Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2015)



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Venerdì, 2 gennaio

Ai margini. Etica. Quarta parte. In generale non esiste una fondazione 'sicura' dell'etica, anzi la fondazione 'sicura' dell'etica è 'insicura', non poggia su nulla che non sia immanente e immanente non tanto nel senso di 'umano', in quanto concentrato sull'uomo, ma in quanto prodotto della necessaria e naturale collaborazione tra gli uomini. L'idea stessa di umano, in Spinoza, non si costituisce sull'individuo e la sua mente presi isolatamente, ma sul complesso degli individui e delle loro intelligenze.

Letture. Impero di Negri e Hardt. Il capitalismo è creazione immanente, la produzione dell'essere si sposta dal teologico e dal trascendente direttamente dentro la società. Nel rinascimento (in verità già dal XIV secolo) si presagì questa nuova ontologia, che, però, lasciava irrisolto, sub specie dell'autorità politica, il problema della sua legittimità; presa così, senza mediazione, l'emergente ontologia delle merci, del danaro e del nuovo tempo di vita (il tempo di lavoro, il tempo dell'orologio) certamente fondava o meglio prospettava un nuovo dominio sociale ma faticava a trovare giustificazioni per la sua fondazione. Il pensiero del capitalismo mercantilista del XVII secolo si volse allora indietro ma non verso una meccanica riproposizione della trascendenza immaginata dalla scolastica medievale ma verso una trascendenza che si fondasse sull'immanenza. Il mercantilismo, il capitalismo al suo sorgere, possiede già una facies regressiva, non avendo il coraggio di produrre una nuova cultura e di avanzare nuovi codici, che manifesta superando lo sbandamento iniziale (XIV – XVI secolo). In questo contesto vanno inquadrate la riforma cattolica e quella protestante e la guerra dei trent'anni: in quella l'Europa si divise in due 'blocchi' belligeranti (i riformati e i cattolici) e all'interno di quelli le componenti più progressive, trasversali ai due schieramenti (pensiamo a Campanella, Bruno, alle comuni catalane, per il primo blocco, a Thomas Munzer, ai Ranthers, Levellers, mormoni, anabattisti radicali, per il secondo blocco) furono emarginati: l'inquisizione calvinista e anglicana in Olanda, Svizzera e Inghilterra non era diversa da quella cattolica in Spagna, Francia e Italia.
Il secondo elemento è la scoperta o l'invenzione dell'eurocentrismo, l'idea che l'Europa fosse il continente più evoluto e l'unico capace di dare un senso al mondo e di proporre uno sviluppo internazionale.
Negri e Hardt scrivono per il XVII di 'rifeudalizzazione', facendo riferimento alla tradizione storiografica confermata: si tratta di una sicura esagerazione. Ci fu qualcosa, nel seicento, che sotto il profilo formale potrebbe essere detta 'rifeudalizzazione' ma riguardò essenzialmente la parte latina dell'Europa e, soprattutto, fu realizzata con strumenti nuovi, niente affatto feudali. La feudalità iniziò a funzionare come un interessante relitto dentro una 'rifeudalizzazione' del danaro; il sistema di proprietà feudale aveva perduto il suo ruolo egemonico già nel XIV secolo (in gran parte della Francia e in Italia settentrionale) MA il sistema politico feudale rimase l'unico a fondare lo stato: di qui la feroce contaminazione tra mondo imprenditoriale e mondo aristocratico del XVI e XVII secolo. Lo stato assoluto è lo stato assoluto dell'aristocrazia, questo è inequivocabile, ma in quanto l'aristocrazia ha perduto caratteri feudali, localismo e spirito indipendente: lo stato assoluto aristocratico, che è fondato sul diritto feudale, è la prima esperienza di diritto pubblico collettivo, indifferente in larga misura e in tendenza ai localismi e particolarismi giuridici signorili, dopo l'involuzione dell'impero romano.
Tornando a Negri e Hardt, l'illuminismo, che segue il seicento, è il prodotto migliore di questo sforzo di trascendentalizzare l'immanente, vale a dire lo stato e il diritto feudale, conciliando il passato con il presente e recuperando continuità istituzionale: l'illuminismo risolve, finalmente, il problema della fondazione giuridica del nuovo potere sociale della borghesia.
Hegel precisò ancora meglio i termini della questione: proponendosi di superare l'illuminismo e scoprendo nella storia e nella storiografia i nuclei del nuovo sistema gnoseologico e ontologico, declinando la centralità del pensiero scientifico, formalizzò ancora meglio, compiutamente e intrinsecamente, l'immagine eurocentrica della storia e della civiltà e la nazione europea come essenza del nuovo cosmopolitismo della borghesia. Il concetto di nazione, comunque, rimase come prodotto della surcodificazione dell'estensione territoriale, della massa geografica e sociale, dello stato assoluto aristocratico: la borghesia, rivoluzionaria in campo economico e politico, non lo fu in campo istituzionale.

Sabato, 3 gennaio

Letture. Impero di Negri e Hardt. Rimango sempre dubitoso più che dubbioso sul concetto di povero della moltitudine che sostituisce quello di proletariato: dubito perché ci troviamo di fronte a una 'sostituzione' neppure a un'integrazione e arricchimento. La ricerca di una metafisica, di qualcosa senza principio e fine, di incorruttibile nell'immanenza, si svolge nel concetto di questa nuova povertà, concetto che attraversa tutte le epoche, mentre, a mio parere, la nuova povertà è riassuntiva e quindi epiesegetica di tutte le condizioni subalterne che si sono date nella storia. Per usare un gioco di parole scriverei che invece che essere ai tempi della fine (come presagiscono gli autori) siamo alla fine dei tempi dove la fine non si manifesta perché il tempo cessa di portarla con sé, si ferma e si cristallizza. In questa cristallizzazione dei tempi la povertà si diffonde geograficamente e si intensifica localmente grazie a numerosi strumenti a relazioni tra loro dissimili e lontane ma tutte riconducibili a una regola generica, più che generale (che forse manca poiché inutile): produzione di essere, merce e tempo come merce di scambio. Il lavoro salariato, proprio perché generalizzato, assolutizzato è diventato un rapporto generico, non specifico, e quindi una morte apparente perché tutto è riconducibile al salario, perché tutto è salario, anche quando non viene elargito come tale e si è reso indipendente dalla contrattualistica salariale.
La mia critica a Negri e Hardt in relazione a quest'opera è rivolta contro la messa in produzione di troppe conoscenze e troppi saperi che comportano, spesso, contraddittorietà e disorganicità e, altre volte, ripetitività, reiterazione e addirittura superficialità.
L'intento e l'obiettivo di Impero sono nobili: scrivere e riscrivere, troppe volte forse, i lineamenti di Marx con la fondazione della storia futura, della storia imperiale. Marx va oltre Marx nella storia raccontata da Negri e Hardt. Si rischia, però, di assemblare segmenti di sapere difficilmente assemblabili e di sacrificare all'organicità e completezza dell'analisi, la sua profondità. Mi è parso un tentativo estremamente anacronistico, una specie di recupero delle categorie della modernità contro un'attualità che impedisce una sintesi. Avrei preferito (e mi sarei aspettato) qualcosa di più specifico e mirato sulle esperienze, il vissuto (e la loro definizione, individuazione), i saperi proletari degli ultimi decenni del XX secolo; quando si scende nella contingenza, invece, si fa spesso riferimento a informazioni da rotocalchi televisivi. La lettura è interessante, l'idea buona ma l'obiettivo immane e rischia di affondare lettura e idea.

Lunedì, 5 gennaio

Ai margini. Impero Negri e Hardt. Ancora spunti intorno alla 'costituzione imperiale', spunti che nascono da un'analisi empirica intorno alla sua potenziale fondazione. Direi che, in buona parte, le ipotesi degli autori sono state rispettate anche se l'idea della costituzione imperiale appare forzata: perché mai l'impero dovrebbe avere necessità di una fondazione giuridica, quando ha a disposizione la istituzionalità dei relitti degli stati nazione? L'impero non si darà in costituzione perché non ha nessun interesse a manifestarsi come sistema politico formalizzato; l'impero è quel tipo di capitalismo mondiale integrato di Deleuze che, come giustamente annotano Negri e Hardt, trova interessanti riferimenti in alcuni istituti internazionali e non (G8, FMI, Banca americana, multinazionali e ONG, aggiungerei anche la Chiesa Cattolica il cui ruolo di base del potere costituente imperiale è enormemente cresciuto tra Giovanni Paolo II e Francesco) ma non riuscirà mai a darsi forma strutturata perché anche questo complesso istituzionale è un relitto e perché non ne ha interesse alcuno.
Seguendo Negri, sotto il profilo della politica il capitalismo mondiale integrato si presenta non come organismo politico ma come potenza etica e come tale guida la politica sotto la forma di un supremo e assoluto condizionamento. Gli stati nazione, limitando il loro ruolo alla gestione della contabilità territorializzata, funzionano perfettamente nella distribuzione del controllo del capitalismo internazionalizzato, che assomiglia all'impero ma non si darà mai nella forma imperiale, nonostante molte analogie con quella esperienza storica.
Gli stati nazione, inoltre, producono sempre più spesso non tanto una territorializzazione quanto una neo–territorializzazione, quando pensiamo all'ex Iugoslavia o all'ex Unione Sovietica o anche a certi conati ideali leghisti e cinque stelle di casa nostra. Pensiamo anche al ruolo che assume, in questa ri–territorializzazione, l'antagonismo recitato del fondamentalismo islamico. La neo – territorializzazione, come Negri e Hardt sottolineano, è un fenomeno vicinissimo alla funzionalità del capitalismo globale, un modo, spessissimo contraddittorio, di definire e inventare nuove aree omogenee, oppure di disarticolare aree omogenee preesistenti. La produzione dello sconforto, cioè l'uscita spettacolarizzata da ogni tradizione nazionalista, è genetica del capitalismo imperiale che rimescola le culture, le etnie e ne produce nuove e ricombinate.
La capacità di ricombinare è il segreto in forma biologica del capitalismo mondiale integrato: un maghrebino in Italia che vuol essere italiano, aderire e appartenere alla nazione, un maghrebino che vota lega, un maghrebino che resta in Marocco e che ha parenti in Italia e rifiuta la nazione marocchina, aderendo all'internazionalismo islamico, il maghrebino che odia i neri e non si sente africano, ma solo arabo e mussulmano, il maghrebino immigrato che si sente europeo e non italiano.
La neo – territorializzazione è fenomeno geografico, che coniuga entità sovranazionali (gli Stati Uniti d'Europa) con entità nazionali e con realtà regionali. Pensiamo ai fondi CEE che spesso, scavalcando le competenze degli stati nazionali, hanno come obiettivo diretto aree precise all'interno di quelli. La neo – territorializzazione è anche fatto temporale attraverso le trasformazioni che induce tra i suoi componenti, attori e 'cittadini', nella visione del territorio, dell'etnicità e della socialità. All'interno di una stessa geografia possono coesistere numerose geografie e davvero ogni realtà geografica tende a ridursi a un'espressione geografica.
In questi spunti, lo ribadisco, riemerge dalla terza internazionale una concezione metafisica, ontologica del proletariato – moltitudine, una sopravvalutazione della classe (come si sarebbe scritto un tempo) che prelude regolarmente alla sopravvalutazione dell'elemento organizzativo in quanto prescinde dalla realtà della composizione di classe, comprese le sue debolezze e vulnerabilità, e pone il problema dell'organizzazione solo come fatto tattico: l'esercito, alla fine, è già pronto. Nonostante tanti decenni siano passati da Potere Operaio, questo rischio nell'approccio di Negri lo continuo a individuare. Non si fa cenno, infatti, in Impero alle potenze e alle debolezze di questa ricomposizione di classe: il cenno alla paura come forma suprema di controllo è, oggettivamente, un po' povero.
Leggerò Moltitudine e naturalmente la quarta parte di Impero (la pars destruens) che ancora mi manca, ma se questo è l'approccio mi faccio poche illusioni.

Annotazione. Alla fine della fiera diventa sempre più divertente il quesito: da chi e da che cosa è ispirata la politica di Renzi o quella della Merkel? Dagli istituti internazionali? Da relazioni informali con gruppi di potere altrettanto informali? Da un 'congresso' delle multinazionali che cerca di interpretare l'intelligenza collettiva del capitalismo? Dai vecchi stati nazionali che cercano di interpretare il più realisticamente possibile le esigenze di sviluppo del capitale globale?
Quattro domande sono queste che sono anche quattro risposte: tutte queste cose e forse qualcosa di più, ma non a coordinare, ad aggiungere.
Renzi 'prende ordini' e segue suggerimenti da qualcosa che non è formalizzato e che si presenta ufficialmente nei termini di un accordo internazionale ma che è molto più complesso di un accordo.
Negri e Hardt hanno, sotto questo aspetto, ragione: di quest'ampia informalità istituzionale è stato maestro l'impero romano che non ebbe mai una vera costituzione, ma solo continui riferimenti alla precedente e residuale costituzione repubblicana, perché avere una costituzione, una formalizzazione definita sarebbe stato un elemento di debolezza.

Martedì, 6 gennaio

Ai margini (mica tanto). Ricordi di un bevitore. Siamo più o meno nel 1893 / 1894 e basta a sottolineare la differenza che esiste tra lo scenario italiano che portò mezzadri legati quasi indissolubilmente alla terra del fittavolo a dare vita al movimento dei Fasci siciliani e lo scenario californiano e americano, questa frase di London: “Lo iutificio non mantenne la promessa di aumentarmi la paga fino a un dollaro e un quarto la settimana, e io, da bravo ragazzo americano, libero cittadino in libero stato, esercitai il mio diritto di libero contraente e lasciai l'impiego – e ancora oltre - … poiché il lavoro meccanico non rendeva abbastanza, bisognava che scegliessi una professione. L'elettricità era un vasto campo che si andava aprendo, perché non fare l'elettricista?”.
Ed è solo questo un esempio di molti del genere che si potrebbero trarre dal libro, se penso che in quegli stessi anni nasceva faticosamente il Partito Socialista Italiano, mentre London aderiva alla locale sezione del partito socialista americano descrivendola con la serenità di quello che sceglie di entrare in un centro culturale dove si incontrano interlocutori interessanti e buoni libri da leggere.
Nel primo brano Jack descrive una mobilità sociale e intellettuale inimmaginabile in Italia e probabilmente nella davvero vecchia Europa. L'immersione nei nuovi orizzonti di vita e del mercato del lavoro è in London ventenne completa e quasi rappresentativa di un percorso; e così, descrivendo la sua odiosa amicizia verso John Barleycorn, Jack descrive anche, incidentalmente, il mondo del lavoro californiano di fine ottocento. London racconta il mercato del lavoro americano solo incidentalmente non per scelta politica o letteraria non per esigenza narrativa, ma per fedeltà al proprio vissuto: imbarchi nelle flotte pescherecce come momenti per sfuggire al lavoro di fabbrica e 'sospenderlo' per qualche mese, periodi di navigazione libera e autonoma su piccole barche noleggiate e poi l'idea di orientarsi verso il lavoro intellettuale (insegnante, impiegato o giornalista pagato a pezzo) che viene retribuito ma, scrive London, libera solo dalla schiavitù del lavoro fisico e manuale e la sua natura di lavoro salariato e comandato non manca.
Anche qui idee inimmaginabili nel vecchio continente.
Jack London descrive un contesto operaio di tipo sociale, distribuito sul territorio, mobile, nomade geograficamente e professionalmente. Nella fase del passaggio dal legame con il lavoro manuale (iutificio, magazzino del carbone e una lavanderia) le flotte pescherecce divengono il profilo e momento 'liberato' del lavoro salariato, una compensazione per i periodi della fabbrica, compensazione e perequazione anche economica, ma London addirittura giunge a un momento di autentico rifiuto del lavoro, quasi a confermare la coscienza della socialità e diffusione dello sfruttamento e che anticipa comportamenti che negli Stati Uniti si dispiegheranno già in quel decennio con gli Industrial Workers of the World (IWW o Wobblies) e per i quali nella 'vecchia' Europa (davvero vecchia un'altra volta) bisognerà attendere gli anni sessanta del XX secolo. A tal proposito trascrivo dalla memorie: “Il principale risultato di questa indigestione di lavoro [Jack aveva appena terminato, licenziandosi, un'esperienza come fochista a dodici – tredici ore quotidiane, festivi inclusi (Nota mia)] fu quello di disgustarmi di tutto il lavoro in generale. Non volevo assolutamente più lavorare, la sola idea di lavoro mi nauseava. Non mi importava affatto di farmi una posizione, tutti i mestieri [con mestiere o professione John intende quello che era inizialmente il suo obiettivo: un lavoro da operaio qualificato, elettricista o tecnico, con iscrizione automatica al sindacato corrispondente (Nota mia)] potevano andare a quel paese … E così partii di nuovo alla ventura, dirigendomi a oriente e lavorando occasionalmente nelle ferrovie, per viaggiare più in fretta”. La relazione con il lavoro diviene assolutamente strumentale, non costitutiva dell'esistenza e dei suoi valori, il lavoro è volutamente temporaneo e l'elemento essenziale di quello sta nella migrazione e nello spostamento. Per di più questo nomadismo non è affatto trasparente e passivo alle istituzioni disciplinari e più di una volta London si trova al centro di azioni illegali (risse e furti) che determinano brevi periodi di prigionia in carcere.
L'orgoglio lavorista della classe operaia europea, che si riproduceva anche in America attraverso una migrazione proletaria 'd'élite' (tedesca, soprattutto), era deriso, annullato e giusto ridotto al compiacimento per la tessera sindacale che London irride. La seconda internazionale, in America, era già superata.
Lasciamo, ovviamente, da parte un elemento contestuale importantissimo che rese possibile questo nomadismo operaio: la frontiera americana (Klondike, il selvaggio nord,  porti di mare incontrollati, rete ferroviaria in costruzione) era ancora aperta. E ancora ammetto un secondo elemento al quale London fa continuo riferimento: la multietnicità delle relazioni sul lavoro e nel quartiere (italiani, francesi, greci, svedesi e tedeschi popolano la California dei Saloon, delle flotte pescherecce e delle fabbriche e si va dal vino rosso – per restare con John Barleycorn – alla birra e infine al Whiskey). 'Ricordi di un bevitore' è una miniera di informazioni, riflessioni, stati d'animo, ideologie e dinamiche esistenziali (mettendo l'accento sull'ultimo termine), insomma una lettura da consigliare se non, addirittura, da prescrivere.

Letture. Ricordi di un bevitore. Per riprendere le riflessioni intorno alla relazione con John, London descrive il momento in cui diviene un bevitore solitario, casalingo. È questo il momento in cui finalmente (c'è da quasi da scrivere) l'alcol diventa buono anche al palato. È la fase dove John si innalza al ruolo di amico intimo, dove non serve più per affrontare la convivialità o per istituirla ma per affrontare sé stessi, i propri pensieri: dominare la mente. È questa per Jack la fase della vera dipendenza: non solo si beve da soli ma spesso si beve di nascosto agli altri, giungendo alla convivialità alcolica già iniziati, dando braccetto al signor Barleycorn.
L'alcol si propone come verità sulle cose e sulla vita, più vera della verità del sobrio perché più accattivante, più potente: la verità priva di veli, che produce disperazione e che non può che richiedere una sola cura, John, avendo una sola origine, John: l'alcol è causa del male e la sua terapia. John Barleycorn si costituisce in regno, nel regno nel quale la percezione del mondo è diversa da quella comune e non può essere condivisa se non nell'alcol o nella malinconia clinica. La morte stessa, di fronte allo svuotamento della vita, è un evento indifferente e la paura della morte semplicemente assurda: John Barleycorn ha fatto in modo, infatti, che la costituzione del suo regno sia fondata razionalmente, essenza stessa e scopo della ragione.

Mercoledì, 7 gennaio

Annotazione. Quello che è successo in Francia, l'irruzione al giornale satirico Charlie Hebdo, non mi spaventa ma mi preoccupa. Certamente le immagini diffuse e montate dai media sono state costruite per provocare timore, per fare in modo che ognuno fosse presente al racconto televisivo che si riduceva a una storia di paura e voleva esserla, era studiato per esserla.
Sentimento più appropriato è, invece, la preoccupazione che non il timore. In primo luogo per l'incapacità di comprendere l'azione nella sua terribile realtà: un giornale, la cui storia editoriale non conosco, che si schiera apertamente contro l'ISIS e l'integralismo islamico e da quanto mi è dato capire ha usato spesso una satira teologica molto greve, tre franco – algerini di estrazione proletaria che appartengono allo stesso quartiere (almeno pare) che probabilmente hanno compiuto un viaggio politico, militare e  'patriottico' in Siria e tre kalashnikov.
I media pongono così la questione per incutere timore intellettuale, dopo aver lavorato sulla paura fisica e sulla morte: penne e matite contro mitra, libertà di stampa e d'opinione contro militarismo terrorista e liberticida.
Eppure le cose dovrebbero essere analizzate e considerate in tutt'altro modo: tre proletari francesi che fuggono la frustrazione della loro condizione, intraprendendo un viaggio verso le loro 'radici' culturali, seguendo lo stile di molto romanticismo nazionalista europeo ottocentesco, e una redazione indifferente a questo spirito romantico, votata alla sua derisione e ben allestita nel centro di Parigi.
Lo scontro costruito dai media avviene sul terreno loro più congeniale: l'estremismo islamico e la libertà di stampa, la critica al sistema sociale espressa in maniera puerile e il sistema sociale difeso in modi puerili. Se la redazione è anche di sinistra e il giornale è in bolletta ancora meglio, non ci sono ostacoli a questo assunto che diventa ancora più lineare.
Questo scenario dello scontro preoccupa ma non solo da oggi, da almeno un decennio.
L'islam si è trasformato in un movimento di critica pre – moderna al capitalismo internazionale, e il capitalismo internazionale, verso l'islam, usa un linguaggio pre – moderno, rispolvera illuminismi anacronistici: entrambi pensano e recitano lo scontro di civiltà.
È questo che preoccupa: la critica al 'sistema imperiale' è diventata una questione di civiltà e la difesa del sistema imperiale è una questione di civiltà opposta. In mezzo non c'è nulla, nessun ambito dialettico: è possibile solo un ritorno al passato, dall'una e dall'altra parte. Il salto di qualità che viene evidenziato rispetto a altre azioni rivolte contro le istituzioni militari o le forze di polizia, È REALE: lo stato di guerra coinvolge la stampa, i media. Il rifiuto dei media fa parte della dimensione pre – moderna del conflitto, da una parte e dall'altra: il laicismo elevato a religione contro l'integralismo confuso con il vero spirito religioso. Ogni ulteriore riflessione è bandita tanto dalla pratica dei terroristi, quanto dall'approccio dei media che hanno da tempo imparato a rifiutare sé stessi, la loro storia e il simulacro di libertà che la conformava: agli uni va bene essere diventati e dipinti mostri, agli altri va bene dipingere e creare mostri.
Questo schema preoccupa perché richiama altri schemi come in un domino rovesciato, altre catene informative e ideologiche: la lotta come conflitto militare, il confronto come affrontamento di verità inconciliabili e la fine dello scontro come annullamento fisico dell'avversario mentre l'avversario diviene ogni giorno diverso da quello che è realmente: dieci redattori, due poliziotti, tre proletari e dei kalashnikov.

Giovedì, 8 gennaio

Annotazione. È difficile avere idee chiare di fronte a eventi che sono studiati per provocare disorientamento e confusione intellettuale e questo è uno di quelli.
Alle torri gemelle, malgrado il caos esegetico iniziale, le parti furono individuate, separate e alla fine contrapposte, mentre nel caso Charlie Hebdo si libra il fantasma della contaminazione: il nemico è, al contrario che per l'interpretazione dei fatti delle twin towers, anche interno.
Che quella delle twin towers sia stata una contrapposizione ipocrita, bugiarda e rappresentata poco qui importa, è rilevante che nell'immaginario collettivo si consolidò; qui importa il fatto che si istituisce l'idea, l'idea paurosa verso il nemico interno, irriconoscente nei confronti della cultura, la nazione e più in generale la civiltà che lo ospita.
Conosco troppo poco la teoria e la prassi degli integralisti islamici per tracciare un giudizio veramente adeguato sul loro ruolo internazionale; vedo solo, anche distrattamente, alcune azioni e, tra le altre cose, attraverso gli occhi dei media. La mia impressione, sorta fin dai tempi delle twin towers, è stata quella di una comoda, anche se militarizzata, opposizione di sua maestà all'imperialismo globalizzato, nella misura in cui il terrorismo islamista è uno strumento per procurare i consensi che generano da paura e disorientamento e per provocare un effetto di spiazzamento in quelli che sono radicalmente critici verso il sistema capitalista globale e integrato, non nel senso che queste azioni contribuiscano a isolarli attivamente, attraverso l'accusa di fiancheggiamento o analoghe accuse, ma perché  procurano un isolamento passivo, una difficoltà oggettiva ad analizzare la situazione e a conservare critica e distacco contro l'etica imperiale (come la definisce Negri in Impero): dopo azioni di questa gravità e soprattutto dopo campagne di rappresentazione mediatica come queste al di fuori dell'etica imperiale dominerebbero, appunto, solo paura e disorientamento. La trasformazione, infatti, secondo questa opposizione di comodo può seguire una sola strada che è quella del ritorno al passato, il rinnegamento della modernità, del laicismo e del materialismo immanentista: la trasformazione non è un passo in avanti ma un salto indietro.
La rivoluzione iraniana del '79, pur essendo stata l'antesignana della politica islamista radicale contemporanea, mantenne dei legami tra uso della forza e movimenti di massa che appartenevano a pieno diritto alla tradizione comunista e in genere alla storia rivoluzionaria occidentale; qui ogni legame con i soggetti politici e sociali appare sciolto, qui è solo un gruppo, un'organizzazione anche  articolata, che, per quanto è dato comprendere, non ha alcun interesse ad assumere forme di massa, ma solo una base di massa, secondo la più deleteria tradizione giacobina dell'occidente, secondo il modo di rappresentare le masse, senza esserne parte, e di organizzarne la liberazione, senza che questa liberazione le riguardi.

Venerdì, 9 gennaio

Letture. Etica di Spinoza. E veniamo alla quinta parte dell'Etica spinoziana.
Avevo molte aspettative; sono entusiastici, spesso, i riferimenti di molti autori a questa parte dell'opera, come una sezione fondamentale, illuminante e profetica rispetto a certe contraddizioni e ondeggiamenti caratterizzanti quelle precedenti, al contrario, sarà sicuramente un mio limite, il primo approccio è stato per me deludente. Un vizio che avevo già riscontrato, soprattutto nella prima e seconda parte (Dio e la mente umana) si è ripresentato: l'idea che la mente validi la sua esperienza a partire dalla “chiarezza e certezza” nella percezione delle sue idee. Il rischio che corre Spinoza (e la sua lettura) è quello di essere tautologico. Sto pensando di rileggere Hume e un po' di rimpiangere Locke.
La tautologia potrebbe essere questa: un'idea è certa perché è certa, scritta in parole povere. Spinoza adotta un metodo che potrebbe essere definito di validazione intuitiva: la mente percepisce in sé, come in un sentimento, in uno stato d'animo, la validità delle sue idee; la validità è provata da uno stato emotivo che tocca la mente davanti alle sue idee. Vi ho trovato molto Cartesio, nonostante la critica notevole e irriverente che proprio a Cartesio rivolge Spinoza nella prefazione a questa parte dell'etica. In questa Spinoza attacca la stoà e Cartesio, ridicolizzando il concetto 'medico' di ghiandola pineale che, afferma l'olandese, non si sa esattamente come funziona, come può essere raggiunta dai nervi, ma che è presupposta come mobile e motile per seguire le percezioni dei corpi e i comandi della volontà che, così, rende la mente capace di dominare le passioni e gli affetti.
Giustamente, nella prefazione alla quinta parte, Spinoza dichiara di non volersi occupare di logica né di medicina ma solo della mente umana sotto il profilo dell'etica, (e precisa, infatti di intendere la sua analisi limitata all'uomo e non agli altri viventi), affermando che i fondamenti dell'etica sono interni all'etica stessa e non sono il prodotto di una mediazione logica, di origine esterna. Spinoza pone, così, (già nella polemica sacrosanta contro Cartesio) il fondamento della conoscenza nell'intuizione e l'intuizione è uno stato emotivo, almeno a mio modo di interpretarla. Anche Kant, alla fine, con le sue due intuizioni fondamentali di tempo e spazio appare debitore di questo aspetto del pensiero di Spinoza, di questa impostazione e matrice della gnoseologia spinoziana; anche per Kant, infatti, le intuizioni non sono dimostrabili e, infatti, spazio e tempo non lo sono ed esistono semplicemente per la mente umana e per la sua misura. Kant, però, pose una misura alla mente: spazio e tempo esistono secondo le nostre condizioni della conoscenza, sono validi e quindi esistenti solo sotto le nostre condizioni percettive e conoscitive, sono assiomi non verità.
In Spinoza, invece, la ragione non possiede questa misura, non è sottoposta a un metro, precisamente come per il criticato Cartesio: anche per Spinoza la ragione è una potenza trascendente. La trascendenza di Spinoza non si identifica certamente in quella cartesiana: la mente umana e la natura (i corpi), il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto non si separano, appartengono, invece, alla stessa sostanza perché la mente è solo un modo di essere della natura e della materia e parimenti la materia può essere considerata come parte dei modi di essere della mente, ma, e nella parte quinta dell'etica questo passaggio è esplicitato, solo quando la mente condivide l'eternità di Dio diventa capace di comprendere l'essere e di essere sé stessa, considerandosi e considerando l'essere per quello che sono.
Esistono delle innegabili affinità tra Cartesio e Spinoza e sono quelle della vulgata scolastica e del razionalismo ma ancor più profonde e cogenti. Per Spinoza la mente umana non ha misura che in Dio e se Dio è la natura infinita ed eterna, allora non ha misure e limiti. Anche se Spinoza, con l'intelligenza e l'acutezza che lo contraddistingue, introduce una precisazione, che non risolve il problema ma lo rende intrigante: la natura e la mente umana insieme con lei devono essere intese come un complesso infinito ed eterno di relazioni effettuali, di eventi limitati nello spazio e nel tempo, e dunque l'eternità non si presenta immediatamente alla mente.
L'eternità e Dio non sono una consapevolezza naturale e immediata per la conoscenza e come tale neppure strettamente necessaria, tanto è vero che Spinoza ritiene che sia possibile giungere alle sue conclusioni etiche senza postulare l'esistenza di Dio, ma comportandosi intellettualmente come se essa fosse. Spinoza, infatti, scrive nella proposizione XLI: “Anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, considereremmo come essenziali e primarie … tutte le cose che nella quarta parte abbiamo mostrato attinenti alla Fermezza d'animo e alla Generosità”.

Sabato, 10 gennaio

Annotazione. Una delle domande da farsi sulla vicenda del Charlie Hebdo è quella del 'come'. Come è possibile che alcuni giovani, immigrati di seconda generazione, con una biografia che comprende rap, vita di gang e qualche reato contro il patrimonio, insomma ragazzi con uno stile di vita tipicamente occidentale, imbraccino un kalashnikov e un'ideologia 'religiosa' assolutamente opposta? Dove si ubica il luogo di questo 'scivolamento'? Questa è una delle possibili risposte. Certamente non in Siria o nello Yemen ma prima, nelle banlieu stesse. I 'tradizionali' meccanismi di rappresentazione della critica nella forma dell'estraneità sembrano essere saltati proprio lì, nella periferia parigina. È Parigi il problema non la Siria o lo Yemen per i due fratelli Qouachi.
Stavo pensando alle periferie in rivolta e ai casseurs degli anni novanta; a quel tempo i Qouachi erano adolescenti. Non credo che sia un pensiero improprio e ho fatto solo un calcolo anagrafico, nessuna indagine biografica. In quel caso la critica, il 'disagio', si manifestò in modi tipicamente occidentali: la lotta di piazza, la barricata, le automobili incendiate, le molotov e i sassi contro la polizia. Ora abbiamo tre kalashnikov. La critica passa (scivola) da un terreno riconoscibile a uno non riconoscibile. La sensazione è che non solo la Siria venga dopo ma che anche la Siria sia il prodotto di questo scivolamento: la fine della dialettica, della dialettica seppur espressa in forme robuste e illegali, e l'emergere della separazione, della divisione.
Anche la Siria e il nord iracheno hanno subito uno scivolamento tra la prima e la seconda guerra del golfo, hanno subito una democrazia esportata sulla punta dei fucili e un grande non – senso politico, vale a dire qualcosa che non è più interpretabile secondo le usuali forme della guerra e della politica: un'occupazione militare multinazionale che non propone altro che sé stessa, che non ha uno scopo apparente e che pare non desiderare nemmeno una via di uscita. In questo contesto, la democrazia esportata è stata solo copertura, la democrazia esportata non tenta neppure di relazionarsi con storie, tradizioni e culture preesistenti; è sufficiente, per definire la democrazia in medio oriente, che si voti e che ci siano degli eletti, precisamente come nelle democrazie occidentali. La reazione a questo stato di cose è stata di tipo occidentale, anche se si è presentata e continua a presentarsi come il suo opposto e la sua negazione (l'integralismo islamico), e non in quanto prodotto della risposta all'intervento militare, ma perché il fondamentalismo ha un'immagine occidentale del mondo: la storia come luogo di realizzazione dell'umanità, la storia come piena di senso e significato, di una teleologia, anche apocalittica. L'apocalisse mussulmana non è la negazione della storia ma la sua sacralizzazione: la lotta alla modernità degli integralisti non è un ritorno alle origini e a un mondo privo di storia, ma è, invece, il prodotto culturale della modernizzazione del testo sacro, secondo la quale satana è il capitalismo internazionale, la storia è la lotta contro satana e all'internazionalismo del capitale si contrappone l'internazionalismo del testo sacro, mentre gli eserciti multinazionali dell'ONU sono truppe crociate e l'ideologia del capitale è risolta come un'ideologia religiosa, una religione nemica.
Le contraddizioni reali non sono uno strumento per abbattere e criticare il capitalismo, ma sono solo usate in una rappresentazione critica, la prova del dominio di satana sul mondo e sul capitalismo; in verità, secondo questo modo di pensare, sarebbe possibile un capitalismo internazionale islamico, una sorta di capitalismo dal volto umano. In fondo il capitalismo non è il nemico ma solo quello che comporta: globalizzazione, indifferenziazione, deterritorializzazione, mercificazione della religione e dell'etica, riduzione del mondo all'immanenza. Il nemico non è la nuova trascendenza, la nuova religiosità, la nuova eticità astratta e generica della quale, al contrario, il nuovo islam vorrebbe appropriarsi, egemonizzare e sulle quali desidererebbe esercitare il comando. La nuova trascendenza islamica espressa dal fondamentalismo ha come palinsesto, rozzamente sviluppato, la nuovissima trascendenza capitalista contemporanea e per questo, oltre che per moltissimi altri motivi, la 'rivoluzione integralista islamica' è costitutivamente una rivoluzione di vertice, militarista e giacobina. Nulla di più inattuale e proprio in quanto inattuale pericolosissimo e preoccupante, poiché è capace di generare inutili tensioni, fobie, paure e speranze e soprattutto per chi questo mondo, il mondo imperiale di Negri o il capitalismo integrato mondialmente di Deleuze, vuole veramente comprenderlo, analizzarlo, criticarlo, scomporlo e alla fine cambiarlo o distruggerlo.
Sono sempre stato dell'idea che una falsa opposizione e una finta rivoluzione siano i peggiori nemici dell'opposizione e della rivoluzione e che siano più pericolose e ininfluenti di una conformistica accettazione e di una perbenistica conservazione, poiché nascondono il problema e facendo il verso di affrontarlo lo chiamano con nomi non suoi.

Annotazioni. Renzi come sta? Sta sempre bene. Queste riflessioni non lo toccano. Quando scriverò di politiche sociali e di recupero sociale starà un po' peggio Berlusconi. Insomma stanno tutti bene: come possono stare male le marionette di nessuno?

Domenica, 11 gennaio

Letture. Etica. Quinta parte. Confesso che chiudere la lettura dell'Etica con un giudizio negativo sulla quinta parte mi pare quasi oltraggioso, nonostante rimanga di questa opinione e chiuderò con un giudizio, quindi, negativo.
La terza e la quarta parte dell'opera, per il loro intento analitico, scrupoloso, quasi psicanalitico, hanno parlato meglio; le conclusioni della quinta parte, pur non entrando in contraddittorio con le parti precedenti, anzi sviluppandole (soprattutto la I e II parte), sono indipendenti da quanto svolto prima: Spinoza intende fondare l'etica e fornirle una struttura autonoma dalla chimica degli affetti appena analizzata, slegarla dalla materialità della dinamica dei sentimenti e costituirla. Spinoza la costituisce come polo razionale al quale la dinamica sentimentale deve fare riferimento e il polo si determina grazie alla strutturazione di idee distinte e adeguate ai sentimenti; l'adeguatezza e la chiarezza derivano, per Spinoza necessariamente, dalla partecipazione di queste idee, o meglio del tessuto genetico di quelle, all'idea di Dio: la mente deve partecipare alla mente divina per sciogliersi dal dominio degli affetti. Qui risiede il potere della mente.
Dio è soprattutto un attributo, l'eternità, e lo sviluppo e la percezione del concetto di eternità nella mente sono essi stessi, in quanto tali, garanzie della realizzazione della partecipazione alla mente divina. Non necessariamente teista (Spinoza tra le righe lascia assolutamente liberi in proposito) la trascendenza che fonda l'etica si basa sull'attributo dell'eternità, sulla comprensione di quello. L'eternità concepita dalla mente è la forma astratta coerente con la costituzione del polo razionale dell'etica, prima di quello l'etica si riduce a immanente dialettica di affetti.
Per rispettare il testo e lo stile fin qui seguito scendo, brevemente, nel dettaglio. Nello scolio della proposizione I Spinoza scrive: “l'ordine e la connessione delle idee sono identici all'ordine e la connessione delle cose”. Un concetto chiarissimo in base al quale Spinoza stabilisce una specie di onnipotenza bidirezionale dalle cose sulla mente e dalla mente sulle cose; la mente, quindi, è capace di raffigurarsi direttamente l'ordine delle cose e tra conoscenza e ontologia la relazione è diretta. È  bellissimo il concetto quando viene applicato alle idee inadeguate e confuse, meno bello quando applicato alle idee che Spinoza chiama adeguate, cioè là dove la relazione si definisce perfetta e compiuta. Questa teoria della conoscenza ci può portare ovunque, poiché non pone limiti alla potenza della ragione e non individua in quella difetti: è il razionalismo cartesiano svolto sotto il profilo dell'immanenza. In verità, al contrario che 'ovunque', essa rischia di portarci in nessun luogo, in un posto inesistente e ininfluente alla conoscenza, mentre al contrario la critica illuminista alla ragione, quella sì, è stata capace di condurci 'ovunque', nel bene e nel male e più spesso nel male. L'illuminismo ha scoperto la coscienza di sé, il ragionamento sulla ragione, l'appercezione kantiana e ha formalizzato il concetto di coscienza con inevitabili conseguenze ideologiche: la ragione si è liberata dalla necessità di coerenza con il mondo sensibile che, al contrario, il razionalismo faceva sua e pretendeva. L'illuminismo indicò la strada per la rappresentazione scientifica del mondo e della coscienza di tale rappresentazione.
Quindi non è certamente il caso di scrivere ora il panegirico del criticismo kantiano e illuminista e la condanna del razionalismo, solo che il razionalismo, effettivamente, non porta che a sé stesso, chiudendosi in sé stesso; che questa chiusura in sé, soprattutto quando il razionalismo si arma degli strumenti dell'immanenza, possa essere utile non vi è dubbio, che possa avere effetti etici non vi è altrettanto dubbio, come, però, rischi di concludere sé stesso in un atteggiamento mistico.
“Bisogna … adoperarsi di conoscere … ogni affetto in modo chiaro e distinto, affinché la Mente sia determinata dall'affetto a pensare quelle cose che essa percepisce in modo chiaro e distinto … e perciò l'affetto stesso sia separato dal pensiero della cosa esterna” scrive nello Scolio della proposizione IV Spinoza. L'astrazione dell'oggetto è anche l'astrazione della cosa ed è la via verso l'autonomizzazione dell'affetto da sé stesso, verso la trasformazione dell'affetto in idea distinta. Ma questo, come scritto, non basta e infatti, nella proposizione XXIII, leggiamo: “La Mente umana non può assolutamente essere distrutta insieme con il corpo, ma di essa rimane qualcosa di eterno” e quindi la mente è capace di trascendere il tempo attraverso il passaggio concettuale descritto nella successiva dimostrazione “... poiché ciò che è concepito con una certa eterna necessità mediante l'essenza stessa di Dio è pure qualcosa, questo qualcosa che appartiene all'essenza della mente, sarà necessariamente eterno”. Il gioco è fatto; è un gioco profondo ma è un gioco, purtroppo, che porta in nessun posto (che questo sia, rispetto a quello che seguirà nella storia del pensiero, un pregio, è per me irrilevante in questo momento). Si tratta di una dimostrazione di sapore scolastico: l'idea stessa di Dio ne prova l'esistenza.
Più materialista, e nei fatti aperta a una concezione che non implichi l'esistenza di Dio inteso strictu sensu, è la descrizione dell'amore intellettuale di Dio. Qui Spinoza recupera gran parte della genetica gnoseologica contenuta nella terza e quarta parte dell'opera, in base alla quale si definisce un affetto, l'Amore, verso l'eternità e natura del mondo, Dio, in una dimensione razionale che richiede una Letizia generalizzata verso le cose e il loro ordine, dentro il quale la morale diviene un sentimento positivo e attivo, una pratica di vita che coltiva i migliori affetti della storia della Mente umana.
Vale, quindi, la pena di trascrivere la proposizione XXXVI: “L'Amore intellettuale della Mente verso Dio è l'amore stesso di Dio, con cui Dio ama sé stesso, non in quanto infinito, ma in quanto può esplicitarsi attraverso l'essenza della Mente umana considerata sotto la specie dell'eternità”.

Giovedì, 15 gennaio

Letture. Antologia degli scritti politici di Hume, a cura di Giorgio Giarizzo, edito in Bologna per i tipi del Mulino nel 1961 e contenuto nella collana editoriale I classici della democrazia moderna.
Il pensiero settecentesco mi affascina; epoca di superamento del riottoso XVII secolo (riottoso nel senso letterale del termine, vale a dire rivoltoso), epoca nella quale si teorizza la stabilità. Così ho anteposto la lettura di Hume al Trattato Teologico – politico di Spinoza e alla prosecuzione della lettura di Impero di Negri – Hardt. In verità è stata quest'ultima opera a guidarmi verso Hume e lo spirito illuminista allo scopo di precisare gli elementi di ricerca della sovranità per la nazione moderna. In effetti ci sono e ben articolati. Fondamentali in questo senso l'idea di giustizia e l'analisi della sua genesi.
All'interno del libro, inoltre, ho trovato delle postille scritte da mio padre.

Venerdì, 16 gennaio

Letture. Antologia di Hume. Alla base del diritto positivo è il diritto naturale, perché i piani delle due categorie sono quasi coincidenti. L'utile individuale, l'utile più vicino all'uomo nella sua naturalità, non può fondare la società e il diritto ma solo l'utile 'sociale', l'utile non immediato, più lontano dall'uomo nella sua nuda naturalità, riesce a emancipare l'uomo dallo 'stato di natura' che, però, per Hume (e qui alberga la coincidenza tra naturale e positivo) è davvero un non – luogo, un'utopia e il prodotto di un'astrazione. L'uomo ha fin da subito, nella sua naturalità immediata, che pure comprende la soddisfazione rudemente egoistica e singolare dei suoi bisogni e il perseguimento del suo utile, necessità di stabilire delle convenzioni per evitare le crisi di violenza, le guerre private senza soluzione che il soddisfacimento dei propri bisogni singolari comporterebbe e per fondare un sistema di sicurezze sociali.
Hume ritiene che la società è il prodotto naturale del superamento dell'ordine naturale attraverso tre regole di fondo: la stabilità del possesso, il trasferimento consensuale del possesso e il rispetto delle promesse. Queste tre 'invenzioni' (così le definisce) sono il palinsesto della società civile e della formazione dello stato, quindi, tra le comunità più semplici, semplici agglomerati di poche famiglie. Il governo è un'invenzione (Hume usa questo termine molto spesso in riferimento allo stato e alla comunità politica) posteriore, resa necessaria dal complicarsi della vita sociale, dall'allargarsi della comunità e dal moltiplicarsi dei bisogni e delle esigenze.
Scritto in estrema sintesi, secondo Hume, lo stato di natura genera naturalmente l'idea dell'utile e l'uomo persegue sempre il suo utile; nello stato primitivo l'utile si identifica con l'utile immediato, con l'appropriazione e l'occupazione diretta delle risorse, con la competizione, che entra, però, subito in contraddizione con sé stesso e forse non riesce ad affermarsi mai compiutamente. Si elabora quasi subito, se non subito, rispetto a queste pulsioni più che realtà storiche e giuridiche, un secondo livello di utilità fondato sulle tre convenzioni o invenzioni che ha lo scopo di evitare i difetti e i pericoli del primo. Questo livello non è ancora capace di elaborare il pensiero morale, legato come è alle procedure dell'utilità immediata, ma getta i basamenti per la nascita della morale, che altro non è, per Hume, che la generalizzazione normativa delle convenzioni di stabilità, libero trasferimento e rispetto delle promesse. La tendenza alla generalizzazione normativa è, secondo Hume, una tendenza antropologica, una caratteristica della nostra specie e grazie a questa il genere umano acquisisce coscienza di sé e l'utile sociale genera un meccanismo indipendente dal suo contenuto (possesso, trasferimento del possesso e rispetto delle promesse), valido sempre, al di fuori dei contesti e scopi concreti.

Letture. Grammatica della moltitudine: per un'analisi delle forme di vita contemporanee di Paolo Virno, edito in Roma per deriveapprodi nel 2004, quarta edizione, nella collana Fuorigioco al numero 5. Libro ordinato via web e giunto via posta. Ho dato una rapida letta alla prefazione, avvertenza e introduzione. Il testo è la trascrizione di un seminario tenuto nel 2001 all'università di Calabria. Esordisce con l'opposizione (un po' forzata) tra Hobbes, cantore del concetto di popolo e stato, e Spinoza, fautore del concetto di moltitudine, o meglio erede dell'idea rinascimentale di popolo. Il dissidio seicentesco giustifica la presenza di Hobbes meno (almeno per quanto letto sull'Etica) quella di Spinoza.

Ai margini. Hume e Spinoza. A proposito di Spinoza ho trovato nel trattato di Hume molti riferimenti involontari a Spinoza, soprattutto nei riguardi alla 'chimica degli affetti' che ho trovato simile e nel concetto davvero spinoziano secondo il quale l'utile più lontano è anche il meno forte, quello capace di suscitare il sentimento con minore intensità, letteralmente l'inglese scrive nel Trattato sulla natura umana (1740 circa): “ogni cosa che ci sia vicina nello spazio o nel tempo ci colpisce con un'idea forte, e ha un effetto proporzionale sulla volontà e sulle passioni …”. Persino la terminologia (fedeltà delle traduzioni permettendo) è simile.
Per quanto riguarda la questione, resuscitata, dell'idea di popolo contro quella di moltitudine (in Impero e ora anche in Virno) mantengo sempre fortissime perplessità, rimanendo tra i due ancorati a un terzo concetto, quello di proletariato o meglio di proletari, a dirimere l'antitesi di queste due polarità.
Sarebbe utile riprendere la lettura della quarta e ultima parte di Impero ma sono continuamente distratto da altri suggerimenti.

