forza questa concezione: per me il comunismo era e sarebbe
      stato il risultato naturale, meccanico e automatico dello sviluppo
      economico e sociale. Il comunismo era inevitabile. Nella mia concezione,
      quindi, il comunismo era un prodotto spontaneo della storia, era
      spontaneità, anche sotto il profilo politico. In quest'ottica, la nuova
      etica sarebbe stata l'effetto e non certo la causa del cambiamento; la
      soggettività sorgeva spontanea e non si trattava di fare altro che
      organizzarla. 
      A quarant'anni di distanza questo rimane, per me, un drammatico dilemma,
      un dilemma intenso, anche se l'apparente e contingente crisi e inattualità
      del progetto comunista sembra dare maggior ragione alle tesi del
      professore, almeno indirettamente e per via mediata, poiché risulta
      evidente la necessità di uno sforzo e la presenza di un'aspirazione ideale
      che voglia realizzarsi nella storia.
      
      Mercoledì, 30 dicembre
        
      Annotazione. Secondo il professore del liceo, la tensione morale
      era alla base del progetto comunista e quindi il comunismo non era solo un
      nuovo modo di vedere e interpretare la realtà ma, pure, sé stessi e gli
      altri, anzi la componente umana, antropologica, etica appunto, superava
      per importanza quella economica e sociale. Il mio punto di vista era
      completamente opposto: l'etica era un prodotto storico, l'etica era
      un'ideologia e in quanto tale, alla fine, non esisteva, come particolare e
      definito terreno disciplinare. Compito dei rivoluzionari era quello di
      criticare l'etica del presente e ripudiare progetti etici riguardanti il
      futuro, compito dei rivoluzionari era quello di costruire un nuovo mondo
      dove, ma per forza di cose e per necessità storica e non per libera
        scelta e quindi in modo profondamente anti etico, l'umanità si
      sarebbe liberata dell'economia e del dominio dell'economia sulle sue
      azioni. Allora una disciplina etica,  come realtà effettuale e non
      come astrazione idealistica, avrebbe potuto strutturarsi. Rifiutavo, in
      ogni caso, ogni concezione etica che non potesse avere una giustificazione
      materialistica e del problema della fondazione materialista dell'etica non
      mi curavo affatto.
      L'etica non era affatto un problema perché sarebbe venuta fuori e nessuno
      si sarebbe sognato di chiamarla etica o peggio ancora morale.
      Porre, come faceva il professore, l'etica alla base stessa della
      costruzione del comunismo, fare del comunismo un movimento etico,
      mi pareva rinnegare il comunismo e renderlo un progetto politico analogo a
      molti altri e precedenti, togliere al pensiero comunista la sua
      originalità, riducendolo a un'ideologia tra le altre. La trascendenza
      ritornava, sotto mentite spoglie, a confondersi e influenzare l'immanenza,
      mentre al contrario io diffidavo di qualsiasi cosa che non fosse
      radicalmente immanente.
      Fraintendevo e fraintendendo, organizzavo inconsapevolmente un bel
      dibattito interiore, ancora aperto.
      
    
    rivedi
                                                          dicembre
                                      
                        Inizio anno
                                
              
      
    
                        Bibliografia consultata e consigliata:
                
              Antologia
                  degli scritti politici / di David Hume; a cura di Giorgio
                  Giarizzo. - Bologna:  Mulino, 1961 (I classici della
                  democrazia moderna)
                
    Arte e Multitudo / Toni
                    Negri ; a cura di Nicolas Martino. - Roma : Deriveapprodi,
                    2014. - 1. ed. (Doc(k)s) 
                
    Castel del Piano : la perla dell'Amiata :
        origini, economia, casati / Enzo Fazzi. - Arcidosso : Effigi, 2014. -
        (Genius loci, 56)
    
    Ceti medi senza futuro? : scritti, appunti sul lavoro e altro
      / Sergio Bologna. Roma : Deriveapprodi, 2007. - (Deriveapprodi, 68).
    
    Che cos'è
                      un popolo / Alain Badieu, Pierre Bordieu, Judith Butler
                      [et al.]. - Roma : Deriveapprodi, 2014. (Fuori gioco, 46)
                  
                  
                  Convenzione e materialismo : l'unicità senz'aura / Paolo
                  Virno. - Roma : Deriveapprodi, 2011. - 2. ed. rivista e
                  corretta. - 1. ed.  1986
                  
                Costituzione e lotta di classe /
                    Hans-Jurgen Krahl. - Milano : Jaca Book, c1973. - (Saggi:
                    per una conoscenza della transizione; 52 
                
    Decennio rosso :
            romanzo / Massimo Battisaldo, Paolo Margini. - [s.l.] : Paginauno,
            2013. - (Narrativa, 8)
    
    Essere figli: racconti di
                    vita vissuta e di crescita / Laura Musso. - Chieri : Gaidano
                    & Mattia, stampa 2011 
                  
                Etica e trattato teologico - politico / Baruch Spinoza ;
                a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani. - Novara : UTET ; De
                Agostini, 2013
              
    L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione /
      Pekka Himanen ; prologo di Linus Torwalds ; epilogo di Manuel Castells ;
      traduzione di Fabio Zucchella. - Milano : Feltrinelli, 2001. (Serie
      bianca)
    
    Grammatica della moltitudine: per
                  un'analisi delle forme di vita contemporanee / Paolo Virno. -
                  Roma :  Deriveapprodi, 2004. - 4. ed. - 
                  (Fuorigioco; 5)
                 
                Impero : il nuovo ordine della globalizzazione / Michael Hardt,
                Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2002. - 4. ed. (Collana
                storica Rizzoli)
              
    L'intelligenza collettiva : per un'antropologia del
      cyberspazio / Pierre Levy ; traduzione di Donata Feroldi e Maria Colò. -
      Milano : Feltrinelli, 1996. - 1. ed. (Saggi, 1716)
    
    Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / Karl Marx ;
      introduzione di Friederich Engels ; a cura di Giorgio Giorgetti. - Roma :
      Editori Riuniti, 1973. 4. ed (Le idee, 24).
    
    Moltitudine: guerra e democrazia nel
                  nuovo ordine imperiale / Michel Hardt, Antonio Negri. - Milano
                  : Rizzoli, 2004. - 1. ed. - (Collana storica Rizzoli). - Tit.
                  orig.: Moltitude. - Trad. di Alessandro Pandolfi. 
                
                Ricordi di un bevitore : l'incontro fatale con John Barleycorn /
                di Jack London ; traduzione e presentazione di Paolo Cassella. -
                Bussolengo (VR) : Demetra, 1995. - 2. ed. (Acquarelli ; 35)
                
              Scritti
                  scelti / Rosa Luxembourg ; a cura di Luciano Amodio. - Torino
                  : Einaudi, 1976. (NUE: nuova serie ; 2)
                 
              Storia
                  della lingua italiana / Bruno Migliorini ; introduzione di
                  Ghino Ghinassi. - Milano : Bompiani, 1997. - 5. ed, - (Saggi
                  tascabili, 31) 
                
                Inizio anno
                
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