Sabato, 17 gennaio

Letture. Etica Hacker. Altro libro incrociato dalla mia curiosità nella libreria è un'opera letta solo parzialmente qualche anno fa, dove sono contenute interessanti riflessioni sull'idea del tempo di lavoro nella contemporaneità e sul concetto / relazione con il denaro. Ne sospesi la lettura per pigrizia e perché attratto da altri impegni, soprattutto lavorativi, nonché perché investito dalla sindrome del già 'veduto e sentito'. Si tratta de L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione / Pekka Himanen ;   prologo di Linus Torwalds ; epilogo di Manuel Castells ; traduzione di Fabio Zucchella. - Milano : Feltrinelli, 2001 (Serie bianca). È intrigante anche solo il piano dell'opera: nella prima parte "l'etica hacker del lavoro", il tempo è danaro?; nella seconda parte l'etica del denaro; la terza parte è dedicata alla netica e tra le conclusioni nell'epilogo l'informazionalismo e la network society per la penna di Manuel Castells.
Basti questa citazione contenuta nella prima parte che si riferisce all'opera di Edward Thompson, Time, work – discipline, and industrial capitalism, del 1967: “Era l'idea di definire un rapporto tra lavoro e il tempo e non con il lavoro in sé che coloro che vissero in età preindustriale trovavano estranea, e contro la quale opposero resistenza. Ciò che la tecnologia dell'informazione fa intravedere è la possibilità di una nuova forma di lavoro orientato alle mansioni [com'era in epoca pre – moderna, Nota mia]”.
All'inizio del capitalismo e della modernità era l'etica del lavoro protestante (Max Weber) con le sue tre regole: il tempo di lavoro concentrato nella esecuzione ininterrotta di una mansione, il desiderio di compiere bene il lavoro indipendentemente dal suo oggetto e scopo e il lavoro come attitudine morale, come dovere. Gli hacker criticano questa immagine del lavoro, questa ideologia lavorista, non per scelta individuale, non per volontà etica, ma perché interpretano positivamente i nuovi orizzonti che il tempo di lavoro ha assunto nel capitalismo post – industriale come liberazione del lavoro, della mansione, dal controllo del tempo e quindi dispiegamento del lavoro sul tempo di vita.
L'attività hacker si confronta dialetticamente e criticamente, quindi, con un'attività lavorativa che inizia a essere svolgimento di una mansione indipendente da luogo e tempo di lavoro precisati e anche le attività extralavorative, gli impegni domestici e familiari, vengono affrontati in funzione della coabitazione con il lavoro e assumono la sua morfologia, diventano isomorfi al lavoro: il tempo della vita viene organizzato come il tempo di lavoro (ottimizzazione delle relazioni genitoriali e affettive, loro esternalizzazione attraverso asili nido, baby sitting e consulenze di diverso tipo).
Eppure in questo quadro dell'ideologia hacker del lavoro, che non prevede affatto un'automatica trasformazione del lavoro in una libera attività, nasce, anche grazie alla così definita etica hacker (in base alla quale il lavoro si svincola dal comando d'impresa e da una relazione coercitiva e astratta con il tempo) la possibilità per il lavoro di slegarsi dalla 'gabbia' taylorista estesa che è, secondo Pekka Himanen, il tempo di lavoro nel capitalismo post – industriale. Il modello produttivo hacker è quello rinascimentale e platonico dell'accademia i cui componenti acquisiscono la skole (termine di Platone nel Teeteto), il governo del loro tempo, oltre che il controllo assoluto dei loro prodotti.
Interessante no?
Un po' meno interessante della relazione con il tempo di lavoro è quella che Himanen individua negli hacker con il danaro, che non può essere, gioco – forza, così dirompente e diretta criticamente. Viene proposto l'esempio di Wozniac; il socio di Steve Job  lascia Apple comprandone azioni e  come azionista si fa artefice di una ridistribuzione 'democratica' dei titoli della società. Poi fonda con gli interessi di quelli una scuola pubblica di saperi informatici che oscilla tra la sua abitazione privata e una scuola elementare. L'esempio è certamente paradigmatico dello spirito hacker ma anche dei suoi limiti oggettivi.
È impossibile sul terreno del reddito abbandonare le conseguenze dell'etica protestante del lavoro descritta da Max Weber, secondo Himanen medesimo; per scriverla con parole mie se Weber legava il capitalismo al lavoro e meno al capitale e alla rendita derivata dal capitale finanziario (che sono sostanzialmente due disvalori per Weber e l'etica che descrive) e anche se il nuovo capitalismo post – industriale irride al lavoro e accresce, invece, il potere della rendita (così come pensano anche Negri e Hardt in Impero), il lavoro rimane lo strumento decisivo per la sopravvivenza dentro il sistema economico e dunque su questo pianeta e, quindi, esiste ancora la dimensione proletaria del lavoro, il lavoro come valore d'uso per le classi subalterne, anzi le classi si posizionano tra di loro proprio a partire dalla relazione con questo valore d'uso del lavoro.
Riportare un po' di ironia in tema non guasta, anche perché aiuta a sdrammatizzare proficuamente la categoria del lavoro come valore d'uso, come necessità, e anche ad accendere una nuova luce sul lavoro nel capitalismo in genere e nella contemporaneità soprattutto. Ho trovato quest'ironia nelle note del testo quando si citano alcune riflessioni di un autore cinese per il quale il lavoro NON è più uno strumento per la sopravvivenza ma è una trappola che, mistificando la necessità di sopravvivere, rende la sopravvivenza impossibile, facendo il verso di andarle incontro; vale la pena di trascrivere i passi: “la civiltà risponde al problema di procurarsi il cibo mentre il progresso è quello sviluppo che rende sempre più difficile procurarselo … il pericolo è che siamo diventati tanto ultracivili … che si perde ogni voglia di cibo durante il processo di procurarselo” (Yutang, Importanza di vivere).

Annotazione. La sensazione che la tendenza a ridurre il tempo di lavoro a tempo di vita rispetto al 2001 / 2002 (Impero e Etica Hacker sono stati pubblicati in quegli anni) si sia approfondita è per me meno forte di quanto mi potrebbe essere apparso allora. La tendenza c'è, è innegabile, si è affermata nei paesi occidentali con vera potenza in alcuni settori dei servizi (commercio, turismo, servizi alle imprese, servizi informatici) meno in quelli della produzione materiale (dove la 'venerdizzazione della domenica', per usare Himanen, non si è compiuta) ancora di più, invece, nei paesi di recente 'modernizzazione' che hanno subito tra anni settanta e anni dieci una vera rivoluzione industriale nella quale i vecchi stilemi del fordismo e dell'etica tradizionale del lavoro si sono uniti alla nuove flessibilità richieste dalle new economy. Il processo è disomogeneo, a pelle di leopardo, ed più lento di quanto pensassi quindici anni fa. Questo non dipende solo dalle innegabili resistenze degli operai e degli impiegati dei settori produttivi e dei servizi 'tradizionali', anzi queste hanno contato la minor parte, ma dipende dal fatto che anche al dominio capitalista una radicale proiezione del tempo di lavoro sul tempo di vita non conviene. Conviene, certamente, la sua messa in questione, la sua immaginazione, il suo ingresso nell'immaginario collettivo, NON la sua realizzazione perché questa aprirebbe delle problematiche di difficile soluzione, tanto all'interno quanto all'esterno del sistema.
Per l'interno è ancora una trasformazione nella fruizione dei consumi (distribuzione, assegnazione, ed elezione dei beni in vendita sul modello del just in time) che richiede una rivoluzione culturale più che tecnica e comunque un discreto progresso della telematica (anche se non strutturale ed epocale) e delle sue infrastrutture. Una rivoluzione di questo genere impone una relazione assolutamente virtualizzata con il danaro, la scomparsa della carta – moneta, e soprattutto una radicale rivisitazione dell'apparato di distribuzione della merce.
Per quella che ho impropriamente definito difficoltà esterna (ma sono perfettamente consapevole del fatto che non esiste un esterno al sistema e l'aggettivo è una comoda finzione) il capitalismo mondiale sta dimostrando di possedere una certa (nel senso di sicura) intelligenza strategica.
Gli anni novanta hanno manifestato una primordiale forma coagulante dei movimenti, delle istanze su scala mondializzata. Quella che Negri chiama 'Moltitudine' si è organizzata e ha originato in quegli anni qualcosa di simile a un movimento internazionale di vecchia matrice, di stampo classico  'socialista e internazionalista' sulle cui novità (assolutezza da cicli di lotta specifici, proposizione di eventi multiformi, coordinamento sporadico ed episodico, contemporaneo rifiuto della spontaneità) ci sarebbe da ragionare a lungo.
Quel movimento (davvero contraddittorio dal punto di vista delle chimiche classiche, marxiane) ha imposto una riflessione al capitale mondiale: ha imposto sviluppo, cioè l'accelerazione delle nuove logiche finanziarie del capitalismo multinazionale, la catalizzazione della sovranazionalizzazione del dominio, l'ulteriore svalorizzazione del comando degli stati nazionali, che è divenuto un residuo becero e inutilmente conflittuale, ma ha determinato ripensamento dello sviluppo sul terreno del lavoro.
La riduzione del tempo di vita a tempo di lavoro significa che il tempo di lavoro cessa di essere un distinto da sé e che il valore d'uso del lavoro si identifica con la vita; significa un nuovo concetto di proletario che non conosce più la separazione tra lavoro e vita, tra lavoro e attività. Questa identificazione rischia di essere pericolosa e di generare solidarietà e conflitti là dove prima erano inimmaginabili, oppure appena disegnati. L'immaginazione della riduzione, l'ideologia della riduzione senza la sua realizzazione effettiva comporta, invece, una specie di frammentazione, un continuo riferimento al passato, alla propria tradizione lavorativa e contrattuale e la volontà di eliminare il futuro che viene analizzato solo sulla scorta del passato.
Per usare la terminologia di Virno, la Moltitudine sarebbe andata rapidamente verso l'Uno. Si obietterà e mi domando anch'io: tutta questa intelligenza nel capitalismo che, storicamente, è stato orfano dello stato assoluto aristocratico e ostaggio dei suoi bisogni primari? Oserei rispondere affermativamente: questa è la nuova forma del capitalismo che non solo vive nella produzione di rappresentazioni sociali, ma vive di qualcosa che un tempo sarebbe stato fuori dal suo nucleo fondante e che ha imparato a rappresentarsi e soprattutto a costruire le sue rappresentazioni; queste rappresentazioni sono, ormai, essenzialmente vere, più vere del vero, più reali del reale, astrazioni reali, più naturali della naturalità. Dal new deal a oggi il capitalismo ha compiuto il salto di qualità che la feudalità realizzò tra XIV e XVII secolo: ragionare su sé stessi per continuare a riprodursi.
Esiste un'intelligenza collettiva della borghesia in nome della quale la borghesia, come classe, scompare definitivamente; precisamente come tra gotico, rinascimento e barocco è venuta meno l'aristocrazia.

Mercoledì, 21 gennaio

Letture. Grammatica della Moltitudine. Riflessione sui due concetti di paura e angoscia, risolti da Virno l'uno come timore condizionato, per dirla con Spinoza uno stato d'animo con un oggetto, l'altro come timore incondizionato, in assenza di oggetto, un timore indifferenziato.
Il concetto originario Virno lo ritrova in Heidegger che aveva sviluppato l'idea di angoscia come il risultato di un non 'sentirsi a casa propria' e questo concetto si diffonde, secondo Virno, nella società imperiale e globalizzata, dove, sempre più spesso, a causa dell'estinzione delle 'comunità sostanziali' , i soggetti affrontano una 'comunità indifferenziata', priva di luoghi di frontiera e di 'luoghi comuni' specifici.
Questo stato d'animo è caratterizzato dalla percezione di un pericolo indefinito, onnipresente, la cui descrizione mi ricorda certe pagine di Hans Jurgen Krahl [Costituzione e lotta di classe / Hans-Jurgen Krahl. - Milano : Jaca Book, c1973 (Saggi: per una conoscenza della transizione, 52)] quando descriveva la paura della piccola borghesia di inizio secolo scorso che, affrontando il mercato, scopriva la sua inadeguatezza e viveva questa relazione come fonte di uno spossessamento esistenziale e di perdita di sé. È interessante questa analogia tra come Krahl descrive la paura, l'angoscia, del piccolo borghese e come Virno definisce il timore incondizionato della Moltitudine contemporanea. In entrambi i casi il grande nemico è un soggetto anonimo, assolutamente indifferente alle comunità e ai territori, che proietta gli individui in un contesto privo di riferimenti e nel quale l'unico riferimento è proprio nella generalità e genericità compresenti nel riferimento.
Ho, inevitabilmente, sospeso la lettura di Hume e non so quando riprenderò Impero.

Giovedì, 22 gennaio

Letture. Etica Hacker. L'accademia platonica è il palinsesto dell'organizzazione e della produzione del sapere realizzato dai programmatori del software libero e open source. L'accademia platonica non esigeva ruoli prefissati, docenze e presidenze, ma prevedeva una collaborazione dove la funzione degli esperti non escludeva i neofiti; anzi il neofita, spesso, per genuinità e innocenza intellettuale è stimolante, individua nuove problematiche e soprattutto è un ottimo divulgatore (volgarizzatore) delle novità acquisite nella ricerca: sa spiegare bene perché non dà nulla per scontato e ha dovuto faticare per apprendere e condividere. Per gli hacker l'intero progresso scientifico è ascrivibile a questo modello conoscitivo secondo il quale non solo non esistono, in senso stretto e letterale, maestri o discepoli, precisamente come non esiste una verità definitivamente acquisita, ma anche ogni soluzione e conquista sono rese pubbliche non solo nei risultati ma in tutto il processo conoscitivo: non si condivide solo la legge, la regola individuata e descritta ma insieme con questa tutto quello che ha condotto alla sua elaborazione.
Qui Himanen annota una prima e importante contraddizione tra pensiero scientifico nel suo concreto evolversi e le istituzioni che pretendono di ospitarlo, vale a dire le università, le moderne accademie.
Gli atenei non sono altro che una riproduzione delle forme controllate e gerarchizzate della elaborazione del sapere della scolastica medioevale, dove la scolastica medioevale è il prodotto della disciplina monastica; il modello della cultura ufficiale e dell'organizzazione pubblica e istituzionalizzata del sapere è quello del monastero; il mondo universitario ha sempre vissuto questa dicotomia: da una parte, anche terminologicamente, ama rappresentarsi come 'accademia' sul modello platonico, struttura aperta e orizzontale, ma dall'altra sceglie di organizzarsi secondo figure autoritative (quando non apertamente autoritarie) e secondo una gerarchia nell'amministrazione del sapere.
In secondo luogo il modello 'chiuso' contraddistingue il mondo accademico moderno e contemporaneo e, nello stesso tempo, il mondo universitario è costretto per valorizzarsi a riconoscere la validità dei modelli 'aperti', allo scopo di evitare l'ipostatizzazione dei saperi e il loro congelamento e quindi la perdita di senso della sua stessa istituzione.
In terzo luogo, soprattutto dove le imprese entrano nel circuito universitario, la tendenza a privatizzare la produzione intellettuale, a definire una proprietà intellettuale, è alta.
Il modo di produzione hacker non è immune, comunque, da queste contraddizioni ma ha un fondamentale vantaggio rispetto a quello universitario: si svolge in un non luogo, al di fuori di ogni istituzione, e utilizza i canali della comunicazione telematica non per strutturarsi ma per diffondersi, utilizza la rete informatica come media, strumento operativo e non come architettura.
Le tre contraddizioni che coinvolgono il mondo accademico tradizionale riescono a essere tenute agli estremi margini della produzione open source e anche quando, su alcune scoperte e intuizioni, si costituiscono imprese la privatizzazione del sapere non ne è parte integrante, anzi è esclusa. Le imprese che utilizzano saperi open source non alienano questi saperi, non pretendono di rivedere la struttura del media  che li hanno diffusi e alla fine ritengono inevitabile alla loro stessa affermazione il modo di produzione dell'accademia platonica, aperto e diffuso.

Annotazione. Gli autori scrivono di un comunismo produttivo dentro il capitalismo e non mi pare affatto una scelta di termini inappropriata. La produzione open source è in effetti una forma comunistica di creazione, basata sulla libera e paritetica cooperazione dei protagonisti, che non ha, però, come obiettivo il fine del movimento comunista storico, vale a dire l'abbattimento del capitalismo, ma qualcosa di diverso anche se tangente: l'affermazione e valorizzazione del modo di produzione comunistico in quanto tale, senza gli attributi politici e ideologici a quello legati, senza che venga perseguito un confronto costante con quello capitalistico. Si mette in atto, quindi, una netta lontananza e indifferenza rispetto a quello e spesso una scivolosa neutralità.
La dico scivolosa perché comporta un'affermazione e valorizzazione che possono con facilità trasformarsi in logica di impresa senza parimenti mettere in discussione il modo di produzione comunistico adottato, anzi sussumendolo integralmente; ancora scivolosa perché la possibilità di intervenire sulla struttura della rete, sul media comunicativo, rimane aperta e difficilmente individuabile, verificabile e visibile: per andare a un riferimento cinematografico dei primi anni ottanta, alla Trade di Blade runner, potrebbe essere, anziché una società verticale e immediatamente riconoscibile come quella del film, una spontanea produzione del cybespazio, la diffusione, apparentemente spontanea e non eteronoma, di una nuova architettura informatica.
Potrebbe essere, in ultima analisi, quello che, per adoperare altri termini e altre categorie, sarebbe un discorso sulla verità che sostituisce non solo la verità ma anche il discorso sulla verità, intervenendo sulla struttura intima della comunicazione, su quello che sta sotto di quella, che la sorregge e conforma, su quello che, usando forme filosofiche classiche e scolastiche, potrebbe dirsi sostanza, sub – stantia autentica. I saperi telematici possiedono questa potenzialità, perché è loro essenziale, perché lavorano sull'informazione e determinano l'idea stessa e il perimetro dell'informazione. La verità informatica è una verità tecnica che rende la tecnica struttura della verità: novità assoluta rispetto alla tecnica industriale e moderna che era capace di produrre essere o anche idee ma incapace di creare nel medesimo tempo il loro contesto e la loro validazione immediata. Le idee nell'epoca del post neolitico sono immediatamente e intrinsecamente validate.
La tecnica informatica, nella versione telematica e cibernetica, è capace di creare validando e di implicare la validazione nell'idea e deve farlo necessariamente per sua stessa logica produttiva, anche quando adotta un modo di produzione comunistico.
Non c'è, quindi,  a priori neutralità nella telematica, pensiero scientifico allo stato puro, proprio perché, al di là di ogni mistificazione, non ha senso il concetto di neutralità e oggettività ma solo, appunto, di sostanza autentica e per autentica intendo semplicemente funzionante.
Agli autori di Etica Hacker (Himanen, Torvalds e Castells) pare sfuggire del tutto questo aspetto.

Venerdì, 23 gennaio

Letture. Ai margini. Etica Hacker. Su questo tema il testo si limita a esporre il problema dello spionaggio in rete, vale a dire tutti quei programmi che lavorano per tracciare mail, contenuti e destinatari della nostra attività telematica, transazioni bancarie, acquisti on-line e via discorrendo. In base a questa attività è possibile creare un profilo umano e sociale dettagliato di un utente della rete: comportamenti, preferenze, biografia, percorso lavorativo e inclinazioni.
Più interessante è quello che, qualche volta, ho verificato personalmente: la personalizzazione della navigazione. A determinati input sui motori di ricerca non sempre corrispondono determinati e corrispondenti output, come se il browser tenesse conto della personalità telematica del navigante. Il rumore di fondo delle risposte è considerevolmente mirato e differenziato.
Questo innegabile controllo, che gran parte della pratica hacker combatte con la crittografia, è solo l'aspetto più visibile ed evidente del rischio. Le mutazioni che il browser subisce conformemente al vissuto telematico dell'utente non sono solo il segnale di un'attività di tracciamento e sorveglianza, ma anche di un processo molto più attivo: la strutturazione dell'ambiente telematico secondo determinate sollecitazioni. Questa interazione tra utente e rete evidenzia quanto il media non sia un canale neutro e immobile, ma la contrario posizionato, flessibile e mobile. Certamente non siamo al livello della mia ipotetica sub – stantia, dell'intimità dell'informazione, ma il paradigma è quello di una potenziale manipolabilità dell'informazione a livello del quanto informatico.

Lunedì, 26 gennaio

Annotazione. Precisamente come conoscevo appena Charlie Hebdo conosco Zipras che ha vinto le elezioni in Grecia. Inutile dire che questa vittoria è un segnale, perché lo dicono e scrivono tutti.
È da notare che insieme con il 36% di Zipras viene il 6% di Alba dorada e questo è il segno che la critica alla strategia finanziaria europea non è trasversale a tutti fronti, quanto, invece, capace di creare fronti, determinando quello che i benpensanti chiamerebbero una radicalizzazione dell'elettorato e una nuova (e per me transitoria) dislocazione dell'elettorato. A quanto  mi è dato intendere è un po' come se Sinistra Ecologia e Libertà prendesse la maggioranza relativa di voti e Forza Nuova il 6% di quelli: non si tratterebbe di una trasversalità ma di una nuova composizione dell'immaginario politico e degli investimenti ideologici. Questo è interessante perché, per la prima volta, si è fatta avanti una critica frontale al modo di concepire l'Europa: un insieme di stati nazionali che condividono una moneta e una serie di istituzioni di vigilanza sul loro operato.
Il fatto che l'Europa sia un insieme di stati – nazione e non uno stato – nazione ha consentito molte cose.
In primo luogo ha permesso il costituirsi di una gerarchia tra gli stati membri che rispecchia la salute delle corrispondenti economie, il possesso di eccellenze produttive, di materie prime, di capacità energetiche, precisamente come è successo alle regioni del proto – federalismo italiano. Il secondo aspetto è legato strettamente al primo e quasi ne fa parte: lo 'stato' europeo ha assunto sempre più, dopo l'iniziale e ormai quasi primordiale spirito di collaborazione paritetica, un aspetto di controllo sulle attività dei singoli stati; in primo luogo questo è avvenuto attraverso la costituzione della moneta unica europea che è stato un processo che ha richiesto, fin dalla sua progettazione, la strutturazione di una gerarchia monetaria, applicando un discernimento pubblicamente riconosciuto tra monete forti (Marco e Franco) e monete deboli (Lira, Dracma e Pesetas). L'accantonamento del Serpente Monetario Europeo (S.M.E.), nella prima metà degli anni novanta, è stato propedeutico a questo processo ed è stato la tomba dell'iniziale spirito 'internazionalista' della comunità, verso l'affermazione di uno spirito nazionalista transnazionale; in secondo luogo il controllo della transnazione nazionalista europea si è espresso attraverso la messa a punto di lodi europei votati al controllo della spesa pubblica nei singoli stati membri e del corrispondente debito pubblico. Il debito pubblico ha sostanziato e legittimato la gerarchia composta tra gli stati – nazione europei ed è diventato vera merce di scambio e strumento di ricatto posto sotto il controllo dei membri al vertice della gerarchia auto – fondata.
La terza conseguenza dell'Europa come insieme di stati – nazione è nel fatto che si è determinato proprio il contrario di quello che naturalmente ci si sarebbe aspettati da un insieme di stati – nazione ben individuati: una forte tendenza alla omologazione delle economie nazionali. La teoria delle velocità molteplici all'interno delle economie dell'unione è rapidamente naufragata, mentre si è affermata nella realtà l'integrazione che ha imposto una sola misura di crescita, escludendo alcune aree, aree (tengo a sottolinearlo) più che nazioni, dalla velocità dominante e il destino di queste regioni / aree è quello di trasformarsi in bacini del sottosviluppo, interessati da una recessione perenne, dove governa una flessibilità del mercato del lavoro estrema, una politica di bassi salari e una depressione dei consumi e della spesa pubblica senza alcuna correzione o compensazione che non venga fornita, per alcune di quelle, dalla presenza della malavita organizzata. Anche la malavita organizzata entra in queste proiezioni e in queste contabilità: viene tenuta in conto.

Annotazione. Tanti anni fa, nella schematica e sotterrata dalla memoria sinistra extraparlamentare italiana degli anni settanta, riguardo alla comunità europea si era soliti affermare, in maniera volutamente rozza (volutamente perché l'argomento era considerato marginale e ininfluente e tale da non richiedere grandi investimenti analitici), che quella era l'Europa dei padroni e che non era affatto il caso di aspettarsi nulla di buono né tanto meno una sua formazione democratica e 'popolare', vale a dire dal basso.
Quell'analisi aveva tutto il suo valore ed è stata confermata dai fatti e dove non lo è stata non è perché, in qualche punto e aspetto, si sia affermata una visione 'democratica' dell'istituzione europea ma semplicemente perché i padroni europei degli anni '70 non esistono più, cioè a dire il capitalismo è cambiato e quel capitalismo non è entrato nella costituzione europea. L'Europa non è quindi diventata (come immaginava quell'analisi rozza ma veritiera) una sorta di confindustria transnazionale, priva di strutture rappresentative, parlamento e commissioni, ma ha costituito sul serio un esecutivo transnazionale, dotato di leggi, regolamenti e confini. Le forme con le quali i padroni degli anni '70 determinavano la politica dell'Unione europea (quelle di un accordo di cartello tra le diverse borghesie nazionali, come si immaginava) sono state sostituite da quelle che nascono precisamente dal loro contrario: la negazione delle borghesie nazionali, delle borghesie in lingua.
Il capitalismo, non solo quello europeo, è egemonizzato da gruppi economici e finanziari che sono intrinsecamente multinazionali (pensiamo al vissuto imprenditoriale di Marchionne e alla parabola della FIAT da Romiti a oggi) e che non perseguono un accordo tra nazioni (a quelli del tutto indifferente) ma la costituzione di uno stato, un'istituzione (Negri docet in Impero) capace di inquadrare le tradizioni economiche, finanziarie e produttive dei singoli stati – nazione per ottimizzarle all'interno di un contesto transnazionale che non è il risultato di una sommatoria di nazioni ma di una riduzione a massimo comune denominatore delle esperienze nazionali verso l'Europa e a minimo comune moltiplicatore le esperienze dell'Europa verso il mondo capitalistico integrato planetariamente.
Le nazioni come espressioni dei padronati nazionali non esistono più e il capitalismo è diventato qualcosa di molto diverso dalle immaginazioni intorno a borghesia, classe borghese come comunità contraddistinta dall'appartenenza linguistica, da un preciso stile di vita, dal lavoro direttamente speso nel comando d'impresa e da nomi e cognomi ben individuati; comunità che, però, ancora, con una certa forzatura negli anni '70, poteva essere intesa come appartenente alla nazione o meglio al popolo e che condivideva con quello alcuni fondamentali tratti genetici e si poteva descrivere come borghesia italiana, tedesca e via discorrendo.
Questa comunità, interna al popolo, si identificava, secondo la sociologia marxista, in un complesso di interessi, che conduceva al profitto personale, e in una serie di stati economici, rappresentati dalla proprietà quasi esclusiva dei mezzi di produzione, individuandosi come una classe. Come classe, anche l'analisi marxista lo anticipava, era proiettata inevitabilmente oltre il profilo nazionale e tendeva a emanciparsi da quello: la borghesia media e piccola, la piccola e media impresa, rimaneva gioco forza legata a prospettive produttive territorializzate e alla nazione, conservando un cuore popolare, la grande borghesia, invece, usava l'inglese come seconda lingua, guardava alla possibilità degli investimenti internazionali e a estendere internazionalmente le potenzialità produttive delle sue imprese.
Il consiglio di amministrazione, semplice formalità legale per la piccola e media impresa, paravento di una gestione personale della società, diventava in quella grande una potenza autonoma dalla vera proprietà, perdendo la relazione diretta con l'esistenza concreta del presidente o dell'amministratore delegato. Come la proprietà si depersonalizzava, così si deterritorializzava, culturalmente e produttivisticamente. Si trattò di un passaggio verso la contemporanea forma del capitalismo che non ha personalità, non ha proprietà personali, non costituisce una comunità dentro la nazione e cessa di esprimere una classe nel senso marxista del termine. La relazione tra capitale e lavoro è diventata una relazione astratta e quasi ideale, denazionalizzata nella concretezza organizzativa (le multinazionali) o nella delocalizzazione che insegue i vantaggi del mercato del lavoro unificato a livello mondiale (le piccole e medie imprese). Anche chi sapeva a malapena l'italiano e preferiva il dialetto (pensiamo alla piccola borghesia leghista del nord est italiano) ha abbracciato gli investimenti internazionali.
Il concetto di popolo e nazione non appartiene più al capitalismo contemporaneo perché il capitale non si costituisce più come classe dentro una nazione ma come un ceto, un gruppo omogeneo, un gruppo dirigente indipendente dalla proprietà dalla quale è in parte salariato e con la quale in parte condivide gli utili, mai legato personalmente alla proprietà e senza nome e cognome precisato pubblicamente, senza lignaggio: una classe operativa e quindi non una classe, ma un gruppo contraddistinto da un particolare lavoro, il comando di impresa.

Mercoledì, 28 gennaio

Annotazione. “Questa non è una matita”, era più o meno scritto in mezzo alla valanga di immagini seguite all'attacco allo Charlie Hebdo. Non sapendolo o volendolo sapere quel manifesto ripreso da Magritte diceva la verità. Non si tratta affatto di una matita come pretende molta retorica sulla libertà di stampa offesa, là dove la stampa non è affatto libera e non usa la matita.
Direi che è utile soffermarsi sull'aspetto della matita perché quello slogan, spot pubblicitario, contiene più verità di quante la sua ipocrisia abbia mascherato, anche se usare categorie come verità e ipocrisia mi pare inadeguato a quest'epoca ma compierò un balzo alle incrollabili certezze categoriche, offertemi dalle medie inferiori.
Il colmo dell'ipocrisia è Magritte – dire la verità (non è una matita … anche perché è solo un disegno di una matita) per affermare un'altra verità (è la libertà di stampa) bugiarda.
Andiamo all'aspetto tecnico e fisico: chi usa la matita, oggi, nel giornalismo e nelle procedure editoriali, nella 'creazione'? Nessuno più. La matita è dunque solo una rappresentazione ideologica vale a dire la rappresentazione della libertà di stampa occidentale.
Lasciamo da parte le considerazioni sull'esistenza del rappresentato, concentriamoci sulla rappresentazione. Perché in qualche redazione si sceglie di utilizzare questa metafora e perché ha avuta tanto successo? La matita si inserisce perfettamente nel contesto pre – moderno dello scontro che si vuole evocare. La matita è pre – industriale, artigianale, precedente l'internazionalizzazione dell'industrialesimo, è il pensiero che non è ancora diventato attività industriale, è il luogo precedente di questa civiltà, la sua origine, precisamente come il fondamentalismo evoca una civiltà che non ha conosciuto modernità.
Lo scontro, quindi, si ubica al di fuori di quest'epoca e attraverso una trasversalità storica (della quale è traccia il riferimento a Magritte) al di fuori della storia, il conflitto è il prodotto di due culture contrapposte e destoricizzate e che possono essere facilmente antipodiche proprio perché destoricizzate.
La storia della matita è stata una grande trappola (precisamente come la 'vera' pipa di Magritte), tra le altre cose di dubbio gusto estetico, per non parlare di quello che è autenticamente accaduto, vale a dire di matite di una libertà inesistente e della negazione di una libertà supposta, della negazione di una cosa inesistente che collabora, in verità, alla sua affermazione mistificata. Anche l'ultimo dei 'liberi pensatori' non crede più alla libertà di stampa, anche se cerca di credere alla libertà di pensiero, ma l'affermazione della sua esistenza è diventata una necessità bellica.

rivedi gennaio

Inizio anno

Domenica, 1 febbraio

Sto leggendo, in parte rileggendo, Storia della lingua italiana / Bruno Migliorini ; introduzione di Ghino Ghinassi. - Milano : Bompiani, 1997. - 5. ed, - (Saggi tascabili, 31). Opera del 1958 (se non vado errato) che non credo troverà spazio in questi commenti e in questo diario. L'avevo letta, nei suoi primi capitoli, con finalità strumentali (nel senso che spesso la utilizzai come strumento, come attrezzo di lavoro, allo scopo di conoscere la diffusione geografica del latino imperiale, la sua evoluzione, le specificità 'regionali' e la struttura e diversificazione del cosiddetto 'parlato') durante la stesura degli appunti sulla storia romana.
Mi piacque l'approccio analitico mai perentorio e imperativo ma aperto, invece, a contributi e visioni diverse e la conseguente precisione nelle citazioni bibliografiche. In Migliorini la lingua è una struttura reticolare, assomiglia al mercato commerciale, le parole e il loro uso viaggiano insieme con gli uomini (i legionari, i burocrati militari e civili, i mercanti, gli emigranti agricoli) subendo contaminazioni di molteplici tipologie e su plurimi livelli.
Non sfugge all'autore l'importanza di Roma, della storia linguistica della capitale nel primo secolo dell'era volgare, per la definizione di quella del resto dell'impero, come non sfugge che dopo gli Antonini e già con loro l'impero non è più monocentrico e sviluppa diversi centri di potere (Antiochia, Alessandria, Lione, Arles e poi ancora Treviri, Milano, Sirmio, Nicea, Nicomedia, Parigi e Costantinopoli) e quindi la storia della lingua si fa policentrica e l'influenza dei sostrati provinciali diviene importante in quella. Contemporaneamente, però, l'istituzione imperiale rimane individuata singolarmente, rimane una sola, mentre le parole viaggiano e si incontrano tra una regione e l'altra.
Questo ha comportato una differenziazione linguistica pre – romanza (area gallicana, hispanica, italiciana, illiriciana, africana) ma anche una forte omogeneità nel panorama di fondo. Il latino parlato in Gallia era ben diverso da quello africano per moltissimi elementi semantici, ma entrambi mantennero un'ossatura sintattica e una base semantica comune, come analoga fu la tendenza nel rinnovamento e nell'evoluzione, al punto da far scrivere di varianti dialettali. Più forte si fece la diversificazione dal IV secolo in poi, dopo la separazione amministrativa tetrarchica (le quattro prefetture e le dodici diocesi), fino al punto di avere qualche indizio intorno alla sua penetrazione e credito nella cultura scritta (Agostino scrisse alla madre che non usava alcune espressioni del latino classico o di quello parlato in Africa, perché in Italia non sarebbero state comprese). Solo allora il latino parlato contamina il latino scritto, intendendo per quello la lingua letteraria, filosofica e scientifica e non l'epigrafia e la scrittura 'popolare' che già dal I secolo, fortunatamente per la ricerca sul latino parlato, erano state influenzate dalla lingua usata nel quotidiano.
Interessante, lo ribadisco, l'idea della lingua come struttura mercantile, dove l'importazione e l'esportazione delle parole sono fondamentali per definirla e dove sono anche importanti i modi e le forme di questi 'movimenti commerciali'. Agirono in questo movimento semantico i burocrati e le alte gerarchie militari, avendo come naturali referenti le classi agiate delle province e viceversa queste ultime influenzarono il linguaggio della burocrazia e dell'amministrazione, dando vita a contaminazioni elitarie e di nicchia, importanti nel latino scritto ufficiale degli uni e degli altri. Le emigrazioni militari e agricole determinarono un commercio di basso livello dove i nomi di piante, animali, conformazioni geografiche, toponimi, strumenti di lavoro e termini giuridici legati al lavoro furono oggetto di scambio.
Per il resto, con il coraggio dell'ottimismo e anche con una certa curiosità, riprenderò la lettura della quarta parte di Impero.

Lunedì, 3 febbraio

Letture. Negri. Impero. Ma non è la teoria del crollo? Mi pare proprio la teoria del crollo quella che viene fuori nei primi due paragrafi della quarta parte di Impero. Negri immagina un'insorgenza 'spontanea', nel senso di generata dalla stesso sviluppo del potere imperiale, o meglio del lavoro sempre più socializzato, sempre più proiettato su una dimensione comune, esistenziale, che si libera di quello che vampirizza il processo lavorativo, il parassita, immediatamente inteso come tale. In questo contesto l'Impero ricorda l'antiproduzione di Deleuze e Guattari nell'Antiedipo, ma, al contrario che in quell'opera, il potere non ha la capacità di creare investimento di desiderio su di sé ed è solo un'entità 'reattiva' che risponde alle sollecitazioni provenienti dal basso per selezionarle al solo scopo di reprimerle.
Negri si chiede come l'impero non distrugga la moltitudine e cerca di spiegarlo: ne ha bisogno, ha bisogno della sua negazione. La domanda da porsi sarebbe quella opposta: come è possibile che la moltitudine, generatrice di nuove solidarietà produttive e sociali, non decida di liberarsi in pochi minuti del parassita antiproduttivo? La mia risposta è semplice: perché l'impero non è solo antiproduzione anche se è anche antiproduzione.
I termini di una relazione dialettica tra Impero e movimenti, di una 'misura', continuano, ereditati dalle forme di dominio precedenti, nonostante Negri descriva il periodo imperiale come contraddistinto dalla scomparsa del valore e della misura del valore del lavoro e la stessa parabola del movimento no – global testimonia di questa continuità dialettica (anche se di questa parabola so pochissimo, quasi nulla, poche date e luoghi; il periodo che va dal 1995 al 2010 è stato per me un periodo di assoluto distacco e rifiuto della politica, persino dell'informazione politica). Il mio sincero sospetto, sempre rimasto nel backstage durante la prima e la seconda lettura di Impero, è che il movimento no – global sia il protagonista 'nascosto' delle teorie sulla Moltitudine e che ci sia stata una sopravvalutazione della portata e del significato storico di quel fenomeno, certamente importantissimo e inedito. Negri stesso accenna alla selezione che l'Impero opera contro l'antagonismo e i suoi movimenti, in verità sembra alludere a una divisione della moltitudine, a una scelta e individuazione tra componenti assoggettabili e recuperabili attraverso un investimento di desiderio sul potere e altre irriducibili a questo processo.
Non entro sul merito della tematica (davvero datata e facilmente storicizzabile) dell'incommensurabile, che sarebbe la forma attuale di espressione del dominio (guerra nucleare, mercato e comunicazione, quindi distruzione totale, sfruttamento viscerale e paura cronica) al quale si contrapporrebbero altrettante forme incommensurabili di antagonismo, ritengo, però, notevole la scoperta della morte del trascendente come occasione di etica e politica; l'immanenza, il 'non – luogo', informa il mondo globalizzato e ogni tentativo di rivalutare e riprendere una costituzione politica fondata su concetti universali e trascendenti (i sogni di ritornare al felice passato, al moderno se non al pre – moderno) conduce inevitabilmente o alla dittatura, o meglio alla tirannia di massa, o alla barbarie (a incubi, insomma, tra i quali potrei collocare l'attuale califfato siriano e iracheno ma è un'immaginazione un po' troppo recente e forse inappropriata).
La fine del trascendente e il trionfo dell'immanente non comportano, però, hic et nunc, la fine della dialettica, come pensa Negri, se così fosse l'Impero non avrebbe necessità di mascherarsi, sussumendo istituzioni precedenti (stati – nazione, patti internazionali e in genere il diritto pubblico internazionale); nessun impero o repubblica o monarchia è stato solo reazione, risposta e repressione, anche se, nell'Impero di Negri, reazione, risposta e repressione si dispongono su un altro livello rispetto alla normale tradizione politica, un livello antropologico, si articolano nel controllo di sé e della propria vita da parte di ogni singolo individuo. Certamente la repressione capitalista imperiale usa la forza molto più di prima e, novità assoluta, usa normalmente la forza militare, quella espressa dagli eserciti, la polizia passa in secondo piano (come magistralmente annota l'autore), ma questa forza non è solo forza, energia repressiva, è congegnata, 'messa in un congegno' antropologico e quindi è attiva. Non esiste più, e credo che Negri potrebbe essere concorde, il classico discernimento tra informazione ed energia nei componenti della repressione: informazione ed energia costituiscono lo stesso congegno repressivo.
Ma non è la teoria del crollo? Rimane un interrogativo valido, anche se stemperato nell'elaborazione di questa intima e breve polemica.

Mercoledì, 4 febbraio

Letture. Impero. La crisi della coscienza / cultura europea descritta nella pars destruens  dell'opera è inconfutabile: la migrazione dell'avanguardia artistica da Parigi a New York, l'emigrazione intellettuale che segna tutto il novecento, complice nazismo e fascismo. Il 'doppio salvataggio' militare ed economico degli americani verso l'Europa nella prima e seconda guerra mondiale (piano Daves e piano Marshall) ne costituiscono l'aspetto strutturale. Infine il new deal impose una visione 'democratica'  dell'intervento dello stato nell'economia, secondo la quale l'espansività e la libertà si alleano e anticipano la tradizione imperiale (in sostanza una specie di futuro anteriore rispetto a quest'epoca).
L'Impero, però, non è America, l'America non ne è il centro, l'Impero (come l'antico impero romano al quale spesso si fanno riferimenti un po' troppo stringenti e dunque forzati, ma gradevolmente adeguati) non è nazionale, è transnazionale e le nazioni ne sono dei 'segmenti' più o meno centrali, più o meno strategici; la struttura dell'Impero è reticolare.
La moltitudine è cooperazione sociale, lavoro, produzione (non uso del lavoro), condivisione dei saperi e della scienza, valorizzazione immediata di sé; la moltitudine prende in mano la produzione, senza appropriarsene, perché e già sua, non è altro dall'Impero, perché non può che essere interna all'Impero.
In questa interessante ipotesi individuo due punti critici: il valore della produzione e il valore della scienza. Entrambi paiono neutri, fatti in sé, non determinati da altro; se è vero che nel capitalismo contemporaneo non esiste separazione tra produzione e rappresentazione, tra realtà e ideologia, perché tutto entra a far parte della categoria del produttivo (realtà e ideologia sono per certi aspetti prodotti spontanei e naturali della cooperazione sociale e produttiva), contemporaneamente io annoto ancora un'intelligenza attiva del dominio nel determinare la produzione e la scienza, nel progettarla, nel fare in modo che si manifesti in una determinata maniera anziché in un'altra, che si perseguano alcuni risultati piuttosto che altri, che si costruiscano certi assiomi piuttosto che altri. Il rapporto tra ideologia e produzione è diventato tanto stretto da essere quasi indescrivibile come rapporto ma questo non sottopone anche la produzione alle sue dinamiche intrinseche, anzi, paradossalmente, il lavoro sulla produzione non è mai stato così ideologico come nell'attualità. Questo significa che il capitale ha uno strumento immediato e determinato per governare lo sviluppo, precisamente come lo possiede la Moltitudine.
Le opportunità per la Moltitudine sono certamente molte: una scienza parcellizzata e reticolare, la tecnologia a basso costo e 'democraticamente' distribuita, la cooperazione produttiva costitutiva dell'intellettualità. Esistono però ostacoli notevoli: pensiamo solo alla proprietà di gran parte del software, ai codici sorgenti inintellegibili e al fatto che lo sviluppo e progettazione del software  sono nelle mani di grandi corporation 'imperiali,. Di contro si individuano libertà notevoli: open source e dintorni. Ma anche qui lo sviluppo, che è libero e si affida alla libera collaborazione tra gli individui, deve affrontare il problema di un ambiente tecnico (standard, linguaggi, stili di comunicazione) costruiti dalle corporation.
È un esempio, ma la strada verso la libertà è ancora una strada, alla fine un 'luogo', un posto, da percorrere fuori dall'Impero, dentro l'Impero è impercorribile. È necessario che si dia un esterno all'Impero affinché l'Impero crolli, ci vollero anche solo pochi barbari (come quasi sicuramente furono) perché la crisi dell'impero romano si manifestasse alla storia; ci volle la crisi di consenso ma anche l'aggressione esterna.
Neutralità del lavoro e della scienza, cacciate mezzo secolo fa dalla porta, rischiano di rientrare dalla finestra, costituendo la categoria di lavoro professionale e professionalizzante, categoria interessantissima per il dominio che si impegna a occultare la segmentazione semplificata del lavoro immateriale, della quale ha estremo bisogno per governare e predire i processi, ma che teme per le possibilità di rapida ricomposizione della filiera produttiva che offre.

Giovedì, 5 febbraio

Letture. Impero. Alle volte ho la sensazione di una lettura pauperistica del proletariato attraverso la Moltitudine; non tanto perché vengono descritte nuove povertà quanto perché, nonostante l'impianto analitico generale, quando gli autori scrivono concretamente di soggetti della Moltitudine, per esempio dei migranti, si richiamano a categorie come il diritto al lavoro, ai documenti d'identità (sans papiers), quindi alla rivendicazione di diritti civili elementari, naturalmente sacrosanti; dietro la rivendicazione di queste diritti la neutralità del lavoro e la neutralità del diritto trovano nuova cittadinanza. Ma queste cose si riducono veramente all'elementarità delle dinamiche del moderno e in parte del pre – moderno.
Inoltre ho incontrato una riproposizione del pensiero dualista occidentale (Platone, Plotino e Agostino) certamente in metafora, che, però, non aiuta affatto a figurare una genesi dell'antagonismo dall'immanenza. Di fatto Negri e Hardt non spiegano questa genesi, la pongono come inevitabile, la postulano.

Venerdì, 6 febbraio

Letture. Storia della lingua italiana. La dove si tratta del viaggio delle parole dopo la fine dell'impero romano e della difficoltà di ricostruire questo viaggio tra recuperi, relitti, parole che potrebbe essere di importazione franca (e quindi dell'VIII e IX secolo) oppure dei recuperi tardo – medioevali (per influenza della cultura e legislazione feudale francese). Pochissimo sviluppato è l'apporto di goto e longobardo. È ben chiaro un modo di intendere la lingua come sistema, sistema aperto, evidente soprattutto quando la dimensione linguistica si localizza, come nell'altomedioevo: le lingue si trasformano per scambi interni, una sorta di mutazione locale, ricollocazione non priva, mai, di contributi esterni.
La lingua è il prodotto di stratificazioni diacroniche il cui studio è simile allo studio della storia attraverso l'archeologia, mentre la sua storia ricorda quella che costituisce l'urbanistica. Dentro la lingua è possibile reperire, come attraverso l'archeologia dentro la storia, quello che la storia ufficiale, monumentale raramente e solo accidentalmente registra: la cultura materiale, le relazioni sociali nella loro espressione quotidiana, nel loro vissuto.
Questa concezione archeologica della lingua, come effetto del contributo sincronico di cultura materiale, diritto privato e pubblico, attività produttive e commerciali, quasi tutte da scavare, da tirare fuori dal contesto linguistico oggi in uso per collocarle nel contesto originario, è vivace e necessariamente interdisciplinare.
Penso sotto questo punto di vista alla sedimentazione linguistica del longobardo, poverissima di apporti e sopravvivenze; lo studio di questa rarità linguistica ha però consentito di definire meglio la tipologia dell'insediamento longobardo nella società italiciana del VII e VIII secolo. La toponomastica ci ha lasciato numerosi derivati della radice sal (grande aula) che definiva luoghi di insediamento istituzionale e fondiario: la loro distribuzione sul territorio in aree schiettamente agricole testimonia della ruralità dell'insediamento e dell'organizzazione territoriale longobarda in Italia. Molte altre parole, sopravvissute nei toponimi, non fanno che rafforzare quest'immagine; si tratta di radici votate a descrivere la conformazione del territorio e la natura dei luoghi, come moia palude, gard giardino e orto,  gazzo pascolo. Anche le poche parole che restano del longobardo nell'italiano (tra le quali panca e se non erro vanga) introducono una contaminazione linguistica svolta tra le classi povere della società e segnalano così una vicinanza sociale tra gli indigeni e i nuovi arrivati, un'integrazione di basso profilo sociale e, probabilmente, il fatto che i Longobardi, pur espropriando (secondo tutte le fonti storiche ufficiali) il grande latifondo di ascendenze tardo – romane  non operarono il genocidio da quelle denunciato, ma una politica dell'assimilazione e probabilmente una redistribuzione delle risorse agricole anche a favore dei coloni, servi e fittavoli tra gli indigeni.

Sabato, 7 febbraio

Annotazione. Ai margini. Spinoza nell'etica e cose più in generale. Qualche tempo fa me l'ero ripromesso e, riprendendo in mano la faccenda per implementare il sito, mi è tornato alla mente con una certa forza: dopo Spinoza e l'alcol, Spinoza e la politica rivoluzionaria.
L'incontro con Spinoza è stato eminentemente scolastico, avvenuto al liceo, secondo il libro di testo e l'interpretazione del professore. Inevitabile, a quell'età, la messa in produzione di quella nuova conoscenza nel concreto interesse che dominava la mia attualità: la trasformazione rivoluzionaria della società, la rivoluzione comunista. Non parlava solo Spinoza, ma insieme con esso Cartesio, Leibniz, Berkeley e, andando all'anno scolastico precedente, emanavano fascini Aristotele e, soprattutto, Plotino.
In generale più che di Spinoza e la rivoluzione dovrei scrivere del razionalismo e la rivoluzione. Il principio assolutamente interessante era quello di causalità: le cose non avvengono per caso, ma secondo una necessità.
Ancora più importante era, nel razionalismo seicentesco e nel pensiero classico, l'idea che questa causalità, quest'ordine causale, conformava e costituiva le forme del pensiero. Le cose, gli eventi, le situazioni sociali ed economiche e la coscienza, vale a dire il pensiero, percorrevano strade parallele: l'idea di Dio come elemento assolutamente trascendente, ad esempio, era il risultato di una nuova astrattezza raggiunta dalle relazioni sociali, rinforzata dalla diffusione di un equivalente universale come è il danaro e i suoi 'derivati', che erano prodotto e causa di questa astrazione; l'astrazione sociale si perfezionava attraverso il danaro mentre il danaro aveva bisogno di una sufficiente astrazione per affermarsi. Oppure l'idea stessa di Dio, presentata nel 'movimento razionalista seicentesco' da Spinoza, determinava la discesa del trascendente nell'immanenza, pensiamo al danaro che entra nella monarchia assoluta, nella realtà pensata del danaro stesso e della politica, non più come astrazione ma come concretezza.
Rimaneva, comunque, la potenza 'rivoluzionaria' della mente e della ragione, delle loro regole (causa ed effetto) come riflesso e coincidenza delle regole delle cose, riflesso di un ordine e di un telos nel mondo che era quello di un rischiaramento razionale COESSENZIALE a una liberazione concreta e materiale. Spinoza, in verità, non avrebbe sottoscritto neanche uno di questi punti analitici, ma era lo spirito della filosofia del seicento a invadere il pensiero rivoluzionario e a rendere possibile, anzi inevitabile, la rivoluzione.
Lo scambio tra POSSIBILE  e INEVITABILE è indicativo di una teleologia che, in modo incauto, riproponeva il trascendente, fingendo di occuparsi e di generare solo dall'immanente. Certo non fu, però, un inutile esercizio intellettuale.
Il razionalismo imponeva un ragionamento complessivo, anche se nella concretezza storica non l'aveva realizzato: toccava a noi compiere quest'opera, utilizzando gli strumenti analitici che il razionalismo ci aveva offerto. Potevamo farlo perché ce n'erano i presupposti proprio in ragione delle assiomatiche del razionalismo, confortate dallo storicismo romantico, in base alle quali gli eventi, le istituzioni, i movimenti e i processi storici della modernità richiedevano e, in parte, spontaneamente producevano il dominio organico della ragione sul mondo e l'isomorfo organico (complessivo) intervento sul mondo.
Continuando a scrivere ovviamente solo per me, annoto che fu un'ubriacatura adolescenziale non priva, però, di numerosi pregi.
L'impianto razionalistico permise di accettare, con una certa naturalezza, la critica alla neutralità della scienza e all'idea stessa di scientifico in quanto si presentavano solo come prodotti della ragione umana mai inconfutabili; quest'atteggiamento critico si estendeva rapidamente anche allo storicismo e a Marx economista, verso i quali i debiti iniziali furono notevoli. Marx, però, con il suo vissuto (con la sua opera che era inseparabile dal suo vissuto, dall'epoca nella quale era stata scritta) rappresentava il culmine dell'ambito finalistico del pensiero e della teleologia, l'incarnazione della necessità di 'saltare il fosso' dello storicismo. Questo 'salto del fosso', però, non era per niente l'effetto di una decisione, di un atto di volontà libero e autonomo, e andava, invece, inquadrato in un'ulteriore necessità razionale e storica.
Il finalismo, pur conservandosi, perdeva il suo ordine, la sua simmetria rispetto all'evoluzione del pensiero e della coscienza e si edificava un divario, un distacco, come quello che Aristotele aveva descritto tra potenza e atto. Il pensiero, in quest'ottica, era la potenza che, pur nata dall'atto, desiderava produrne un altro ancora più adeguato rispetto all'ordine finalistico e quindi interveniva in quello, modificandolo.
La lineare e meccanica relazione tra cose e pensiero veniva meno, ma, contemporaneamente, se il pensiero diveniva autonomo dalla realtà delle cose, autonomo non nella genesi ma nella sua evoluzione, poteva allora scoprire una nuova indagine sulla realtà, un nuovo modo di analizzarla. Dopo la scienza anche la realtà perdeva la sua neutralità e oggettività. Si trattava, allora, di tornare all'illuminismo con vesti nuove, sabotandolo: tornare al ragionamento della mente su sé stessa con lo spirito di un razionalismo disincantato.
Il secondo pregio di questa ubriacatura intellettuale fu, infatti, l'immediato rifiuto dell'illuminismo in quanto movimento, che non pretendendo di spiegare il mondo, in verità, lo lasciava indisturbato e 'inventava' un nuovo mondo, limitato e compatibile con la mente che ragiona su sé stessa, ignorando bellamente l' <<altro mondo>>.
L'illuminismo, criticando la metafisica, istituiva un precisato repertorio per la conoscenza, piantava pali, steccati e limiti, secondo il discrimine di quello che era intellettualmente indagabile. La critica all'illuminismo si esercitava non tanto contro la necessità di usare un discrimine ma contro questo discrimine; per riprendere Voltaire, criticamente, chi e che cosa istituisce il 'tribunale della ragione', quali leggi dovrà applicare questo tribunale e, soprattutto, come si definisce l'imputato, vale a dire la ragione?
Innalzando nuovamente le bandiere del razionalismo seicentesco e soprattutto riprendendo il pensiero di Spinoza (che è veramente l'unico autore in quello capace di tener testa all'illuminismo), era necessario stabilire una nuova relazione tra cose e ragione e porre la ragione a cosa, a una cosa tra tutte le altre cose. Questa cosa ha, però, la capacità di definire sé stessa come cosa tra le cose e il discrimine che deve usare rispetto a sé stessa non deve essere determinato aprioristicamente e fissato una volta per tutte ma dev'essere un limite mobile, provvisorio, e come tale non un limite, ma qualcosa di simile a un orizzonte che si sposta a seconda di come lo sguardo lo inquadra. Di qui il successivo fascino della scoperta dello specifico nel lavoro intellettuale, non come 'specializzazione' scientifica del sapere, ma come strumento per definire un terreno del sapere, costituire il tribunale della ragione e il suo imputato secondo termini cangianti: una specie di nuovo illuminismo o neo – illuminismo.
Nonostante la distanza abissale, quasi antipodica, ho sempre pensato che Nietzsche sia stato un prodotto molto diretto dell'illuminismo e il primo 'neo – illuminista' (prima di Foucault, Deleuze, Guattari, Baudrillard, Barthes ma anche Bloch, Duby; quello che io chiamo neo – illuminismo è un movimento trasversale costituito da elementi non una categoria compiuta); il criticismo nietzschiano è votato a enucleare un preciso campo del sapere, inteso come complesso di cose e ragione; Nietzsche rende la gnoseologia il suo imputato e quindi il sapere sull'informazione e il sapere come complesso di informazioni, fino al punto di individuare come oggetto del suo tribunale particolare la ragione come complesso di elaborazioni sulle cose, come complesso di dati, e di ridurre le cose a dati e a interpretazioni e non a cose in quanto tali, elementi 'scientifici'.
La specificità della scienza è la generalità della ragione in Nietzsche, generalità letta in chiave ovviamente critica. Pulito da molta visionarietà, ma anche interpretato attraverso quella, e da molti debiti e fascinazioni verso il misticismo orientale (anche se spesso messo con straordinaria efficacia in competizione e relazione gnoseologica con l'impianto del pensiero scientifico) Nietzsche è un filosofo della scienza che diventa, proprio grazie all'orizzonte critico che si è dato, filosofia della morale, estetica ed etica: il limite è mobile e l'illuminismo è sepolto, ridicolizzato e sabotato.
L'orizzonte (giacché siamo in metafora visiva restiamoci) del razionalismo scolastico rinnovato rimane legato alla conoscenza e all'uomo, come possibile fonte di felicità per quello, operatività, azione e trasformazione della realtà; l'orizzonte dell'illuminismo è invece quello della definizione di un schema umano che, in quanto schema gnoseologico, è indirizzato unicamente a registrare la realtà, producendo pensiero scientifico, scienza economica, descrizione passiva (scambiata per oggettiva) della realtà e brevi riforme (di breve respiro) della realtà. L'illuminismo non esercita un'interrogazione generale sulla realtà, quindi sull'umano e quindi sulla conoscenza.

Infine torniamo al 'pensiero rivoluzionario e Spinoza', tema iniziale. Lo ribadisco, per me fu naturale questa relazione anche se la estesi, arbitrariamente, a tutto il 'movimento razionalista seicentesco' e a parte del pensiero filosofico classico. La coalescenza tra ontologia e gnoseologia è ancor oggi per me fondante ogni sistema di pensiero che pretenda di governare il mondo, con la consapevolezza aggiuntiva che si sta esprimendo un 'governo', cioè un'azione autoritaria sulle cose, abbandonando l'ipocrisia illuminista del governo come naturale prodotto della comprensione autentica. La convinzione negli illuministi (e può essere solo tale) di aver compreso la realtà, dopo avere ridotto e delimitato il campo di analisi, è la proposizione della metafisica su scala ridotta, in versione miniaturizzata.
La certezza rivoluzionaria della necessità di governare il mondo, di dare a quello una spiegazione, che non pretende comprensione autentica, nasce e deve nascere da specifici saperi; questi specifici saperi si devono ricomporre. Senza usare storicismi intorno alla composizione di classe e allo sviluppo del capitalismo (che pure sarebbero adeguati) ritengo che il pensiero rivoluzionario deve e ha dovuto ricomporre i diversi saperi (il grado di facilità di questa ricomposizione dipende certamente da fattori storici e la ricomposizione stessa è un fatto storico) con una certa dose di volontarismo, con una scelta, una decisione personale, una decisione singolare (per usare un bel aggettivo di Negri in Impero).
Nessuno ha evidentemente in mano la sua vita e nessuno ha completa indipendenza intellettuale, ma ricordiamoci del divario tra potenza e atto, divario che si ubica sul terreno del possibile (non dell'utopia) e non su quello della assoluta libertà (che sarebbe il campo dell'impossibile); ognuno può decidere che un particolare segmento di sé  si svolga in maniera consapevolmente determinata, quasi che (e sottolineo il 'quasi che') non avesse padri, eredità, momenti precedenti. Indipendenza e libertà sono parole vuote, ma quando si riconosce questo e che è necessaria un'azione di forza, un''azione di 'governo', per comprendere la realtà, senza pretendere di comprenderla, allora si lascia da parte la mitologia dell'indipendenza e della libertà per arrivare vicini proprio all'indipendenza e alla libertà, acquisendo il coraggio e anche la felicità di costruire la verità (la famosa massima della verità come lingua dagli infiniti accenti).
Facilmente questa visione può essere etichettata sofistica. La sofistica ha avuto i suoi meriti e la sua verità; tra i suoi meriti quello di essersi opposta al pensiero socratico e anche quello di aver avanzato il problema della verità non in maniera astratta ma in coerenza con la realtà storica e politica di Atene, quindi di avere difeso la tradizionale concezione della verità come risultato del dibattito, dello scontro e della dialettica, intesa quest'ultima, come sistema di relazione aperto. La levatrice di Socrate è un sistema chiuso: ha già uno scopo la nascita e un obiettivo il bambino. La maieutica socratica è una teleologia, un fine, non è una via. La verità in Socrate è già data, ancora prima di essere indagata, nonostante Socrate nasconda questo dato in tutti i modi lui conosciuti e a ragione perché si trattava di un dato scandaloso: la mentalità ateniese, infatti, era del tutto estranea a un'idea di verità che si trovasse al di fuori della ragione, come obiettivo mistificato di un ragionamento apparente, che è lo scopo nascosto di Socrate. Secondo l'accezione negativa che il termine ha assunto, il vero sofista fu Socrate e non casualmente fu spesso scambiato per un sofista estremo. Effettivamente Socrate fu un tipo nuovo di sofista, fu un sofista che stabiliva la verità ma si rifiutava di dirsene produttore.
La verità è, al contrario, un prodotto, spesso ottenuto al di fuori dei libri, è un prodotto collettivo, perché risultato di un complesso di sistemi.
La verità è quella cosa che riesce a spiegare in un determinato tempo e spazio quello stesso tempo e spazio, lo definisce e, appunto, lo governa. Per farlo deve avere una relazione autentica con quegli spazi e tempi, sia quando li costruisce, sia quando li definisce. La verità ha qualcosa di divino: crea le cose e le idee. Sotto questo profilo la mia ipotesi sulla verità è un'ipotesi sofista.

Spinoza e la sua chimica dei sentimenti potrebbe essere chiamato in causa per spiegare uno dei concetti cardine della politica rivoluzionaria del secolo passato: la coscienza di classe. Coscienza di classe è stata un'idea precostituita, presupposta, ma mai interpretata, estrinsecata, almeno nelle letture che ho fatto. In generale il concetto potrebbe essere sinteticamente così riassunto: la coscienza di classe è e nasce dalla consapevolezza dei propri bisogni e dalla consapevolezza che questi bisogni hanno natura collettiva e sono comuni a quelli di altri uomini e, infine, che definiscono una comunità; questa comunità è caratterizzata da una medesima situazione di dipendenza sociale, dalla dipendenza per la sopravvivenza e per la riproduzione dal lavoro salariato. Questa, credo, la teoria classica intorno alla coscienza di classe. Secondo la visione comunista, la coscienza di classe si diffonde spontaneamente tra i soggetti sussunti al lavoro salariato, inducendoli all'organizzazione comunista, all'organizzazione politica che, però, oltrepassa la coscienza di classe inquadrandola in una dimensione più ampia in base alla quale questa non è più l'elemento decisivo dell'organizzazione.
Le trasformazioni nella composizione del proletariato e nelle forme del lavoro salariato dopo gli anni sessanta hanno messo a dura prova questa concezione lineare, di crescita e 'maturazione' graduale dall'individuale al collettivo per giungere al politico e infine all'ideologico.
Quel meccanismo di crescita e maturazione (questa enunciazione descrittiva della crescita e della maturazione) ha funzionato per quasi due secoli, bene nella prima fase del movimento comunista, molto meno bene durante l'esperienza dei partiti nazionali e nuovamente bene dopo la seconda guerra mondiale; dagli anni '70 parrebbe avere cessato di funzionare, o meglio di esistere proprio, sembrerebbe essersi dissolto.
Da allora la tendenza non è più quella di realizzare una collettivizzazione dei bisogni che risulta quasi impossibile ma quella che partendo da alcuni bisogni individuali e singolari può seguire due strade: la costituzione di una comunità relativa a questi, da dove la loro originalità e specificità viene ribadita e preservata, oppure l'affermazione di una prospettiva generale che sottintende i bisogni (che diventano un segnale, un simbolo, di un problema più generale e non il problema di fondo da risolvere). Nell'Italia degli anni '70 queste due tendenze si sono manifestate prematuramente in due fenomeni ravvicinati e imparentati: il movimento femminista e delle autoriduzioni del 1976 (per quanto riguarda l'affermazione della individualità dei bisogni) e il movimento del 1977 (per quanto riguarda la seconda strada, quella del sotto intendimento).
In entrambi i casi è venuto a mancare lo spazio, il terreno di coltura del movimento riformista e sindacale come pure quello dell'organizzazione rivoluzionaria. Da allora in poi le lotte sono state spesso dirompenti ma settorializzate, corporativizzate e si sono risolte in 'sé stesse', oppure hanno assunto un aspetto generale che ha usato un problema concreto, una tematica particolare (anti – nucleare, anti -imperialismo, ecologia, dominio monopolistico dei mass – media) per rappresentarne molte altre, costituendo quasi una simbologia dell'opposizione e dell'antagonismo; in entrambi i casi ci troviamo ben lontani dalla tradizionale, anche se generica e estremamente ambigua, idea di coscienza di classe. Per di più questa nuova fase è stata, a mio parere, superata, dopo il declino del movimento no – global, da un ulteriore momento, ancora più frammentato a scomposto, irriducibile a tematiche generiche, ma anche a qualsiasi immaginazione sul mondo, per quanto settorializzata. Questo, almeno negli ultimissimi dieci anni.

Domenica, 8 febbraio

Annotazione. Il termine stesso 'coscienza di classe' è quasi uscito dal vocabolario, ancora di più che 'lotta di classe'. Questo dipende dal fatto che il concetto – base di 'classe' ha perso diritto di cittadinanza (Negri stesso in Impero, usa raramente il termine) ma anche dal fatto che il concetto di 'coscienza' è sempre più divenuto inviso e guardato con cautela e sospetto (e va sottolineato con ragione) anche da chi non ha abbandonato il termine congiunto di classe.
Insomma 'coscienza di classe' è un anacronismo, un repertorio dell'archeologia delle idee (almeno questa è la mia sensazione che potrebbe ovviamente essere fallace) ed è certamente un concetto debole e svuotato: 'coscienza' rimanda a un'impostazione idealistica delle percezione della realtà secondo la quale il soggetto si separa dal suo oggetto, lo definisce come altro da sé e rifiuta la contaminazione con quello, mentre 'classe' si riduce a essere un concetto sociologico, storico, cristallizzato su una specifica fenomenologia sociale e produttiva.
Questo è uno dei moltissimi risultati del processo che, insieme con Negri e il suo Impero, si potrebbe definire il 'superamento della modernità'.
L'operaio professionalizzato e l'operaio dequalificato sono scomparsi ed erano stati loro a ricostituire il concetto di classe, come complesso di bisogni ed esigenze che si coordinavano intorno a un soggetto centrale e trainante, capace di dare a questo una fisionomia, una razionalità e un fine. L'idea di coscienza, portato dell'approccio romantico del XIX secolo, si è esaurita nel conflitto con altri termini (penso a immaginario, vissuto, consapevolezza, cultura e soggettività) ed è stata questa una sconfitta prevedibile perché il termine aveva perduto il significato originario di partecipazione a una conoscenza comune (cum scire), acquisendo quello, insopportabile, di alta consapevolezza, conoscenza scientifica di un oggetto e sapere vero su quell'oggetto.
I due termini, la contemporanea crisi di entrambi lo prova, vivono della stessa luce, o meglio hanno vissuto o ancora meglio sono stati collocati nella stessa luce, e si sono presentati come inscindibili, in quanto a una determinata classe (composizione di classe e tipologia operaia) corrispondeva una determinata coscienza. Era un legame legittimo anche se, manipolato (ed era facilmente manipolabile), ha prodotto molti orrori intellettuali e politici. Fino a quando, infatti, il collegamento rimaneva vincolato alla materialità delle lotte e degli antagonismi funzionava e bene, ma quando (solitamente l'operazione fu ideata, amministrata e confezionata dai grandi partiti riformisti o stalinisti e da quasi tutte le centrali sindacali dei due secoli che precedono questo ma ha anche affascinato qualche gruppo o frazione rivoluzionari della stessa epoca) si allontanava da quelle, il legame diveniva quasi unidirezionale e il polo della coscienza subordinava quello della classe, assumendo l'aspetto di una rappresentazione della classe e non l'originaria struttura di una percezione collettiva e costitutiva. Molto giustamente, tra gli anni sessanta e settanta del novecento, si è sviluppata una sorta di critica operaia all'idea di coscienza di classe, critica non scritta ma praticata attraverso l'ovvia contestazione dei vertici sindacali e delle direzioni dei partiti storici della classe operaia e attraverso la molto meno ovvia critica al ruolo degli intellettuali nella società e nella militanza politica professionale di ispirazione terzo – internazionalista che allora era sinonimo di militanza comunista.
In verità il primo artefice della crisi del concetto di coscienza di classe fu proprio la spontaneità operaia e proletaria (poiché la classe seppe ricomporsi in quella) degli anni sessanta e settanta e il trapasso dal moderno al post – moderno non fece che sussumere e riassumere in una nuova ideologia sulla classe e la coscienza questa contestazione. L'ideologia del capitale usò la critica operaia anche per rivedere il concetto di classe, fortissima questa tendenza nel neo – liberismo che fa spesso riferimento indiretto a questa 'libertà' e ostilità operaia verso le strutture di partito e apparati sindacali.
Non bisogna, comunque, avere nostalgie (anche se, qualche volta la nostalgia può essere utile) e quindi non è il caso di rimpiangere coscienza e classe ma, riprendendo il filo della memoria, individuare il vuoto (apparente o reale) che la loro scomparsa ha lasciato. Questo insegnerebbe molte cose.
A mio parere esiste un vuoto oggettivo nel senso che la scomparsa dei due concetti ha registrato il venir meno di alcune cose, non tanto dell'operaio di fabbrica in occidente, quanto della capacità ricompositiva che quel soggetto possedeva e che si dava anche in termini di 'coscienza' e di 'classe'. Il concetto di classe, nella migliore tradizione comunista, non è un concetto sociologico ma politico: la classe non esiste fino a quando non si riconosce come tale, non si 'predica' come tale e non agisce come tale. Alla base del concetto non sono determinate condizioni di lavoro e rapporti contrattuali che rappresentano solo gli elementi oggettivi del concetto, ma la consapevolezza che la condivisione di quelle condizioni di lavoro e rapporti contrattuali produce comunità, individuazione e separazione dal resto della società e del popolo, quindi produce soggettività, la soggettività del concetto.
Nel marxismo la soggettività è oggettività e il concetto di classe è stato, conseguentemente e giustamente, tanto soggettivo quanto oggettivo. Se oggi, scendendo nel concreto, analizziamo i comportamenti della classe operaia dell'occidente, quella che è impiegata nella fabbrica residuale, ci accorgiamo che sono tutti fondati e non possono andare oltre la difesa della propria esistenza residuale, dell'occupazione e del posto di lavoro; l'elemento oggettivo di un eventuale e proiettato concetto di classe di questo strato operaio sarebbe quello della conservazione del lavoro salariato, della sua difesa e la soggettività del concetto si ridurrebbe al diritto al lavoro salariato, spesso di un salario a qualsiasi condizione (pensiamo al caso FIAT di Melfi). Nulla di deprecabile, è un segno dei tempi, ma è assolutamente impensabile costruire un concetto di classe su una soggettività che non riesce a uscire dai cancelli di una fabbrica che chiude o che continua a voler chiudere. Se la lotta vince e si evita il licenziamento, la lotta è finita e si è evitato il licenziamento, la soggettività si fermerà, e si è fermata, qui. Non si può neanche scrivere che, rispetto al passato, il meccanismo della creazione di soggettività di classe tra gli operai si è inceppato, ma è più coraggioso scrivere che questo meccanismo non esiste più.
Prendo un altro esempio, uno dei pochi esempi che posso annotare dopo anni di rifiuto della cronaca e dell'informazione politica, il movimento delle donne di Cornigliano del 1989 o quello di Taranto in sostegno dell'iniziativa dei giudici dell'anno passato. In entrambi i casi, tanto a Genova quanto in Puglia, i quartieri popolari vicini alle acciaierie protestarono contro l'inquinamento provocato dalle lavorazioni siderurgiche a caldo ed entrambi i movimenti, rivendicando una migliore qualità della vita e una riqualificazione del territorio e dello spazio per essa, stabilirono una priorità di valori: la difesa del lavoro salariato (l'operaio delle acciaierie) viene dopo la qualità della vita nel quartiere. Esigenze tipicamente 'proletarie', intendendo per quelle i bisogni che investono la vita, il tempo libero e la tutela della salute si anteponevano al bisogno della classe operaia residuale e addirittura si contrapponevano, anche perché l'imprenditore ha cercato in entrambi i casi di ricavare il massimo profitto politico dalla vicenda. Eppure, nonostante l'embrionale e notevole proposizione di una 'scala di valori etici' nei confronti del lavoro salariato, entrambi gli episodi si sono ridotti a essere un momento di mobilitazione incapace di andare oltre sé stesso, una specie di corporativismo ecologista nel quale la difesa della salute sostituiva la difesa del lavoro salariato operaio, provocando spesso tensione con gli operai occupati nello stabilimento siderurgico. Anche qui il meccanismo si è fermato: le agitazioni sono rimaste limitate territorialmente e non hanno focalizzato una problematica generale sui rapporti tra territorio e lavoro. Il meccanismo si è fermato anche se esisteva la possibilità di rimetterlo in moto, di costituire una 'coscienza', una generalizzazione e una comunità corrispondente; in questo particolare caso il meccanismo c'è ancora e potrebbe funzionare ma è molto difficile rimetterlo in produzione.
Sono stati molti i casi simili a questi di Genova e Taranto in Europa. Soprattutto la Germania degli anni ottanta ha vissuto un notevole ciclo di lotte 'proletarie' svolte sulla tematica della vivibilità del territorio, del suo controllo democratico, producendo a tratti elementi di coscienza, di soggettività spesso molto radicati localmente; ma anche qui, questa soggettività, che spesso prendeva con sé in forma chiara il rifiuto del lavoro salariato, non si è sedimentata e non è uscita da sé stessa, non ha ricostituito l'immagine della classe e la sua 'coscienza'. Eppure in questa seconda tipologia di movimenti, quelli 'proletari' sul territorio, possiamo individuare un processo formativo e strutturante che non viene condiviso da quelli operai, che, non casualmente, ha lasciato un più o meno forte segno di sé a livello istituzionale ed elettorale in Germania con la formazione della forza politica e parlamentare dei Verdi, e anche in Italia, dove il movimento antinucleare ha certamente ottenuto un successo ideologico e simbolico notevole, che si è realizzato, complice l'effetto Cernobyl, complice ma non protagonista, nel plebiscito referendario di fine anni '80.
Importante è notare che, proprio in un discorso sulla coscienza di classe e la sua eventuale attualità, l'emergere di soggettività operaie cristallizzate sul diritto alla conservazione del posto di lavoro e soggettività sedimentate intorno al controllo diretto e democratico del territorio ha prodotto paradigmi soggettivi 'liberi', per alcuni versi orfani di una prospettiva precisata, di un progetto generale, di un telos, il che è un bene perché ci troviamo di fronte a una soggettività multipotente in quanto libera ma è anche un rischio in ragione del fatto che la nuova destra sta cercando di combinarsi con questi enzimi. La nuova destra ha costruito una sua edizione della 'coscienza di classe'; non sono del tutto politicamente insensati e ottengono un certo credito di massa, ambiguo e contraddittorio, gli appelli al valore del lavoro operaio 'nazionale', distrutto dalle multinazionali e dalla internazionalizzazione del mercato delle merci e del mercato del lavoro, ma anche alla difesa del territorio, secondo un'ideologia che lo riduce a museo proprio e privato della comunità alla quale appartiene. Dove esistono delle contraddizioni reali possono crescere dei movimenti reali ma nulla vieta che si diano movimenti (coscienze) apparenti.
Il movimento di occupazione degli appartamenti che ormai è divenuto endemico in Europa, almeno dagli anni sessanta del secolo scorso, rappresenta un terzo genere di manifestazioni della 'classe' e della sua coscienza.
Anticipo che conosco pochissimo il fenomeno anche perché (e questo è un dato interessante) ignorato il più possibile dai media che sono la mia unica fonte di informazione attuale. Si tratta di occupazioni passive (inquilini che resistono allo sfratto) e attive, gente che si appropria di alloggi sfitti; il fenomeno riguarda le aree metropolitane più grandi (Roma e anche Milano). Al contrario di quanto comunemente si pensi, protagonisti di questi episodi sono senza – casa indigeni, il più delle volte accompagnati da homeless migranti e quasi mai solo emigrati. È la vecchia lotta per la casa e per il reddito sul quale i costi dell'abitazione non devono pesare. Il meccanismo, in questo caso, della creazione di una soggettività generalizzata, se non di una tradizionale 'coscienza', pare funzionare ancora, almeno in parte e per quanto possa conoscerlo: l'occupazione o la resistenza allo sfratto mettono in discussione il diritto di proprietà, pongono a quello dei limiti sociali, limiti di utilità sociale. Un'occupazione di case è molto di più dell'occupazione di una fabbrica in chiusura, perché una fabbrica che chiude ha perso 'virtualmente' il suo proprietario, mentre nel caso delle abitazioni è l'occupazione di uno spazio vivo, di un luogo economico (più spesso di rinvestimenti finanziari) e di un luogo di vita che spesso, per logica di cose ma anche per scelta spontanea, diviene posto nel quale si esercita solidarietà, collaborazione e condivisione di risorse ed esperienze. Nella fabbrica occupata contro i licenziamenti questo non avviene, si rimane ancorati, infatti, alla tradizionale esperienza lavorativa e alle relazioni stabilite in essa e accade solo in minima misura nelle lotte sul territorio (per come si sono fino ad adesso realizzate e per quanto ne sono informato).
Adesso pensiamo a questo e questo potrebbe essere una metafora e il paradigma della costituzione di una coscienza e di una classe, di un nuovo legame tra i due termini che li rende anche diversi. Pensiamo, quindi, a una fabbrica che chiude e licenzia gli operai, pensiamo alla sua occupazione ma non in funzione, o non solo in funzione, della prosecuzione della produzione e del rapporto di lavoro salariato: gli operai licenziati prendono possesso degli spazi, come spazi, come luogo, come geografia futura e non passata, aprendoli al quartiere e dando possibilità di alloggio ai senza casa. È certamente una metafora, ma potrebbe non esserlo e il mondo che viene potrebbe non essere affatto solo metaforico.

Lettura (sbirciata). La grammatica della Moltitudine. Ho dato una sbirciatina ad alcune pagine relative alla prima giornata seminariale, al general intellect e al concetto di Moltitudine, come al solito illuminante; di Virno ho letto poco (articoli su Metropoli) e un saggio sui sentimenti del moderno (I sentimenti dell'al di qua) del quale ricordo a malapena il titolo ma mi ha sempre impressionato per la lucidità e la chiarezza. Rimpiango di essermi tagliato fuori per quasi quindici anni dal mondo della riflessione politica. Consideriamoli quindi anni sabbatici.

Martedì, 10 febbraio

Ai margini. Grammatica e Impero. Virno sottolinea il fatto che il concetto di moltitudine non sostituisce quello di proletariato. Moltitudine è il nuovo scenario nel quale si costituisce l'antagonismo e dunque la classe; gli orizzonti del proletariato, quando si definisce in relazione allo spazio (e forse anche al tempo storico) non sono più quelli tracciati dai confini nazionali e linguistici (in altre opere simili a questa si sarebbe scritto 'all'idea di appartenenza') e questo processo non si limita a oltrepassarli, costruendo una transnazionalità (aggiungo io) ma ad ignorali, destituendoli di ogni fondamento e credibilità.

[Piero, io, due israeliani, un ostello di Oslo e il 1978]. In forma prosaica e in modo non completamente coerente con l'argomento, la lettura delle esplicitazioni di Virno intorno al concetto di Moltitudine ha sollecitato la memoria di un fatto. Vacanze in Scandinavia, estate del '78 e provvisoria coabitazione in camera di ostello con due israeliani, Piero e io entrambi diciottenni; il primo legato molto flebilmente alla tradizione della sinistra storica, io più o meno militante della 'nuova sinistra'. Intraprendemmo qualche discorso con i nostri coinquilini, i soliti scambi di facciata e cortesia nei quali, non so come, si presentò il tema della leva obbligatoria e qui venne fuori una visione delle cose opposta. I giovani israeliani non vedevano l'ora di servire nell'esercito e di affrontare una ferma lunghissima (tre anni se non erro), noi inorridivamo solo di fronte ai nostri dodici mesi; i nostri interlocutori non amavano la naia in quanto naia, precisamente come noi non la detestavamo in quanto tale, ma mentre per noi era un obbligo ormai privo di significato, che faceva riferimento a frontiere e confini (una faccenda in decadenza) e dunque si rivelava come un'attività inutile, per gli israeliani era quello il motivo di tanto orgoglio: era il fatto di appartenere a un popolo e a una nazione da difendere.
Ancora più chiaro, alla luce di quanto scriveva Virno sulla Moltitudine, è adesso il fatto che io, non troppo paradossalmente a questo punto, avendo in mente l'idea di classe operaia e proletariato all'interno del popolo, come elemento sicuramente ben differenziato in quello ma pur sempre 'proletariato nazionale', considerai che un tale orgoglio di 'servire la patria', seppur censurabile, era quanto meno etico, al contrario il mio amico, assolutamente libero e innocente da stretti sociologismi di classe, lo riteneva semplicemente patetico, idiota e posto fuori da ogni modernità.
Il mio caro amico 'riformista' percepiva molto meglio di me quella novità incipiente, proprio per il fatto che due concetti che io ero abituato a coniugare con popolo (classe operaia e proletariato) gli erano del tutto estranei. Non è affatto paradossale, invece, che gradatamente, con molta fatica, soprattutto usando riferimenti alla tradizione internazionalista propria del pensiero comunista, io abbia metabolizzato il declino del concetto di popolo e di stato – nazione lungo tutti questi decenni, mentre il mio amico, proprio perché consapevole in forma bruciante  e forse prematura di questa insorgenza, abbia recuperato la 'necessità' di ricostituire un'appartenenza etnico – linguistica che, comunque, non si identificava con il popolo dello stato – nazione tradizionale.
Virno ha in mano quello che io chiamo 'lo scettro del re nella scrittura': impone e comanda dalle sue righe dapprima evocazioni, poi riflessioni e infine ulteriori narrazioni, soprattutto il paragrafo 'Del virtuosismo: da Aristotele a Glen Gould' è una vera sorgente di riflessioni; può darsi che qualcuna di quelle cadrà su questo diario, magari in forma mascherata o addirittura inconsapevole.

Venerdì, 13 febbraio

Ai margini. Grammatica della Moltitudine. Dopo decenni Virno mi costringe a imbattermi nel concetto di lavoro improduttivo, quello cioè che non produce essere e non produce plusvalore, anche se, spesso, concorre a creare il profitto, definendo il quadro della riproduzione del capitale e della forza – lavoro. È un'idea questa che nel marxismo, per come l'ho masticato, è rappresentativa di una realtà marginale, ignorata e ininfluente: quello che conta, sia per il capitale quanto per il pensiero antagonista, è il lavoro produttivo. Come precisa Virno (con riferimenti ad Aristotele oltre che ovviamente a Marx), il lavoro produttivo si connota come creatore di un'opera determinata, quantificabile e visibile: un'automobile, un pezzo di ricambio, un disco, un libro o un prodotto cinematografico. Il tratto che unisce questi esseri così diversi è la riduzione a merce, la qualità, cioè,  di essere vendibile e di possedere un valore preciso, una precisa misura sul mercato. Tutto il lavoro vivo speso al di fuori di questo ambito può essere considerato improduttivo: il lavoro del cameriere, del riparatore a diverso titolo, quello del commesso, del negoziante, del commerciante, dell'infermiere, del trasportatore, del ferroviere, oppure l'attività del musicista (bellissima l'analisi del virtuosismo in proposito) e in genere le attività che si limitano a distribuire, mantenere e conservare l'essere (i prodotti) non partecipando alla sua creazione, oppure ancora tutte le attività che sono volte a rendere possibile la produzione attraverso il mantenimento e riproduzione della forza – lavoro necessaria (in generale compongono la categoria dell'improduttivo coloro che esercitano le libere professioni, avvocati, medici, le donne che partoriscono, le famiglie che crescono i figli e il concetto può essere tranquillamente esteso per comodità generalizzante ai lavoratori dei servizi pubblici e privati in genere).

Annotazione. Questa discriminazione tra lavoro produttivo e improduttivo ha tradizionalmente introdotto un'apologia del primo contro il secondo,  un'ideologia in base alla quale il lavoro produttivo aveva contenuti progressivi determinando la trasformazione e lo sviluppo storico e sociale mentre quello improduttivo era non solo elemento ininfluente e di contorno ma spesso assumeva un ruolo frenante e conservatore, regressivo addirittura. Il lavoro improduttivo era spesso  confuso e scambiato con l'antiproduttivo, con l'apparato parassitario che, vampirizzando le risorse del mondo della produzione, aveva permesso la costruzione e poi lo sviluppo dello stato. Aggiungendo elementi a questa categoria, ancora più dello stato, il mondo della finanza, delle rendite finanziarie e quello bancario erano l'antiproduttivo / improduttivo per eccellenza. Per molti aspetti questa visione delle cose è ancora attuale e adeguata.
È assolutamente impossibile, almeno per me, non assegnare al mondo della finanza, delle rendite e a quello bancario un ruolo improduttivo o addirittura antiproduttivo, come una buona parte della burocrazia degli stati deve subire questa assegnazione.
Qualcosa, però, non funziona più come alcuni decenni fa nel campo del lavoro produttivo, non tanto perché il suo concetto si è esteso o si è ristretto, non tanto perché le sue pertinenze sono aumentate o diminuite, ma perché è radicalmente cambiato il concetto di lavoro produttivo, ovverosia di produzione. Per comprendere, almeno per il punto di vista che ho in mente, l'idea di produttivo e improduttivo è necessario partire dall'idea di lavoro vivo e per lavoro vivo io intendo il tempo di lavoro che viene usato nell'intervento sulla produzione; per intervento sulla produzione intendo quell'attività che determina concretamente e direttamente la creazione del prodotto: caso tipico di quello è, in agricoltura, l'uso degli strumenti di lavoro antichi (zappe, vanghe, aratri, falci, falcetti etc. etc.) e moderni (trattori, cingolati, mezzi meccanici in genere) e nella produzione industriale l'uso dei macchinari e poi della robotica.
La relazione tra lavoro vivo umano e prodotto è, in entrambi i settori, cambiata in forme rivoluzionarie. Non sono un economista né tanto meno un esperto di nuove tecnologie industriali e agricole, ma direi che la natura di questa trasformazione rivoluzionaria è di avere eliminato quasi del tutto l'importanza del lavoro vivo nella determinazione del prodotto; l'intervento del lavoro vivo NON è più giocato nel ciclo produttivo, l'operaio industriale e agricolo non interviene più direttamente sulla produzione e sulla creazione del prodotto, non è più né un aiutante, né un collaboratore, né un'appendice del macchinario, come durante il taylorismo, ma ha acquisito un ruolo completamente diverso: controllare il lavoro della macchina, seguirlo e, solo in determinati passaggi critici, intervenire direttamente nel ciclo. Nella grande fabbrica, come anche nelle grandi aziende agricole, almeno nei paesi capitalisti sviluppati o egemoni, il lavoro vivo non fa più parte della produzione, non entra nel prodotto. Sto, ovviamente, pensando a realtà produttive come la FIAT, la FORD e in generale la grande industria metalmeccanica europea ed americana, come alle grandi aziende agricole di queste aree. In agricoltura, inoltre, le tecniche utilizzate puntano non solo a rendere la produzione indipendente dal lavoro vivo umano ma anche dai cicli stagionali, dalle contingenze meteorologiche, in una parola dall'esistenza della natura, come se la fabbrica di Ford e il suo capannone si fossero trasferiti nella campagna, trasformandola in un diverso da sé stessa, non più parte della natura ma appendice della produzione astratta. In questo segmento particolare della produzione agricola non solo il lavoro vivo umano non è più produttivo ma persino la natura, che ancora nel secolo scorso, almeno fino agli anni trenta e quaranta di quello (quindi ancora nel 'vecchio neolitico' e prima della fuori uscita da quello), era il produttivo per eccellenza, a causa della sua ciclicità e mutevolezza è entrato a far parte dell'improduttivo, come elemento di disturbo alla moderna produzione di valore.
Nella fabbrica post – fordista e nella campagna – fabbrica, il lavoro vivo umano non è più produttivo, ma fa parte della rete di controllo e supervisione ed è quindi anti – produttivo, mentre di autenticamente produttivo rimangono il lavoro meccanico e il lavoro delle macchine.
L'espulsione e conseguente svalorizzazione del lavoro vivo umano dalla grande fabbrica ha avuto un ruolo strategico e ha generato un paradigma, diffondendosi ben oltre i recinti delle fabbriche post – fordiste e delle fattorie tayloriste. Non è questa una novità degli ultimi anni, già nella seconda metà degli anni settanta del '900, se non ricordo male, furono ideati cicli produttivi di fabbrica nei quali il lavoro vivo non aveva più funzioni operative. È decisivo però il fatto che questa emarginazione del lavoro vivo umano stia funzionando da matrice per le relazioni di lavoro in generale, fino al punto da far dimenticare la causa efficiente di questa matrice: l'abolizione dalla componente produttiva del lavoro umano nella fabbrica post – fordista.
Oggi l'operaio di fabbrica è un lavoratore improduttivo, il protagonista della ribellione degli anni '60 e '70 è diventato un soggetto che non produce più anche se lavora, per la conoscenza empirica che ne ho, molto di più; il suo, però, è un lavoro che non serve più direttamente alla produzione. La critica alla produzione esercitata dal cuore vivo della produzione capitalista è morto e il suo cadavere va considerato un soggetto improduttivo, precisamente come nei canoni dell'economia classica lo era un barbiere.
Mi paiono oneste banalità quelle che fin qui ho scritto in proposito; si vedono nelle cose, con chiarezza, senza neppure avere bisogno di illuminarle. La giornata sta per finire e dal momento che non è affatto sicuro che io possa andare avanti in questo ragionamento, mi appunto un'anticipazione sulle sue conclusioni che sono sostanzialmente due: non esiste più un soggetto sociale trainante nella produzione di plusvalore e non esiste più una classe produttiva nel senso marxista e classico del termine (tutto questo dal lato del lavoro)  come, ma non sono un economista, non esiste più il plusvalore, inteso come fatto economico calcolato complessivamente e su base generale e astratta e, nel capitalismo mondiale integrato o nell'Impero di Negri, i costi generali per la conservazione del sistema economico e per garantirne lo sviluppo superano di gran lunga i guadagni (pensiamo ai rapporti PIL e debito pubblico negli stati capitalisti avanzati ed egemoni), vale a dire che il capitalismo ha perso le sue ragioni, ha perso il suo senso ed è in contraddizione con sé stesso e dall'interno di sé stesso (questo è il lato analitico sul capitale). Quando scrivo 'dall'interno di sé stesso' non intendo l'interno che Negri immagina nel suo Impero come risultato dell'impossibilità dell'essere al di fuori del capitalismo nel mondo globalizzato, ma intendo l'interno 'intimo', l'intimità del capitalismo, l'interno economico, il mondo del valore e del profitto che non esiste più. Il capitalismo ha perso, quindi, senso anche davanti a sé stesso ma è la forma di dominio del mondo; il capitalismo non è più un sistema economico e sociale in senso stretto ma una serie di rapporti sociali,  una forma di dominio plurisecolare, e i suoi scopi sociali ed economici sono diventati contingenze, accidenti per la sua evoluzione. L'essenza attuale del capitalismo è quella di essere un dominio strutturato socialmente ed economicamente ma non più un coordinamento di scopi sociali ed economici.
Mi piacerebbe arrivare a queste due conclusioni attraverso un ragionamento sulla metamorfosi del lavoro produttivo, sui servizi pubblici e privati e sulle reti telematiche nei paesi capitalistici tradizionali ed egemoni, sulla resistenza del lavoro vivo nella produzione in aree emergenti (mi piacerebbe dirle periferia del capitale e che così fossero chiamate) e in genere fotografando anche la dispersione estrema dei soggetti, delle relazioni di capitale, dei rapporti di lavoro, delle forme di lavoro e delle diverse gradienze negli equilibri tra lavoro vivo e lavoro macchinico, la taylorizzazione dei servizi, dell'agricoltura e della logistica per arrivare a scoprire, in parte con Negri e la sua Moltitudine e in parte contro Negri e la sua Moltitudine, non solo che non esiste un soggetto trainante ma che probabilmente la scomposizione e segmentazione dei soggetti sono costitutive e ontologiche fino al punto che appare privo di senso far riferimento all'idea di soggetto. Infine individuare, dentro l'acclarata e riconosciuta disgregazione (disfacimento del gregge letteralmente) un elemento positivo e un tratto unitario, appunto.
Può darsi che ce la farò, può darsi.

Sabato, 14 febbraio
 
Letture. Essere figli: racconti di vita vissuta e di crescita / Laura Musso. - Chieri : Gaidano & Mattia, stampa 2011. Un libro gentilmente proposto dalla servitrice del CAT, del quale non ho mai scritto ma che frequento volentieri. Non sono queste le letture che preferisco (che hanno in oggetto un argomento specifico e non escono da quello, monotematiche) ma lo spaccato di vita che le interviste a figli di ex alcolisti che l'opera contiene è sufficientemente ampio per attrarre la mia curiosità e interesse; in genere il testo assomiglia al club: descrive piuttosto che la relazione con l'alcol, l'umanità di fronte a John Barleycorn e i suoi effetti e non scrive di alcolismo in senso stretto, clinico. Sotto questo aspetto, per di più, gran parte delle testimonianze registrano l'affermazione della teoria Basaglia, la chiusura dei manicomi (dove spesso finivano gli alcolisti che associavano a questo problema anche disturbi nel comportamento). I club, nati nell'Europa dell'est, nell'oltre cortina, si sono diffusi, con perfetta gradualità geografica, in Italia dal Friuli, importati dalla Slovenia dall'energico dottor Hudolin, la cui personalità si presenta incombente e massiccia in  una delle testimonianze e hanno trovato nei reparti psichiatrici abbandonati un primo insediamento. L'idea del coinvolgimento  di tutta la famiglia dell'alcolista era perentoria in Hudolin, per lui tutta la famiglia significava tutta la parentela, tutto il lignaggio in ogni sua linea e ramo, se no, secondo Hudolin, il problema rimaneva. Così il club diveniva un processo di ricostruzione sociale, un fatto, come lo nominava Hudolin, biosociale perché l'alcolismo è un problema che coinvolge la vita nelle sue relazioni con la sfera della socialità.
“Un bambino non è stupido” argomenta uno dei testimoni, mi pare Luca, perché si accorge di un problema anche se non sa qual è il problema, ne ha sensazione, ma non percezione precisa ed è fondamentale rivelarglielo, eliminare il velo delle relazioni familiari che coprono l'uso sistematico di alcolici, altrimenti cercherà da solo una spiegazione del problema, cercandola o credendo di trovarla in sé. Beh, ringraziando il signore, credo che questo sia stato fatto nel mio caso, quasi spontaneamente. Un bambino non è affatto uno stupido come non lo era Eleonora che quando sua madre riesce finalmente a smettere di bere  annota: “La mamma adesso sorride di più ed è molto più bella”. Il fatto decisivo per questa serie di interventi non è tanto la sospensione o l'abbandono dell'uso degli alcolici, quanto la presa di coscienza del problema, diretto nell'alcolista, collegato nel mondo che lo circonda e con il quale ha una relazione significativa.
Avere consapevolezza del problema è già avere smesso di bere, anche se spesso si smette di bere prima di avere piena consapevolezza del problema, ma la successione temporale, in questo caso, non c'entra nulla e la narrazione storica può correre al contrario (il prima divenire dopo e viceversa).
In verità va tutto analizzato come se fosse in contemporaneità, come un unico e solo processo di “guarigione” (migliaia di virgolette) collettiva: la “malattia” è collettiva e ha un unico processo.
Figli, nipoti, padri, amici, compagni di lavoro etc etc possono partecipare al processo perché ne fanno parte a pieno diritto e perché hanno fatto parte del problema. I bambini in tutto questo devono godere di particolare riguardo perché sono 'soggetti deboli'? Niente affatto: devono essere con onestà informati del problema del loro padre, madre, nonno, nonna, fratello, sorella e via discorrendo con chiarezza: il papà ha il mal di testa ed è nervoso esattamente come perché beve qualche bicchiere di troppo e spiegare che come è piacevole liberarsi dall'emicrania così sarà piacevole e utile per lui liberarsi del bicchiere.

Domenica, 15 febbraio

Annotazione. L'avanzata dell'ISIS in Libia impressiona il mondo politico italiano per la sua vicinanza, per il fatto che lo stato islamico è giunto ad appena trecento cinquanta chilometri dai confini nazionali.
Eloquentissima la minaccia del califfato di bombardare Roma, perché ridicolizza,  forse consapevolmente, la retorica dei confini e l'altrettanto retorica preoccupazione intorno a quelli; eloquentissima perché, come in photoshop, restringe, allunga, deforma e poi ricompone nel primitivo equilibrio l'immagine dei confini. Eloquentissime, ovviamente,  la retorica e la preoccupazione italiane mentre tutti si affannano a ricordare che non sono stati favorevoli alla pacificazione armata imposta alla Libia un paio di anni fa, fatto salvo il fatto che, nella verità storica, vi hanno partecipato e l'hanno appoggiata.
Per di più, ora che è stato aperto il rubinetto informativo e massmediatico dopo un silenzio costante e sistematico, l'afflusso delle notizie dalla Libia si è accompagnato con i fatti di Copenhagen, con il duplice omicidio, l'attentato al vignettista, l'attacco alla sinagoga e l'ormai scontata eliminazione fisica del vero o presunto responsabile. È sufficientemente ovvio ritenere che questa combinazione non sia affatto casualmente registrata dai media ma che vi sia una strategia enfatizzante.
Se fino a Saddam e alla prima guerra del golfo la logica che animava l'opposizione nazionalista araba all'imperialismo globalizzato era riassunta nella rivendicazione della sovranità nazionale e quando Saddam invase il Kuwait lo fece per questioni attinenti agli interessi della nazionalità irachena, dopo la seconda guerra del golfo, l'eliminazione di Saddam e l'occupazione dell'Afghanistan, l'opposizione è stata egemonizzata dal fascino del movimento religioso, dal movimento islamico, e ha imparato (ma forse sarebbe meglio scrivere che ha interiorizzato) la lezione impartita dall'ONU e dalle forze multinazionali: colpire oltre i confini, dietro le linee e vanificare i concetti stessi di confini e di linee.
ISIS in Libia, Charlie Hebdo in Francia, ora Copenhagen offrono piena testimonianza di questa nuova logica.

Annotazione. Non ho mai digerito e accettato il termine 'globalizzazione' e l'aggettivo globale in relazione alla politica internazionale e ai suoi assetti. Mi sono sempre apparsi come elementi di una fraseologia massmediatica non disprezzabile in quanto tale (cioè in quanto prodotto massmediatico) ma per il significato che si portavano dietro e che naturalmente poteva essere messo in produzione dai media: una terribile semplificazione dei termini del reale (paradigmatico il concetto di 'villaggio globale' che ho sempre considerato 'vuoto' e che non casualmente, al primo sorgere di contraddizioni nel nuovo assetto della 'globalità' e di contestazioni serie, negli anni novanta, è misteriosamente passato di moda presso i mass media). Globale e globalizzazione non possono essere strumenti di lavoro (almeno del mio lavoro, quindi certamente limitato) e non significano altro che un desiderio di semplificare. Mercato globale non ha senso; esprime un indifferenziato che non esiste: non dappertutto il mercato globale si presenta secondo gli stessi schemi, con le stesse informazioni, la medesima energia e lo stesso gradiente. Paradossalmente la società classica, l'impero romano, il regno dei regni sassanide, le confederazioni tribali germaniche facevano parte di una globalità molto più accentuata di quell'attuale e, per usare in veste nuova il termine tanto amato,  furono protagonisti della globalizzazione dell'era neolitica e dei metalli. Esemplare di questa (ed esempio che divenne riferimento per tutta la posterità politica e istituzionale, tanto di quella posta a destra del Reno quanto di quella posta alla sinistra, tanto per la sponda destra e per quella sinistra del Danubio e così anche per l'Eufrate e forse anche l'Indo) fu l'incredibile e mitologica, secondo le grammatiche dell'era, impresa e costruzione di Alessandro il macedone che unificò l'occidente e l'oriente e per quanto possibile diede il segno della possibilità di unire il mondo per l'eternità; per certi versi Alessandro fu un prodromo di Cristo nella misura in cui il cristianesimo è considerato come un fatto ecumenico, globalizzato e globalizzante.
Globalizzazione (come il globo che adornava lo scettro degli imperatori romani e ancora di quelli bizantini, l'orbis terrarum) è un concetto che più facilmente potrebbe essere familiare a Traiano che non a Obama, anche se Obama lo usa spesso mentre Traiano lo ignorava e questo perché  l'imperatore guidava un impero che non aveva bisogno di dirsi globale per il fatto che, essendo un impero (e non un regno qualsiasi) e il prodotto di una repubblica costitutivamente cosmopolita, era già per definizione globale.
Il fatto, invece, che il libero mercato non conosca più confini, non conosca altro da sé, non ne fanno un'istituzione globale, anzi forse tutto il contrario: il mercato capitalistico ma anche il dominio che lo accompagna, non avendo limiti e confini, hanno ricostituito, su basi nuove, limiti e confini, definendo limiti, aree, situazioni interne ma diversificate. La deterritorializzazione e la pulsione dell'indifferenziato, innegabili, non producono i loro effetti immediati e attesi ma riterritorializzazioni e nuove differenziazioni.

Mercoledì, 18 febbraio

Ai margini. Impero. Negri e Hardt usano un verbo latino, in forma da loro sostantivata, posse per esprimere la creatività, la capacità organizzativa e l'immaginazione della moltitudine. Per immaginazione non va intesa una categoria riflessiva ma attiva, una categoria progettuale perché la moltitudine costituisce il mondo, è, appunto, la potenza che lo trasforma continuamente.
È un'immaginazione magmatica ma che contiene un suo ordine, quello della collaborazione dei produttori. Trovo quest'immagine imprecisa perché, se da una parte afferma, marxianamente, che la produzione di plusvalore caratterizza l'importanza di questo soggetto, contemporaneamente non descrive a quale plusvalore si ancori l'esperienza produttiva di questi soggetti. L'immagine è vivace, profila una nuova forma di socialità, ma nello stesso tempo potrebbe essere disposta su molte epoche e trovarsi coerente con quelle. Si tratta, certamente, di una proiezione, di un'ipotesi con qualche fondamento ma a dimostrarla serve necessariamente l'esperienza concreta del 'proletariato nella moltitudine'. Negri e Hardt pubblicano in Italia nel 2002 e scrivono, questo lo deduco dalle note tipografiche e dalla bibliografia citata, prima del 2000, il 2000 è l'ante quem di gran parte della loro riflessione, prima, quindi, delle torri gemelle, della seconda guerra del golfo e dell'Afghanistan e certamente prima della grande e lunga depressione sorta nel 2008. L'esperienza concreta del proletariato nella moltitudine, ma anche della medesima moltitudine, dovrà ancora essere segnata da questi processi storici, direi profondi. L'opera, dal punto di vista delle definizioni storiografiche, potrebbe essere detta 'giovanile', sulla giovinezza della moltitudine.
In secondo luogo, nella moltitudine e nel suo concetto, non si è trasformato, in questi ultimi quindici anni, sensibilmente solo il modo di essere del proletariato ma anche del resto del 'corpo sociale', del 'ceto medio', che è costitutivamente e tradizionalmente il mondo improduttivo dentro le classi subalterne. Qui so di camminare su un terreno scivolosissimo, già l'utilizzo, che io stesso propongo, di 'ceto medio' o 'classe media' è vago perché si maneggiano concetti non circoscritti, i risultati di una rappresentazione che la società offre di sé, della sua composizione, quindi di un'ideologia.
Epperò questa rappresentazione ha un peso fisico, sposta la concentrazione, seppur apparente, tra le classi ed è stata capace di suscitare un consenso di massa verso le politiche neo – liberiste. Da una parte il 'ceto medio' ha sposato la critica rivolta contro lo stato assistenzialista e pianificatore, che caldeggiava e prefigurava la sua dissoluzione, la fine della sua forma nazionale a favore di una istituzionalità costruita per aree omogenee economicamente, socialmente ed etnicamente e a favore di una riscrittura, in funzione di questa costruzione, delle omogeneità culturali e qualche volte linguistiche (producendo anche una sorta di 'anarchismo di destra' del quale la Lega Nord in Italia, almeno quella dei primi passi, fino a Tangentopoli, è stata corifea). Dall'altra parte, quasi nel suo contrario, il 'ceto medio' ha, invece, appoggiato la critica rivolta contro l'Impero e la riscoperta delle potenzialità delle nazioni in un quadro di economie localmente assistite ma liberate dallo sperpero derivato da solidarismi verso soggetti estranei alle comunità nazionali e da vincoli internazionali  e umanitari. Questa è stata, ed è ancora, la 'nuova destra' che si è radicata soprattutto duranti gli anni della crisi del 2008, ma che già negli ultimi due decenni del secolo scorso ha dimostrato capacità di presa e inventiva intellettuale. In verità esistono moltissimi elementi di allineamento tra queste due tendenze contrapposte: in generale domina la tendenza a riscrivere e rivedere cultura e appartenenza per rispondere alla destrutturazione delle culture nazionali così come erano state ereditate dal primo novecento. La regione o la 'macroarea' della Lega Nord hanno la medesima natura della nazione riscoperta dalla destra 'tradizionale' (Forza Nuova, Fratelli d'Italia): non nutrono relazioni, se non apparenti e ideologicamente predisposte, con i concetti primigeni delle idee nazionali (nel caso italiano entrambi i fronti ignorano il risorgimento e i riferimenti a esso) ma sono  prodotti nuovi, contemporanei, e sottintendono una nuova idea di appartenenza. È talmente forte e naturale questa contaminazione tra le due destre nella ricostruzione del concetto di nazione e di etnicità, al riparo (apparente e recitato) della 'globalizzazione', che la Lega Nord stessa, oltre che accettare nei suoi cortei spezzoni del nazismo nostrano di Casa Pound, pur con le genetiche cautele, da qualche anno ha principiato ad adoperare una retorica spiccatamente nazionalista, soprattutto quando si tratta di denunciare l'immigrazione clandestina e gli sbarchi dei migranti.
La 'classe media', il 'ceto medio', ha, quindi, avuto una sua rappresentazione politica secondo inclinazioni diverse e contraddittorie. Se esiste nella rappresentazione ideologica, la classe media esiste nella realtà?
Il terreno di questa analisi è mobilissimo: non è affatto un mistero che buona parte dell'elettorato del Partito Comunista Francese, avviato dagli anni settanta a un lento declino elettorale e di consenso sociale, sia passato al Front National, oppure che molti elettori comunisti italiani siano passati alla Lega Nord, soprattutto dopo lo strappo di Ochetto dalla simbologia 'comunista' del partito.
Alla base di entrambi i fenomeni è stato il fatto che l'allontanamento definitivo da ogni 'facciata comunista' e 'rivoluzionaria' dei due partiti comunisti ha fornito l'occasione a segmenti elettorali di quelli di giustificare, in perfetta buona coscienza e quasi in una specie di coerenza etica, l'adesione a una più decisa difesa dei diritti del posto fisso 'nazionale', dell'assistenza sociale rivolta esclusivamente ai cittadini e a una lotta contro i costi della politica e dello stato (la polemica contro la 'casta') che i discorsi di Le Pen e Bossi rappresentavano meglio della 'rinnovata' sinistra comunista o ex comunista, prigioniera di tatticismi dubitosi e soprattutto poco disposta a lasciarsi andare a retoriche  in materia.
La critica alla tradizionale ideologia operaia e impiegatizia della certezza del reddito da lavoro salariato, ideologia legatissima alla storia dei partiti comunisti, socialisti e laburisti, che veniva messa in atto, anche se in maniera leggera e non frontale, dalla 'nuova sinistra riformista' (DS e poi PD in Italia), ha portato non pochi, grazie alla contemporanea crisi della residua e putrefatta identità comunista, verso non soltanto il voto ma anche una 'simpatia', quasi pre – politica, nei confronti della nuova destra, nazionalista e non. Il timore, che i nuovi e oggettivi caratteri del mercato del lavoro hanno suscitato, ha condotto buona parte della classe operaia di fabbrica a rifiutare questa predestinazione imposta dal potere mondiale. Questo timore ha favorito negli operai residui, ricattati continuamente e per decenni (almeno dalla seconda metà degli anni '80 per quanto riguarda l'Italia) dalla dismissione degli stabilimenti e dalla delocalizzazione produttiva, un riconoscimento della positività dei valori del 'ceto medio'; il timore non ha provocato solo questo:  la classe operaia ha iniziato a vivere sé medesima come un pezzo del 'ceto medio', ad assorbire valori per essa fino a quel momento secondari (ma comunque già presenti in quella) del localismo, della comunità rinnovata localmente, della gente simile e affine per storia cultura e lavoro: al posto del capitalismo, tradizionale e ormai simbolico avversario, è divenuto antagonista lo statalismo corrotto, al posto del popolo si è collocata la gente dell'area e della regione, al posto dell'irraggiungibile socialismo il nuovo fine di una democrazia di base strutturata localmente. Buona parte della residuale classe operaia ha aderito alla concentrazione fisica del 'ceto medio'. Il ceto medio negli anni ottanta e novanta si è allargato.
Ancora di più il 'ceto medio' si è allargato attraverso il grande movimento di autoimprenditorialità che ha recuperato mansioni tradizionalmente operaie e impiegatizie alla libera impresa, dove la proprietà dei mezzi di produzione non è decisiva per stabilire il comando sull'impresa che invece si esprime attraverso nicchie controllate del mercato, capaci di mobilitare, in forma indiretta, rilevanti quantità di manodopera. Questi nuovi soggetti formano, soggettivamente, un ulteriore settore di 'classe media' / 'ceto medio'.
Si è scritto spesso che il 'ceto medio' si è proletarizzato: non è del tutto vero. Credo, al contrario, che si sia costituita una nuova morfologia di ceto medio, che di 'medio' ha ben poco, perché porta con sé una capacità di reddito tipicamente proletaria, mentre, però, non ha una relazione proletaria con il mercato del lavoro, non subisce un comando direttamente esercitato sul suo lavoro (per virtù e coerenza contrattuale), anche se produce per altri, vive di quello che produce e quello che produce gli appartiene ma solo virtualmente e solo fino a quando non è prodotto.
Il ceto medio nella moltitudine è molto diverso da quello del vecchio paradigma della classe media: non ne ha l'agiatezza e la spensieratezza relativa ed è un ceto proletario senza subire una relazione di comando diretto sul proprio lavoro. Ma soprattutto il ceto medio manifesta un nuovo carattere della società: la fine della relazione di lavoro salariato come forma egemone nelle relazioni tra capitale e forza lavoro.
Questa tendenza a destrutturare la tradizionale concentrazione sociale si è, per quel poco che ho seguito delle vicende di questi ultimi tempi, accelerata enormemente negli ultimi sei – sette anni e cioè dalla depressione del 2008. Sempre più il concetto di ceto medio è passato in secondo piano persino nelle analisi sociologiche o nelle calibrature dei sondaggi statistici, sostituito spessissimo da altre categorie, generiche allo stesso modo che non possiedono nessun riferimento a una posizione e condizione sociale (colletti bianchi, colletti blu, tute blu).
Il ceto medio è scomparso sostituito da categorie di appartenenza geografica, culturale o specialistica (gli imprenditori, le partite IVA, le piccole imprese, i lavoratori dipendenti etc. etc., spesso associate tra loro).  Nello stesso tempo la sinistra, anzi proprio la sinistra, intesa come l'erede dei vecchi apparati storici del riformismo operaio, si è collocata, abbandonando timidezze e tatticismi, all'avanguardia di un'idea del mercato del lavoro nella quale la sicurezza del reddito vincolata alla stabilità della relazione di lavoro è diventata inadeguata a seguire e favorire lo sviluppo sociale ed economico. E dal momento che nulla ha sostituito il concetto e l'immaginario relativo al 'ceto medio', così come nulla ha sostituito il concetto di lavoratori o classe operaia, è oggi la destra, alla ricerca di strutture immaginarie semplici, a recuperare questi concetti, queste immagini sociali, in un curioso ribaltamento.
Un elemento di continuità rispetto alle vecchie terminologie / categorie rimane, comunque: la società viene rappresentata e, sotto un certo punto di vista, è sul serio un amalgama indifferenziato di soggetti profondamente diversi tra loro, privi di una relazione cardinale con il mercato del lavoro e con il lavoro, esclusi l'uno dall'altro da un orizzonte univoco; quindi la concentrazione sociale generale ha assunto i caratteri tipici di una NON – concentrazione, di un gruppo coeso solo in base ad alcuni elementi della sua soggettività, che un tempo era il tratto saliente, il segno di riconoscimento, del 'ceto medio'. Viene quasi voglia di scrivere che, in maniera diametralmente opposta rispetto a quanto sostenuto da Marcuse quasi un secolo fa, oggi il proletariato non esiste più perché è ceto medio allargato, disteso su tutto il mercato del lavoro, e il ceto medio è una nuova forma di proletariato che nulla ha a che fare con il proletariato tradizionale e nulla con la 'classe media' del passato.
Rimane aperto il problema se il lavoro esista oggi e sia riassumibile nella categoria del plusvalore e pluslavoro, ovvero se sia possibile individuare uno o più soggetti produttivi trainanti, capaci di costituirsi come lavoro davanti al capitale. Non sono un economista e non posso affrontare il problema da economista, ma ho un presentimento: la ricerca del soggetto del plusvalore è una falsa ricerca; Negri stesso, nel suo paragrafo di Impero intitolato posse, profila il problema anche se sembra schivarlo; per Impero il soggetto produttivo trainante è quello che disegna la trama dell'organizzazione produttiva nel suo lavoro, con il suo lavoro e partecipando a quella, è un soggetto che, sincronicamente, crea, disegna, collabora e organizza.
Questo nuovo soggetto ha, però, caratteristiche che Negri e Hardt non gli riconoscono: non è affatto libero ed è del tutto lontano da presentire la sua libertà (come a tratti invece gli autori paiono credere) e non è solo un produttore immateriale. In terzo luogo è un soggetto esponenzialmente scisso e frantumato, fino al punto di non essere riconosciuto come tale e, forse, non deve affatto essere riconosciuto come tale. Spesso, inoltre, è un soggetto squisitamente improduttivo, e non produce sicuramente plusvalore in modo diretto e in maniera distinta e misurabile. Nel trionfo del profitto, il profitto non è più di moda.
Infine questo 'soggetto', che eredita in parte le caratteristiche sociali delle società classiste precedenti (mi pare Francesco Berardi abbia argomentato questo nel suo Exit), continua a vivere in una miriade di forme la relazione dialettica con il capitale, mentre la forma della separazione antagonistica non gli è naturale, anche se, certamente, per alcuni episodi e qualche segmento questa si è data e si dà. Mi viene in mente il Chiapas o il Curdistan o alcune opere collettive in telematica per esemplificare questa separazione, che è attiva e produttiva in sé, la logica stessa della produzione la comporta (e in questo hanno ragione Negri e il coautore di Impero), ma non è naturale, decisiva e implicita. La dialettica generalizzata isola queste esperienze e spesso le erode, includendone frazioni e segmenti in sé; la tendenza alla separazione è più forte, slegata dalla 'rivendicazione' e dalla dialettica rivoluzionaria della classe operaia di fabbrica e dei proletari di quartiere dell'epoca appena passata o delle tradizionali guerre di popolo. La separazione, però, anche se tende a compiersi sul terreno della produzione (in telematica soprattutto), ha necessariamente bisogno di ragionare sulla produzione e quindi di assumere tratti anti – produttivi, esterni al processo, tratti etici. Che quest'etica sia materialisticamente fondata, che sia un'etica della produzione (non del lavoro, ma del processo produttivo ovviamente) è una questione che riguarda il pensiero sulla produzione mentre produce e dunque un atto libero dentro un flusso determinato che non esce da quel flusso ma cambia il flusso (e questa è oggettivamente una nuova potenzialità di questa epoca inimmaginabile prima, che discende dai settori creativi strategici e può investire anche quelli più periferici e tradizionali). Quindi nel trionfo della produzione il momento produttivo non è più di moda ma è il momento riproduttivo a diventare il cuore della produzione e l'appello alla pulsione verso una nuova moda.

Giovedì, 19 febbraio

Annotazione. Per riallacciarmi a quanto scritto ieri sera tardi, la matrice sociologica (come uso malvolentieri questo aggettivo) del nuovo soggetto proletario è la classe media mentre alcuni elementi della tradizione operaia sono penetrati nella soggettività della 'classe media' attuale. Dell'operaismo della classe media e della declinazione essenzialmente soggettiva di questo concetto sarebbe meglio precisare; ci proverò.
La classe media, forse, non è mai concretamente esistita, il termine non corrisponde a un modo di essere ma a un insieme disparato di modi di essere che in sociologia sono stati riassunti nel termine; epperò ha avuto una certa concretezza, un insieme di soggettività storiche e pesanti storicamente. A partire dagli anni '70 l'area sociologica della classe media si è gradatamente avvicinata alla sua essenza, si è, per usare un termine informatico, virtualizzata e ha perduto le relazioni con la sua origine, che era quella di essere una classe di mezzo sotto il profilo del reddito e di non essere legata direttamente al lavoro produttivo, per mantenere solo l'aspetto apparentemente improduttivo. Negli anni ottanta e novanta ha inaugurato un processo di 'proletarizzazione' sotto il profilo del reddito che si è confermato dopo la crisi del 2008: gli standard retributivi del lavoro impiegatizio, i ricavi dal lavoro autonomo nel commercio e nell'artigianato e anche nella produzione immateriale si sono drasticamente abbassati e all'interno di essa si sono verificate delle divaricazioni non risanabili, anche perché insistevano su diversità di partenza, strutturali.
Dopo il duemila, inoltre, è accaduto qualcosa di nuova ma non inatteso: la progressiva gravitazione e integrazione del lavoro intellettuale intorno al lavoro produttivo. Le specificità dell'organizzazione del lavoro industriale sono state esportate nella logistica e nei servizi, venendo a delineare una specie di taylorismo nei servizi, nella logistica, nel magazzino e nella distribuzione commerciale e questa 'esportazione' si è rapidamente accompagnata al lavoro per obiettivi e progetti, al contrario apparente dell'organizzazione taylorista. Anche il negoziante al minuto (vale a dire il relitto testimoniale della libera iniziativa e del libero mercato, della libertà dell'imprenditore nel definire il suo lavoro) è stato costretto, dove resiste e resisteva, ad adeguarsi a questo nuovo modo di organizzare il lavoro: cambiare scenario, scegliere una specializzazione merceologica, votarsi a quella, seguirla per poi, rapidamente, seguirne un'altra.

Domenica, 22 febbraio

Annotazione. [L'impero e la malavita organizzata] È da molto tempo che considero la lotta contro la malavita organizzata come una finzione retorica, inconcludente sotto l'aspetto dei risultati concreti tolti alcuni successi che non influiscono sulla struttura organizzativa che ha assunto la malavita. Si tratta, per questi ultimi risultati, di carcerazioni, di condanne sempre limitate alla bassa, media e alta manovalanza; l'alta manovalanza è, secondo la mia analisi, scambiata con la vera amministrazione di questa organizzazione commerciale e produttiva.
Qui la rappresentazione mediatica è decisiva per nascondere la verità delle cose ma, paradossalmente, sgombrato il campo dalla sua retorica, proprio questo occultamento rivela la verità, rivela la nudità del re. L'occultamento mediatico applica la usuale legge secondo la quale il culmine dell'impresa malavitosa, quello che non subisce i rigori della legge, è perfettamente legale e registra una realtà in base alla quale la malavita organizzata è parte integrante del mondo politico e finanziario del capitalismo mondializzato ed entra a far parte dell'autentica struttura del comando economico – finanziario.
Indicherò schematicamente gli elementi nuovi della malavita organizzata che un tempo era corretto nominare mafia e camorra; oggi, dal punto di vista dell'analisi storica,  (e non della storia delle culture e delle tradizioni) non è molto significativo scrivere di mafia e camorra, anzi, per certi versi,  è fuorviante. Come nei titoli di coda delle opere televisive e cinematografiche elencherò questi elementi nuovi, in ordine di apparizione.
1 - La scoperta del mercato clandestino degli stupefacenti (anni '30 del novecento). 2 - La conseguente internazionalizzazione di mafia e camorra (anni '50). 3 - Assunzione dell'assoluto monopolio e controllo, diretto e indiretto, sulle attività illegali e conseguente scomparsa della malavita tradizionale e 'indipendente'. 4 - L'approccio a nuovi bersagli di mercato (mondo bancario, istituzioni pubbliche e mondo della finanza). 5 -Integrazione con il sistema economico mondiale e formazione di un grande 'sindacato' malavitoso negli apparati dei singoli stati nazionali. 6 – Formazione di una 'borsa internazionale' della malavita. Alla fine di questo processo, mafia, camorra e ndrangheta sono diventate imprese tra le altre: fatturato, manodopera, distribuzione del reddito, formazione delle professionalità e costituzione di una struttura organizzativa che va dai servizi all'impresa alla produzione di impresa. Il modello è quello del coordinamento finanziario di tipo monopolistico con una ricaduta su molte piccole e medie imprese (le famiglie e le gang); il modello è quello di un comando finanziario sulle imprese che compongono il monopolio e di una ricostituzione di questo comando finanziario attraverso l'attività delle singole imprese.

Annotazione. A chi mai capiterà di leggere questo diario in movimento, scritto ai margini dei libri, in velocità e nei ritagli di tempo e di spazio giungerà a una definita conclusione: “non si leggono così i libri né tanto meno si commentano”. Non potrei dargli torto: ho troppo rispetto e al contempo poco rispetto di quello che leggo, ho premura poi calma fino al punto di abbandonare lettura e commento, sono fedele alle parole e poi terribilmente infedele, le rimescolo rendendole altre e facendone un'altra cosa. Ma ancora di più temo i testi che maneggio, come se la copertina prendesse fuoco e poi mi infondono coraggio come se li avessi scritti io. Ritengo che la mia relazione, che dura da quasi una vita, con il pensiero di Antonio Negri sia esemplificativa di questa passione e immediata ritrazione, amore spassionato e subito dopo disprezzo dell'amante deluso.
Qui sono brani, pezzi di vita intellettuale, una vita qualsiasi, comune, superficiale e profonda come sono le esistenze spese nell'assoluta normalità, in un lavoro, una famiglia, i problemi più o meno grandi e i bilanci più o meno ricchi. Qui è una geografia di aree, territori costituiti da stati d'animo, passioni, percezioni, sensazioni, considerazioni e, alla fine, quando vengono, comprensioni (quelle che dico tali; conquiste intellettuali, punti fermi che si muovono in modo proporzionale ed equilibrato tra loro in una geografia in continuo movimento). Le 'comprensioni', che nulla hanno a che vedere con il sentimento imparentato con tolleranza, sopportazione e immedesimazione e con l'uso comune del verbo 'comprendere', ma sono invece imparentate con il verbo 'aver trovato', sono scoperte dell'io dentro il non – io, il momento NON di congiunzione ma di comprensione, di reciproca cattura, il momento in cui quello che è fuori di te entra in te e quello che era dentro di te esce da te e va a sedersi fuori.

Martedì, 24 febbraio

Letture. Grammatica della moltitudine. Ho ripreso la lettura, seconda e terza giornata del seminario, ed è quindi troppo presto per avanzare giudizi definitivi. Virno ha una grande capacità di mettere in produzione discipline diversissime (psicologia, antropologia, sociologia, filosofia e musicologia) per focalizzare e polarizzare la categoria della moltitudine e una chiarezza espositiva grazie alla quale è abbastanza naturale coglierne il concetto, soprattutto in relazione a quello di popolo; mi rimane, però, un dubbio del quale, quasi sicuramente, l'autore inorridirebbe. Virno adopera moltissimi processi culturali, innegabili e chiari, per conformare, pezzo dopo pezzo, i caratteri della moltitudine e del post – fordismo, ma la sua fondazione è egemonizzata dagli elementi che un tempo si sarebbero detti sovrastrutturali. Anche se è vero che oggi la struttura e la sovrastruttura si identificano, lo scrive Negri in Impero e lo conferma Virno e questo, insomma, è un comune modo di sentire, non riesco a trovare proprio la parte destinata al concetto residuale di struttura: i rapporti e i modi di produzione. Questo non per ridonare a quelli una centralità analitica ma per spiegare il successo storico del post – fordismo. Per fare un esempio la diffusione di servilismo, opportunismo e cinismo sono interpretati con il dominio del general intellect, l'intelletto astratto ma reale; l'egemonia del general intellect, però, da dove origina? È davvero solo il prodotto delle relazioni generali che pervadono e strutturano il sociale, dell'impatto che subiscono gli individui nei confronti di un'astrazione totalizzante che viene fuori non tanto nel modo di produrre quanto invece nelle culture che lo circondano? Anche se potrebbe essere vero che la produzione immateriale è oggi egemone e che dunque naturalmente il general intellect si allinea a quella, la relazione si fa stretta e immediata, mi pare, però, che manchi un passaggio, manchi un ingranaggio, un collegamento decisivo dopo il quale cinismo, opportunismo, paura, angoscia e servilismo sarebbero ulteriormente rischiarati. Non si tratta di ridefinire una struttura, ma di trovare un nuovo accento in un complesso di relazioni che deve rimanere orizzontale e non gerarchizzato tra elementi decisivi e non decisivi; non patisco l'assenza di una gerarchia analitica, anzi la condivido, ma di una visione integrata tra i diversi aspetti che tanto Virno quanto Negri enucleano.
Sono consapevole del rischio: una visione 'integrata' è di per sé chiusa, completa, una veduta che ha definito i suoi orizzonti, ma il rischio deve essere cinicamente calcolato, senza di quello si corre verso una fedele descrizione della realtà, che è inutile ed è un'illusione. La sensazione che ho derivato tanto dalla lettura di Grammatica della moltitudine che di Impero è stata quella di un generale desiderio di non assumersi rischi, di non affermare cose che poi non potessero essere rimisurate e riviste, concetti irrevocabili; questo è un pregio, perché descrive in maniera perfetta il modo di produrre sapere nel post – fordismo (e non si scambi questo con una facile ironia) e quindi descrive il post – fordismo, è lui implicito, è il punto di vista di una singolarità compresa nella moltitudine, quindi un punto di vista orizzontale, aperto, privo di confini e con orizzonti mutevoli. Questo, però, è anche un limite implicito, poiché nello stesso tempo in cui descrive e pretende di descrivere si concede all'illusione della verità, di una verità che, però, non può costituirsi ma è soprattutto un limite esplicito, posto al di fuori dell'analisi, che ha conseguenze esterne, 'etiche': non generando un prodotto integrato, quindi una verità che palesemente si dichiara incompleta e bugiarda, si finisce, paradossalmente, per perdere di vista l'ottica della moltitudine e quindi le dinamiche della produzione spese sul terreno della liberazione. Questo manca.
Non è il caso certo di riscrivere oggi il Manifesto del partito comunista, sarebbe più appropriato scrivere il poema del comunismo, un'opera collettiva che deve trovare la sua metrica, quindi una res gesta (come da Negri sugli intellettuali in Autonomi) più che una res vista.

Mercoledì, 25 febbraio

Annotazione. Ai margini. Impero e Grammatica della moltitudine. Per essere sintetici ho trovato molta onestà intellettuale ma poco coraggio intellettuale. Soprattutto Virno offre una ricchezza analitica indimenticabile e non si può prescindere dal suo testo se si desidera ragionare di post – modernità da un punto di vista di classe.
Per Negri urge la lettura di Moltitudine, d'altronde questo diario è un attrezzo orientato dalla lettura, senza quella non sarebbe.

Giovedì, 26 febbraio

Ai margini. Grammatica della Moltitudine. Nonostante le critiche, e certamente non per perdonarmele, l'opera di Virno, questo seminario un po' scoordinato, è bellissima, evocativa e quasi toccante. Molto più che Impero di Negri e Hardt mi ha chiarito il concetto, che è poi una vera categoria, di moltitudine. Mi ripropongo di renderle questo onore con una serie di citazioni che meritano di essere estrapolate e brevemente commentate, anche se sto rileggendo il testo (come al solito tra treno e metrò) per coglierne nuovi fascini, altri angoli e altre visuali che conserverò per me, memorizzerò, sposterò, costruirò e distruggerò per ricomporle, secondo un processo metabolico che, se descritto, mi costringerebbe a scrivere un'intera agenda e che, invece, preferisco 'liberare dall'autore' e mettere al servizio di altri orientamenti e di altri autori.
Le dieci tesi sulla moltitudine, la quarta giornata, sono un decalogo a tratti scontato, certamente datato, ma davvero quello coraggioso e spero di trovare le righe giuste per scriverne. Non stasera, però, che è troppo tardi.

Annotazione. Lasciando da parte la sera e il troppo tardi, ho notato quanta confusione l'affermazione del fondamentalismo islamico ha determinato nel pensiero 'laico'. Qualcuno si fa vanto di professare l'ateismo, addirittura; qualche d'un altro in America ha tradotto in atteggiamento combattente questa professione.
L'ateismo non può essere una posizione, una presa di posizione e una convinzione, ma un atteggiamento filosofico e una sensibilità.
Negare l'esistenza di Dio è come professarne l'esistenza, confrontarsi con l'indimostrabile: seguendo la scolastica, Dio non è dimostrabile, analogamente, non è dimostrabile la sua non esistenza. Entrambi i ragionamenti si collocano nell'incondizionato kantiano e Kant aveva semplicemente ragione in proposito: la conoscenza certa dell'esistenza o della non – esistenza di Dio è impossibile, non esistono le condizioni intellettuali per eseguire questa attività. Si può certamente giungere a conclusioni sicure sulla natura dell'universo, se esso sia eterno e infinito o finito e provvisorio; si può giungere a descrivere l'idea di Dio, a immaginare Dio, come, ad esempio, l'infinità ed eternità che sta al di fuori della eventuale finitezza della materia e dell'energia (se si segue la relatività di Einstein); l'esistenza di Dio non è incommensurabile, non è al di fuori della nostra misura, anzi questa idea appartiene alla nostra migliore misura che, se applicata coerentemente, può venire traslata sull'immanenza e aiutarci a concepirla come sostanza sensata in sé (qui alcune belle letture di Dio in Spinoza sono da seguire). Ma se l'esistenza di Dio o la sua non – esistenza sono nella nostra misura, non sono nelle nostre condizioni, sono al di fuori di quelle (esattamente come l'eventuale eternità e illimitatezza posta al di fuori delle condizioni dell'universo relativistico); le condizioni che regolano l'eventuale trascendenza non sono raggiungibili e sono influenti solo nella misura in cui formano un paradigma, una matrice valida per definire il condizionato. Mi spiego meglio. Non è detto che l'incondizionato esista o non esista, l'esistenza o non – esistenza dell'incondizionato in quanto tale e per sé stessa ci è assolutamente indifferente, non è detta e non è affermabile; l'idea, invece, di incondizionato è interessante e funzionante per definire la complessità e totalità del condizionato, non solo per dare a esso forma ma per disporci in un atteggiamento analitico verso di quello, che, altrimenti, sarebbe impossibile. Per essere uomo, autentica conoscenza, l'uomo deve immaginarsi più grande di sé stesso e vivere al di fuori della sua misura proprio per rimanere fedele alle condizioni sue proprie; d'altronde non si diceva un tempo che l'uomo è un Dio all'uomo?

Venerdì, 27 febbraio

Annotazione. [Le statue di Mosul e Renzi] Militanti dell'ISIS abbattono le divinità assire nel loro museo. Lo scandalo è notevole e giustificato, anch'io in un primo momento, emotivo, ho rabbrividito. I giacobini, però, la nostra storia, non hanno riservato lo stesso trattamento ai portali splendidi delle chiese gotiche francesi? Al di là delle sventure che le maledizioni degli Assiri porteranno al califfato, cioè a dire una doppia razione di bombardamenti, e lasciando da parte il crimine contro il patrimonio dell'umanità, (ma allora i bombardamenti di Ninive nella seconda guerra del golfo?) direi che l'ISIS ha realizzato una messa in scena ideologica perfetta: ostilità verso un passato pagano che è anche il presente (la cosmopolita museificazione della storia, il conseguente flusso turistico protetto dall'odiato diritto internazionale), ostilità verso l'occidente e propaganda a favore dell'edificazione di un nuovo cosmopolitismo, costituto dal mondo 'popolare' mussulmano che più volte ha dimostrato (Il Cairo e Bagdad) una forte estraneità all'idolatrato passato pagano e soprattutto alla sua rappresentazione museale.
D'altronde che valore può avere in mezzo a gente che vive spesso senza acqua corrente ma  di molti espedienti una così alta rappresentazione del suo passato che, tra le altre cose, non le appartiene, della quale non è protagonista? Il museo si riduce a essere un'attrazione per stranieri o per turisti e possiede una natura che anche in occidente si manifesta. Il museo istituisce una separazione tra quello che contiene e le possibili relazioni esterne del suo contenuto. I muri, le brochure, il taglio delle mostre rendono i musei una edificazione ideologica; insomma non mi stupisco troppo della loro devastazione, anche se comprenderei maggiormente il loro saccheggio, vale a dire la trasformazione delle vestigia del passato in transitoria fonte di reddito; certamente non ordinerei mai di sparare su degli esseri umani, impazziti quanto si vuole, per difendere alcune pietre egregiamente lavorate, a meno che quelle pietre non siano qualcosa di più di semplici pietre egregiamente lavorate.

Annotazione. Tutto posso dire di Renzi tranne che mi sia antipatico. Renzi è certamente bugiardo, truffatore e astuto come l'altro figurante al posto del quale è riuscito a farsi assumere, ma solo come controfigura, il signor Silvio Berlusconi, ma non è ipocrita. Renzi se la ride della democrazia rappresentativa e non recita rituali piagnistei sul suo declino, in verità denuncia apertamente la fine di un mondo politico e costituzionale e ammette il suo cinismo: non vede alternative a quello. Nessuno se ne è accorto ma Renzi è un punk senza cresta, senza disperazione e senza nostalgia per il cadavere del futuro. Oggettivamente il vero cadavere maleodorante, che sa proprio di morte, oggi è il futuro e insieme con quello tutti gli stati d'animo, i progetti e le idee che si connettono e costituiscono sul futuro.

Letture. Grammatiche della moltitudine. Veniamo a questa rilettura citata di un'opera che mi prepara a prendere in mano Moltitudine di Negri e Hardt. È singolare, ma questa è una curiosità, che Virno nella bibliografia pubblicata in calce al suo seminario non faccia riferimento a Negri, senza contare che non ho trovato letture di Berardi, di Bologna e addirittura alcune opere di Virno stesso che, se fossi stato l'autore, avrei citato.
“Il general intellect o intelletto pubblico, se non diventa repubblica, sfera pubblica, comunità politica, moltiplica all'impazzata le forme di sottomissione” (p. 29) e poco oltre “ … la segmentazione delle mansioni non risponde più a criteri oggettivi, 'tecnici', ma è esplicitamente arbitraria, reversibile, cangiante” (p. 30). Da una parte, dunque, la possibilità nell'epoca dell'astrazione dell'intelletto da contenuti particolari, tipica del post – fordismo (il general intellect recuperato da Marx dei Grundisse), di generare un percorso di liberazione (la repubblica da contrapporsi all'Impero, anche se Virno non usa quest'ultimo termine), dall'altra parte il venir meno di una forma di sfruttamento (sottomissione) egemone, mancanza che innalza numerosi ostacoli a questo percorso, soprattutto, aggiungo io, se inteso in maniera classica (ma credo che Virno concorderebbe). In ogni caso (p. 32) “L'intelletto pubblico … può costituire un diverso 'principio costituzionale', può adombrare una sfera pubblica non statale”. Oserei poco da aggiungere.
Senza entrare nel merito dell'interpretazione critica che Virno offre di un'opera di Hanna Harendt (La condizione umana, del 1958) dove si denuncia lo schiacciamento dell'attività politica sul lavoro e che Virno ribalta specularmente, per cui è l'arte della politica, il virtuosismo della parola, la comunicazione in quanto tale a determinare la nuova forma delle relazioni di lavoro, si scrive questa verissima e modernissima constatazione: “Nessuno è così povero come colui che vede la propria relazione con la presenza altrui, ossia la propria facoltà comunicativa, il proprio linguaggio, ridotti a lavoro salariato” (p. 55). Avrei esteso questa condizione a tutto il lavoro comandato oggi, ma ben poco da aggiungere anche qui. Magistrale e terribilmente vero è il momento in cui la relazione servile pervade la società e il lavoro salariato, come nuova condizione introdotta dalla post – modernità: “Poiché lo 'spazio a struttura pubblica' aperto dall'intelletto è ridotto ogni volta da capo a cooperazione lavorativa, cioè a una fitta rete di relazioni gerarchiche, la funzione dirimente che ha la 'presenza altrui' in tutte le concrete operazioni produttive prende la forma della dipendenza personale. Detto altrimenti, l'attività virtuosistica [l'arte politica e il lavoro privo di prodotto sussunto o cooptato dentro il lavoro produttivo, Nota mia] si dà a vedere come universale lavoro servile. L'affinità tra il pianista e il cameriere … trova una inopinata conferma nell'epoca in cui tutto il lavoro salariato ha qualcosa dell'artista esecutore. Solo che a prendere le sembianze del lavoro servile è lo stesso lavoro produttivo di plusvalore” (p. 61).
Molto interessante la quarta giornata del seminario dedicata alle tesi che davvero invito a leggere integralmente, qui solo scampoli.
Nella tesi 2 [Il post – fordismo è la realizzazione empirica del 'Frammento sulle macchine' di Marx] “ … Marx sostiene una tesi ben poco marxista: il sapere astratto … si avvia a essere … la principale forza produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una posizione residuale” (p. 97) e tutto questo conduce e realizza nel post – fordismo il paradosso filosofico del marxismo: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio [la riproposizione del lavoro servile. Nota mia]. La radicale metamorfosi dello stesso concetto di produzione si è iscritta pur sempre nell'ambito del lavoro sotto padrone” (p. 98). Questo concetto era già in Negri di Marx oltre Marx (primi anni ottanta, circa) ma qui è chiarito magistralmente e con una bella audacia espositiva.
Nella tesi 3 [La moltitudine riflette in sé la crisi della società del lavoro] basti questa lapide: “il tempo di lavoro è l'unità di misura vigente, ma non più vera” (p. 99).
Nella tesi 5 [Nel post – fordismo sussiste uno scarto permanente tra 'tempo di lavoro' e un più ampio 'tempo di produzione'] leggiamo: “Secondo Marx, il plusvalore scaturisce dal pluslavoro ossia dalla differenza tra lavoro necessario … e l'insieme della giornata lavorativa (…) In epoca post – fordista è determinato soprattutto dallo iato tra un tempo di produzione non computato come tempo di lavoro e tempo di lavoro propriamente detto” (p. 103).
Nella tesi 10 basti solo il titolo: il post – fordismo è il 'comunismo del capitale'. Ancora annoto come compreso da Negri agli inizi degli anni '80.
Direi che è il caso di dedicarsi a Moltitudine.

rivedi febbraio

Inizio anno


Domenica, 1 marzo

Dopo tutto quello che ho scritto a febbraio credo che mi riposerò un po' a marzo. È comunque risultata interessante in questo periodo la lettura del Migliorini, che va avanti lentamente, la sera. Avrei una mezza idea di riprendere Spinoza nel 'Trattato teologico – politico' e anche il Trattato sui principi della conoscenza di Berkeley sul quale mi è caduto l'occhio e ho sfogliato. Ma mi attende Moltitudine e la mia 'tematica principale'.

Letture. Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale / Michel Hardt, Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2004. - 1.ed. - (Collana storica Rizzoli). - Tit. orig.: Moltitude. - Trad. di Alessandro Pandolfi.
All'epoca mi ero fermato alla prefazione, che ho ripreso oggi. Sono risalito anche alla data esatta di acquisto, il 2006, grazie a un ritaglio di giornale che avevo l'intenzione di usare come segnalibro; nel ritaglio una recensione sugli inediti di Foucault (raccolte di lezioni tenute tra il 1977 e il 1979) scritti insieme con la Storia della sessualità.
La prefazione registra subito la necessità di storicizzare, con lo scopo di precisare meglio, e quindi gli autori presentano il libro come prosecuzione di Impero secondo un percorso che è diametralmente opposto a quello adottato da Hobbes, che prima scrisse il De Cive e poi il Leviatano (1642, 1651) e ancora di più si legge testualmente: “Questo libro è stato scritto, in gran parte, sotto le nubi della guerra: tra l'11 settembre 2001 e il conflitto in Iraq del 2003”. Due forti parametri di storicità.
Nella prefazione si anticipano due centralità dell'opera a seguire: il problema / necessità / possibilità della costituzione di una democrazia globale e il nuovo concetto di Moltitudine, rispetto ai quali, e terzo argomento, quello della guerra imperiale costante, è elemento di disturbo, vero ostacolo. La guerra impedisce alla Moltitudine di estrinsecarsi e alla democrazia globale di realizzarsi.
Questo è, quindi, il trilogico piano dell'opera. Limitandomi a questa breve premessa noto che viene introdotta un'idea di Moltitudine diversa da quella di Virno (differenza presagita nella comparazione  tra Grammatica della Moltitudine e Impero); Moltitudine non è un paradigma ma è per certi versi un elemento sociologico; è la realizzazione, allargata e inclusiva, del concetto di classe operaia ben espressa in un brano: “A differenza della borghesia e di tutte le limitate ed esclusive formazioni di classe, la moltitudine è capace di formare autonomamente la società, come vedremo, questo è il punto centrale delle sue attitudini democratiche” (p. 16). Moltitudine è, alla fine, un soggetto politico e sociale.

Lunedì, 2 marzo

Letture. Storia della lingua italiana. L'anomalia italiana ama manifestarsi in tutte le epoche e nelle discipline più disparate; così Migliorini non poté evitare di notare che la letteratura in volgare si affermò con estremo ritardo in Italia, rispetto alla Provenza e alla Francia settentrionale e, inoltre, ancora di più la prosa faticò a essere riconosciuta come fatto linguistico indipendente dal latino, rimanendo spesso legata a variabili dialettali. Fu dunque la poesia a porsi all'avanguardia della letteratura in volgare, tra la Sicilia e la Toscana, assumendo un modello 'mediano', percorrendo una mediazione lessicale e morfologica tra le diverse ispirazioni / sostrati regionali. Dopo un forte ritardo si configurò, al contrario, un'operazione culturale raffinatissima, secondo la quale il mercato linguistico, il commercio delle parole, fu sottoposto a un comando selezionante: il 'dolce stil novo' riassunse questo processo.
L'italiano nasce come lingua d'arte, segnatamente arte lirica, che ricerca un equivalente lessicale e morfologico, un elemento comune, tra le diverse tradizioni regionali; scrive in proposito l'autore: “Non si mira insomma a una lingua comune, si mira a una lingua bella e nobile, la quale eliminerà i particolarismi e sarà perciò anche comune”.

Mercoledì, 4 marzo

Letture. Moltitudine. Simplicissimus. Sulla guerra moderna, nel senso di nuova, precisando assai meglio quello che è stato scritto in Impero.
I concetti base sono:
1 – l'indeterminatezza della guerra: non ha riferimenti a precise situazioni geografiche e istituzioni politiche e non ha limiti temporali.
2 – si presenta come operazione di polizia internazionale: fa riferimento al diritto internazionale della seconda metà del XX secolo, che ha bandito la guerra e l'uso della forza dentro e fuori gli stati – nazione e ha annullato la sovranità nazionale in materia. Questo precedente storico e ideologico ha una ricaduta concreta in ragione del fatto che, annullando la forza giuridica degli stati nazionali, lascia la possibilità di fare e nominare la guerra in un contesto squisitamente internazionale.
3 – la giustificazione della guerra, la definizione di una guerra giusta, non è un a priori ma un a posteriori; vale a dire che la definizione viene validata dai suoi risultati.
4 – anche se Negri non lo scrive, non è più il diritto internazionale ma una morale massmediatica (una morale di impatto massmediatico) a mettere in moto il meccanismo della creazione e nominazione dell'evento bellico.
5 – si è passati dalla guerra di difesa alla guerra di sicurezza. Anche questa trasformazione si coniuga con il declino dello stato nazione in virtù del quale l'immagine del confine si restringe all'interno dello stato (pensiamo alle 'contaminazioni' etniche) o si estende all'esterno (pensiamo alla 'guerra preventiva' in Iraq). In quella particolarissima fase, però, fu uno stato – nazione (gli USA) a riassumere le esigenze internazionali, costituendo o un'anticipazione 'imperiale' o un relitto del vecchio imperialismo, forse entrambe le cose.
I fondamenti strutturali del nuovo scenario bellico sono certamente da individuarsi nella crisi dello stato – nazione che è stata a sua volta determinata dalla definitiva internazionalizzazione dell'economia e del mercato per la quale i confini nazionali sono semplicemente un ostacolo allo sviluppo. Questo ha generato l'indeterminatezza dei conflitti e la loro transvalorizzazione da fatti eminentemente provocati da contraddizioni nazionali, da contrapposizioni tra entità ben definite istituzionalmente, a operazioni di ordine pubblico internazionale. Le fenomenologie ai punti 3, 4 e 5, al contrario, dipendono dal declino strutturale dello stato – nazione e si intersecano, collaborando, in maniera incessante tra loro. La potenza 'morale' della giustificazioni a posteriori dell'impresa bellica si può realizzare solo attraverso una proporzionalmente forte persuasione mediatica, come, al contempo, quest'ultima ha necessità di fatti e risultati concreti per istituire la sua teoria giustificatrice e 'nominare' la guerra. L'accantonamento dell'idea della guerra di difesa collabora con la morale della guerra come risultato, come evento che costituisce i valori morali e politici oltre che essere, ovviamente, prodotto dell'internazionalizzazione e del declino degli stati nazionali.
Per la prima volta, dopo la lettura di questo concretissimo primo capitolo di Moltitudine, si è insinuato il dubbio dell'adeguatezza del termine 'Impero', che almeno nelle forme belliche si dà nei modi di un cartello di stati ormai multinazionalizzati nelle intenzioni e a tratti subisco la tentazione di analizzare di conseguenza il 'mondo imperiale', come, cioè, un gruppo di stati nazionali che ha perso la sua connotazione originaria per multinazionalizzarsi: insomma l'impero potrebbe essere descritto coma una nuova forma degli stati nazionali.
Lascio spazio alla trascrizione di alcune estrapolazioni dal testo che sottolineo come particolarmente interessanti.
“Attualmente la guerra civile non si inserisce più all'interno di uno spazio nazionale, dato che quest'ultimo non costituisce più l'unità effettiva della sovranità, bensì in un ambito globale” (p .19).
“La specificità del nostro tempo … è il passaggio della guerra da elemento terminale della catena del potere – la forza letale come ultima risorsa – a fattore primo e primario della politica stessa” (p. 39).
È fondamentale quest'ultimo brano: “Nel momento in cui le funzioni fondamentali dello stato nazionale declinano insieme al monopolio della forza legittima, i conflitti iniziano ad aumentare sotto la copertura di un'infinità di simboli, ideologie, religioni, bisogni e identità. In tutti questi casi la violenza legittima, la criminalità e il terrorismo tendono a diventare indistinguibili …. Tutte le violenze tendono a sfumare nel grigio” (p. 51).

Giovedì, 5 marzo

Letture. Moltitudine. La guerra. Sarò sintetico: per quello fin qui letto il testo è bello e concreto, vivo e vivace. Proprio perché vivo è in parte datato ma generoso di proiezioni e analisi; ne sta valendo la pena. Moltitudine non disegna una verità indissolubile, prestabilita e perfettamente configurata: tutto è nuovamente configurabile.

Venerdì, 6 marzo

Letture. Moltitudine. Contro insurrezione. Paragrafo dove si tratta della 'lunga marcia' dell'organizzazione militare verso la struttura 'imperiale' e reticolare. I prologhi di questa marcia sono, ovviamente, da ubicarsi nella crisi dello stato – nazione e alcune anticipazioni di questo cammino sono state introdotte già lungo la guerra fredda dove “ … era già diventato perfettamente chiaro che la guerra si era trasformata in una faccenda ordinaria e che la cessazione delle ostilità potenzialmente più letali non comportava la fine della guerra ma solo un temporaneo cambiamento della sua forma” (pp. 57 - 58). Fu, infatti, l'accordo bilaterale USA – URSS del 1972 sulla limitazione dei missili balistici a mettere in crisi l'idea moderna di guerra come scontro frontale e di massa, anche se ormai svolta sub specie atomica, e a far emergere una nuova idea del conflitto come  una serie di eventi diffusi e mai decisivi, come uno strumento per controllare la potenza del nemico senza annientarlo. Conseguentemente l'immagine bellica che aveva dominato il settecento, l'ottocento e gran parte del novecento naufragava, poiché inadeguata alla nuova essenza del confronto. Paradossalmente fu il comune riconoscimento del grave rischio comportato dalla guerra atomica a determinare il tramonto dell'idea stessa di guerra tra nazioni, di guerra tradizionale: la scomparsa concettuale di uno degli opposti (la guerra nucleare globale) provocò la fine del suo opposto (la guerra convenzionale tra stati).
Furono così possibili la 'politica delle cannoniere' adottata dagli Stati Uniti in America Centrale (Grenada, Panama e Nicaragua) insieme con l'invasione sovietica dell'Afghanistan (1980): episodi, a seconda dei casi e dei momenti, di alta, media o bassa intensità bellica, ma tutti ben delimitati e circoscritti al di fuori di un contesto nazionale e dell'ideologia o rappresentazione della guerra tra nazioni.
Il mutamento dello scenario politico e militare nel confronto USA – URSS registrato nel 1972 fu, probabilmente, provocato dall'inizio delle grandi trasformazioni dell'economia mondiale, segnate dallo sganciamento del dollaro dal valore dell'oro (1971) e dalla crisi petrolifera del 1973.
Il tramonto dell'opportunità del conflitto bellico ad alta intensità e svolto su larga scala (pensiamo alle due guerre mondiali) portò con sé una trasformazione tecnica e implicita: la radicale riorganizzazione degli eserciti e in primo luogo quello degli Stati Uniti che funzionò come nazione – guida di questo cambiamento. In estrema sintesi l'esercito diviene professionale e con componenti addirittura mercenarie (anche l'Italia rinunciò definitivamente alla componente non professionale dell'esercito nella seconda metà degli anni '90) e con una ossatura non più rappresentativa di un 'popolo in armi', ma, al massimo, di alcuni settori del popolo (negli Stati Uniti segnatamente gli afro – americani e i latini, in Italia, nel suo limitato orizzonte etnico, la gente del meridione e delle isole) e spesso aperto al contributi di terze parti, ingaggiate a diverso titolo e con compiti e competenze specifiche e limitate temporalmente. La tradizionale gerarchia militare piramidale, formata da una truppa dequalificata, una cerchia intermedia professionalizzata e professionalizzante e un comando centralizzato che plasmava l'esercito di massa e 'multipotente' della modernità (multipotente poiché la stessa professionalità, proprio perché generica e massificata, veniva usata in contesti bellici diversi e doveva adattarsi a esprimere potenze di fuoco differenti tra loro) fu sostituita da una struttura articolata in reparti specializzati fin da subito ad affrontare particolari missioni o eventi bellici e da un comando distribuito e destinato al coordinamento più che all'inquadramento della truppa, mentre la tradizionale centralità della fanteria e dell'artiglieria venne rimpiazzata dall'egemonia dell'aviazione e delle unità specialistiche della marina. In un quadro organizzativo così disaggregato si è affermata, naturalmente, l'importanza del circuito informativo del comando, dei servizi e della logistica e contemporaneamente il raffinamento delle reti di comunicazione digitale ha permesso di immaginare prima e realizzare poi una simile disaggregazione operativa e mansionaria, in un processo del tutto biunivoco e interattivo. Questa trasformazione è quella contraddistinta dall'adozione del R.M.A. (rivoluzione nell'azione militare) alla fine degli anni novanta nell'esercito statunitense.
Per riprendere il testo: “ … l'apparato militare post – moderno possiede molte caratteristiche di quella che gli economisti definiscono la produzione post – fordista … l'apparato militare è basato sulla flessibilità e mobilità …” (p. 60).
[Il corpo del soldato] Interessantissima, inoltre, è la descrizione della nuova immagine, autenticamente accostabile a quella della fabbrica toyotista e all'immagine dell'operaio che lavora nella produzione automatizzata, che la guerra post – moderna offre di sé;  la guerra è diventata, ovviamente nell'immaginario 'imperiale', sul lato egemonico e vincente dell'evento bellico cioè, un FATTO INCORPOREO, dove il soldato perde la fisicità, diviene appendice dell'arma e dell'attrezzo bellico (o addirittura viene sostituito completamente da quello come nel caso degli attuali droni). Questo modello bellico, autenticamente perseguito e inseguito dalla nuova organizzazione militare (e per certi versi idealizzato dai massmedia e dalla sua rappresentazione massmediatica) tende a ridurre davvero e non in modo mistificato il rischio della morte per il soldato 'imperiale' vicino allo zero, mentre, in una violenta e crudele contrapposizione etica, psicologica ed emotiva la morte diviene quasi esclusivo repertorio del nemico e anonima, insignificante, neppure degna di essere conteggiata e contabilizzata. Emblematica nei miei ricordi, a questo proposito, la presa diretta del 'tiro al tacchino' operata e commentata da alcuni aviatori americani contro un gruppo di soldati iracheni in ritirata e disarmati, durante la prima guerra del golfo, il disprezzo genetico verso il nemico, il 'tacchino', e la sensazione di infallibilità e di immortalità che la accompagnava, sensazioni riportate ed enfatizzate dalla conseguente cover massmediatica di quell'orribile vigliaccata ('vigliaccata' usando le corde della tradizionale 'etica bellica').
Questa DECORPOREITÀ del soldato si realizza per motivazioni a un tempo intrinseche ed estrinseche rispetto all'evento bellico. Intrinseche perché il soldato 'imperiale' è un professionista altamente specializzato, possiede un alto valore aggiunto e ha in custodia e in uso una strumentazione raffinata e costosa (un alto valore aggiunto di capitale fisso per dirla con Marx); tanto il soldato quanto le sue armi non possono, quindi, essere utilizzate come nelle guerra tradizionale, di massa e 'dequalificata' professionalmente dove armi e militari erano continuamente esposti al rischio di morte e distruzione, di cattura o sequestro da parte del nemico per via del continuo e reiterato contatto e scontro ravvicinato con quello. Un altro complesso di motivazioni intrinseche all'incorporeità del soldato imperiale si trova nel potenziamento della scienza balistica e dell'aviazione che allontanano il campo di battaglia dai combattenti di terra, dai combattenti umani, e rendono il campo di battaglia il più possibile inanimato e virtuale.
Le motivazioni estrinseche risiedono nella stessa ideologia bellica 'imperiale' che impone, quantomeno a livello di rappresentazione mediatica e di resoconto politico, l'annullamento della violenza fisica e della forza dei corpi in battaglia verso un immagine di una guerra tecnologicamente e igienicamente perfetta.  Altra categoria di motivazioni estrinseche in ordine al successo dell'immagine incorporea della guerra del soldato 'imperiale' (del rappresentante armato delle politiche internazionali egemoni nel capitalismo, preciserei) è una relazione di analogia, un isomorfismo, con  i modi di produzione, le forze produttive del capitalismo post -  moderno e globalizzato: il soldato incorporeo è perfettamente coerente con la tipologia della produzione capitalista dominante post – fordista che pone al suo centro, nel suo nucleo qualificante, la produzione immateriale e l'immaterialità.
La costituzione del 'nuovo modello militare', basato sulla netta superiorità tecnologica (missilistica 'intelligente', aviazione trasparente alle rilevazioni radar, capacità informativa espressa in tempo reale, uso di robot e di droni, possibilità per la fanteria di operare in notturna e in generale di ignorare e aggirare gli ostacoli naturali, solo per ricordare alcuni elementi di questa innegabile superiorità bellica dell'esercito 'imperiale') determina un rapporto militare asimmetrico tra l'Impero e i suoi nemici; quello che gli autori definiscono GUERRA ASIMMETRICA.
La guerra asimmetrica incontra solo nella guerra di guerriglia un vero ostacolo, anche se le caratteristiche dell'evento bellico attuale rendono lo sforzo di guerriglia molto più arduo che negli anni '20 – '70 del vecchio secolo, che possono venir considerati come gli anni dell'acme della guerriglia e degli eserciti popolari e di liberazione nazionale. Le potenze imperiali, infatti, gestendo una guerra 'immateriale', che procura pochissime vittime nelle loro schiere, possono permettersi il lusso (economia permettendo) di renderla interminabile. “Senza gli orrori della guerra ci sono meno incentivi a terminarla e una guerra senza fine … rappresenta l'estrema barbarie” (p. 67). Per di più il problema della guerriglia, che è per definizione una resistenza reticolare e quindi quasi analoga e di egual struttura a quella degli eserciti degli stati imperiali, non è sconosciuta al dominio internazionale che ha imparato ad affrontarla già nel secolo scorso, ai tempi degli eserciti nazionali che si contrapponevano agli eserciti popolari (pensiamo alla sconfitta subita dagli statunitensi in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan) e proprio i fallimenti patiti hanno portato gli strateghi politico – militari dell'occidente egemonico a trasformare il 'vecchio' esercito nel 'nuovo' esercito.
Moltissimi elementi dunque (politici, economici, sociali, tecnologici oltre che strettamente militari) hanno concorso al delineamento dell'esercito cibernetico, semi – robotizzato, altamente professionalizzato e 'immateriale'.
Due, ancora una volta, interessantissime parole sulla relazione conflittuale ma dialettica tra Impero e imperialismo, ovvero tra dominio internazionalizzato e dominio nazionalizzato. Vale la pena di citare, estrapolando. “Da una parte, ogni singolo impegno militare e l'orientamento complessivo della politica estera [degli Stati Uniti in particolar modo ma anche dei singoli stati alleati (nota mia)] sono espressione degli interessi nazionali e devono essere giustificati in questi termini [presso l'opinione pubblica interna (nota mia)] … Dall'altra parte, però, ogni singolo impegno militare statunitense … implica … l'adozione di una logica imperiale la quale viene giustificata … in nome dell'umanità in quanto tale … Non bisogna giudicare la retorica umanitaria e universalistica … come una mera facciata che maschera la logica degli interessi nazionali. I diritti umani e gli interessi nazionali sono reali nella stessa misura” (pp. 82 – 83).
Infine vengono precisate, in maniera plausibile e in metafora storica, le relazioni tra stati – nazione dentro il contesto 'imperiale' (e questa precisazione è oggi da rivedere, ma adeguata al 2004): “Gli Stati Uniti sono nella stessa posizione del monarca che non può finanziare le sue guerre da solo e deve perciò ricorrere alle risorse dell'aristocrazia. Gli aristocratici a loro volta replicano: Nessuna tassazione senza rappresentanza” (p. 84). Dopo la grande depressione del 2008 credo che la 'monarchia' sia divenuta sempre più collegiale e si stia trasformando in un'oligarchia repubblicana dove gli stati – nazione europei e nord americani riscoprono, per certi versi, la loro 'dignità' nazionale. Ma è solo un'impressione.

Annotazione. Gran parte delle cose lette fin qui in Moltitudine sono condivisibili. Ho una certa riluttanza, però, a condividere un nesso troppo lineare e diretto tra modo di produzione e tipologia militare.
Certamente esiste una prossima parentela tra fabbrica fordista, operaio – massa ed esercito massificato e dequalificato, strutturato, come la fabbrica delle catene di montaggio, secondo un comando piramidale alla cui base stava un soldato / fante indifferenziato bellicamente, la cui dote principale era l'adattamento agli ordini, l'obbedienza in battaglia e spesso quelle che che viene comunemente detto 'coraggio', vale a dire la rassegnazione a una morte altamente probabile. Esiste anche una relazione tra il toyotismo, il post – fordismo, le conseguenze produttive della quarta rivoluzione industriale, la crescita del valore della produzione di beni immateriali e l'esercito orizzontale, specializzato, disaggregato del post – moderno. Non è affatto impossibile, però, che si dia dell'asincronicità: reperire, per esempio, gli antesignani dell'esercito di massa della modernità, che veniva formato attraverso una leva generale obbligatoria, già nella rivoluzione francese, dai battaglioni sanculotti alla grand armee napoleonica, e in tutta l'Europa dell'ottocento; alcune sporadiche anticipazioni le troviamo addirittura in epoca pre – rivoluzionaria (nella stessa Francia e in Prussia se non vado errato). In questo caso l'organizzazione militare ha anticipato i tempi dell'organizzazione economica e produttiva, ideando un modo certamente taylorista di concepire la guerra e la milizia: artigiani e contadini furono inquadrati nelle file dell'esercito come quasi un secolo più tardi gli unskilled saranno inquadrati in fabbrica.
Ipotizzo che sia accaduto il contrario di quanto sostenuto da Negri e Hardt: il mondo militare ha fornito suggerimenti e fascini a quello produttivo.
Non conosco bene la materia, ma l'esercito americano ha cessato di essere un esercito massificato e di leva già dopo la seconda guerra mondiale ed ha affrontato la guerra di Corea e la parte iniziale di quella del Vietnam usufruendo di volontari e di militari di professione. Questo non significò già allora la trasformazione delle tecniche belliche ma, soprattutto in Vietnam, alcuni reparti dell'aviazione e delle truppe di terra subirono una specializzazione spinta, fino al punto di essere impiegate solo in determinate e speciali occasioni.
Nel campo delle tecniche operative, infatti, è da escludere la sfasatura temporale rispetto allo stato dei modi di produzione individuata per l'organigramma e la struttura dell'esercito tra esercito – massa e fabbrica taylorista, ma come il militarismo nazionalista dell'ottocento seppe, per certi versi, anticipare i tempi della disciplina e del comando sociale nel suo esercito, così la crisi del militarismo nazionalista e l'emergere dell'esercito di tipologia decentrata e disaggregata anticiparono, anche se di poco, (e questo solo in alcune realtà nazionali come gli Stati Uniti e l'Inghilterra) la trasformazione sociale ed economica per poi allinearsi, coniugandosi, con quella.

Domenica, 8 marzo

Letture. Moltitudine. Resistenza. Niente da aggiungere a quello che viene scritto; bastino alcune citazioni. Quello che amo in questo testo è il fatto che, nonostante si proponga come un'opera filosofica in quanto non intende rispondere a domande come “che fare?” (si legge nella prefazione che “il nostro libro non può rispondere a domande del tipo 'che fare?') (p. 15), mette in campo un'analisi militante. L'analisi militante, come scritto proprio nel primo paragrafo di 'resistenza', intitolato non casualmente “La resistenza viene prima”, parte dal basso, dalla nostra esperienza del mondo, per giungere all'esposizione; che, poi, l'esposizione venga prima nella stesura dell'opera, vale a dire il risultato si anteponga al suo presupposto (nel nostro caso la fenomenologia della guerra 'imperiale' prima della Moltitudine, la contro – insurrezione prima dei caratteri dell'insurrezione) è poco importante. Analisi militante coincide per me con la costituzione di una soggettività che esige di darsi in oggettività, che è tutto il contrario della centralità scientifica che rappresenta la finzione della neutralità oggettiva che 'naturalmente' si trasforma in soggettività, in sapere vero, come se esistesse un rapporto causale, una causa – effetto, tra oggettivo e soggettivo.
A proposito di causa ed effetto sarebbe più onesto parlare e fare riferimento alla relazione tra motivazione e risultato e su quella costruire la causalità e interpretarla in noi e negli altri. Sarebbe un discorso molto lungo che forse un giorno affronterò.
Analisi militante (che in Impero, nonostante si volesse realizzarla, non ho trovato) si dispone anche verso l'individuazione di un quadro operativo e quindi etico, non solo di un nuovo scenario, di una nuova oggettività quanto anche in un nuovo modo di vedere e chiamare le cose, in una nuova soggettività.
Veniamo al testo al quale, lo ribadisco, c'è poco da aggiungere.
Sulla Moltitudine come anticipazione analitica dentro l'esposizione in atto della guerra che è la grande nemica della Moltitudine si scrive: “Gli scenari attuali della produzione e del lavoro … sono in via di trasformazione sotto l'egemonia del lavoro immateriale (…) Questo non significa che la classe operaia … sia scomparsa, e neppure che siano scomparsi i lavoratori agricoli (…) Non significa neanche che il loro numero sia diminuito in termini assoluti (…) Quello che vogliamo dire è che le qualità e le caratteristiche del lavoro immateriale stanno trasformando tutte le forme del lavoro” (p. 88). Il lavoro immateriale è quindi la matrice e volano dello sviluppo delle forze produttive nelle forme negative dell'estensione dell'attività lavorativa al tempo di vita, della precarietà delle relazioni contrattuali e della flessibilità dei mansionamenti. Lo è, però, anche nelle forme positive della formazione di tipologie di vita sociale e della reticolarità e orizzontalità del processo produttivo. Il lavoro 'biopolitico', reticolare e orizzontale è una possibilità concreta di democrazia che nasce dalla produzione stessa.
Per tutte queste cose l'approccio della soggettività della Moltitudine al potere e alla guerra imperiale cambia radicalmente, anzi la soggettività stessa si trasforma rispetto ai canoni della militanza politica, l'organizzazione e l'instaurazione del governo rivoluzionario (movimento → organizzazione → presa del potere): “La pratica insurrezionale oggi non può più suddividersi in quelle fasi; dal momento che essa le attiva simultaneamente” (p. 91).
È un bel rompicapo, ed è un attualissimo rompicapo e un'analisi militante ha proprio il compito di porre i problemi e non certo quello di risolverli. In verità, in altre opere abbondantemente precedenti a questa, scritte tra gli ultimissimi anni settanta e i primi anni ottanta, che lessi a suo tempo (penso, andando a memoria, a 'Marx oltre Marx' e alla 'Guerra e il comunismo'), Negri anticipò un approccio analitico come questo e una teoria dell'antagonismo analoga. Lo fece, però, in maniera molto meno determinata e con la mente volta ancora indietro, all'esperienza insurrezionale dell'operaio – massa e pur introducendo un nuovo soggetto, l'operaio – sociale, alla fine lo rappresentava attraverso quello che l'operaio – massa non era potuto essere. In quella particolarissima fase della vita politica italiana mi parve che Negri cercasse nella vecchia dimensione analitica elementi che producessero consolazione rispetto all'innegabile sconfitta politica e sociale subita dal movimento comunista e antagonista, piuttosto che l'apertura di un nuovo scenario analitico.
La teoria sull'operaio – sociale, nel 2002 / 2003, attraverso Moltitudine si svolge al futuro e non al passato e diviene determinata e precisa. L'operaio – sociale descritto da Negri quarantacinque anni fa era un soggetto magmatico, quasi il composto di un mosaico di tessere conformato dall'operaio dequalificato, dall'operaio professionalizzato e consigliarista e, addirittura, da tratti di somiglianza e analogia con l'artigiano sanculotto, per alcuni aspetti. Tutti questi elementi, compresenti, non si coniugavano nell'intelligenza e nella soggettività di una figura produttiva, ma si affiancavano gli uni agli altri senza avere relazioni organiche tra loro. Nella Moltitudine (ma già in Impero e, per uscire dalla biografia intellettuale di Negri, anche nella Grammatica di Virno) l'operaio – sociale riassume tutte le forme produttive e di sfruttamento precedenti e assume una fisionomia sua propria, un'egemonia su quelle.

Annotazione. [Una cover radiofonica e l'operaio – sociale]. Durante la presentazione radiofonica di un libro, il suo autore, Angioni, ha annotato che un mondo che non sa valutare l'entusiasmo dei giovani e l'esperienza degli anziani è destinato a produrre orrore e barbarie. Il suo libro descrive liberamente la nascita, nel 1258, in mezzo alla guerra interminabile tra Genovesi e Pisani e tra Pisani e indigeni, guerra sorta per il predominio sulla Sardegna, di una comunità di profughi isolani su un territorio occupato da un lebbrosario e perciò inospitale anche alla guerra. La comunità riesce a definirsi, a scrivere uno statuto, separandosi dalla guerra che imperversa tutto intorno; ne è il prodotto (la guerra ha provocato la fuga dalle città e campagne circostanti e il lebbrosario era stato svuotato per via di essa) ma anche la negazione. Gli emigrati costituiscono una società che non guarda indietro, per certi una comunità priva di memoria, dove convivono in ragione di questa assenza donne e uomini, agricoltori e artigiani, profughi bizantini e mussulmani e dove ognuno giunge con la sua conoscenza e la mette in comunione. Santa Gia (mi pare sia questo il nome del 'non – posto' come lo etichetta l'autore medesimo) riqualifica tutte le conoscenze e le inclinazioni ed è il luogo dove l'entusiasmo e l'esperienza collaborano liberamente. Le relazioni umane, gli stati d'animo e le stagioni della vita diventano motori dell'economia e della produzione. Storicamente l'esperienza di Santa Gia terminò e in malo modo, per mano dei Pisani, ma l'idea di un'economia come risultato di un programma che si costituisce nell'entusiasmo e nell'esperienza e prodotto di una separazione dalla guerra e da una particolare struttura della memoria, la considererei particolarmente attuale.

Lunedì, 9 marzo

Letture. Moltitudine. Resistenza. L'esposizione prende le mosse dalle guerriglia contadina di epoca pre – moderna, giunge all'esercito popolare, ritorna alla guerriglia riscoperta nella seconda metà del novecento e infine identifica la nuova dimensione e formalità reticolare dell'opposizione al dominio post – moderno.
Tutte queste tipologie possono corrispondere a una particolare fase dello sviluppo sociale ed economico anche se “ … non vogliamo dare l'impressione di ritenere che le forme della resistenza si sviluppino seguendo il filo di una sorta di evoluzione naturale … anche il parallelismo che abbiamo articolato tra l'evoluzione delle tipologie della resistenza e i modi di produzione economica è ancora troppo astratto” (pp. 118 – 119).
Sia le forme dell'esercito popolare che quelle della guerriglia sono coeve al modo di produzione di fabbrica, anche se, nella stragrande maggioranza dei casi, è il mondo contadino a essere stato protagonista della resistenza armata (dalla Cina di Mao, a Cuba di Castro, ai Sandinisti e a Sendero luminoso) ma soprattutto esigono una centralizzazione politica e militare, nell'esercito popolare (Cina, Russia e Vietnam), e militare, nella guerriglia (Cuba e Nicaragua). In entrambi i casi fu un'autorità gerarchizzata a decidere per il movimento e l'obiettivo era quello di fondare un nuovo governo e un nuovo stato, facendo riferimento alla legittimazione popolare e al concetto di popolo.
Per le forme organizzative della post – modernità abbiamo solo elementi di passaggio dalla struttura guerrigliera a quella reticolare che corrisponde alla resistenza al dominio produttivo costituito secondo modi post – fordisti: l'intifada (1987 e 2000) e l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZNL) del Chiapas. Ma si tratta di ibridi, di passaggi, appunto, dove la compresenza di tre elementi che vengono ritenuti dagli autori indispensabili a qualificare questa nuova forma di resistenza non si danno ancora: “Il primo principio è quello del grado di efficacia in un determinato contesto storico … Il secondo principio è la necessità di una forma di organizzazione politica o militare adeguata ai modi della produzione sociale ed economica … Infine … la democrazia e la libertà sono i punti di riferimento che guidano lo sviluppo delle forme organizzative della resistenza … In molti momenti storici questi tre principi si sono trovati in conflitto tra loro … Oggi i tre principi possono finalmente coincidere” (pp. 111 – 112).
L'esempio per questa concezione organizzativa è un esempio etico, è l'etica della cooperazione tra gli  individui che ha una matrice nell'etica della rete telematica. Tutte le vecchie strategie, tattiche e forme di resistenza rivoluzionaria sono inadeguate, “ … tutti questi interrogativi risultano vecchi, logori e per molti aspetti già dissolti” (p. 113).
Ci sarei andato sinceramente un po' più cauto, ma direi che davvero la parola ora spetta all'analisi e definizione della moltitudine, del sostrato vivente di questa nuova forma organizzativa e dunque naturalmente si sviluppa la seconda parte dell'opera. Concordo, in ogni caso,  sul fatto che il primo segno del proletariato nella dimensione della moltitudine è stato il movimento 'no global' da Seattle fino al 2003, come convergenza non determinata autoritariamente di gruppi diversi, spesso anche in conflitto tra loro su alcune questioni, ma coordinati da un'esigenza autoritativa generale: la pratica della democrazia e la lotta per la democrazia contro la guerra 'imperiale'.
Fin qui, comunque, è stata un'analisi 'morfologica' della resistenza alla guerra imperiale, ora ci si ripromette un approccio di indagine ontologico.

Giovedì, 12 marzo

Annotazione. Sospetto che la 'rivoluzione' sia impossibile da almeno un paio di decenni. Ho trovato conferme, dirette e indirette, di questa impossibilità tanto nell'ultimo Negri quanto in Huwey Newton e ancora in molti altri. Dunque questa è un'idea comune e diffusa. Rimane, però, aperto il problema del comunismo che è stato concepito, inizialmente, come il prodotto di una fase rivoluzionaria che, senza determinarlo direttamente, lo introduce. Si tratta della fase della 'dittatura del proletariato' o, secondo altre lezioni, del 'socialismo'. È possibile il comunismo senza di quelle, ovverosia senza rivoluzione? E se così fosse come potremmo figurarci questo periodo storico che dovrebbe allora nascere da una transizione non rivoluzionaria, intendendo il lemma rivoluzionario nel senso tradizionale e marxista del termine? Sarà un altro comunismo rispetto a quello appena tratteggiato da Marx?
O ancora di più. Che tipo di transizione rivoluzionaria può generare il comunismo, considerato secondo la definizione di un sistema sociale nel quale lo stato e le classi sociali si estinguono? Certo è che la concezione della 'conquista del potere', della trasformazione dell'apparato statale e dell'instaurazione di un governo del 'proletariato' sotto la forma di una democrazia diretta, allargata, non rappresentativa e costruita per distruggere definitivamente la classe dei capitalisti, attraverso l'esercizio di una 'dittatura democratica' (per usare la terminologia di Troskij), è davvero inadeguata in tutti i suoi punti, nessuno escluso.
È inadeguata sotto il profilo sociale, perché il 'capitalismo reale' non si invera in una classe specifica, e lo è sotto il profilo politico, perché non esistono più (almeno nei paesi egemoni e 'sviluppati') organizzazioni e gruppi degni di questo nome e capaci di avere un certo consenso, muovendosi verso la costituzione di una dittatura del proletariato e verso la conquista dello stato; lo è ancora sotto il profilo storico, perché gran parte degli elementi del socialismo sono stati realizzati, e da lungo tempo, dal capitalismo (il welfare, il seguente warfare, la democrazia allargata e anche le ultime forme di democrazia non rappresentativa), e lo è, infine, sotto il profilo economico, perché l'obiettivo socialista dello sviluppo industriale, tecnico e scientifico esteso a tutto il mondo, internazionalizzato o addirittura mondializzato, è stato anch'esso raggiunto dal capitalismo.
Meno certo ed evidente è che il capitalismo abbia eliminato l'attualità e l'urgenza del comunismo, anche se il passaggio dal fordismo al post – fordismo ha comportato un superamento di quello che potrebbe essere detto il 'socialismo del capitale' verso un 'comunismo del capitale' neppure troppo occultato. Comunismo del capitale è il luogo storico dove è il capitalismo a farsi protagonista della critica allo stato, della critica all'omologazione sociale insieme con il contemporaneo elogio alla diversità sociale, sessuale ed etnica. È un paradosso che mi è famigliare, ormai: lo sviluppo del capitalismo dopo la grande depressione del 1929 ha percorso, sotto il suo punto di vista, le fasi storiche previste dalla teleologia marxista classica.
In questo contesto il discorso sopra la rivoluzione e il comunismo è diventato non solo difficile ma scivoloso, perché non comporta solo il ragionamento su molteplici elementi storici ma richiede anche un'analisi dipanata su diversi piani e soprattutto espressa in maniera pluriforme che impedisce, implicitamente, di recuperare e utilizzare un linguaggio univoco. Il comunismo richiede un nuovo linguaggio, o meglio una serie incredibile di linguaggi. Il comunismo, cioè, non può essere, al contrario del socialismo e della dittatura del 'proletariato', una dimensione culturale e ideologica unificante (per dirla con Negri e Hardt: una nuova sovranità) e un discorso unitario, organico sotto il profilo politico. Insomma il comunismo è tutto il contrario del prodotto di un processo rivoluzionario inteso in senso tradizionale.
Alla domanda, per me fondamentale, su dove si ubica il punto di rottura tra il 'comunismo del capitale' e il 'comunismo dei proletari' si può solo fornire  una risposta parziale che risolve  una piccola parte della domanda. È inevitabile prevedere, per questa rottura, non un singolo punto, ma moltissimi punti, che si trasformano in segmenti e linee, e non un unico momento, una contemporaneità, ma numerosi momenti, un'eternità, quasi. Come credo avesse pensato anche Marx, nel passaggio dal socialismo al comunismo la lotta politica si arricchisce di due aspetti rispetto a quelli che avrebbero contraddistinto la transizione dal capitalismo al socialismo, l'aspetto antropologico e quello filosofico: il comunismo è una 'rivoluzione' nella quale quella che veniva, ancora nel socialismo, detta 'sovrastruttura' decide della 'struttura'.
Immagino che questo confronto, oltre che non addensarsi temporalmente, non conoscerà figurazioni 'geografiche', cioè avanzate e ripiegamenti, ma solo nuove attestazioni, nuovi scenari, ma nulla che possa essere riferito ai concetti di avanzata e ritirata, ai tradizionali effetti delle lotte e alla consuete reazioni contro le lotte. Se, comunque, dovessi adottare delle figurazioni spaziali e delle semplificazioni geometriche oserei affermare che il 'comunismo dei proletari' non può che presentarsi come un'avanzata su tutti i livelli e su tutti i 'fronti', a patto di cambiare davvero radicalmente il modo di conoscere i livelli e i fronti.
Stavo ripensando a un'antologia di Rosa Luxembourg (Scritti scelti / Rosa Luxembourg ; a cura di Luciano Amodio. - Torino : Einaudi, 1976. (NUE: nuova serie ; 2)) e in quelli 'Riforma sociale e rivoluzione' (1899), 'La rivoluzione russa' (1918) e 'Assemblea nazionale o governo dei Consigli' (1918). Ripensavo, soprattutto, a quei contributi nei quali si critica davvero aspramente la metodologia bolscevica in rapporto alla gestione centralistica e verticistica del partito comunista russo e si pone la democrazia alla base dello sviluppo del processo rivoluzionario, intesa come momento interno, implicito e necessario per lo sviluppo di quello, mentre si polemizza e si prendono le distanze dal gradualismo e dalla mitologia della democrazia sposata dai riformisti (Kautky e Bernstein). Questi concetti sono ancora, assolutamente, interessanti oggi, ma, paradossalmente, quello in apparenza meno attuale lo è più di tutti gli altri: in buona sostanza, sostiene infatti la Luxembourg, nel capitalismo imperialista da lei analizzato e conosciuto, solo la rivoluzione può garantire il riformismo, o meglio la riforma sociale; questo modo di rileggere la tradizione riformista e rivoluzionaria può essere molto utile, come punto di partenza e null'altro, per tracciare scenari a venire. La classica separazione tra 'purezza rivoluzionaria', proiettata costantemente oltre il presente, e cinismo riformista, dominato invece dalla necessità di costituire spazi e avanzate nel presente, si può, per situazione oggettiva (se siamo davvero nel 'comunismo del capitale' e questo concetto ha qualche verità), trasformare in una fortissima contaminazione, un una coincidenza, come se l'economia e le sue leggi potessero realizzarsi solo attraverso l'etica in centinaia di punti di rottura.

Sabato, 14 marzo

Annotazione. Si tratterebbe, ribaltando l'ipotesi della Luxembourg, di un riformismo rivoluzionario, che azzera l'immagine tradizionale del riformismo quanto quella della rivoluzione. Se la rivoluzione è impossibile, perché non è possibile individuare un punto di rottura univoco, un crinale oltre il quale si apre un altro mondo, a maggior ragione è improbabile, anzi ancora più improbabile, una marcia graduale verso il crinale, che già nell'ipotesi classica (per rimanere legato all'opera di Rosa farei riferimento a Bernstein e Kautky) doveva addirittura costituire, attraverso una serie di passaggi scientificamente e positivisticamente determinati, il punto di rottura, il momento rivoluzionario. Anche il pensiero riformista, infatti, almeno in quell'epoca, non abbandonava la prospettiva rivoluzionaria e non si discostava dalle ipotesi del manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, ma me dava un'interpretazione deterministica e meccanicistica.
Nell'ipotesi rivoluzionaria il momento della rottura era dato e stabilito dalla crescita e radicalizzazione della coscienza e della soggettività e non era oggettivisticamente prevedibile, nell'ipotesi riformista invece era il risultato dello sviluppo armonico ed equilibrato del capitale che avrebbe determinato, ineluttabilmente, una naturale crescita della consapevolezza nella classe operaia, dei legami di classe e, in fondo, era l'economia e non la soggettività a rendere possibile la rivoluzione.
Oggi l'impossibilità di discernere un punto di rottura e di focalizzarlo comporta la necessità di immaginare molteplici piani e numerosi percorsi che potrebbero essere associati al riformismo del movimento operaio tradizionale, un riformismo, però, scisso, frantumato e molteplice, che non avanza perché non ha mete, ma organizza spazi e li mette in comunicazione, elabora culture e costituisce istituzioni e organizzazioni funzionali alla conservazioni di quegli spazi. Anche gli spazi sono da intendersi non come territori liberati e conquiste ma come spazi etici e intellettuali, momenti di cooperazione che possono sedimentare istituzioni e realtà organizzate provvisorie, trasversali e spesso 'contaminate' con altre situazioni e spazi etici e intellettuali, altri saperi insomma. Bisogna immaginare un'immensa officina non unificata da alcun comando, che si è costituita con pezzi e attrezzi presi qui e là, che è segmentata in molti settori; questi settori sono a loro volta dispersi dentro una fabbrica ancora più grande, che è costitutivamente e ontologicamente sottoposta a un comando unificato, quello capitalistico. Questo dominio unificato, però, non può fare a meno di quei pezzi dispersi nella sua grande fabbrica. Si tratta di un riformismo che si presenta senza il volto della riforma e con quello della collaborazione e cooperazione.

Domenica, 15 marzo

Annotazione. Le pagine di questi giorni sono tesi, tesi nel vero senso della parola, che si basano su altre tesi come quella della relazione tra riforma e rivoluzione di Rosa Luxembourg e sull'inattualità della tradizionale visione rivoluzionaria dell'organizzazione e del potere, tesi questa molto più recente ma che nutre insospettabili parentele con la prima. La possibilità di un riformismo che, per forza di cose, per necessità, deve assumere una facies rivoluzionaria e contemporaneamente l'idea che la rivoluzione è impossibile e la parola stessa, per continuare a essere adoperata, deve assumere nuovi significati (altrimenti è meglio non usarla) sono due tesi complementari. Questi due tesi comportano l'idea di un antagonismo puntiforme, disperso e di un analogo sviluppo del capitale.
Quello che è accaduto dal 2003, anno della stesura di Moltitudine (per lasciare perdere quanto è accaduto dai tempi della militanza della Luxembourg) è molto importante per comprendere quanto queste due tesi, che nascono da queste letture, sono verificabili e attuali. La mia sensazione, necessariamente empirica (e per empirica intendo massmediatica, poiché come molti altri non ho altre fonti di informazioni e materiali da analizzare) è che, dopo il movimento contro la globalizzazione capitalista degli anni novanta, si sia prodotto un grande riflusso e l'area della critica radicale sia stata investita da un profondo disorientamento e disarticolazione.
D'altronde anche il movimento no global si è presentato con un aspetto e una strategia massmediatici, ogni sua componente ha inteso proporsi ai media secondo diverse sensibilità e strategie; non intendo l'inevitabile massmediatizzazione con questo, ma il fatto di pensarsi anche in funzione della rappresentazione dei media. È inevitabile mettere in relazione certe pratiche militari delle 'tute nere' o black blocks a Genova con il calcolo dell'impatto giornalistico e televisivo, anzi come azioni studiate in funzione della loro rappresentazione televisiva, come è ugualmente inevitabile prendere in considerazione sotto questo particolare aspetto il pacifismo programmatico di Agnoletto o la posizione 'intermedia', ma altrettanto perdente, delle 'tute bianche'.
Più in generale il movimento dei movimenti si è mosso in relazione ai media, seguendo l'esempio di alcuni episodi di lotta del decennio precedente.
La fine del movimento potrebbe essere scambiata con la sua uscita dai palinsesti televisivi e dalle pagine dei giornali e dei notiziari.
Questo è un primo grande problema: non esiste, allo stato attuale delle mie conoscenze, un canale informativo strutturato sulle forme di critica radicale e non, spontanea e organizzata, delle classi subalterne o, se si preferisce il termine, della Moltitudine. 
Pur con tutti i suoi limiti e le deteriori inclinazioni, il movimento comunista tradizionale, la terza internazionale, aveva garantito, nonostante censure e disconferme, la diffusione delle informazioni su agitazioni, conflitti e forme di lotta. Quella che allora veniva considerata informazione 'alternativa' poteva confondersi e strutturarsi su quel retroterra  organizzativo che oggi, semplicemente, non esiste più. Ergo abbiamo pochissime informazioni su quello che accade nel mondo, ma anche nel nostro paese, nel campo delle organizzazioni ed esperienze 'alternative' o anche solo banalmente sindacali, come se non succedesse nulla o quasi nulla e la sensazione della nullità, della mancanza di critica e di una passività quasi assoluta della società è dominante.
Non si tratta, io credo, solo di un problema di visibilità: è un dato di fatto che il peso specifico delle azioni antagoniste e dell'organizzazione critica dei proletari sia diminuito drasticamente. In secondo  luogo è probabile che questo peso, per le radicali trasformazioni avvenute, sia disposto in maniera diversa e in ragione della sua nuova distribuzione molto meno evidente e misurabile.
L'impressione generale è che entrambi questi fattori, la riduzione del peso e il cambiamento del peso,  stiano lavorando verso questa invisibilità dei comportamenti alternativi al capitalismo.

La crisi del 2008 non ha aiutato a rendere visibili i bisogni dispersi, anzi mi pare il contrario. La sensazione generale, quasi inconscia, almeno nei paesi del 'centro dell'impero', che un tratto tipico del capitalismo fordista, vale a dire l'economia basata sull'abbondanza dei beni, tramontava definitivamente, dopo aver subito, comunque, una lunga, lenta e tenace destrutturazione dagli anni settanta in poi, si è diffusa ed è divenuta convinzione rassegnata, un nuovo dato di fatto con il quale misurarsi. Non esiste una relazione naturale tra bisogni ed economia, la relazione dell'uomo con il mercato è mediata sempre dall'ideologia, è, in gran parte, una relazione ideologica. I bisogni dipendono dall'immaginario dei protagonisti dei bisogni.
Questo non significa che nel caso italiano si stia ritornando, meccanicamente, a esigenze e ad aspettative anteriori all'affermazione del welfare state, e a un'analoga struttura della domanda di beni e merci, che si stia tornando, insomma, agli anni cinquanta del secolo scorso; l'automobile, la settimanale e quasi rituale spesa al supermercato, la vacanze sempre più breve e i passatempi pubblici e, soprattutto, privati sono ancora beni e occasioni commerciali disponibili, egemonizzando ancora il paesaggio sociale, ma con delle notevoli e ultime novità. Innanzitutto (e sarebbe un argomento complesso e articolato) la rete telematica ha permesso la fruizione di alcuni passatempi e  un modo di impiegare il tempo libero estremamente più economici e frugali, in secondo luogo quei beni, seppur 'proletarizzati', diminuiti, non sono più garantiti ad ognuno, rimanendo come situazioni di massa, resistendo come opportunità generali che, però, non devono essere necessariamente condivisi. Anche nell'apparato pubblicitario e nell'immaginario costruito dai media è venuto meno l'obbligo della condivisione che, invece,  caratterizzava i bisogni e le aspettative qualche decennio fa: la mancata condivisione di alcuni di quei beni e opportunità non è più motivo di emarginazione ed esclusione ed entra a far parte della normalità, anche se disposta in una gerarchia subordinata.
Si è abbassata, in buona sostanza, la soglia di percezione per la povertà: quella che un tempo sarebbe stata detta 'miseria' (e per un tempo intendo, limitatamente all'Italia, gli anni che vanno dal 1960 al 2000) oggi è diventata una condizione abbastanza diffusa, prodotta anche dal lavoro salariato e non, dal reddito da lavoro. Insomma la miseria oggi connota chi non ha il danaro sufficiente per affrontare l'intero mese, mentre prima era disposta a individuare chi, pur arrivando tranquillamente a fine mese, non possedeva un automobile o non si concedeva una vacanza in albergo, passando l'estate e le ferie in città o in paese. Si sono bruciati molti tesoretti generazionali nei bilanci proletari.
Analogo abbassamento della soglia di percezione si è verificato sul terreno, importantissimo, dell'assistenza sanitaria, dove si è introdotta una vera penuria del prodotto sanitario e un suo impoverimento secondo i quali l'uso di convenzioni e di assistenza privata è diventata in certi casi obbligatoria, per via dei tempi di risposta delle strutture ospedaliere pubbliche; a questa si è aggiunto il depennamento di moltissime convenzioni con fornitori di assistenza privati  e l'allargamento delle fasce soggette al ticket. L'assistenza sanitaria pubblica e gratuita non è scomparsa ma è divenuta più rara, meno efficace e terribilmente più povera in tecnologie e capacità operativa.
Il passaggio definitivo e, a mio sindacabilissimo parere che, però, si sposa con una convinzione abbastanza diffusa, irreversibile da un quadro economico dominato dall'abbondanza a uno scenario di penuria ha provocato una vera rivoluzione nella 'teoria dei bisogni' della Moltitudine dei paesi occidentali, soprattutto nella gerarchia delle priorità tra quelli. Anche i bisogni si sono impoveriti e anche il discorso sui bisogni, l'ideologia e la loro rappresentazione, sono diventati assolutamente più essenziali, proiettandoci in una specie di ombra povera del consumismo.

Due parole sull'iniziativa di Maurizio Landini. Attraverso di lui il sindacato (meglio scrivere una piccola parte, anche se significativa, del sindacato) ha compreso che qualcosa sta accadendo da almeno trent'anni sul mercato del lavoro, e che le organizzazioni sindacali hanno finto di non accorgersene o peggio (e sarebbe un sindacato di ebeti) non se ne sono accorte: sono accadute entrambe le cose e gli avveduti si sono tirati dietro gli idioti, nascondendosi dietro la loro ebetudine.
Questo processo di mistificazione di sé medesimi, risultata trasparente e programmata dai vertici, dai quadri intermedi e anche da parte della base sindacale, soprattutto da quella non operaia ma   pubblica e statale, è quello che si registra in questi appunti e che da decenni descrivono, marginalmente, uomini come Bologna, Virno, Negri e molti altri politicamente 'corretti'. Fuor di correttezza, lo stesso premier, Renzi, ha usato questo ritardo per criticare apertamente il sindacato e delegittimarne il ruolo politico e naturalmente per codificare (abbozzare la codificazione della) la nuova realtà del mercato del lavoro, aggirando qualsiasi opposizione pretestuosa oppure legittima del complesso sindacale.
Cosa ha scoperto Maurizio Landini? Quello che tutti sapevano già senza neppure aver bisogno di avere la tessera sindacale anzi a maggior ragione conoscevano proprio perché non l'avevano e non potevano averla: il lavoro proletario non è più un lavoro eminentemente operaio, le relazioni di sfruttamento sono anche al di fuori della fabbrica e il rapporto di lavoro salariato non più è l'unica forma di retribuzione del lavoro dipendente e comandato.
Nonostante l'abissale ritardo (mezzo secolo, quasi), che certo non sarà privo di conseguenze anche nella strategia che Landini e la FIOM dovranno adottare, questa presa di coscienza è importante, anche solo per un fatto: impone un rinnovamento radicale, nelle forme organizzative e nella ragione di essere del sindacato italiano. In futuro avremo occasione di ragionarci sopra.

Martedì, 17 marzo

Letture. Moltitudine. Classi pericolose. La Moltitudine non è una nuova classe sociale ma il contenitore di un insieme di classi sociali molto differenziato. La Moltitudine non si limita a essere un concetto passivo, una nuova dimensione spazio – temporale, una nuova categoria sociologica, anzi non è proprio questo, secondo Negri e Hardt è un nuovo paradigma, un nuovo modo di vivere delle classi o soggetti sociali e quindi non tanto una nuova dimensione spaziale e temporale quanto, invece, una nuova dimensione collettiva. In questa dimensione le diversità (sociali, produttive, culturali ed etniche) convivono e si esaltano; la Moltitudine, quando si è espressa come tale, ha rivendicato le differenze nel suo seno, le ha presentate come costitutive si sé medesima. Tutto questo ricorda, e non troppo vagamente, l'intercomunitarismo di Huwey Newton, del quale ho letto qualche mese fa. “Quando affermiamo di desiderare un mondo senza differenze etniche o di genere – scrivono gli autori - [ … ] in cui cioè non determinano le gerarchie di potere, un mondo in cui le differenze possono esprimersi liberamente, questo desiderio è un desiderio della Moltitudine” (p. 125).
Lo sviluppo della Moltitudine in contrapposizione al popolo è il risultato dello sviluppo capitalistico:  a un dominio esercitato internazionalmente corrisponde una costituzione del lavoro internazionale ma, soprattutto, a un comando che si realizza anche al di fuori della produzione dei beni materiali corrisponde un lavoro che si estende al di là della fabbrica, nella riproduzione del capitale, nella distribuzione e che produce infrastrutture tecniche, saperi necessariamente collettivi, logistica, stati d'animo e sentimenti. Il target produttivo della produzione post – taylorista è quello della produzione immateriale. In questa maniera il capitalismo, sia sotto il profilo geografico che sociale, tende a occupare tutti gli spazi, escludendo e annientando ogni esterno da sé e divenendo, perciò, un non – luogo.
Il vecchio concetto di classe operaia esce irrimediabilmente sconfitto e reso inadeguato da questa trasformazione; non tanto perché nei paesi sviluppati, nelle economie egemoni, la produzione materiale, la fabbrica, è divenuta fatto residuale ed è stata esportata, è emigrata, verso la periferia capitalistica, non tanto, dunque, perché l'operaio è scomparso (in realtà sopravvive in altre forme e in altre aree geografiche), ma in quanto il rapporto di lavoro salariato, centrale nel capitalismo industriale, ha perduto gran parte della sua polarità e la relazione di lavoro che conformava (salario espressione diretta della produttività oraria e l'idea stessa di produttività oraria) è entrata in crisi.
Posto il fenomeno al minimo, la produttività oggi si quantifica in altri modi che l'orario di lavoro o la produttività oraria, posto il fenomeno al massimo, oggi la produttività non è sorgente del valore ed esiste un'altra idea di produttività che riguarda quello che un tempo era repertorio del 'lavoro improduttivo', della sotto – occupazione e dei lavori saltuari; conseguentemente flessibilità e mobilità investono anche il lavoro operaio e il lavoro salariato contrattualizzato in generale perché i paradigmi egemoni e conformanti del modo di produzione capitalistico attuale richiedono flessibilità ed elasticità, continua ridefinizione produttiva, secondo il modello tipico della produzione immateriale e 'intellettuale'. Questa innegabile dispersione e frantumazione delle classi e delle relazioni di lavoro dentro una stessa classe subalterna “ … fa sì che il concetto di proletariato guadagni la sua definizione più piena, comprendendo tutti coloro che lavorano e producono sotto il comando del capitale” (p. 131).
Nella stessa misura in cui il lavoro produttivo di beni materiali perde il ruolo stellare nella definizione del valore economico e quindi il valore economico perde la sua unità di misura nel tempo di lavoro non necessario alla produzione del valore di scambio, come voleva la teoria marxista classica, la determinazione del plusvalore e del profitto si autonomizzano dal lavoro produttivo materiale e dai suoi schematismi e insieme con essi si rende indipendente quella che è l'astrazione reale (secondo un'espressione più volte ripresa da Marx) del valore produttivo, il danaro. È quest'ultimo un postulato interessantissimo e che certamente descrive con efficacia l'ultima fenomenologia del capitalismo e anche quella della recente crisi, in base alla quale si può tranquillamente denunciare il definitivo tramonto dell'economia come scienza, o, meglio, come viene evocativamente chiamata, “scienza triste”. La moneta acquisisce un potere e una vita autonomi, loro propri che meglio degli autori non avrei saputo scrivere (pur mantenendo necessarie alcune verifiche meno empiriche e percettive delle mie): “Solo il potere della moneta può effettivamente rappresentare la generalità dei valori di produzione e nel momento in cui divengono espressione delle moltitudini globali” (p. 184). Ammetto che questo modo di concepire la moneta è quasi metafisico, assolutamente non dimostrato nell'opera, ma va ribadito che l'analisi è e deve essere militante. Direi che la tesi di Negri e Hardt sul danaro è fortemente probabile.
Sono passato dall'incipit al prologo di questo capitolo non per indolenza ma per coerenza critica: la descrizione del proletariato nel paradigma della Moltitudine richiede e si esaurisce nel suo opposto, il capitalismo nella fenomenologia imperiale. Per la sintesi è inevitabile far riferimento ai Lineamenti di Marx che, infatti, sono continuamente citati nel capitolo (che è quasi un'opera conchiusa, quasi una monografia). Lo scenario della liberazione è soprattutto un percorso interno al lavoro, alla cooperazione, al 'comune', all'intelligenza collettiva che il capitale vampirizza e comanda come accade da più di un secolo, ma che ora per logica di cose e per la logica del suo stesso sviluppo non può controllare autenticamente.
Come all'interno del concetto di proletariato si articola la categoria del 'povero' o meglio dei 'poveri' (senza salario, migranti e precariato occidentale) così all'interno del lavoro si articola il concetto di una cooperazione tra gli individui e le 'singolarità', che entra in contraddizione con il comando del capitalismo SENZA esserne esterno, un'alternativa conclamata ma un'alterità praticata e citando i Lineamenti: “È il lavoro non come oggetto ma come attività, non come valore esso stesso, ma come sorgente viva del valore” (p. 180). Ancora una bellissima citazione su questa sintesi tra capitale e lavoro operaio che non ha più nulla a che vedere con il lavoro operaio e dunque anche con la sintesi immaginata da Marx: “Una volta cancellata la limitata forma borghese, che cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive [ … ]? Che cosa è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative … che rende fine a sè stessa questa totalità dello sviluppo … non misurato da un metro già dato? [ … ] Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire” (Lineamenti citati a p. 177). Questa cosa io la chiamo comunismo: al comunismo del capitale corrisponde il comunismo dei proletari.

Mercoledì, 18 marzo

Letture. Moltitudine. Classi pericolose. Il concetto di povertà, dentro questo quadro sintetico, è nuovo, nuovo rispetto alla tradizione marxista e anche rispetto al pensiero, ormai classico, dell'antagonismo italiano. Eppure la condizione del povero, è scritto in più punti nel capitolo, è condizione unificante, la vera condizione riconoscibile come 'comune', frazione caratteristica della comunità dei proletari. Povero è da intendersi colui che è privo di un lavoro stabile, il prestatore d'opera non necessariamente sottoposto al regime del lavoro contrattualmente salariato e il migrante. La povertà acquisisce una visibilità che prima non le veniva concessa nelle analisi e nelle rappresentazioni televisive e ideologiche e quindi la povertà offre la possibilità di costituirsi in comunità.
Una tesi è questa che va approfondita e verificata. In generale tutto il lavoro di Negri e Hardt andrebbe verificato, riempito di dati, di fatti, ed essendo il prodotto di un'analisi militante, verificato attraverso la lotta di classe di quest'ultimo decennio. Questo mettere alla prova non significa arricchire il testo ma riscriverlo e la riscrittura è imposta da un'analisi militante.

Venerdì, 20 marzo

Letture. Moltitudine. De corpore. Il titolo è un debito della filosofia politica sei – settecentesca che iniziava le proprie trattazioni con la descrizione dell'analogia tra corpo umano e corpo politico. Secondo questa teoria il corpo politico è la rappresentazione sociale del corpo umano, la fisiologia descrive la società che è costituita da un complesso di organi equilibrato e dominato dalla ragione. Alla guida, o meglio alla testa, di questo corpo politico è, secondo le inclinazioni ideali di ciascun autore, o il monarca o un istituto repubblicano ma in entrambi i casi non si sfugge a questa visione organicistica della società, intesa come un complesso che origina dalla collaborazione armonica tra i diversi organi. Questa visione, che non considera nulla al di fuori di questo corpo ben formato, è stata conservata tanto dal romanticismo e dal positivismo quanto dal pensiero novecentesco ed è il modo di vedere lo stato e il popolo (sempre considerato come espressione della nazionalità) dell'intera modernità. Poco importa se lo stato e il corpo sorgono dalla fine dello stato di natura (come in Hobbes e nel pensiero assolutista) o da un contratto che si fonda su una correzione dello stato di natura (Locke, Hume e Rousseau), l'elemento basilare rimane nella totalità inclusiva di questo corpo sociale, al di fuori del quale non è concepibile altro che la natura e gli altri animali.
Questo corpo, secondo gli autori, è definitivamente tramontato insieme con l'ideologia che lo accompagnava poiché il nuovo concetto e realtà del corpo politico non può più costituirsi in una unità organica, nel senso moderno del termine, ma si presenta, rispetto all'apparato ideologico della modernità, come privo di forma, soprattutto perché ha perduto quel principio formale che era la nazionalità e il parallelo concetto di popolo. Così si legge: “Il corpo politico globale non è il corpo nazionale cresciuto smisuratamente [come viene trattato da buona parte della sociologia contemporanea (nota mia)]. Il corpo politico possiede una nuova fisiologia” (p. 190).
Non casualmente e appropriatamente apre il capitolo una citazione di Marx, a segnare l'auspicabilità della fine di quest'armonia basata sugli stati - nazione: “In generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo tra borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso, signori, che io voto a favore del libero scambio”.
I passaggi di fondo e schematici nella transizione (che secondo Negri e Hardt era ancora in atto nel 2004) da un mondo contrassegnato dalle nazionalità e dagli stati – nazioni verso un mondo 'globalizzato' o integralmente internazionalizzato sono tre: la denazionalizzazione, la costituzione di una gerarchia internazionale o meglio globale e la scrittura di una nuova geografia del potere. I tre fenomeni sono interconnessi e l'uno presuppone l'altro, costituendo le tre facce del medesimo processo.
Denazionalizzazione (secondo l'accezione di Sassen) non significa la morte dello stato nazionale ma la sua trasformazione in un'istituzione che collabora sempre più spesso e con maggiore intensità con il nuovo ordine mondiale; gli stati nazionali non scompaiono ma “le loro azioni sono sempre meno sistematicamente orientate verso gli interessi nazionali e sempre più verso la nuova struttura di potere ...” (p. 191). Le gerarchie internazionali non si basano più sul confronto tra nazioni, delineando quindi nazioni egemoni e subalterne, sviluppate e sottosviluppate, un primo e terzo mondo o, infine, un nord e sud del mondo, come secondo la classica analisi critica terzomondista e maoista, questo impianto analitico è inattuale perché la divisione non passa più tra le nazioni (o meglio non passa più solo tra le nazioni) ma anche all'interno delle nazioni, definendo aree e addirittura zone urbane diversificate socialmente ed economicamente: la diversità tra nord e sud, tra capitalismo egemone e capitalismo subalterno e sottosviluppato, è interiorizzata nel corpo delle nazioni. La gerarchia internazionale divide ancora le nazioni ma anche l'interno degli stati – nazione. Vale dunque la pena di trascrivere che “i differenziali del costo della forza – lavoro creano processi di dumping biopolitico, di modo che il lavoro di determinati lavoratori ha più valore, quello di altri meno … Parlando in termine generali, ci sono ancora alcune importanti differenze tra nazioni e le maggiori aree geografiche … ma non ci sono più zone omogenee” (pp. 192 – 193).
La gerarchia non si fonda sulla geo – politica della modernità dove Europa e Nord America erano il modello dello sviluppo e il regno incontrastato e incontaminato del capitalismo evoluto e delle economie dell'abbondanza mentre Africa, America latina e quasi tutta l'Asia erano territori privilegiati della povertà e dello sottosviluppo, la nuova gerarchia, invece, si basa sulle relazioni mutevoli imposte alla forza – lavoro. Pensiamo alla 'stagione dei pomodori' nel mezzogiorno d'Italia  retribuita con salari di uno o due euro all'ora per dodici ore di lavoro, eseguita quasi esclusivamente da lavoratori stranieri e alla contemporanea sicurezza contrattuale degli operai agricoli italiani che operano nella medesima area. Qui un pezzo notevole di quello che un tempo sarebbe stato detto sud del mondo si è incuneato, insediandosi transitoriamente, nel nord del mondo. La gerarchia produce una nuova geografia che è mobile e transitoria precisamente come tendono a esserlo i rapporti di lavoro, tanto nei braccianti a giornata senegalesi nell'agro pontino, quanto per gli operai campani alla Fiat di Melfi.
Non sono più le nazioni e i rapporti tra nazioni a disegnare la geografia ma le nude relazioni sociali imposte ai lavoratori a fare di un'area terreno dello sviluppo o del sottosviluppo. Gli stati – nazione, attraverso la loro storia e la loro tradizione, attutiscono o amplificano (a seconda dei casi) il processo, ma ne sono irrimediabilmente attraversati.
Al termine dell'esposizione della nuova geografia, gli autori individuano il concetto geografico per eccellenza dell'attualità con un aggettivo verso il quale io ho una certa idiosincrasia e nutro diffidenza, il termine 'globale'. Globale è preferibile a internazionale perché quest'ultimo aggettivo implica e si articola sul concetto di nazione, mentre globale prescinde da quell'unità di misura e da quel termine  di paragone, ignora la nazione e introduce, appunto, l'idea di una geografia politica in continuo movimento.
Questa geografia ha un'istituzionalità concreta e gli autori invitano a fare un salto a Davos e al World economic forum, luogo di incontro tra esponenti del mondo finanziario, dirigenti e amministratori delle multinazionali e di alti burocrati dell'ONU e degli stati nazionali. A Davos si riunisce in assemblea l'oligarchia politico – finanziaria del capitalismo globalizzato. Questa oligarchia è il risultato della cooptazione di elementi degli istituti internazionali (FMI, Banca mondiale) e della continua migrazione da attività finanziarie a politiche e viceversa dei suoi componenti.  Davos, delle cui riunioni ben poco conosco, è la quintessenza della necessità di confronto e coordinamento del capitalismo libero – scambista e della necessità persistente dell'intervento politico e 'statale' nell'economia.
FMI e Banca mondiale, seguendo le nuove logiche monetariste così ben individuate dagli autori nel capitolo precedente, intervengono sull'economia mondiale, esercitando forza e coercizione attraverso la persuasione determinata dalle strette monetarie e creditizie, nate dagli accordi di Bretton Wood del 1944, tese a organizzare la crisi del secondo dopo guerra, le due istituzioni sono, per gli autori, il vero cuore strutturante il nuovo ordine mondiale e ne rappresentano il supremo livello.
Le intese tra stati – nazione, periodiche o permanenti (penso all'Unione Europea o alla comunità economica – finanziaria nel sud America) ne gestiscono il secondo livello. Un terzo livello sono le strutture di authority e di autoregolamentazione delle multinazionali che ereditano, stravolgendola, la tradizione della lex mercatoria medioevale e moderna.
Al di là della concretezza e della ricchezza di riferimenti storici, risultano oggettivamente piuttosto maldefinite le relazioni tra Davos, FMI, stati – nazione e multinazionali; era più chiara, sotto questo aspetto, l'analisi sviluppata in Impero, anche perché qui è difficile intendere chi decida e che cosa decida e soprattutto non si spiegano i meccanismi reali che permettono il ricorso alla guerra che è una delle caratteristiche di un potere, anche se costituente. La guerra, tra le altre cose è una delle fenomenologie più importanti del nuovo potere imperiale. Insomma annoto un paradossale 'vuoto di potere' in questa analisi.
Per rimanere nell'apprezzabile concretezza viene ricordato il permissivismo monetario del FMI a favore della Turchia, nazione strategica per l'economia globalizzata a causa della sua frontiera medio orientale, e la quasi coeva inflessibilità verso l'Argentina della quale si provocò, a ragion veduta, il fallimento.
Lo ribadisco: il nesso tra potere costituente mondializzato – capitalismo globalizzato – politiche belliche non è affatto chiaro nell'analisi di Negri e Hardt. Ciononostante gli autori individuano una fondamentale e innegabile contraddizione che percorre questo nesso non ben definito: se l'uso della forza militare non è più subordinato agli interessi nazionali, al vecchio refrain protezionista, ma all'esigenza ben più generale di rendere possibile la realizzazione del nuovo potere mondiale, e quindi alla nuova veste del libero scambio, proprio l'uso della guerra deve, con vero paradosso, fare nuovamente riferimento ai vecchi confini nazionali e spesso agli eserciti delle diverse nazioni, finendo per “ostruire i circuiti globali della produzione e del commercio – ossia le fonti dei macroprofitti” (p. 207).
Potrebbe questo essere il prodotto di una malattia giovanile del capitalismo mondiale integrato o globalizzato ma anche un dato strutturale e non solo strutturante: l'uso della forza impone riferimenti al moderno, al pre – globale e in questo senso le istituzioni nazionali sono destinate a sopravvivere, magari in regime di farsa e in simulacro, ma a resistere.
Credo che la percezione del 2015 confermi quella del 2004: il capitalismo mondiale dà l'impressione di essersi fermato a questo livelli di evoluzione. Come nel caso della sussunzione reale, dell'intero tempo di vita, è per me innegabile che una pausa simile si è verificata nella 'rivoluzione geografica'. Così come la conservazione della separazione tra vita e lavoro è ancora utile al funzionamento dell'economia e alla realizzazione della sicurezza sociale, il mantenimento dell'ossatura della geografia tradizionale ha un ruolo nell'affermazione della 'nuova geografia'.
La costituzione del diritto globale incontra un secondo ostacolo che è costituito dai nuovi orizzonti della proprietà privata. La produzione del capitalismo contemporaneo è in larga parte, come veduto, immateriale, riguarda i saperi, le conoscenze, gli stili di vita, gli stati d'animo, la propensione al consumo, l'informazione, la telematica e le tecnologie. Le tecnologie soprattutto, al contrario che nel passato, intervengono su settori produttivi immateriali nel loro stesso svolgersi: produzione di procedure informatiche, telematiche, genetiche che hanno innumerevoli campi di applicazione nell'agricoltura, nell'industria, nella medicina e, naturalmente, nella tecnologia stessa. La tecnologia, cioè, come da sempre contribuisce ad aggiornare sé stessa con una novità notevole: cambia la sua posizione dentro la società e l'economia poiché trasforma non solo i mezzi di produzione ma i saperi che stanno dietro la costruzione dei mezzi di produzione (non individua soltanto un nuovo utensile ma soprattutto un nuovo modo di usarlo, un nuovo contesto operativo).
Il sapere tecnologico è diventato, molto più di prima, il motore dello sviluppo sociale ed economico, il controllo del sapere tecnologico si può esprimere attraverso la sua privatizzazione, equiparandolo a qualsiasi altro prodotto del lavoro, a tempo di lavoro, che si può monetizzare e comprare. La privatizzazione dei saperi, però, come ben descritto in Etica Hacker di Himanen, non aiuta la loro crescita e la loro riproduzione, anzi, precisamente come il confine e la dogana nel commercio, lo inibisce.
Il sapere scientifico e tecnico nasce dalla cooperazione e collaborazione di molti soggetti, dal lavoro di una comunità di forza – lavoro nella sincronicità come nel corso del tempo. Il sapere scientifico è il risultato di un processo sociale e storico, una collaborazione tra generazioni (Euclide ha collaborato con Einstein), il cui filo si è dipanato più o meno liberamente, è stato legato a istituzioni più o meno autoritarie ma non è stato vincolato alla proprietà privata. Il rischio della privatizzazione sta nella rottura di quel filo e nella perdita di quel legame, alla fine spontaneo, tra interesse dello scienziato o dell'istituzione di ricerca ed esigenze sociali. Certo è che 'esigenze sociali' non è una locuzione 'neutra', lo scienziato indirizza la sua ricerca verso la parte più visibile e legittimata dall'apparato economico, la parte 'dominante' di quello ma, lo ribadisco, mantiene con quella una relazione spontanea e genuina. Nel momento in cui il sapere dello scienziato si trasforma in proprietà, il sapere informatico, genetico, bioingegneristico si codifica, il concetto si 'cripta' e si inserisce in una contesto specifico e limitato. Le esigenze sociali vengono sostituite dalle esigenze imprenditoriali. In un contesto simile diventa ancora più difficile esercitare quel controllo democratico sulla ricerca (soprattutto in campo genetico e medico) che Negri e Hardt auspicano in una società e una biologia integralmente artificiali come sono quelle contemporanee, che lasciano immaginare lo scenario dell'artificiale come il vero scenario naturale dell'umano.

Martedì, 24 marzo

Letture. Moltitudine. Tracce della Moltitudine.  E che tracce! Ci sarebbe da scriverne per giorni e non per ore.
In questo paragrafo ci si imbatte in alcune tracce della Moltitudine che sono molto più che orme. Queste orme sono concetti vecchi ma recuperati e nuovi ma coerentemente messi in relazione con altri preesistenti.
L'abitudine e l'atto performativo, oppure quelli di privato, pubblico e comune sono i concetti entro i quali si può spiegare il 'movimento', l'evoluzione della Moltitudine e le coordinate del suo spostamento nella storia.
L'abitudine spiega la possibilità del cambiamento senza che si debba far riferimento a una soggettività libera e a un approccio idealistico; il concetto, ripreso dal pragmatismo di Dewey e James, descrive la possibilità di immaginare il cambiamento e la trasformazione nella coscienza, nell'immaginazione e negli stili di vita, rispettando un impianto materialista. È fondamentale questo sforzo per individuare una dimensione materialista in un contesto, come quello descritto intorno alla Moltitudine, per il quale la 'scelta' e l'eticità divengono, per certi versi, strategiche. Il pericolo di cadere in un'ottica 'volontarista', o peggio velleitaria, in un appello esclusivo alla libertà di scelta degli individui slegata dalla vera ed effettiva possibilità di operarla, pur presente, è evitato. La Moltitudine è strutturalmente produttiva, la produzione è la sua essenza, quindi inevitabilmente produttrice di scelte che sono però interpretabili come abitudini, cioè di quella cosa che “sta così a metà strada fra la stabilità delle leggi della natura e la libertà dell'azione soggettiva ( … ) dell'enorme volano della società, che fornisce stabilità e l'inerzia necessarie alla riproduzione sociale della vita quotidiana” (p. 230). L'abitudine, di per sé conservatrice, è un'esperienza sociale che ci viene comunicata dagli altri e che noi comunichiamo agli altri; il cuore dell'abitudine è la comunicazione sociale e l'interazione e quindi una caratteristica progressiva. Ancora più chiaramente si legge: “Le abitudini sono come una seconda natura, allo stesso tempo prodotta e produttiva, creata e creativa – un'ontologia della pratica sociale portata avanti in comune” (p. 231). L'atto performativo nasce nel momento in cui la componente progressiva dell'abitudine viene esaltata, fino al punto di suscitare una nuova abitudine e una nuova visione dei problemi, delle relazione delle interazioni sociali.
Non vorrei sbagliarmi ma abitudine e atto performativo costituiscono il paradigma di un gradualismo rivoluzionario: il cambiamento di relazioni, passioni, desideri, dall'interno, a partire da relazioni, passioni e desideri precedenti che raggiungono un nuovo grado.

Annotazione. [Tunisi e Torino] Tra confini e loro deformazione è quasi un lapsus freudiano pensare, come mi è capitato, l'attentato di Tunisi come l'attentato di Torino. Torino è stata a Tunisi, come Tunisi è entrata a Torino. È come se le due città si fossero incontrate, fossero entrate l'una nell'altra; il pensionato del Comune ucciso da un disperato della barriera, il museo del Bardo come il museo egizio. L' ISIS non è affatto capace di organizzare certe 'contaminazioni' transnazionali, di comprenderle e teorizzarle, ma è capace di cogliere, in maniera plebea e necessariamente rozza, sanguinaria e folle, l'impatto sull'immaginario di questa tattica, che è un prodotto spontaneo, non misurato. La non preordinazione, la spontaneità armata, produce il più forte impatto che si possa calcolare: è saltata l'organizzazione verticistica di Al Qaeda, la sua fine è stata realizzata, secondo il metro televisivo, dall'uccisione di Bin Laden nella squallida stamberga – rifugio nella quale è stata rappresentata la sua esecuzione capitale, ora è l'orizzontalità del califfato, ora è la rete telematica piuttosto che la verticalità del sistema televisivo, a essere usata nella rappresentazione dell'antagonismo islamico.
I confini da sorgenti di benessere (tutela protezionistica del mercato del lavoro interno e delle sue regole, della legislazione sociale delle diverse nazioni, delle garanzie nazionalisticamente distribuite del welfare state) in ragione del protezionismo sociale sono diventati sorgenti e fonti di malessere: non garantiscono più la struttura nazionale del mercato del lavoro che si è reso permeabilissimo alla transnazionalizzazione e servono esclusivamente a legittimare e sperimentare l'armamento del nuovo capitalismo mondiale. I confini sono e saranno sempre più armati, saranno sempre più confini di guerra senza più essere confini nazionali e 'tradizionali'.

Mercoledì, 25 marzo

Annotazione. Non tutti i confini sono e saranno di guerra, ovviamente, ma solo quelli che passano e passeranno ai bordi della tettonica a zolle imperiale. Non esiste stabilità geologica in materia: il nuovo scenario del capitalismo globale integrato è dominato proprio dalla mobilità geografica. Pensiamo a come sia diventato una linea bellica il confine tra Ucraina e Russia, o quello mauretano oppure quello tra Tunisia e Libia. Le aree di crisi si ridislocano con una velocità impressionante.
A proposito di malessere e benessere, la permeabilità, invisibilità e superamento dei confini nazionali e tradizionali sono elementi capaci di provocare ricchezze e comunicazione e un radicale rimescolamento delle tutele e delle regole del mercato. Questo fenomeno non è, però, libero e dunque lineare, non si svolge secondo la linea di una generale compensazione economica e neppure in una prospettiva naturale di un'elevata comunicazione e socializzazione. Avviene, invece, quasi il contrario rispetto a queste linee, tendenze e prospettive che, alla fine, si presentano come repertorio dell'utopia. I flussi migratori, i movimenti delle merci e le dinamiche del mercato del lavoro insistono sulla preesistenza nazionale o ancora di più sulle nuove geografie transnazionali (Unione Europea, CSI), creano gerarchie in quelle e producono, invece che socializzazione, una produzione, su scala mondiale, delle discriminazioni sociali che assumono sempre più spesso un aspetto etnico (per esempio in Campania l'operaio migrante non per il suo lavoro ma per il suo stato di straniero è pagato un quinto di quello indigeno) ma non solo e necessariamente.
Questo non significa che, per evitare questo innegabile malessere uguale e contrario a quello provocato dalla conservazione dei confini, bisogna affidarsi alla nostalgia, sognando o peggio progettando un impossibile ritorno al passato: il passato non ritorna precisamente come non arriva il futuro arriva. Certamente non sarebbe una buona politica abbracciare le tesi di chi (come la Lega nord in Italia o il Front National in Francia e le svariate concentrazioni neo – naziste ungheresi, tedesche e inglesi) vuole fortificare e usare il malessere generato dalla permeabilità dei confini per il semplice motivo, semplice e anche banalissimo, che, nel contesto del capitalismo mondiale integrato (secondo la felice accezione usata e individuata da Deleuze), ricostruire i confini sul modello giuridico e costituzionale degli stati – nazione significherebbe chiudersi in una comunità di autoconsumo economico, sociale, culturale e comunicativo e non riuscirebbe a ripristinare lo stato – nazione. Lo stato – nazione, infatti, presupponeva la comunità internazionale mentre oggi la comunità internazionale, quella che era capace di creare moderata e misurata permeabilità dei confini, non esiste più.
Se la tesi del benessere come possibile prodotto della definitiva affermazione del mercato mondiale integrato (sia come mercato delle merci che della forza – lavoro) è utopica, la tesi contraria, la teoria del ripristino, lo è altrettanto.
È comunque più grave e pericolosa la prima utopia che è, va aggettivata e qualificata, l'utopia del capitalismo imperiale. Esiste un'innegabile pulsione ideale, un'ideologia, del capitalismo contemporaneo, che si fonda su alcuni elementi, genetici e viscerali di quello. 1- Il capitalismo è l'unico sistema sociale possibile, la sua storia particolare coincide con la storia generale e la sua ontologia particolare con l'ontologia generale. 2 – Il capitalismo è l'unico sistema di dominio capace di governare la complessità delle forze produttive. 3 – Il capitalismo è l'unica dimensione realizzata dell'umano e dunque fonte indiscussa dell'etica, la relazione sociale che impone è naturale.
È chiaro che ai nazistelli nostrani ed europei, che hanno fatto di una recitata e demagogica opposizione al capitalismo globale (calcando la matita sulla parola globale, molto meno sulla parola capitalismo), questi tre assiomi provochino uno sturbo psicopsichico perché è ciò che vorrebbero ottenere, amare e sublimare del capitalismo senza, però, l'odiatissima  globalizzazione.
Al contrario di questi interpreti della lotta al capitalismo segnata dalla nostalgia e dalla versione populista e demagogica del positivismo e nazionalismo ottocentesco, i teorici del capitalismo mondiale integrato non sono affatto classisti, razzisti o sessisti, anzi tutto il contrario; il capitalismo non propugna le discriminazioni etniche, sessuali o sociali, anzi, ne proclama l'abolizione quando non afferma addirittura di averle eliminate. I teorici del ripristino, insieme con il loro amato stato – nazione o stato – 'sottonazionale' (dipende dalle simpatie geografiche), allora, vogliono restaurarle e sono stati, sono e saranno capaci di provocare danni sociali e politici immensi ma mai, mai neanche per un istante, di controllare e governare (come promettono demagogicamente) il processo di sviluppo sociale ed economico.
Il capitalismo, scrivevo, non propugna discriminazione ma la applica e la applica perché la deve applicare. Il sistema capitalistico è una relazione sociale di dominio: il suo stato è un relitto dello stato assoluto aristocratico e la proprietà privata dei mezzi di produzione, insieme con il concetto di possesso esclusivo privo di competitori, deriva dal diritto feudale (nemmeno da quello romano dove la proprietà, il praedium, era subordinata al diritto di prelazione dello stato: si possedeva a meno che, a determinate condizioni). Una tale generazione della proprietà privata, sia essa anonima o personalizzata (ma meglio la prima ai fini della sua completa libertà di azione e di espressione) richiede un apparato coercitivo strutturato tanto verticalmente quanto orizzontalmente; verticalmente perché la proprietà si concentra in alcune strutture decisionali, orizzontalmente perché si diffonde e segue lo sviluppo dell'apparato produttivo. Molte altre riflessioni  potrebbero essere aggiunte, ma qui interessa la base, la genesi e le viscere del sistema, del complesso capitalista. E sono queste poche, alla fine.
La potenza dei flussi orizzontali, della crescita della produzione, impone l'esercizio della proprietà su quelli e quindi la continua sostituzione dei principi di utilità sociale e delle strategie che ne deriverebbero. Il capitalismo continua, quindi, a esercitare un controllo sulla crescita e sulla sua complessità e questo controllo non può, però, rimanere vincolato all'orizzontalità degli elementi produttivi e sociali e deve imporre una semplificazione gerarchica e una verticalità. Il mondo della produzione viene, così, segmentato in categorie qualitative (produzione d'eccellenza, di massa, ad alto contenuto tecnologico, a bassa tecnologia etc. etc.), il mondo della comunicazione in settori adeguati e inadeguati, il mondo delle etnie in gruppi o popolazioni sviluppate e arretrate. Si tratta di  diversità oggettivamente determinate, mai di differenze oggettive e sostanziali: le diversità possono rimescolarsi e cambiare il loro stato qualitativo (oggi l'arabo è in fondo, ieri lo era l'emigrato del meridione, domani sarà l'asiatico; oggi è il commesso del supermercato a lavorare nella bassa tecnologia, ieri era il bracciante agricolo, domani potrà invece esserlo l'impiegato dei servizi pubblici e privati)  e non sono mai date a priori ma sempre a posteriori. In questo senso il capitalismo è egalitario: la sua eguaglianza è l'intercambiabilità dei ruoli.
Ma proprio così il capitalismo rinnega i suoi tre punti utopici: di essere l'ontologia della storia, di saper governare la complessità che produce e di essere il rappresentante dell'uomo davanti alla storia. L'apologia del capitalismo contemporaneo rispetto a questo momento critico è vecchia e semplice: la perseveranza del sessismo, la continuazione del classismo e la conservazione del razzismo non sono presentati come prodotti naturali del sistema, ma come il risultato di difficoltà storiche e di resistenze (arretratezze culturali ed economiche, opposizioni nazionalistiche e arcaicizzanti) perché il sistema sarebbe, altrimenti, democratico ed egalitario.
La potenza di fuoco dei massmedia, sulla quale è superfluo e noioso soffermarsi su questo taccuino, guidata da questa ideologia, secondo le sue numerose declinazioni, ne ha sotterrato l'elemento utopico e ne ha fatto un elemento impropriamente realizzato, ma ancora di più la configurazione della rete telematica e della telefonia offrono la percezione e l'impressione, spesso la concreta esperienza, di questa democrazia ed eguaglianza come propositi non utopistici ma realizzati, almeno a tratti e parzialmente. Mentre i massmedia a comunicazione verticale analizzano e rappresentano il reale in funzione di questa utopia, quelli a comunicazione orizzontale e paritetica rappresentano la realtà di questa utopia.
L'utopia del capitale è, però, doppia. Da una parte si manifesta (o meglio si nasconde) nello sviluppo naturale e ontologico del sistema economico e informativo globale, dall'altra parte nello sviluppo comandato e teleologico, là dove, cioè, il capitalismo si organizza come potenza cosciente per il controllo del processo sociale, che è cosa ben diversa dal controllo 'naturale e implicito' che contraddistingue il primo livello dello sviluppo. Qui il capitalismo ha percezione di quello che Hardt, Negri e Virno chiamano “Moltitudine”, come potenza dell'evoluzione e di un'evoluzione che si fa 'aliena', che applica l'ontologia, il governo e l'etica che non vengono applicate dal capitalismo, che, quindi, occupa gli spazi lasciati liberi, in questo ambito, dall'ideologia del capitale. In questo livello del confronto, piuttosto drammatico (e drammatico anche perché nel capitalismo contemporaneo è divenuto quotidiano), il capitale si oppone e fa resistenza, assumendo un ruolo frenante, rispetto a quelle che sono le sue componenti ontologiche e naturali: perseguendo il suo sviluppo, cioè la tendenza alla socializzazione dell'economia, all'allargamento della comunicazione, all'estensione coeva della comunicazione fino a negarne i limiti, all'interazione sociale sconfinata, è costretto a porre limiti a tutte queste bellissime e rivoluzionarie tendenze e deve, quindi, istituire limiti al suo sviluppo. Non mi stancherò mai di pensarlo: la patologia del capitalismo è la schizofrenia. È una contraddizione, questa, antica come il capitale stesso, scoperta da Marx un secolo e mezzo fa, ma che ora assume veste nuova perché il rappresentante dell'umano (il capitalismo si è sempre pensato sotto questo aspetto) per continuare a essere rappresentante dell'umano deve distruggere l'umano, come l'etica, per essere affermata sotto il suo dominio, è necessario che si ridicolizzi. Siamo entrati in una nuova e terribile fase del capitalismo durante la quale è un'immedesimazione organica e empatica tra umano e capitale, tra antropologia ed economia politica.
Il disorientamento, la paura, le indecisioni e la percezione del rischio divengono struttura dell'ideologia del capitalismo mondiale integrato: pensiamo all'incessante rimescolamento massmediatico, alla propaganda di alcuni effetti ed eventi e subito dopo di altri effetti ed eventi, stati d'animo e subito dopo stati d'animo opposti, immagini che vengono unite con la tesi dell'evoluzione naturale, utopica e globalizzata del sistema economico e sociale e subito dopo le stesse immagini sono invece coniugate con la paura e l'angoscia e con la necessità del ripristino e del ritorno al passato: disorientamento, paura, indecisione sono elementi casualmente presentati e mescolati dentro una strategia molto precisa.
Il capitalismo è un'intelligenza collettiva che non è più il prodotto della mediazione tra gli interessi individuali, perché il capitalismo ha superato l'individualità, le classi e i componenti, segmenti e frazioni di classe, ha superato anche la classe dei capitalisti; la sorgente della sua intelligenza collettiva è già essa stessa collettiva e quindi l'intelligenza e la sensibilità non può avere riferimenti con il collettivo (che è pur sempre un insieme di individualità, di ecceitas) ma con il generale. Il general intellect di Marx e la strategia del dominio del capitale sono la stessa cosa, o meglio fanno parte dello stesso processo intellettuale. Anche il dominio nelle forme politiche si presenta subito come intelletto generale.

Giovedì, 26 marzo

Annotazione. Devo spiegarmi meglio il concetto di transnazionale nell'accezione da me utilizzata, che è perfettamente concorrente a quella che contraddistingue quella di globale. In breve l'etimologia ragionata è trans (oltre, al di là) nationem (nazione, comunità linguistica). La nazione è un limite ubicato nel passato, che è stato superato, ma che rimane presente nella contemporaneità, continuamente evocato.

Letture. Moltitudine. Tracce della Moltitudine. Privato, come proprietà privata dei mezzi di produzione, dei prodotti e delle idee; pubblico, come proprietà privata dello stato, proprietà privata collettivizzata; comune, come momento particolare in cui i mezzi, i prodotti e le idee non hanno proprietà, non sono né privati né pubblici, come, secondo Marx, le merci del negoziante in attesa di essere vendute.

Sabato, 28 marzo

Letture. Moltitudine. La lunga marcia della democrazia. Si svolge una rassegna sulla storia del pensiero in materia di democrazia: dal superamento della concezione antica della democrazia come governo dei 'molti', verso un'idea della democrazia come espressione istituzionale dei 'tutti', sottolineando che anche questo allargamento di epoca moderna richiese delle significative esclusioni (donne e uomini privi di sostanze).
La democrazia si manifesta, al contrario che nell'antichità, come problema. In primo luogo si presenta un problema organizzativo poiché la base territoriale della democrazia, in quanto governo di tutti, si estende, coincidendo con i nascenti stati nazionali, per i quali la tecnica assembleare usata nella polis greca o nel municipium dell'antichità romana, tipici del modello democratico della classicità, non sono applicabili. In secondo luogo la democrazia moderna pone un problema politico e nasce da un problema politico: la necessità di superare le guerre civili del XVII secolo (la guerra civile inglese, quella olandese e la terrificante guerra dei trent'anni in Germania) a causa delle quali la fondazione del potere sovrano su base democratica diviene fondamentale al fine di recuperare a un disegno collaborativo energie e processi sociali e politici altrimenti ingovernabili; secondo quanto scrivono gli autori: “La violenza dello stato di natura … è in realtà il distillato filosofico della guerra civile, proiettato nella preistoria o nella stessa natura dell'uomo. Alla sovranità moderna venne assegnato il compito di porre fine alla guerra civile [in nota è un riferimento a Hobbes]” (p. 276). In terzo luogo la democrazia è, nel XVIII secolo, tolte alcune eccezioni nel pensiero rivoluzionario francese (Giacobini, Cordiglieri e Sanculotteria), sostanzialmente minoritaria e l'istituto democratico viene veduto come una necessità, certamente, ma una necessità temuta.
Questi tre fattori (estensione territoriale, guerra civile e timore pregiudiziale) comportano una radicale revisione delle tecniche democratiche dell'antichità (basate più o meno su una democrazia diretta e un mandato imperativo nella rappresentanza) e anche delle riflessioni sull'argomento di Spinoza. A parte la breve (formidabile e commovente) parentesi  giacobina, il modello democratico egemone fino al punto di essere oggi sinonimo di democrazia è quello che Max Weber definisce di rappresentanza libera, contrapposto a quello appropriativo e vincolato. Nel modello rappresentativo libero, il rappresentante viene periodicamente eletto dal rappresentato, ma nell'esercizio della sua magistratura è completamente libero dal corpo elettorale: ha completa autonomia di azione di giudizio (al contrario che nel modello di democrazia vincolata, il cui riferimento può essere il mandato imperativo richiesto e a tratti praticato da alcuni gruppi giacobini e dagli arrabbiati durante la grande rivoluzione).
La democrazia 'globale' ha il compito, secondo gli autori, precisamente come la democrazia nazionale del XVII – XVIII secolo, di affrontare la guerra e di risolverla, ma si tratta di ben altro tipo di guerra e di fondazione. Il problema è che non si trovano idee precise in merito, né tra i detrattori residuali, ma consistenti e lo ripeto dannosisssimi, della transnazionalizzazione (che si limitano a propugnare il ritorno alla dimensione nazionale della politica e delle istituzioni costituzionali) né tra i fautori dello sviluppo della globalizzazione. Il rischio oggettivo  è che, per usare le categorie costruite da Max Weber, la democrazia 'globale' si avvii a essere un'istituzione a rappresentanza appropriata e patriarcale (cioè non elettiva ma cooptativa sui precedenti istituiti elettivi).

Letture. La Moltitudine. Le richieste globali di democrazia. Si registra l'estrema debolezza, se non la completa illusorietà, della costituzione di strutture di potere globali che siano espressione di una legittimazione democratica. La formalizzazione di istituzioni di diritto internazionale (le thrue commissions, i tribunali internazionali e il tribunale penale internazionale) vivono due  contraddizioni, una implicita e l'altra esplicita. Sotto il profilo implicito e ontologico queste istituzioni non hanno un diritto univoco al quale fare riferimento ed è spesso la contingenza a dettare le forme del giudizio. Sotto il profilo esplicito questi istituti e il loro operato non possiedono un riconoscimento obbligato, ma presuppongono solo un'adesione volontaria alle loro delibere dei singoli stati – nazione. Caso emblematico fu quello del contenzioso sorto tra il Nicaragua sandinista e gli USA, nel quale il tribunale condannò gli Stati Uniti ma l'amministrazione USA non riconobbe legittimità alla sentenza e al tribunale.
Questi istituti, inoltre, finiscono per essere solo uno strumento per registrare i rapporti di forza tra gli stati nazionali, legittimando il ruolo egemonico a livello transnazionale di alcuni stati e a posteriori l'uso della forza da parte degli immancabili vincitori.
Banca Mondiale e FMI sono ben lontani dall'essere strutture di rappresentanza democratica come pure l'Assemblea Generale dell'ONU con un voto concesso  a ogni singolo paese, indipendentemente dal suo volume demografico o, aggiungo io, dalla considerazione, almeno formale, della effettiva democraticità del suo governo. Alla fine, secondo Negri e Hardt, che scrivono nel 2004, ma anche secondo me che penso nel 2015, decisiva è stata l'esportazione 'imperiale' di alcuni istituti giuridici statunitensi allo scopo di preservare lo 'stato di diritto' della globalizzazione. In questo contesto la 'democrazia globale' rimane una chimera lontanissima e una mistificazione vicinissima e concreta. La richiesta magmatica, scoordinata ma autentica di democrazia globale da parte dei movimenti degli anni novanta del secolo passato è, solo per questo, stata dirompente; una richiesta che non si può, ancora una volta, legare al rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali ma al loro superamento. Gli stati – nazione assumono ormai, in qualsiasi punto gerarchico si collochino, un freno alla possibilità dello sviluppo della democrazia.
In primo luogo sono necessariamente un freno in quanto “ Uno degli effetti della globalizzazione è che alcuni leader nazionali, indipendentemente dal fatto che siano o non siano stati eletti, acquisiscono sempre più potere al di fuori dei loro stati …” (p. 314). In secondo luogo “Gli stati si adeguano alle istanze del capitale … per paura di essere declassati all'interno del sistema globale” (p. 324).
Se consideriamo democrazia il contesto parlamentare ed elettorale sviluppato, bene o male, nei paesi capitalistici egemoni, la sua globalizzazione è decisamente lontana, come l'esempio offerto nel XVII e XVIII secolo dai parlamenti feudali era ben lontano dal paradigma di democrazia al quale si ispirava la borghesia. Per di più l'11 settembre 2001, la guerra del golfo e, aggiungo io, l'implosione del capitale finanziario e la conseguente grande depressione del 2008 hanno spento la forza propulsiva del movimento 'no global' nel campo delle richieste democratiche, come in molti altri terreni politici. Persino le iniziative ispirate dai paradigmi ecologisti e informativi, centrali negli anni novanta, sono rifluite, localizzandosi nuovamente e perdendo il necessario e costitutivo orizzonte transnazionale. Anche se gli autori, andando contro a quasi tutta la tradizione marxista, riconoscono un carattere 'progressivo' e profetico alla finanza, che sarebbe stata capace di immagazzinare, astraendole all'ennesima potenza, le risorse produttive e attraverso questa astrazione di progettare il futuro, dopo il 2001 / 2003 il segno della 'globalizzazione' si è fatto radicalmente regressivo e apertamente repressivo, apertamente sospettoso verso il suo stesso progresso, vincolato alla supremazia militare di alcuni stati – nazione (USA capofila) e in molti casi volto a una sorta di de – globalizzazione di facciata, che, in parte, sembra dare ragione ai nuovi nazionalismi e alle riterritorializzazioni neo – naziste.
Dentro questo nuovo contesto è, però, ancora valido ciò che scrivono gli autori a proposito della trasformazione possibile: “Al giorno d'oggi non c'è alcun conflitto tra riforma e rivoluzione. Ciò non significa che riforma e rivoluzione sono la stessa cosa, ma che nelle condizioni attuali non possono essere separate … È inutile romperci il capo per capire se una proposta è riformista o rivoluzionaria ...” (p. 336).


rivedi marzo

Inizio anno


Mercoledì, 1 aprile

Letture. Moltitudine. Le richieste globali di democrazia. La costituzione di una forma di rappresentanza democratica su scala globale non è solo illusoria ma in contraddizione con i principi della democrazia. L'estensione della democrazia elettiva e parlamentare dalla dimensione nazionale a quella mondiale comporterebbe necessariamente la costituzione di circoscrizioni elettorali forti di decine di milioni di elettori, secondo una distrettazione difficile da disegnare e in generale la rappresentatività degli eletti sarebbe, davvero, bassa. È quindi necessario immaginare altri modelli rispetto a quello elettorale – distrettuale – rappresentativo. In buona sostanza gli spazi per la democrazia in un contesto globalizzato, gli spazi per una democrazia che sia rappresentativa della globalizzazione secondo le forme tradizionali per gli stati – nazione, sono veramente esigui e rasentano la fantapolitica ovvero la fantascienza.
Epperò per Negri e Hardt il problema della democrazia e della lotta per la democrazia globale è fondamentale. La sua importanza non risiede solo nel 'bisogno' di democrazia espresso dai movimenti transnazionali degli anni novanta ma nel fatto che, come in più punti affermato, lo sviluppo economico e produttivo del capitalismo globalizzato presuppone e richiede procedure democratiche su molteplici livelli. A livello elitario, le 'aristocrazie globali' (le grandi multinazionali, gli stati nazionali egemoni) richiedono una condivisione amministrativa delle istituzioni globali o meglio fanno richiesta della loro formazione. A livello 'di base', le popolazioni che, a diverso titolo e secondo una diversa gerarchia, sono coinvolte nella globalizzazione, propongono la necessità di un controllo democratico su quella e sulla distribuzione delle risorse, che spesso può essere tangente alla necessità di condivisione avanzata dalle nuove élite dell'epoca 'imperiale'. Sotto questo profilo Negri e Hardt ipotizzano anche la possibilità di un'alleanza tattica tra aristocrazia imperiale e Moltitudine: l'allargamento della rappresentanza dentro la costituente imperiale (il passaggio, per esempio, dalla formula del G8 al G20) può essere un transitorio momento di comune aspirazione.
Il grande ostacolo alla definizione di una struttura giuridica imperiale, però, è l'unilateralismo americano che usa le politiche e le economie transnazionalizzate per rivendicare la guida del processo costituente. Nello stesso momento in cui lo fa attenta alla costituzione imperiale: la guida rinnega la sua direzione. L'opposizione aristocratica propone, al contrario, una guida multilaterale che sarebbe più adeguata (e anche necessaria perché gli Stati Uniti non sono in grado di amministrare il processo da soli) alla struttura reticolare dell'impero e alla sua direzione.
Le contraddizioni esistenti (ancora oggi) tra USA e UE, tra Russia e Cina rappresentano bene questa opzione multilateralista, come, su un altro livello (quello delle élite), la critica di gran parte del mondo finanziario ed economico a certe intraprese unilaterali statunitensi (soprattutto in occasione della seconda guerra del golfo). Insomma quelle che, un tempo, sarebbero state definite contraddizioni interimperialiste sono tutte riconducibili alla contrapposizione sorta intorno alla forma che dovrà assumere il governo imperiale, ovverosia la guida politica del capitalismo mondiale integrato. E se alle nazioni imperialiste si è sostituito un insieme nazionale integrato, secondo logiche unilaterali o multilaterali (questo, tutto sommato, è un dettaglio di grandissima rilevanza storica ma sotto il profilo dell'analisi generale del processo ininfluente), allora questo insieme nazionale integrato deve affrontare non più il complesso dei popoli ma un insieme integrato di popolazioni, di diversità e di singolarità, la Moltitudine.
Secondo Negri e Hardt inoltre l'unilateralismo statunitense (stanno scrivendo nel 2004) non può riassumere e governare la complessità dei problemi, così il multilateralismo via via propugnato da parte dell'Unione Europea (emblematico ancora oggi il caso tedesco) non risolvono la complessità della sfida imposta dalla 'globalizzazione' del capitalismo. Alla fine sia unilateralismo che multilateralismo sono relitti del passato e fanno riferimento a tradizioni geo – politiche, a punti di vista di comodo, incapaci di descrivere autenticamente l'implosione dei confini nazionali, il declino della loro stabilità, il venir meno della loro verità: “Oggi la geopolitica imperiale non ha né un centro né un fuori: è una teoria delle relazioni interne al sistema globale” (p. 374).
C'è qualcosa, quindi, che il dominio capitalista medesimo su questo processo denuncia: l'irriducibilità del nuovo assetto economico e produttivo agli schemi della politica classica e quindi della democrazia classica. Da una parte le aristocrazie imperiali lavorano per un allargamento degli organismi collegiali e della decisionalità secondo un modello che è solo lontanamente affine a quello della democrazia rappresentativa, nella sua versione appropriativa (secondo lo schema di Max Weber), dall'altra parte le forze produttive sviluppate nel nuovo paradigma della Moltitudine acquisiscono una nuova immagine della democrazia: la democrazia come necessità, come base naturale della nuova forma della produzione sociale. Citando Spinoza, gli autori scrivono, infatti, che: “La grande maggioranza delle nostre interazioni politiche, economiche, affettive, linguistiche e produttive sono sempre basate su relazioni di natura democratica. Talvolta queste pratiche vengono caratterizzate come formazioni spontanee, altre volte le intendiamo come tradizioni e abitudini, ma in verità si tratta dei processi di scambio, comunicazione e cooperazione democratica che sviluppiamo e trasformiamo giorno dopo giorno … È proprio questa la ragione per cui, secondo Spinoza, le altre forme di governo sono distorsioni e limitazioni della socialità umana, mentre la democrazia è il suo solo e unico compimento naturale” (p. 362).

Annotazione. Se nel 2004 certamente era predominante l'unilateralismo statunitense dentro il quadro geopolitico imperiale, oggi, per la mia personalissima impressione, è il multilateralismo a prevalere, complici molti fattori.
In primo luogo elementi 'strutturali' quali il sostanziale fallimento (ormai registrato anche a livello massmediatico) dell'occupazione di Iraq e Afghanistan che hanno frantumato i relativi stati – nazione, generando nuove 'nazioni' fondate sul riconoscimento etnico e/o religioso, e gli effetti della depressione del 2008 che ha reso insostenibile il peso economico della guerra in medio oriente per gli Stati Uniti.
In secondo luogo un elemento 'ideologico', vale a dire, la presidenza di Obama, che ha saputo prendere atto dell'esistenza di questi due fattori e ha agito di conseguenza. Gli Stati Uniti stanno ripercorrendo e rivalutando gli strumenti di una gestione multilaterale delle problematiche globali.
In questo contesto l'Unione Europea ha recuperato una dimensione 'globale' attraverso una simmetrica collaborazione con gli Stati Uniti, simmetria che la seconda guerra del golfo aveva interrotto, che si fonda (secondo i vizi di fondo della 'costituzione materiale europea') in un'adesione alle strategie politiche del FMI e della Banca mondiale, che sono condivise dagli Stati Uniti. Russia, Cina e India possiedono un ruolo di superpotenze con raggi che si estendono sul medio ed estremo oriente. Dentro questo contesto inizia a delinearsi embrionalmente un'unità di intenti sovranazionale in medio oriente (Egitto, Siria e Giordania) alla quale si contrappone il desiderio egemonico sull'area espresso dall'Arabia Saudita e dall'EAU. Qui per via della Russia (che ha costituito un suo asse di interesse geo – politico tra Siria e Iran), degli Stati Uniti (che hanno costituito un asse Egitto – Giordania – Arabia Saudita) abbiamo la sovrapposizione e compenetrazione delle alleanze secondo un gioco sistemistico.
Nel 2015, rispetto al 2004 descritto in Moltitudine, la tettonica a zolle geo – politica si è dispiegata quasi pienamente. Non esistono più le condizioni per l'unilateralismo statunitense e il multilateralismo, affermandosi, enfatizza la mancanza dei suoi presupposti, vale a dire aree di interesse geo – politico stabilmente delineate.
È chiaramente un'interpretazione basata su pochi dati empirici.

Giovedì, 2 aprile 

Ai margini. Moltitudine e Impero. La costituzione imperiale sembra essersi congelata. Dopo una prima fase di sviluppo segnata dal crollo del muro, dalla prima guerra del golfo e dalle operazioni nei Balcani e in Africa orientale (Somalia) e contrassegnata dal multilateralismo e dopo una seconda fase, distinta dalla seconda guerra con l'Iraq e l'invasione dell'Afghanistan e contrassegnata dall'unilateralismo statunitense, la costituzione si è fermata, fermata fino al punto di indurre il sospetto che lo stesso processo di costituzione imperiale fosse apparente e quasi un prodotto di un'ideologia e di una costruzione narrativa massmediatica della quali Negri e Hardt rappresenterebbero, allora, la versione critica e antagonista. Senza abbracciare tesi generali e definitive potrebbe essere legittimamente individuata quantomeno una combinazione tra fattori storici e valutazioni politiche che hanno fermato l'innegabile processo di transnazionalizzazione governata e determinata politicamente, vulgo globalizzazione politica, inauguratasi in forme conclamate negli anni ottanta del secolo scorso.
Si è, inoltre, venuto a delineare uno scenario paradossale e, per certi versi, 'schizofrenico'.
Da una parte il processo di globalizzazione ha continuato a lavorare alla delegittimazione della sovranità nazionale, subordinando sempre più rigorosamente le politiche economiche e finanziarie dei singoli stati – nazione alla validazione degli organismi internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale), dall'altra parte, però, l'unilateralismo statunitense, espressosi pienamente nel primo decennio di questo secolo, ha puntato, per sua stessa natura, alla diminuzione delle prerogative dell'ONU e del Consiglio di Sicurezza, percepiti come inutili ingombri e relitti del passato.
Infine l'insorgenza della grande depressione dell'anno otto ha imposto il ridimensionamento del protagonismo statunitense ma la profondità e ampiezza della crisi economico – finanziaria hanno impedito la ricostituzione di un autentico piano multilaterale, poiché alla crisi americana ha corrisposto la crisi finanziaria mondiale: nessuno stato – nazione è passato indenne da quest'esperienza eccezion fatta per la Germania. Se la Germania ha quasi ignorato la crisi in quanto stato – nazione, certamente, però, non l'ha potuta ignorare in quanto stato sovranazionale: la capacità tedesca di pilotare l'economia dell'Unione europea ha evitato l'impatto della crisi alla Germania come stato – nazione, ma ha colpito l'economia del resto dell'Europa e, quindi, alla fine anche quella tedesca. La Germania ha evitato i danni diretti ma non quelli indiretti della pessima congiuntura economica degli ultimi sette anni: per così dire la Germania ha virtualizzato la crisi.
In un contesto simile gli anni dieci di questo nuovo secolo paiono dominati, in geo – politica, da un multilateralismo debole, debole in ragione del fatto che sono venuti a mancare a quello due sponde basilari: una definizione forte dello stato – nazione e istituzioni legittimate a livello internazionale. Gli stati – nazione hanno continuato a subordinarsi agli istituti internazionali, mentre gli istituti internazionali, delegittimati, non possono offrire garanzie agli stati – nazione.
Lo scenario, ribadisco la clinica, è schizofrenico: lo stato – nazione non riesce più a vivere di luce propria ma non esiste altra luce alla quale attingere.
Questo genere di multilateralismo, allora, rischia di tradursi in un'estrema frantumazione e friabilità, dove le gerarchie imperiali e la tettonica a zolle geo – politica si compenetrano in maniera confusa e scoordinata. A mio pare si tratta di una malattia di passaggio, come molte altre analoghe nella storia. Non so se la mia analisi possa dirsi corretta ma spero sia sufficientemente chiara.

Venerdì, 3 aprile

Ai margini. Moltitudine e Impero. Un'ultimissima considerazione intorno al congelamento dell'evoluzione imperiale, almeno sotto il profilo istituzionale. Se esiste (ed esiste) isomorfismo tra forze produttive, rapporti di produzione e sistema politico, allora va introdotta un'altra causa per questo rallentamento nella costituzione del capitale transnazionale, la sua 'intelligenza' e progettualità. Come scritto altrove in questi appunti, il capitalismo, giunto a questo punto del suo sviluppo, lo teme coscientemente; non può fare a meno di svilupparsi ma proporzionalmente è consapevole dei rischi, relativi alla sua stessa sopravvivenza, di questo sviluppo. Il capitalismo mondiale integrato si contrappone al suo stesso sviluppo, obliterandolo attraverso la guerra e la crisi. Il capitalismo, quindi, si sviluppa nella guerra e nella crisi economica, perché non può fare altrimenti che così.
È ovviamente una mia ipotesi o meglio una tesi confortata da pochissimi indizi: il capitalismo mondiale integrato, insomma il mondo imperiale di Negri e Hardt, pur detestando i limiti e avendoli concretamente dissolti, li ricrea, interiorizzandoli, nella forma della guerra e della crisi economica e finanziaria. Secondo questa tesi, la crisi e la guerra da strumenti tradizionali dello sviluppo, da motori del progresso sistemico, sono diventati i freni alla briglia del cavallo. In questo contesto i confini nazionali, inutili e dannosi sotto il profilo dello sviluppo economico, ritornano a essere utili, non riuscendo, però, a essere 'gli stessi confini'. Come il limite è diventato un'illusione e una mistificazione, così i confini non si basano su di un'esigenza reale e una concreta diversità quanto, invece, sulla volontà di rappresentarli.
Il capitalismo globale ha bisogno di riterritorializzare, di inventarsi una nuova tradizione geografica, geopolitica ed etnica e di ricombinare continuamente la storia delle etnie e delle popolazioni. Tutto questo apre nuove geografie ma produce nuovi limiti, più deboli, non più 'strutturali', ma pur sempre limiti.
Il capitalismo è come la schizofrenia: l'inclinazione a essere ciò che non si deve essere e dentro alla lotta e alla resistenza verso “ciò che non si deve” vengono fuori, inevitabilmente, elementi paranoici e ossessivi. La paranoia del capitalismo è quella di subire la persecuzione da sé medesimo e di costituire religioni, etnie e storicità rappresentate che riproducano il limite e allontanino definitivamente l'illimitatezza, cioè a dire, la libertà. Il fatto di rivedere la storia, interpretare le radici etniche, rileggere il territorio, riconfigurando tutte queste cose, è nel patrimonio genetico del capitalismo che ha sempre inteso di ridiscutere il mondo e di rimodellarlo. Lo ha fatto non in maggior misura dei sistemi sociali precedenti ma in maniera diversa. Mentre nelle epoche pre – capitaliste l'attualità in sé stessa era una serena prosecuzione del passato, anche a costo di mistificarlo, nell'epoca moderna il passato è un'altra cosa e l'attualità è rottura consapevole con la storia precedente. Il capitalismo è stato e si è pensato come sorgente della storia. Anche se ha ereditato moltissime istituzioni politiche, sociali e giuridiche dalle epoche precedenti, forse ancor di più di quanto quelle non avessero fatto a loro volta, e dunque si è presentato alla storia come una forza tradizionalista e conservatrice, ha, però, inteso prendere possesso della storia e del mondo e di fare di ciò che era prima di lui qualcosa di radicalmente differente.
Quindi l'aspetto schizofrenico è costitutivo: reinventare il passato, la storia e il mondo, rimescolare le tradizioni e le istituzioni; ma lo è anche quello paranoide che desidera legare queste tradizioni al presente, non compiendo opera mistificatoria ma reinventandole, donando a quelle nuove forme che devono essere scambiate con quelle originali. Il capitalismo ha sempre infatti preteso di esprimere la verità sulla storia, sulla società e sulla politica.
Quello che rende assoluto l'aspetto schizofrenico e paranoico del capitalismo contemporaneo sta nel fatto che il suo raggio di azione economica si è esteso alle relazioni umane, come già Debord e i situazionisti prima di Negri avevano intuito. Alcuni di quelli chiamarono tutto questo 'capitalismo reale' termine che si congiunge con la 'sussunzione reale' del lavoro profetizzata da Marx. Il capitalismo reale è la fase in cui nulla, neanche le emozioni, gli stati d'animo, gli affetti e le relazioni umane sono esterne e sconosciute al dominio del capitale.
La schizofrenia e la paranoia del capitale, allora, si sciolgono dal capitale medesimo, dal capitalismo come fatto economico, vivono quasi al di fuori di quello, guardandolo come un altro da loro, come un oggetto. Il flusso massmediatico, tanto quello monocratico, quanto quello policratico descrivono il sistema capitalistico non più come sistema sociale e politico, esigono di andare al di là della sua determinazione storica e spesso la criticano per affermare un'assolutezza che si manifesta, naturalmente, al di fuori del sistema, che è l'elemento fondante del vivere associato. Il lavoro attuale dei media, vecchi e nuovi, è compiuto in maniera indipendente dai rapporti di produzione, che suscitano spesso fastidio, è assolutamente dipendente, invece, dalle relazioni umane e sociali, da tutto quello che allontana la visione del sistema come sistema. Gli atteggiamenti schizofrenici e paranoici insieme con le nuove ideologie a quelli collegate divengono, allora, prodotti naturali delle relazioni sociali e umane e vengono rappresentati e descritti come il risultato di una malattia comunicativa e relazionale e non come il risultato della sovradeterminazione dello sviluppo da parte del dominio e delle gerarchie e delle discriminazioni tra popolazioni e geografie. Il sistema non esiste e anche gli eventuali nemici non hanno un sistema: tutto è determinato dalla casualità delle combinazioni umane. Lo spettacolo dell'umano sotterra la realtà dell'umano, lo spettacolo di un mondo privo di sistema di comando, nasconde la concretezza del comando, dandone una rappresentazione apparentemente concreta.
Proprio perché, come gli autori di Moltitudine e Impero, sono persuaso di una definitiva estensione del campo d'azione del sistema capitalistico, sono ugualmente convinto del fatto che lo 'spettacolo del capitalismo' come rappresentazione di un sistema senza sistema e dunque di un complesso di umanità, di relazioni sociali e interazioni sociali abbia un fondo di realtà, anzi sia innervato dalla realtà delle cose, cioè dalle relazioni concrete stabilite dagli individui o dai gruppi di individui nel corso del ciclo produttivo. Il versante schizofrenico del capitalismo, qualora sia liberato dalla sua paranoia e quindi dal timore di sé stesso, è anche il versante lungo il quale si può sviluppare il movimento del valore d'uso, anzi quello sul quale il capitalismo è già diventato, con orrore dei suoi strateghi e filosofi più avveduti, il movimento del valore d'uso.
Per riprendere la terminologia usata in Moltitudine il concetto di 'comune', mistificato come 'pubblico' e ridotto a rappresentazione massmediatica delle relazioni sociali, cessa di essere un luogo del 'non privato', abbandonato dal privato ma non appropriato dal collettivo, un terreno, quello del comune, sospeso che preconizza la libertà nella proprietà, per poi riportarsi verso l'antica libertà della proprietà,  un terreno neutro, una zona grigia, che ammanta di libertà il seguente momento di appropriazione privatistica e lo giustifica in tal senso (con le parole della libertà imprenditoriale); smette di essere il luogo di una 'comunità' potenziale, svelando la sua attualità attraverso la critica alla privatizzazione del comune.
Il movimento del valore d'uso, continuamente ricondotto allo scambio, resiste e permane come momento d'uso, evitando, inoltre, la trappola della sua trasformazione in proprietà pubblica, del suo 'farsi stato'. Il movimento del valore d'uso non è pubblico né privato, non si avvicina né al diritto pubblico né al diritto privato, non costituisce un diritto e una giurisprudenza (malgrado se ne serva) ma afferma una pragmatica comunicativa, distributiva e creativa. Il sistema, allora, davvero non esiste più perché tutto è diventato cooperazione, collaborazione e produzione di cooperazione e collaborazione.
La schizofrenia è stata oltrepassata, il capitalismo non teme più l'illimitato, non ha più limiti: non è più capitalismo.

Sabato, 4 aprile

Annotazione. Mi pare appropriato descrivere una critica definitiva all'idea tradizionale di rivoluzione e soprattutto di 'percorso rivoluzionario', riprendendo alcune riflessioni di qualche giorno fa e la memoria di alcuni appunti perduti (sull'umanesimo comunista e, non a caso, su qualcosa che all'epoca, a metà degli anni ottanta chiamai, certamente con dubbio gusto, “riformismo rivoluzionario”), riflessioni emerse proprio nel corso della lettura di Moltitudine e nel tentativo di dare a questa un'interpretazione valida oltre la contingenza, al di là, cioè, del 2004 e del dispiegarsi del 'movimento dei movimenti'.  È necessario mettere definitivamente al bando (e so che questo disgusterà molti come me) l'idea di una trasformazione della società eseguita attraverso tecniche rivoluzionarie. Per tecniche rivoluzionarie intendo quelle composte da tre momenti e / o componenti: la costruzione di un partito, la strutturazione di un contro – potere istituzionale e il finale abbattimento dello stato. Questi tre costituenti sono sempre stati considerati come fasi storico – politiche precise e momenti ben individuati della lotta politica e la lotta politica è stata pensata sulla loro base.
Oggi, però, la politica è un'altra cosa, come ben descritto da Negri e Hardt in Moltitudine “Nell'orizzonte dell'Impero … la guerra, la politica, l'economia e la cultura diventano un modo di produzione unificato della vita sociale della sua globalità … Avvalendoci di un lessico diverso, potremmo dire che, nell'Impero, il capitale e la sovranità tendono a sovrapporsi” (p. 385). Ancora più illuminante, specifico e diretto è Virno nella 'Grammatica della Moltitudine' quando registra il fatto che la politica è diventata il repertorio di un esercizio virtuosistico, un'arte da solisti della retorica, giacché le decisioni politiche non sono più un prodotto della politica ma nascono altrove nella produzione e cooperazione sociale. La politica, allora, aggiungo io, diviene sempre più la rappresentazione mistificata della decisionalità, la spettacolarizzazione e rappresentata personalizzazione (secondo la 'individualizzazione e umanizzazione' massmediatica e televisiva) delle risoluzioni adottate dal complesso economico e produttivo. Se, continuo ad annotare, in epoca moderna la politica aveva determinato e suscitato la nascita e la creazione degli organi informativi di massa (dalle numerose tribune a stampa giacobine alle televisioni di stato), già nell'ultima fase del capitalismo industriale e  a maggior ragione nella post – modernità la relazione si è rovesciata: sono i media, oggi, a suscitare e sostenere l'apparato politico che, senza di quelli, non esisterebbe più e sarebbe privo di qualsiasi senso compiuto. Prima, cioè, il senso della politica era una complessità che proveniva dalla società e che generava, comportava e informava i media e la comunicazione di massa, ora, invece, il senso dei media, lo spettacolo, informa e compone la politica che è, in massima parte, un prodotto massmediatico; lo spartiacque storico di questo processo fu, in Europa, l'esperienza in materia di comunicazione di massa maturata da nazismo e fascismo e, negli Stati Uniti, dal new deal roosveltiano. È un fatto innegabile che questo rovesciamento si sposi alla perfezione con l'indebolimento della sovranità nazionale e della rappresentanza politica a quella connessa.
La fine della politica non provoca solo il tramonto dell'ipotesi rivoluzionaria e dei suoi percorsi ma anche e, forse ancor di più, di quella del riformismo tradizionale, ipotesi nelle quali sovranità e rappresentanza cambiavano di segno, perché oggi non esiste una possibilità di esprimere una sovranità e una rappresentanza in senso tradizionale. Buttare a mare Lenin non significa, però, glorificare Bernstein, proprio perché l'ipotesi riformista, con i suoi riferimenti continui alla rappresentanza e alla sovranità nazionale o anche sovranazionale, esce ancor di meno da una rappresentazione della politica come riduzione del molteplice all'unità, che, almeno, nel pensiero rivoluzionario si presentava come necessaria ma non costituiva. Non si tratta, quindi, di rivalutare la trama di strategie e mediazioni (necessariamente e spesso ipocritamente illusorie) che hanno innervato il pensiero riformista fino (per rimanere vincolati ad esempi italiani) a Nenni, Togliatti, Berlinguer e De Martino.
C'è  un'ulteriore valutazione in proposito. Nel tardo capitalismo industriale e ancora di più in quello contemporaneo, per sua stessa struttura, lo sviluppo del capitale non concede margini di mediazione e oscillazioni dentro una forbice di opportunità di sviluppo perché non esiste più la forbice e lo sviluppo si volge secondo una retta – limite e, inoltre, il contesto dell'azione politica si è spostato in due direzioni e cioè o verso la rappresentazione massmediatica o verso la concretezza del vivere sociale, e in una sempre più profonda contaminazione tra rappresentazione e concretezza, tra unicità e molteplicità, tra semplicità e complessità. In un contesto simile, il punto di riferimento di tutto il pensiero riformista tradizionale, l'autonomia della politica dalla società, la possibilità di progettare attraverso la politica la società, è venuto meno, determinando il declino del potere delle tradizionali istituzioni in cui si esprimeva (parlamenti, organi di rappresentanza regionali e comunali, ma anche sindacati e persino il famigerato 'sistema dei partiti' italiano).
Il riformismo e la rivoluzione oggi non possono più individuarsi come processi differenti per un medesimo obiettivo, l'emancipazione politica e sociale dell'umanità, non sono più interni a quell'obiettivo e non possono più essere processi storicamente credibili.
Anche in questo campo, nel campo della liberazione e dell'emancipazione politica e sociale dell'umanità, la paranoia del capitalismo deve essere oltrepassata e bisogna dare via libera alla sua schizofrenia, liberare la briglia al cavallo del capitalismo: come il capitalismo non deve avere limiti per realizzarsi, ma ha bisogno di limiti per organizzarsi e conservarsi, così il pensiero comunista non deve legarsi ai limiti del capitalismo (come facevano le tradizionali teorie rivoluzionarie e riformiste quando pretendevano di rappresentare veramente i popoli e di possedere la verità sul popolo) poiché significherebbe sposare la paranoia del capitale in forma inversa, costituire un delirio antagonista, una contro – società che immagina  la società reale, relegandosi inevitabilmente a un'attività testimoniale e a un auto – esclusione dallo sviluppo. Non solo, alla fine sarebbe inevitabile defluire, magari in maniera inconscia,  verso ipotesi e politiche profondamente conservatrici, quando non apertamente reazionarie, secondo le quali l'autonomia del politico è l'unica garanzia e sinecura contro lo sviluppo capitalistico e ritrovarsi a condividere i modi di sentire della nuova e vecchia destra demagogica e populista per la quale  il futuro, lungi dall'essere visto quale effettivamente è, cioè, un cadavere in putrefazione, tra investimenti tattici e strategici viene considerato come il corpo resuscitato e purificato dell'ordine politico e culturale del passato.
Il rinnovamento del passato attraverso la sua proiezione nel futuro è stato un meccanismo valido fino a mezzo secolo fa, come, certamente, aveva senso fino a quel tempo fare riferimento e usare, strumentalmente, i limiti e i difetti nello sviluppo del capitale per costituire l'alternativa politica (riformista o rivoluzionaria) al suo dominio. Oggi, al contrario, è necessario essere più capitalisti del capitale e sotterrare l'autonomia del politico per affermare l'autonomia del sociale e della produzione.

Annotazione [Fascismo, nazismo e new deal]
Quando scrivo di fascismo, nazismo e new deal come spartiacque (e lo sono stati insieme con gli anni trenta del secolo scorso sotto molteplici aspetti) nella relazione tra media e potere, introduco un'esagerazione. Nel modo di amministrare l'informazione dei tre 'sistemi politici' si può leggere, al contrario, il trionfo della sovradeterminazione della politica sui media: le emissioni della radio di stato in Italia iniziano proprio nei primi anni venti, i discorsi radiofonici di Roosvelt (i famosi 'discorsi dal caminetto') sono di metà dei trenta e, in genere, Mussolini, Hitler e Roosvelt usarono, in forme diverse, secondo eredità storiche, sensibilità culturali e capacità tecniche differenti, radio e cinematografo.
Tanto, però, nell'esperimento 'straccione' e 'popolaresco' italiano, ma per questo non meno profetico, quanto in Germania e soprattutto negli Stati Uniti si segnalano i primi segni di un'indipendenza dei media. Questa autonomia origina direttamente dalla loro specificità; il loro linguaggio coinvolge direttamente l'affettività e l'emotività del pubblico e partecipa, autenticamente, alla produzione di affetti e stati d'animo, rivelandosi come più efficace del linguaggio politico tradizionale che si basava sugli stilemi comunicativi della carta stampata. La filmografia americana degli anni trenta è emblematica in tal senso: senza mai citare e mettersi in relazione diretta con il nuovo corso economico e con l'assistenzialismo statale, una serie notevole di produzioni cinematografiche evidenziarono l'umanità ed eticità che riposavano dietro la limitazione degli effetti negativi del capitalismo sotto il profilo sociale e umano imposta nel new deal. L'intelligenza collettiva del capitalismo veniva messa in pellicola sotto forma di un complesso di relazioni umane rinnovate e ravvedute (Frank Capra ne è stato il migliore interprete). Questa libera interpretazione dell'intelligenza del capitale è il primo segno di un cammino verso l'indipendenza dei media, al termine di questo processo l'intelligenza collettiva del capitale, lungi dall'essere ancora considerata come un prodotto della politica, come la prova dell'intervento vincente della politica sulla società, diventa la naturalità dell'umano, la rappresentazione (è davvero il caso di scrivere questa parola) della sostanziale armonia sociale e anche là dove si raccontano i conflitti e le contraddizioni la stessa struttura narrativa impone la loro soluzione, anche nel caso sia drammatica. La prossimità tra opera e prodotto massmediatico (e mi sto riferendo anche al singolo notiziario televisivo) e romanzo ottocentesco è, per me, impressionante.
Il potere massmediatico (il famoso 'quarto potere') offre la possibilità e descrive la necessità della riconciliazione armonica delle contraddizioni e frantumazioni sociali, che sfugge il più delle volte alla retorica  della politica (istituendo una retorica sua propria), ma non solo che si scopre capace di rappresentare meglio e di stimolare essa stessa lo sviluppo sociale ed economico, poiché, al contrario della politica, del suo mondo e dei suoi apparati ideologici, lo segue con passione, essendo divenuto, invece di quello politico, il detentore di un linguaggio produttivo. La relazione di capitale investe più profondamente i media che non la politica.
La scomparsa del capitalismo personalizzato e privatistico e la definizione politica di un'intelligenza collettiva del capitale, cose che fascismo, nazismo e new deal affrontarono, processo che vide compiersi il trionfo della politica, dello stato e della sua autonomia, paradossalmente è stato il presupposto della crisi definitiva, esistenziale, della politica e dello stato come funzione della politica e della rappresentanza politica.

Domenica, 5 aprile

Letture. Moltitudine. Democrazia delle Moltitudine. Epilogo di Negri e Hardt necessariamente vago, proprio per il taglio e il proposito dell'opera, un epilogo che non è conclusivo, dunque. La democrazia è un prodotto naturale della nuova forma produttiva ma non è un prodotto spontaneo: la democrazia sarà una conquista.
Gli autori non scendono nel dettaglio di questa conquista e si limitano a stabilire alcuni assiomi e alcune caratteristiche di fondo e rigorosamente potenziali.
È impossibile immaginare la democrazia della Moltitudine come la proposizione di una nuova sovranità, della riduzione a unità del complesso delle relazioni e nella costituzione di un nuovo corpo sociale e politico. Si legge letteralmente: “ … la Moltitudine non è un corpo sociale per questa precisa ragione: la Moltitudine non può essere ridotta a unità e non si sottomette al potere dell'uno. La Moltitudine non può essere sovrana” (p. 380). Questo ha effetti diretti sul concetto della democrazia che dovrà affermarsi e che si afferma: “la democrazia, che Spinoza definisce assoluta, non può essere considerata una forma di governo nel senso tradizionale del termine, poiché essa non riduce la pluralità delle differenze di ciascuno alla figura unitaria della sovranità” (p. 380). In verità l'unitarietà della sovranità, espressa nella storia sia in forme monarchiche, aristocratiche o democratiche, è stata una finzione, una rappresentazione: in ogni sua forma il potere è stato bipolare, da una parte il governo dall'altra i subalterni. Sempre e in ogni caso il potere ha dovuto suscitare da un minimo a un massimo di consenso e non è mai esistita una forma statale che si sia sostenuta solo con la forza bruta. Per dirla in altri termini e vedendo la questione dal punto di vista dei 'dominati' e dei cittadini o sudditi, la sovranità ha sempre suscitato investimenti di desiderio nei suoi soggetti, immedesimazione e riconoscimento: il potere non è mai stato trascendente (lo è solo nell'ideologia) ma è un prodotto immanente e condiviso nell'immanenza. Chiarissimi, a questo proposito, gli autori che scrivono: “La forza militare può essere utile per la conquista e per il controllo a breve termine ma la violenza, da sola, non può stabilizzare il potere e la sovranità. La forza militare, dato il suo sbilanciamento unilaterale, è infatti la più debole forma di potere: è dura, ma anche fragile” (p. 382).
È, inoltre, chiarissimo che la democrazia globale non è riconducibile alle forme di democrazia che nascono nella sovranità nazionale e nutre verso di quelle una lontanissima parentela: la democrazia non è un fenomeno istituzionale ma immanente alla produzione e alla vita sociale. Questo può accadere perché “ … il fatto che i prodotti del lavoro non siano beni materiali, bensì relazioni sociali, reti comunicative e forme di vita, mostra chiaramente che la produzione economica implica immediatamente una sorta di produzione politica o la produzione della società stessa” (p. 383). Al punto attuale dello sviluppo del capitalismo, dunque, la produzione è politica e l'organizzazione produttiva può trasformarsi in organizzazione politica senza perdere la sua natura ed entrare in conflitto con sé stessa. Le forme della democrazia avranno, dunque, le forme della produzione. Virno, nella 'Grammatica della Moltitudine' sotto tutt'altro punto di vista denuncia questa intromissione della politica nel mondo del lavoro; per lui il virtuosismo retorico, la capacità di giocare sugli stati d'animo, l'opportunismo e il servilismo, doti squisitamente politiche, sono entrate con forza nel mondo del lavoro. In Virno l'intromissione si è verificata sotto il segno negativo della politica deteriore, in Negri e Hardt tutto il contrario. Probabilmente gli autori scrivono del medesimo processo, ma Virno lo analizza sub specie del capitale, del comando che viene espresso sul processo, mentre Negri e Hardt sotto la specie della Moltitudine, del libero sviluppo del processo produttivo. Innegabilmente, sotto diverse forme, la politica è entrata nel lavoro.
Ci troviamo davanti, comunque, non solo una nuova visione della democrazia ma anche della politica. La democrazia e la politica non sono più un prodotto mediato del sistema sociale, una sua espressione, ma un prodotto immediato, per certi versi uno dei tanti beni immateriali, e, per come è conformato l'apparato di produzione, la sua dimensione politica non può che essere democratica.
Questa immagine lascia due punti da chiarire criticamente. Alla base di questa immagine della democrazia e della politica è un'idea della tecnologia, del sapere scientifico e dei processi produttivi (già manifestata in Impero) sostanzialmente 'neutra', presentata come sequenza ideale e operativa indipendente, nella sua essenza, dal comando del capitale. È certamente vero che “le istanze dell'innovazione in rete possono essere ricondotte all'immagine di una orchestra senza direttore” (p. 389) ma è anche vero che la produzione open – source non è un paradigma egemone nella produzione informatica e che la democraticità dei saperi scientifici non si risolve nel carattere collettivo della ricerca, che garantisce solo la sua bontà, la sua efficacia ma non la sua funzionalità; per la sua funzionalità democratica sono necessari dei codici di rispetto che rimandano a qualcosa di esterno al naturale sviluppo della comunità e alla volontà e determinazione di quella comunità di costituirsi in comunità. Ci deve essere qualcosa che si contrappone al comando del processo, imponendo una distanza da quello in ragione di un altro ragionamento su di esso. Se certamente lo sviluppo del capitale ha aperto la strada alla rete comunicativa orizzontale e se fenomenologicamente questa rete si presenta come autenticamente reticolare, non è affatto scontato che lo sia. Non bisogna dimenticare che il capitalismo ha messo in produzione l'antropologia (la comunicazione, l'interazione, gli affetti e il tempo libero) e quindi la determinazione stessa dell'umano. Il 'comunismo del capitale' non è la liberazione dell'umano, ma un dominio espresso direttamente sull'umano, qualcosa che nella storia dell'umanità non si era mai realizzata.
Analogo approccio critico è necessario verso il concetto di democrazia, che viene pensato come il prodotto della neutralità della scienza perché, come scrivono gli autori, “nella misura in cui la distinzione tra la produzione economica e il potere politico si sta decomponendo, la produzione comune da parte della Moltitudine anima contestualmente l'organizzazione politica della società” (p. 390) e poco oltre, ribadendo la centralità del modo di produzione informatico in questo assunto “Possiamo quindi raffigurarci la democrazia della Moltitudine come una società open – source, una società il cui codice sorgente è pubblico, così da permetterci di lavorare insieme per sistemare i suoi bug e per avere nuovi e sempre migliori programmi sociali” (p. 391).
Anche qui tutto assolutamente vero, e lo scrivo con autentico entusiasmo, ma al contempo tutto potenzialmente falso. Il pregio di questa impostazione sta nel concetto della democrazia come fatto operativo, attuativo, auto – realizzante che mette alla berlina le incartapecorite forme di rappresentanza borghese e liberali, ma il rischio è quello di abbracciare una concezione formalistica della democrazia, come forma, appunto, del processo produttivo e, quindi, ancora una volta come strumento e prodotto 'neutro'.
La democrazia, invece, non è neutrale né implicitamente perché non esiste una perfezione nella rappresentanza degli interessi ma sempre inevitabilmente si devono compiere discriminazioni e scelte, né esplicitamente perché la tradizione democratica è costituita sull'eterna ideologia del governo della maggioranza e mai della totalità.
Proprio a partire dalla notevolissima intuizione degli autori, vale a dire dall'apparente ma solo potenzialmente autentica (secondo la mia correzione) coincidenza tra produzione e politica e tra modo di produzione immateriale e democrazia, preferirei collocare il concetto di democrazia in un contesto costitutivamente dinamico (roba da rivoluzione permanente di Troskji); amerei e riterrei adeguata l'idea della democrazia come processo e come procedura del processo democratico. Una volta che il sistema produttivo si struttura come un sistema democratico, la democrazia rimane solo una scelta, non una necessità, non un automatismo e non una conseguenza meccanica del modo di produzione. Il sistema produttivo richiede collaborazione e cooperazione ma non collaborazione e cooperazione democratica; richiede un lavoro collettivo e addirittura la determinazione di un luogo 'comune', cioè di uno spazio collettivo né privato né pubblico, né personale né sociale, uno spazio privo di proprietà, ma non la trasformazione del lavoro da collettivo a comune e del comando sul lavoro da collettivo a comunista.
Si individua, insomma, una tendenza verso la democrazia e un comando sociale democratico e diffuso ma può solo essere una 'decisione', un intendimento, a produrre una procedura che intervenga sul flusso produttivo e che 'paradossalmente' ignori il suo carattere collettivo in quanto tale ma nel flusso produttivo sappia individuare alcuni elementi, selezionandoli ed eleggendoli a struttura, e altri elementi, tagliandoli e rimuovendoli dalla struttura. La valutazione alla base di queste selezioni, elezioni, tagli e rimozioni dovrà essere la funzionalità e non l'efficienza e l'efficacia, la bontà sociale e non la bontà tecnica, o meglio tenderà continuamente a comparare le due cose (funzionalità ed efficienza, bontà sociale e bontà tecnica) e ad accrescere realmente la partecipazione alla produzione e alla costruzione dei saperi. Ancora una volta la critica alla produzione e ai saperi, soprattutto espressa contro la loro neutralità, potrà essere fonte di nuova produzione e di nuovi saperi: non possiamo accontentarci di sicuro della libertà schizofrenica del capitalismo, credo. La novità dell'oggi è che questa critica potrà essere svolta in forma democratica, o meglio è essa stessa un processo che costruisce la democrazia e la sua procedura.
Da questo punto di vista, almeno il mio punto di vista, il problema dell'uso della forza nell'affermazione della democrazia e della lotta politica si risolve in modo naturale.
Vale la pena di appropriarsi di una citazione tratta dal testo: “Che la vittoria rimanga a quelli che avranno fatto la guerra senza amarla” (p. 395, citazione di Andrè Malraux, Antimemorie). È per me questo un a priori irrinunciabile: i comunisti non devono amare la forza, se la amano non sono comunisti. In altra epoca, Rosa Luxembourg descriveva l'uso della violenza come una triste necessità per il movimento socialista, nella lotta verso la democrazia sociale e politica e verso l'emancipazione della maggioranza dei subordinati dell'umanità.
Non starò a dilungarmi sul motivo per il quale, purtroppo, le grandi trasformazioni sociali e politiche sono state accompagnate dall'uso della forza contro le persone e che questo uso è stato qualche volta necessario altre volte gratuito. Farò un esempio semplicissimo e introdurrò, inoltre, una forte semplificazione, giacché le cose, in verità sono state molto più complesse, anche per l'esempio 'semplicissimo' che espongo: nelle giornate dell'agosto 1792, durante la rivoluzione francese, fu un atto necessario arrestare Luigi XVI, condannarlo al silenzio politico, relegarlo nella prigione del Tempio e togliere lui ogni possibilità di comunicare con gli emigrati e gli aristocratici di Metz, e fu un atto ancora più necessario proclamare la repubblica, dimissionare in blocco le alte gerarchie militari ed espropriare l'aristocrazia di ogni residua proprietà fondiaria, assegnando il comando dell'esercito ai sanculotti e distribuendo le terre ai contadini poveri, fu un atto solo necessario ideologicamente e politicamente, ma non sotto il profilo del concreto sviluppo del processo rivoluzionario, invece, condurre il re sul patibolo ed eliminarlo fisicamente e conseguentemente mandare alla ghigliottina l'aristocrazia come classe sociale. Furono, sotto il profilo etico, atti assolutamente gratuiti: l'omicidio politico non è mai necessario politicamente e la pena capitale non è una condanna ma una semplice e primitiva vendetta. La neutralizzazione dell'avversario non può passare attraverso la sua eliminazione fisica, quando la si compie significa che qualcosa nel processo rivoluzionario non sta funzionando più.
Diversissimo ma non dissimile è il caso delle battaglie di strada e delle fasi di guerra civile che, spesso, accompagnarono i processi rivoluzionari e per questi valga davvero il detto appena proposto  sulla vittoria che arride a chi non ama la guerra.
Perché non si deve amare la forza ed è giusto e profondamente rivoluzionario considerarla una triste e inevitabile necessità che va nei limiti del possibile evitata? Per il semplice motivo che se il nostro obiettivo è la liberazione dell'uomo e quindi l'uomo è il nostro fine, usare l'uomo come mezzo è la negazione stessa del nostro fine. L'uso della forza impegna l'uomo come mezzo: nel carnefice che diventa mezzo, strumento, di morte, di qualcosa che non gli appartiene, che è al di fuori di lui e della vita, e nella vittima che diventa strumento e mezzo di testimonianza dell'inattualità della sua esistenza. In maniera pragmatica e niente affatto moralistica, molti anni fa si era soliti dire che ogni omicidio politico, anche quello compiuto ai danni del peggiore nemico, era una sconfitta per il movimento della liberazione sociale, perché si rinunciava a una vita, a un'intelligenza in potenza per la costruzione della società comunista. Questo argomento, ovviamente, non sgombra il campo al problema della forza, ma il fatto che il 'comunismo del capitale' ha prodotto un complesso di relazioni 'biopolitiche' nel mondo della produzione rende questo approccio etico al problema della forza e della violenza politica attuale.
Esiste, inoltre, un aspetto strategico nella problematica dell'uso della forza e della violenza che non va sottovalutato: la violenza richiede e impone forme organizzative che si oppongono a una pratica democratica e a una procedura democratica. È sempre stato difficile coniugare la forza con la democrazia. La militarizzazione dei movimenti è sempre stata la loro tomba  anche quando la vittoria sorrideva, perché a ottenerla non era stato più il movimento e il processo rivoluzionario nel loro insieme, ma il sostituto militare del movimento e del processo (pensiamo, per rimanere alla rivoluzione francese, al Comitato di Salute Pubblica contrapposto alla convenzione repubblicana e democratica o come ben sottolineato da Negri e Hardt nel testo in questione per il caso cubano e vietnamita).
L'uso della violenza e dell'organizzazione militare deve essere occasionale, sporadico, limitato e governato da pregiudiziali etiche ma, soprattutto, non deve essere determinante nella struttura del movimento e del processo. Per ripulire ulteriormente il campo da macerie molto ingombranti in materia, la pratica della lotta armata e di qualsiasi struttura clandestina è un palese controsenso, o meglio un non – senso dal punto di vista comunista e lo è sempre stato in qualsiasi fase storica e politica (non solo oggi perché siamo di fronte al 'comunismo del capitale'). Esistono certamente situazioni nelle quali l'azione democratica non può che darsi in clandestinità e spesso rigida, ma anche in assenza della possibilità di agire alla luce del sole, anche sotto una dittatura militare ad esempio, non si giustifica il ricorso pregiudiziale alla lotta armata e, soprattutto, all'omicidio come pratica politica. Si è spesso affermato che, di fronte a stati autoritari, fascisti e anti – democratici, autentiche tirannie, l'unica opzione fosse quella della resistenza armata, proprio allo scopo di evitare un gran numero di vittime innocenti tra gli oppositori che, altrimenti, sarebbero stati sacrificati inutilmente. Purtroppo i numeri hanno dimostrato che la militarizzazione dell'opposizione non ha certamente aiutato a salvaguardare i militanti 'civili'. Anche dal punto di vista degli effetti pratici l'opposizione armata non è mai riuscita a essere decisiva: gli scioperi del marzo '43 hanno contribuito più di cento attentati a determinare le dimissioni del luglio di Mussolini. Altro discorso sugli stati, terribili, di guerra civile ma questo aprirebbe un argomento immenso. In generale, però, si possono scrivere almeno due cose: che è sempre meglio e più produttivo non cadere nell'usata trappola della guerra civile perché là dove è guerra civile è molto lontano l'orizzonte del comunismo, i linguaggi si sono semplificati, si sono disposti intorno a due poli, hanno messo in campo la finzione della diversità e hanno sostituito alla politica e alla socialità la guerra. Spesso si è stati costretti a partecipare alla guerra civile, come è stato per moltissimi in Italia tra 43 e 45, ma i primi sconfitti, fin da subito e costitutivamente, sono stati coloro che pensarono che dalla guerra potesse scaturire una grande trasformazione e liberazione sociale, perché la guerra è implicitamente la negazione della liberazione, la guerra è uso massificato della condanna capitale.
Per tornare a Rosa Luxembourg e concludere questa riflessione ai margini di Moltitudine è meglio ricordare con lei che anche la democrazia attuale, quella 'realizzata', elettorale e rappresentativa e in vigore negli stati capitalistici egemoni e 'sviluppati', esercita normalmente la forza e la violenza, la coercizione e la persuasione coatta verso i 'cittadini'; scriveva Rosa che se noi vedessimo un uomo chiuso a chiave in una stanza di cinque metri quadrati per l'intera durata della sua vita o anche solo per qualche anno, chiameremmo la sua situazione orrenda e cercheremmo di liberarlo dal sadico che lo ha costretto in questa condizione, ma se sulla porta chiusa a chiave è scritto 'Real carcere prussiano', allora riterremo questa condizione legittima.
In generale, come annotava ancora Rosa, i comunisti preferiscono lasciare al capitale armi, soldati, polizia, galere e il monopolio dell'uso della violenza perché tutto questo deve far parte del suo spettacolo e non entrare a far parte del loro.
Naturalmente buona Pasqua.

Lunedì, 6 aprile

Letture. Moltitudine. La democrazia della Moltitudine. Per Negri e Hardt esiste un nesso tra uso della forza e affermazione della democrazia: la nuova forma della democrazia, infatti, non comporterebbe solo la costituzione di un 'sistema politico', ma anche di un modello sociale, produttivo e comunicativo. È inevitabile, dunque, attendersi una resistenza da parte del dominio: lo  stato di guerra interminabile che gli autori hanno individuato ne è un aspetto. I problemi dell'uso della forza e della democrazia vivono insieme e devono convivere proprio in ragione della natura del movimento verso la democrazia globale che non è solo un movimento politico.
Ieri mi 'sono seduto sul testo' e ho posto delle pregiudiziali rispetto all'uso della forza che in quello non sono contenute: sono pregiudiziali, infatti, che vengono ancora prima di quelle esposte da Negri e Hardt. L'ho fatto soprattutto per via della pesante eredità che la scelta della lotta armata ha lasciato alle generazioni seguenti gli anni '70, soprattutto quando i 'tribunali del popolo' delle Brigate Rosse o di Prima Linea emisero sentenze di morte e le eseguirono e quando le organizzazioni combattenti pretesero di essere la quintessenza dell'antagonismo. Fu una terribile e fallimentare esperienza sia dal punto di vista politico quanto umano.
In Moltitudine si propongono tre pregiudiziali rispetto all'uso della forza che sono tutte politiche e strategiche e perseguono lo scopo di una coerenza con l'obiettivo democratico. Sarò schematico.
Come prima cosa l'azione militare, ovviamente quando si rende necessaria e vedremo quando, deve essere subordinata alla politica. Il riferimento alla pratica guerrigliera del Chiapas è esplicito. Là dove, dunque, la democrazia è attaccata militarmente la risposta democratica deve tenere conto dei soggetti della democrazia e della loro volontà politica: l'esercito guerrigliero è in primo luogo un organismo politico e solo dopo militare. Una risposta esclusivamente militare alla guerra imperiale è perdente in partenza: il volume di fuoco che l'Impero è in grado di esprimere è incommensurabile. Inoltre “la subordinazione della violenza alla politica non è ancora una ragione sufficiente perché l'uso della violenza possa dirsi democratico” (p. 395).
Il secondo principio di un uso democratico della violenza è quello in base al quale il suo uso deve essere difensivo. Si tratta di difendere gli spazi conquistati e costituiti dall'aggressione militare ma anche qui, nel secondo postulato sulla 'violenza democratica', si pone il problema delle forme di questa violenza che non deve essere necessariamente quella del fucile, inadeguata a fronteggiare la superiorità tecnica del nemico e spesso funzionale alla sovradeterminazione organizzativa dei movimenti. Il problema della violenza non è quello della scelta dell'arma alla quale, invece, si sono vincolati i movimenti rivoluzionari del passato (nel testo diretto il riferimento alle black panthere) ma la consapevolezza che l'arma e l'uso della forza, armata o no, “ … non crea nulla, ma può solo preservare ciò che è stato creato” (p. 396). La logica secondo la quale solo l'uso delle armi e solo la lotta armata sono garanzia del movimento e del suo corretto sviluppo è negata. Quella logica, spesso e in maniera perversa, ha stabilito una relazione tra la 'pesantezza' dell'armamento e la profondità del processo rivoluzionario. Ebbene questa logica non deve appartenere ai movimenti quando sperimentano l'uso della forza.
Questa seconda pregiudiziale è estremamente limitata, costitutivamente limitata. Precisamente come per il sapere, la scienza, il lavoro e la democrazia, gli autori presuppongono una 'neutralità' nella forza. L'uso della forza non è mai neutro, sia nella versione difensiva che offensiva. (ammesso che quando si entra nella logica dello scontro violento si possa distinguere tra difesa e offesa, tra attacco e contrattacco, poiché, solitamente, quando si entra nella dimensione bellica non c'è mai nessuno ad ammettere di essere stato l'aggressore ma tutti si reputano e proclamano aggrediti) rispetto allo sviluppo dei movimenti: quando un movimento sceglie o è costretto a scegliere l'uso della forza, compie un atto che avrà delle conseguenze inevitabili sulla struttura e sul ragionamento su sé stesso e anche quando dovesse rispettare le pregiudiziali etiche di conservazione della vita umana. L'uso della forza è una scelta che deve essere sempre associata alla consapevolezza della sua gravità e alla creazione di anticorpi rispetto all'uso della forza e alla sua mitizzazione (ironia, distacco, assenza di autoglorificazione militare e via discorrendo). Insomma il limite di questa seconda pregiudiziale introdotta e adottata dagli autori di Moltitudine sta nell'essere solo un elemento strategico, secondo un'idea dell'azione politica molto tradizionale e nel aver ignorato il 'miracolo incompiuto' della lotta armata del Chiapas e le decine di passamontagna con i quali il subcomandante Marcos finge di mascherarsi il volto.
Il terzo principio è abbastanza semplice ma onestamente vago: “l'uso della violenza deve essere organizzato democraticamente” (p. 397). Io preciso questo principio con quello che scrisse Troskij nella sua 'Storia della Rivoluzione russa', descrivendo la giornata insurrezionale dell'ottobre. Di fronte agli autentici bagni di sangue che avevano accompagnato le rivoluzioni precedenti (quella inglese, francese e americana) a Pietroburgo i proletari avevano occupato il potere senza un morto, al termine di un'azione sempre più democratica, estesa e unanime che aveva sciolto gli argini e polverizzato i bastioni del nemico. Quando gli operai e i soldati armati giunsero al palazzo, dunque, non c'era più nessuno al quale sparare e nessuno che lo difendeva, perché tutti avevano disertato.
La base della democrazia e di un processo rivoluzionario come quello appena descritto non dipende solo da un dato 'strutturale' e 'oggettivo', vale a dire dalla conformazione 'biopolitica' della società “nella produzione della Moltitudine, la distinzione tra economia e politica tende a sparire e … la produzione dei beni economici tende a identificarsi con la produzione delle relazioni sociali e, in ultima analisi, con la produzione della società stessa” (p. 403) ma anche da un dato 'sovrastrutturale' e 'soggettivo', l'amore e il realismo politico.
Quindi oggettività biopolitica e relativa soggettività, amore e realismo politico, sono le due strutture del movimenti democratici globali.
L'azione politica “capace di far convergere in un tempo e in uno spazio determinati il potere comune” (p. 404) è dunque fondata su due stati e disposizioni dell'animo.
L'amore governa il momento progettuale, strategico della Moltitudine, è il riconoscimento del nostro agire comune e della sua necessità: “l'amore è la base stessa dei nostri progetti politici in comune e della costruzione di una nuova società. Senza questo amore non siamo niente” (p. 405). Si tratta, facendo riferimento a un'opera di Negri degli anni '80 (mi pare fosse Anomalia selvaggia), dell'amore come legame tra gli individui che cooperano e lavorano insieme, convivono le stesse contraddizioni, presentato in un'edizione nuova ed estesa. Amore come solidarietà, partecipazione, immedesimazione, potenza etica e sociale che è il motore stesso dell'organizzazione democratica contemporanea.
Poi viene il realismo politico che governa la prassi, la tattica e segue l'amore per realizzarlo, perché: “Questo processo non ha nulla di spontaneo e improvvisato. La distruzione della sovranità deve essere organizzata in parallelo con la costituzione di nuove istituzioni democratiche” (p. 407). E la dote del realismo politico è proprio quella di rendere possibile l'amore della Moltitudine come potenza politica, il realismo politico è la capacità di confrontare l'amore con la situazione concreta. Questo, come annotano gli autori, ha sempre fatto accomunare il realismo politico con il pensiero conservatore e reazionario, ma il realismo politico sussunto dalla strategia dell'amore propone un nuovo genere di realismo “I rivoluzionari non devono essere meno realisti dei reazionari: a Valmy Saint Just non era meno realista di Metternich” (p. 410).
Il realismo politico diventa soggettività oggettiva, rilettura della realtà, scommessa sulla realtà: “Possiamo già renderci conto di come oggi il tempo sia diviso tra un presente che è già morto e un futuro che è già vivente – l'abisso che li separa è enorme. Un giorno, un evento ci proietterà come una freccia verso questo futuro che già vive. Questo sarà il momento di un vero atto d'amore politico” (p. 411). Nuovamente un po' vago ma evocante e un bel epilogo. Non credete?
Buon lunedì dell'Angelo.

Mercoledì, 8 aprile

Letture. Arte e Multitudo / Toni Negri ; a cura di Nicolas Martino. - Roma : Deriveapprodi, 2014. - 1. ed. (Doc(k)s)
È una raccolta di lettere sull'arte scritte alla fine degli anni '80, alcune alla fine dei novanta e infine nel 2001 e 2014. L'editore ha raccolto anche dei brevissimi saggi e pamphlet.
Si legge bene. Le lettere degli anni ottanta sono pervase da uno spirito a tratti davvero romantico (nel senso storico e filosofico del termine) che, pur essendomi estraneo e non appartenendomi, mi induce alla riflessione. La sconfitta del movimento degli anni settanta, la 'contro – rivoluzione' è un'ombra che si insinua ovunque in questi testi e fa ricordare e fa, sinceramente, ancora adesso soffrire. Essendo laureato in Storia dell'Arte ed avendo l'approccio accademico e storicista in uso nei primi anni '80, spesso fatico, non tanto paradossalmente, a comprendere quell'entusiasmo di Negri verso il fenomeno artistico che, per me, è un fatto produttivo come un altro che magari diverte solo un po' di più chi lo mette in atto e chi lo incontra. Letteralmente 'diverte solo un po' di più' perché nella produzione artistica c'è la libertà di creare e la libertà di trovarcisi in mezzo e coinvolto, anche se il termine 'libertà' è inappropriato e bugiardo: l'arte non è una fabbrica, non è un laboratorio artigiano e non è uno studio professionale, ma è una particolare fabbrica, laboratorio e studio. L'arte non è produzione metalmeccanica, informatica o scientifica ma lo è anche.
L'arte non è lavoro comandato ma ha una relazione con quello, anche perché se non ci fosse lavoro comandato non esisterebbe lavoro artistico e non avrebbe nessun senso distinguerlo dal resto del lavoro. Trasferirei, alla fine, (e l'ho sempre fatto anche a costo di figurarmi arido) il fatto artistico nella vita quotidiana, collocando l'arte in un posto che non abbia più senso chiamare arte e l'eccedenza dell'essere là dove deve esprimersi. Sto descrivendo e chiedendo la fine dell'arte? Credo di sì. Non si tratta di proclamarla in funzione della banalizzazione della vita quotidiana, come si è fatto in passato (penso alla retorica fascista e nazista contro l'arte che non fu casuale, comunque per  decretarne la definitiva massificazione secondo l'equazione niente arte, niente desiderio, niente 'eccedenza dell'essere', per usare la felice espressione di Negri), ma per mettere in campo un circuito di trasformazioni molecolari, lievi ma essenziali, per spostare leggermente l'orizzonte, stabilire una potenza che si accumula. L'arte diviene, allora, un prodotto che si distribuisce, irriconoscibile come prodotto specifico e come fatto merceologico.

Sabato, 11 aprile

Annotazione. [Senza prendersi troppo sul serio. Altri mondi]
Altri mondi è solo un punto di vista che è cosciente di esserlo, un punto di vista che viene fuori da quella che Negri, Hardt e Virno nominano come Moltitudine. Non esige e impone severità e rifiuta categoricamente un discorso sul futuro. L'ho scritto e continuerò a scriverlo: ogni discorso sul futuro puzza di cadavere e il futuro è il cadavere del quale ci dobbiamo liberare. È buona politica lasciare il ragionamento e la progettazione sul futuro ai bilanci contabili dei residuali e patetici stati – nazione perché il futuro si è ridotto a faccenda di amministrazione economico – finanziaria. È necessario liberarsi dall'idea del futuro che è stata la fonte dell'attività politica in occidente dal XVII secolo in poi. In nome del futuro si è suicidato il presente: si pretendono rinunce, sacrifici e cinismo nell'oggi per gioie, felicità e illusioni nel domani, deroghe alla morale in ragione della futura morale e abrogazione delle libertà per libertà future. Alla fine quando il futuro viene è già vecchio, non essendo altro che il presente inumato e travestito.
Il pensiero rivoluzionario (e anche il pensiero comunista) è stato la quintessenza di un modo di affrontare il presente in funzione quasi esclusiva del futuro; senza esserne consapevole ha interpretato, in maniera davvero seria, l'esigenza di governare il tempo (e quindi anche il tempo storico) che è essenziale nel capitalismo. Ho l'impressione che il capitalismo sia spesso andato a lezione di conservazione presso i rivoluzionari e le rivoluzioni.
Qualcuno obietterà che il problema del futuro è una costante della cultura dell'umanità. In effetti va ammesso che, almeno dall'affermazione del cristianesimo (si badi bene che il mio ragionamento è limitato al mondo 'occidentale'), il destino dell'umanità è diventato una tematica morale e politica importante. La percezione della contraddittorietà del presente e dei suoi limiti è una conquista dell'epoca alto – imperiale, dominata dalla formazione, in Europa, di una grande istituzione 'transnazionale' e dalla crisi delle primitive magistrature repubblicane che avevano ancora relazioni con la cultura tribale, seppur molto indirette, tutta orientata all'amministrazione di contraddizioni tra apparati, culture e lingue etnicamente affini.
La res publica romana, nella sua versione imperiale, nella sua versione inter – tribale, affrontava problemi del tutto nuovi (pensiamo all'emergere del concetto, probabilmente nuovo, di nationes nel III secolo e il passaggio da repubblica a impero contiene certamente delle concordanze con il recentissimo passaggio da moderno a post – moderno). Si fece strada l'esigenza di una nuova lingua, un nuovo annuncio (che fu di Augusto e, sotto tutt'altra veste, di Cristo) da proporre al mondo, inteso come repubblica universale, che teneva nelle mani il governo dello spazio, la geografia, insieme con quello del tempo, perché l'unificazione dello spazio dell'orbis terrarum richiedeva l'unificazione del tempo o, meglio, la permetteva.
L'unificazione del tempo predisponeva la creazione di misure unitarie: passato, presente e futuro. Come la visione augustea usciva dal localismo italiciano, così l'ottica cristiana si emendava dal nazionalismo ebraico. Nasceva, quindi indiscutibilmente, non solo l'idea ma il discorso sul futuro e sul destino dell'umanità; non nasceva, però, la pretesa di progettarlo e di determinarlo, l'idea del futuro come risultato di una trasformazione progettata nel presente; il futuro si limitava a essere il prodotto di 'buone opere' eseguite nel presente, nel miglioramento del presente, un po' come in tanti contratti d'affitto medioevali in cui l'affittuario si impegnava a meliorare lo stato e le infrastrutture del podere ma certamente non a farlo divenire un altro podere. Quindi, alla fine, l'idea del futuro come entità separata dal presente, come oggetto di una trasformazione cosciente e finalizzata, di una teleologia immanente, non esisteva. Sia per Augusto che per i cristiani la nuova epoca nasceva rigorosamente nel presente e lo stesso pensiero apocalittico (pagano e cristiano indifferentemente) collocava il trionfo finale della giustizia non nella storia ma nella fine della storia: l'avvento del futuro era la fine stessa del futuro.
L'epoca moderna  (soprattutto l'illuminismo) ha del futuro tutt'altra immagine: è il prodotto di una trasformazione scientifica del presente (scientifica intesa in senso allargato) che dispone il futuro con un'altra dimensione temporale in radicale opposizione a quella attuale. Paradossalmente, però, affinché il futuro sia configurabile, è necessario che per esso siano validi gli stessi assiomi del presente, che rendono autenticabile il presente, idea che né Augusto né i discepoli di Cristo avrebbero mai sottoscritto: nell'epoca che ha idolatrato il futuro, esso nasce già vecchio. La critica alla tradizionale forma dell'attività politica non può che discendere dalla critica a questa immagine della configurazione del futuro che la post – modernità ha certamente depotenziato, limitandola in buona sostanza alla scienza economica e alla gestione contabile degli stati. Questo è, a mio parere, un grandissimo passo in avanti che l'umanità (parola terribile ma non riesco a trovare un'altra) ha compiuto: il futuro per quello che è, scienza contabile e tecnica del dominio.
E allora il futuro è definitivamente 'in crisi'?
Non organizzerei troppi trionfi o funerali in proposito. Se la teleologia scientifica e immanente si assottiglia e rivela, così, la sua paternità autentica (la scienza contabile, l'economia, la finanza e l'astrazione reale del danaro), dall'altra parte, per quanto la progettazione del futuro si riduca a essere economia, l'economia assume un tale livello di astrazione, di assolutezza dalle concretezze sociali e produttive, da essere una filosofia politica attuale, inverata e effettiva: l'unica filosofia possibile, con tutta la severità del caso.
Precisamente come la teleologia immanente, cacciata dalla porta alla fine del capitalismo moderno e manifatturiero rientra dalla finestra, così l'attività politica, come critica al finalismo immanentista del capitale, deve rientrare obtorto collo tra le necessità della liberazione sociale? Risponderei così: la teleologia immanentista si ripropone come necessità ma patisce lo stesso depotenziamento dell'immanenza capitalistica. Ho un solo timore a questo proposito (lo ribadisco, però, questi appunti non vanno letti con troppa serietà) che come il capitalismo ha assolutizzato il suo essere, il suo futuro, il suo 'fuori dalla storia e dal tempo', ci sia un'isomorfa tentazione nel fronte critico, attraverso l'assolutizzazione di concetti come Moltitudine e Comune; il rischio è quello di porre alla base dello sviluppo analitico e di inventarsi una vecchia scienza con vecchi assiomi e nuovi concetti da articolare, percorrendo, insomma, un cammino solo in apparenza opposto o meglio inutilmente opposto a quello dello sviluppo del capitalismo.
Oggettivamente sento ben pochi diritti di tracciare giudizi severi e conclusivi (e il riferimento precedente alla serietà limitata è necessario) dopo anni di radicale rifiuto della politica e dell'analisi politica, che non fosse quella che mi portava alla constatazione dell'inutilità di entrambe, e sto scrivendo questo taccuino in movimento con un certo imbarazzo: per me è davvero molto difficile pensare l'attività politica e non ricordo affatto con nostalgia quella della mia adolescenza, lontana, ormai.
Sono ovviamente consapevole del fatto che dalla fine degli anni settanta e per tutti gli anni ottanta si è sviluppato un processo di trasformazione repressiva impressionante, che ha coinvolto centinaia di migliaia di vite, alcune in forma brutale e diretta: quasi un'intera generazione politica (quella nata grossomodo nel secondo lustro degli anni cinquanta e nei primissimi anni dei sessanta) è stata eroinizzata, incarcerata e chiusa in una grandissima riserva e ghetto intellettuale dove è stata indotta al silenzio e spesso all'abiura e all'apostasia, il più delle volte assolutamente spontanee. Anche l'Italia come Cile e Argentina ha avuto una generazione di desaparecidos, soltanto che è stata la potenza dell'informazione e dei meccanismi sociali e non l'esercito e l'energia militare e poliziesca a provocarne la scomparsa. In molti come me, credo, ci siamo detti “mi terrò le mie idee ma non le userò mai più, né le dirò mai più”, un po' come il protagonista del 'Rosso e il nero' di Stendhal. Questo affetto che non è stato né di delusione né di pentimento ma di disincanto si è però accompagnato al suo contrario: a quello dell'innocenza. Siamo stati una generazione di innocenti, nel significato etimologico di quelli che non nuocciono, che si sono tirati da parte e che rifiutano ulteriori entusiasmi e investimenti, una generazione grigia e silenziosa che non ama esprimersi.
L'idea di riaprire l'animo all'attività politica induce il timore di perdere entrambi questi stati d'animo soprattutto se si associa a quella la persuasione, non assoluta ma forte, dell'inutilità dell'agire politico, inteso come agire politico tradizionale, con le bandiere distese sul futuro e la convinzione di essere l'unico futuro umanamente sostenibile. Immaginare, però, una nuova forma di agire politico appare un'impresa dagli esiti improbabili, destinate a farci muovere tra relitti del passato e macerie, riverniciature dei ruderi e nuove architetture che rimangono invisibili.

Ai margini. Arte e Multitudo. Il testo continua a leggersi bene e io lo sto leggendo bene non per quello che si scrive intorno all'arte (che non condivido con assoluta radicalità: troppo romanticismo, troppe ispirazioni a me del tutto estranee) ma ciò che Antonio Negri scrive dietro l'arte, mi si perdoni l'interpretazione dicotomica, che è al contrario molto interessante. C'è un'idea dell'arte e del Comune, io scriverei dell'arte come fenomenologia sociale, che è fertilissima.

Giovedì, 16 aprile

Annotazione. Ho spesso ragionato, come tutti credo, sulla televisione e il suo ruolo, nell'ordine (ordine d'importanza e d'impatto) culturale, sociale, politico ed economico.
Il sistema televisivo ha avuto quindi una rilevanza antropologica e questo sotto due punti di vista: uno sostanzialmente in linea con i sistemi di comunicazione di massa antecedenti, che sta nella sua diffusione capillare, che investe, in tendenza, ogni individuo con un messaggio omogeneo, il secondo, ben più importante e caratteristico del mezzo, del media, che inerisce al suo stesso linguaggio, che è quello di fare riferimento all'umano utilizzando quasi tutti gli strumenti della sua biologia, della sua sensitività e di suscitare una nuova sensitività e percezione della biologia. Il linguaggio televisivo interferisce con gli individui come un linguaggio naturale, immediato e fisico che coinvolge gli organi percettivi: parla alla ragione e all'emotività (come la carta stampata o le forme artistiche del passato) ma in maniera 'biologica' e fisica. Il linguaggio televisivo istituisce una 'seconda realtà fisica' e quindi una seconda realtà percettiva. Lo scopo del linguaggio televisivo, come quello dei sistemi di comunicazione di massa precedenti, è quello di formare stati d'animo ed emozioni oltre che elementi discorsivi e logici, ma un programma televisivo è esso stesso uno stato d'animo, un'emozione e un'informazione, molto diversi da una copertina di un libro e da una testata giornalistica: il programma televisivo non introduce l'informazione e l'informazione è già introdotta, implicita, nel programma.
Per linguaggio specifico intendo quel complesso di tecniche comunicative che dipendono dalla tecnologia usata per costruire l'informazione e per diffonderla. La costruzione e trasmissione che, contemporaneamente, danno forma alla fruizione, non sono indifferenti alla tecnica usata. La tecnica televisiva prevede una fruizione immediata dell'informazione, senza un'interpretazione intermedia, al contrario di quanto accade per la stampa che richiede una decodificazione della scrittura, l'assemblaggio delle parole e infine la ricostruzione del senso. Il linguaggio televisivo annulla questo spazio intellettuale, questo lavoro sul testo che impone l'edificazione dell'informazione, preliminare ineliminabile dell'informazione a stampa. Un po' come per il cinema e teatro, l'esercizio intellettuale viene dopo o, al massimo, in corso d'opera. Due cose, però, separano il teatro dalla televisione: il fatto che il teatro impone la condivisione di uno spazio fisico, la presenza in quello dello spettatore e uno spazio comunicativo geometricamente determinato; il teatro richiede la partecipazione dei corpi al passaggio dell'informazione, nello spettacolo televisivo questo passaggio informativo avviene in uno spazio incorporeo, in uno spazio non precisamente delimitato e percepibile con i sensi.
Già il cinema ha emancipato il passaggio dell'informazione dalla spazialità concreta, ma la sala cinematografica, come luogo nel quale siedono gli spettatori, rimane lo strumento di trasmissione della tecnica cinematografica, che è indifferente alla fisicità della platea ma non può prescindere da quella, a rischio di non essere cinema. Il cinema è solo un antenato tecnologico della televisione per tutto ciò che riguarda l'ottica, ma non lo è affatto per la tecnica informativa: il cinema non è l'antenato linguistico della televisione.
La radio per modo di costruire l'informazione, di trasmetterla e di disporne la fruizione è il vero antenato linguistico della televisione: come quella va verso l'individuo, predisponendo una fruizione singolare e indifferente al suo luogo. Entrambe, inoltre, condividono un elemento tecnologico che è decisivo per la loro stessa struttura informativa e narrativa, quindi linguistica; cinema e teatro basano le loro finzioni, i loro trucchi e stratagemmi informativi sulle leggi della meccanica, dell'ottica e dell'acustica, cioè sulla fisica classica (esempio migliore di questa subordinazione  tecnico – scientifica è negli spettatori che fuggivano la locomotiva dei fratelli Lumiere, o il dubbio in teatro sulla verità degli spazi e sull'omicidio dell'attore), televisione e radio fondano, invece, la distribuzione delle informazioni sulle leggi dell'elettromagnetismo e dell'elettronica.
La finzione teatrale e cinematografica è palese, conclamata, fa parte dello spettacolo, può anche giocare con quello, la finzione radiofonica e televisiva è nascosta, impercettibile e l'informazione si presenta, apparentemente, per quello che è, priva di veli. Le leggi della fisica classica rendono possibile l'illusione ma facile lo smascheramento e la disillusione, le leggi della fisica quantistica sono del tutto trasparenti alla nostra percezione: le informazioni giungono immediate, tanto da non essere informazioni, elaborazioni, ma dati di fatto. Per questo sia il linguaggio radiofonico sia quello televisivo 'doppiano' la realtà e, doppiando la realtà, finiscono per doppiare loro stessi: l'informazione diviene un dato di fatto che nuovamente diventa informazione, una volta guardando al dato di fatto, una volta all'informazione.
Ovviamente non intendo ridurre la diversità tra radio e TV e gli altri sistemi di comunicazione di massa (cinema, teatro e carta stampata) a una questione tecnologica: moltissimi sono gli elementi che costituiscono tale discrimine. La costruzione e trasmissione dell'informazione quantistica, però, permette la realizzazione di una manipolazione qui e ora, subitanea e istantanea, dell'informazione, trattata come il fatto reale che si conforma nel tempo reale. Se questo imparenta radio e televisione, quello che le separa è la fisicità, ovvero la possibilità di creare una seconda realtà per la percezione, adeguata alla prima, quella concreta e vissuta 'naturalmente'. Nella televisione l'artificiale diviene naturale e il fittizio reale; nella radio questo processo, seppur abbozzato, non riesce a compiersi, anche se di questo tratto genetico è testimonianza il fatto che, mentre teatro, stampa e cinema nacquero come eventi 'liberi' e liberamente disposti sul mercato, la radio nacque come istituzione pubblica e statale, nella stessa maniera della televisione. La possibilità di rendere reale e fisica, biologica e dotata di vita di un'esistenza propria e antropomorfa l'informazione interessò fin da subito il potere politico che trovava in Tv e radio la realizzazione in quintessenza della sua rappresentazione: essere informazione, rimanendo con l'aspetto di un dato di fatto, esercitare il potere nascondendone l'esercizio.
Nella decodificazione dell'informazione, scrivevo prima, la stampa richiede uno sforzo intellettuale e biologico e un esercizio preventivo: la scoperta delle parole, la sequenzialità dei concetti e infine la visualizzazione dell'immagine informativa. Anche la TV richiede un esercizio intellettuale ma estremamente abbreviato:  chi legge un notiziario televisivo è un corpo che parla, nel presente, e l'informazione si genera antropomorfa. Quasi mai, leggendo un giornale, immaginiamo il giornalista mentre lo scrive, la verità del suo lavoro, che, invece, rimane un'attività svolta dietro le quinte, nascosta dai caratteri di stampa, lontana dalla fisicità e dall'umanità.  La visione del giornalista rimane una questione per gli addetti ai lavori e questo fa parte della gerarchia in cui è organizzato il linguaggio giornalistico.
“Uccide la moglie perché non gli fa vedere San Remo”, questo fu un titolone esemplificativo di un certo tipo di giornalismo scandalistico e 'popolare', dove il dato di fatto inequivocabile che l'omicida abbia commesso il delitto per poter vedere il festival di San Remo (ed è un dato di fatto, confessato dall'omicida) diviene un'informazione sul mondo familiare, per poi tornare a essere occasione di cronaca. La televisione fa uccidere sempre la moglie per futili motivi, si interroga anche sul futile  non per negarlo ma per rappresentarlo meglio; per sua logica non esce dall'occasione immediata di un evento. Questo è il suo paradigma anche quando rivela il futile oppure quando lo nega e lo indaga e approfondisce, anche quando, e lo fa sempre più spesso, racconta sé stessa, anche quando si analizza e si siede sul lettino dell'autocoscienza.
Lo scenario televisivo, anche quello più complesso, ha bisogno di contesti semplici, o di molti contesti semplici concatenati, che sono gli unici a costituire complessità in TV, ma mai profondità.
La radio, che pure è distribuita verso l'individuo e ha una trasmissione incorporea e uno spazio scenico imprecisato, non riesce a recuperare questo sdoppiamento tra fittizio e reale nella rappresentazione dell'unità tra informazione e dato di fatto, se lo facesse cadrebbe immediatamente nel ridicolo, nella rudezza propagandistica o informativa direttamente percepita. La televisione, invece, può essere semplice e semplificare, la semplificazione è nelle sue tecniche comunicative e nelle sue tecnologie.

Venerdì, 17 aprile

Annotazione. Dopo gli sproloqui di ieri, annoterei, in estrema sintesi, che è un dato di fatto che radio e televisione e il loro spazio non euclideo (l'etere) sono diventati, in Italia, proprietà privata dello stato. Nessun organo di stampa o casa di distribuzione cinematografica sono stati controllati così strettamente dallo stato come l'etere e la tecnologia radio – televisiva. Si è instaurato un regime di monopolio che è durato mezzo secolo per la radio e venticinque anni per la televisione. Questo è stato un prodotto della specificità storico – politica italiana ma anche un dato che sottolinea la  forza comunicativa che radio e televisione possiedono. Insomma l'anomalia italiana c'entra eccome ma denuncia una generalità e normalità: i linguaggi di radio e televisione sono terribilmente efficaci e preziosi, fino al punto che  il potere politico ha cercato di non condividerli con altri.
Gran parte di quanto annotato finora si riferisce all'Italia e a quella che si potrebbe storicizzare come la prima fase del linguaggio televisivo, quello dei grandi canali nazionali, rigorosamente espressi in lingua nazionale, orientati all'informazione politica e agli interni e soprattutto canali unici, senza competitori. La semplificazione qui era palese ed esplicita e la televisione si è manifestata per quella che era e aveva ottenuto un'enorme successo proprio in ragione del suo linguaggio rudimentale: un media semplice, univoco e non multimediale, una banalità fatta a immagine dell'uomo, antropomorfa.
Anche il teatro e poi il cinema, quando passavano in TV, cessavano di essere quello che sono e diventavano un racconto sull'opera, inquadrature sull'opera teatrale e interpretazione filmografica di quella; per il cinema lo svuotamento è più sottile e meno evidente: le televisione riduceva alla sua dimensione lo schermo ideale del cinematografo, lo appiattisce e interviene sui tempi della proiezione. La televisione rappresenta gli altri media, imprimendo loro la sua univocità e semplicità, a polivocità e complessità può solo alludere. Questo sempre anche oggi. Già allora, però, possedeva questa forza e potenza comunicativa nell'essere antropologica e antropomorfa, un inveramento artificiale dell'umano e una seconda realtà fisica non più euclidea e quindi uno stato d'animo e sensitività fini da subito. Questo è stato ed è la struttura atomica del linguaggio televisivo, che poi combina molecole e costituisce elementi molari.

Domenica, 19 aprile

Annotazione. Negli anni cinquanta e sessanta il movimento critico contro la comunicazione televisiva, moralista e trombonesco, colse e prese a pretesto questo carattere semplificatorio. Ergendosi a difensori della carta stampata, questi critici sottolineavano la banalità e semplicità congenite del linguaggio televisivo: la televisione non sarebbe mai potuta essere un buon media ed era condannata a un ruolo sottoculturale. La televisione lo è stata e lo è: tutte le altre espressioni culturali (la stampa, il cinema, la fotografia, il cinema, la musica e le arti visive) sono nella TV ma perdono la loro autenticità, sono schiacciate dentro la dimensione unimediale del mezzo televisione che abolisce le differenze, anziché sottolinearle, e che le ha consentito di essere il mezzo di comunicazione per eccellenza. Proprio il fatto di usare un linguaggio semplificato e sottoculturale, di non voler elaborare una cultura indipendente, ha reso la televisione una potenza culturale, una seconda realtà democratica e una specie di Pier Paolo Pasolini nel suo contrario. Nonostante la parentela, questa operazione non poteva realizzarsi attraverso la radio, che pure, come la televisione, scende tra gli individui in maniera non spazializzata e non asincrona. Anche la radio è una presenza e si configura come una scena diffusa e reale, come l'unità che si diffonde. Alla radio mancava però l'aspetto della visualità, la finzione della presenza fisica.
Più le banconote sono ben imitate, più i falsari imitano il reale, più il danaro è falso. La televisione, nella sua prima fase, costruiva una seconda realtà, denunciandone, però, il carattere: palinsesti rigidi, divisi secondo spazi tematici, rivelavano l'edificazione del prodotto, informavano lo spettatore del fatto che quello era un messaggio televisivo. La finzione della presenza fisica rimaneva manifesta, mentre la costruzione dell'informazione televisiva si teneva ben lontana dall'importare e mettere in scena la realtà quotidiana, gli stati d'animo e gli affetti. I programmi televisivi che sono naturalmente confezioni di stati d'animo uniti con informazioni, in quanto il media è antropomorfo e riproduce antropometricamente la realtà, nella prima fase della comunicazione televisiva, teneva a distanza la realtà fisica e l'immaginario come potenze da non utilizzare. Questo contribuiva a rinforzare le critiche contro la banalizzazione e semplificazione televisiva, anche se quei critici oggi inorridirebbero sperimentando i nuovi orizzonti della televisione che si confonde con la realtà e la produce.
Nella sua prima fase il sistema televisivo si limitava a rappresentare la realtà e si guardava bene dall'entrare nella realtà, provocando eventi in quella; questo è un passaggio che in Italia si realizza nei primi anni ottanta e che curiosamente è analogo e anche coevo con la trasformazione che subì la chiesa cattolica sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, che passò da un atteggiamento di critica registrazione morale dei tempi e da un appoggio esterno alle forze politiche conservatrici a un comportamento attivo e 'politico' sui tempi storici, un comportamento che fu equiparato a quello di un partito politico. Sia il sistema televisivo che la chiesa cattolica ebbero percezione del fatto che il corpo sociale stava perdendo quell'autonomia energetica e produttiva sulla quale avevano lavorato e che la semplice rappresentazione della realtà rischiava di svuotare le loro istituzioni e di privarle di funzione: il corpo sociale, infatti, si stava svuotando e stava cessando di essere un corpo, rappresentabile come un insieme di organi. Le trasformazioni sociali, il passaggio dal welfare state al warfare state hanno avuto un'influenza fortissima su entrambi questi processi, sia la chiesa cattolica sia il sistema il televisivo sono sistemi di comunicazione di massa che hanno percepito la perdita di terreno e di significato della socialità nel corpo sociale che le politiche neo – liberiste determinavano; si disegnava uno 'spazio vuoto' nelle relazioni sociali che imponeva e rendeva anche produttivi economicamente gli interventi diretti dentro la società allo scopo, prima, di ricostituire fittiziamente quel corpo di relazioni, poi, di sostituirle con altre (pensiamo alla parabola che parte da 'Profondo nord' e finisce con Samarcanda e poi ancora con Anno zero).
Nella prima fase della sua storia, così, il sistema televisivo subiva la concorrenza di quello radiofonico, anche perché quello, non avendo la potenza imitativa della realtà propria della televisione, e pur rimanendo vincolato (come quello televisivo) allo stretto controllo del potere politico, poteva con maggiore spregiudicatezza estendere il suo linguaggio e in due direzioni (estensione che rimarrà nel codice genetico del sistema comunicativo radiofonico): una volta verso un'apertura alla realtà quotidiana e agli stati d'animo (pensiamo alla celeberrima trasmissione radiofonica degli anni sessanta 'Chiamate Roma 3131', a programmazioni come 'Alto gradimento', Superonic, Per voi giovani e moltissime altre), l'altra volta verso la cultura e lo specifico radiofonico (la linguistica, la letteratura e soprattutto la musica e la sua storia) e in genere a un ragionamento, a volte implicito ma spesso esplicito, sulla radio, cose che mancarono completamente al sistema televisivo della prima fase.
Già allora, comunque, scrivere di televisione significava scrivere di un aspetto significativo della società e della vita sociale ma non, come sarà per la seconda fase della storia della televisione, della vita sociale stessa, dell'esplosione dei palinsesti, della commercializzazione dell'etere, della produzione di una realtà fisica, emotiva, passionale e affettiva parallela, dove la banconota del falsario è quasi identica a quella corrente, dove il falso è tanto falso da entrare a far parte del reale ed è più potente del reale, dove la moneta cattiva scaccia e nasconde quella buona e dove si mettono in discussione i parametri di verità e realtà; una fase questa inaugurata dopo il 1976 e andata avanti fino alla vigilia del nuovo millennio. Dopo, la proliferazione della realtà virtuale, della comunicazione telematica, delle reti dei dati e la strutturazione del cyberg – spazio hanno imposto alla seconda realtà fisica, al mondo parallelo televisivo di sperimentare nuove tecnologie e nuove strategie e di avviare una nuova fase sviluppo.
Se la prima trasformazione  ha accompagnato il passaggio dal welfare al warfare e il temporaneo rafforzamento degli stati – nazione come potenze militari, quest'ultima ha assistito il parto di un altrettanto apparente istituzionalità internazionale; entrambe, comunque, condividono un mondo del lavoro transnazionalizzato e un modo di produzione demassificato nel quale la progettazione è tutto, la produzione solo una conseguenza della progettazione e gli eventi, intesi come risultati di progetti particolari, sono il cuore della produzione generale.
In questi nuovo contesti, il monocratismo e la confezione rigida della prima generazione televisiva rimane come vezzo, richiamo erudito, evento particolare esso stesso, ma non è più essenza, modo di essere e attributo della produzione televisiva.

Giovedì, 23 aprile

Annotazione. La televisione costruisce una 'seconda realtà fisica', che ha un impatto emotivo simile alla prima e che tende a coincidere con quella. Desidera coincidere in primo luogo perché, molto semplicemente, entra a far parte di quella, precisamente come qualsiasi altro sistema di comunicazione; a differenza di quelli, però, la presenza televisiva suscita il noto e non casuale luogo comune secondo il quale: “entra nelle case”. La televisione è, quindi, invasiva ed invasiva per sincronicità, fisicità ed emotività, queste tre condizioni conformano la componente passiva dell'invasività televisiva, quella, appunto, che 'entra nelle case'.
Esiste, però, una seconda componente della invasività televisiva, che, ovviamente, dipende dalla prima e cioè dalla presenza diffusa e sincrona, secondo la quale, usando un motteggio altrettanto banale, “dove è televisione è casa”. La presenza televisiva, quindi, non si limita a entrare nelle case ma anche a istituire una socialità della casa, non mettendo in relazione i singoli spazi domestici ma facendo in modo che le case si assomiglino tutte, partecipando allo stesso tessuto comunicativo.  Luoghi comuni, per quanto banali, sono, a proposito del sistema televisivo, veri proprio perché, e non si tratta solo di un gioco di parole, il sistema televisivo è un luogo comune.
Al contrario di stampa, cinema e teatro la televisione definisce alla stessa maniera tutti i luoghi, qualsiasi luogo, come possibile platea, uditorio e convegno di spettatori; anche un gabinetto, anche una baracca, anche una capanna costruita secondo le tecnologie del neolitico, possono essere (invasività passiva) e trasformarsi (invasività attiva) in televisione, in luoghi di fruizione televisiva. La seconda realtà percettiva entra, così, prepotentemente nella prima.
È ozioso il tentativo di distinguere tra mondo delle relazioni reali, magari configurandole come 'autentiche', e mondo delle relazioni televisive. La televisione e gli eventi televisivi istituiscono una comunità che attraversa quella reale, anche se, certamente, la comunità televisiva della prima fase ha delle caratteristiche molto diverse da quelle posteriori; in verità la struttura della comunità televisiva segue molto da vicino quella della comunità reale, anche perché il prodotto televisivo è il prodotto della comunità reale che, come molti altri prodotti, interviene in quella, ritornandoci.
Il 'potere' della televisione sta nell'impatto di questo ritorno che, per le ragioni legate allo specifico linguaggio televisivo, è molto forte e incisivo. Su questo aspetto, però, cercherò di soffermarmi più avanti; ora mi preme sottolineare gli elementi distintivi del linguaggio televisivo al di là delle sue diverse fasi, al di là della sua storia e del suo sviluppo, e nella sua essenza.
Il primo carattere è quello di un non luogo, come la seconda caratteristica è quella di essere una forma si spettacolo e comunicazione distribuita capillarmente, con omogeneità e sincronicamente. Il terzo elemento è quello di essere antropomorfa e antropometrica, cioè di costituire una seconda realtà visiva, percettiva, sensoriale ed emotiva.
Questi elementi costituiscono l'involucro dell'informazione che permettono di conformare gli eventi mediatici secondo una struttura particolarmente efficace. In televisione non è messa in rappresentazione la realtà, come a teatro, al cinema o in radio, ma qualcosa che pretende di essere la realtà.
La struttura narrativa dell'informazione è offerta in tempo reale, nella contemporaneità e nel concreto svolgersi del tempo storico che è il contenitore dell'evento e degli eventi televisivi che, quindi, accadono nella realtà. L'involucro del linguaggio televisivo consente e impone questo sbilanciamento del tempo della realtà, storico, verso il tempo televisivo.
Per descrivere gli altri elementi della struttura narrativa televisiva ho ritenuto interessanti alcuni concetti che la psicanalisi associa all'interpretazione dei sogni e anche ad alcune patologie: spostamento, condensazione e rimozione. La realtà onirica ben si adatta a fornire gli elementi analitici per la seconda realtà televisiva: la parentela tra sogno ed evento televisivo è per me evidente. Tanto nel sogno, quanto nella realtà, inoltre, la trama del tempo è analoga, sogno e realtà intrecciano il tempo nella stessa maniera, anche questa, mi pare, un buona parentela.

Sabato, 25 aprile

Annotazione. Questi tre elementi, pur essendo costitutivi della struttura narrativa usata dalla TV, ne hanno movimentato la storia, nel senso che la loro mescolanza, il peso reciproco, non è stato uguale nelle diverse fasi storiche del mondo televisivo. C'è un secondo elemento che ha contribuito, cambiando, a determinare la storia del sistema televisivo: l'invasività. Sinteticamente l'invasione televisiva ha sempre più assunto caratteri attivi, di determinazione degli spazi che investiva, attraverso la definizione 'sociale' della platea, là dove la fruizione definiva anche il fruitore, facendo in modo che divenisse qualcosa di diverso da quello che era prima di assistere all'evento televisivo. Questo modo di coinvolgere lo spettatore è certamente condiviso da cinema e teatro, ma solo con radio e televisione diventa un fatto privato, individuale e intimo, un'esperienza e contatto, per di più, continuato.
L'invasività televisiva non si limita, però, all'aspetto della fruizione, ma anche a quello della costruzione e progettazione. Qui la struttura narrativa della cultura televisiva investe il reale, direttamente. La televisione 'monocratica' si limitava a registrare (utilizzando gli strumenti di condensazione spostamento e rimozione) la realtà e gli eventi arrivavano al fruitore come sorpresi, commentati e riassunti dalla realtà concreta; si presentava, in un aggettivo, come passiva rispetto alla realtà.
Contemporaneamente la generale pervasività tanto passiva che attiva nell'ambito della fruizione entrava far parte del linguaggio televisivo nella sua interezza, nel senso che non esiste un elemento senza l'altro e, soprattutto, l'invasività passiva nella fruizione del prodotto / evento / stato d'animo rende possibile proprio perché tale, perché interviene continuamente e individualmente sull'emotività e la relazione sociale, l'invasività attiva.
Ancor di più il discorso è valido se passiamo dal livello della fruizione a quello della costruzione del prodotto, evento e stato d'animo. La fruizione passiva e attiva dei prodotti televisivi conferma un sostrato, una sorta di pavimentazione o asfaltatura, distribuito omogeneamente nell'immaginario; questo sostrato è un'attitudine generalizzata a percepire la realtà anche attraverso la mediazione televisiva e a credere a quel tipo di percezione. Credere non significa affatto condividere, lasciarsi convincere e confondere le informazioni televisive con quelle acquisite 'naturalmente', credere è sinonimo di un confronto intimo, quotidiano ed emotivo con una media informativo antropomorfo e antropometrico, è la stessa cosa che avere davanti a sé, costantemente, una persona, sentirne la presenza, i sentimenti, le angosce e le paure, le azioni e e le reazioni.
La fruizione passiva e attiva costruisce quel sostrato sul quale il sistema televisivo ha sperimentato per la prima volta di intervenire direttamente nella realtà: vale a dire non solo di rappresentare gli eventi e di determinarne contesto e scenario ma addirittura di suscitarli. L'avvento della televisione polifonica, avvenuto in Italia tra la fine dei settanta e i primi anni ottanta, una televisione che non esercita una sola narrazione ma più narrazioni, è segnato dal passaggio conclamato dalla costruzione passiva e registrante (rappresentativa) a quella attiva. Se vogliamo le professionalità necessarie alla realizzazione del linguaggio televisivo nella TV monofonica e monocratica erano più alte e raffinate: condensazioni, spostamenti e rimozioni andavano attentamente progettati e la confezione del prodotto più elaborata perché secondo quel modello la televisione non poteva interferire direttamente nella verità e quindi doveva nascondere e occultare la sua interpretazione linguistica. La televisione polifonica e policratica banalizza l'operazione culturale e rappresentativa, la semplifica, lavorando sulla quantità, sul complesso informativo e non sulla qualità e sul singolo evento narrativo.
Sto usando, ovviamente, termini inappropriati che, comunque, espongo. Per monocratica e monofonica intendo la televisione come diretta espressione del potere politico e da quello controllata e sorvegliata (i famosi canali unici italiani fino al 1976 ne sono un esempio) e quella governata da palinsesti rigidi, formalizzati, che scandiscono con costanza e uniformità la narrazione, e infine quella nella quale la linea editoriale è coerente e non prevede contraddittori e dialettica, che possano mettere in discussione quella linea narrativa. Per policratica e polifonica intendo la televisione nella quale la programmazione cessa di essere diretta espressione del potere politico e quindi è consentita la proliferazione dei canali pubblici e privati, e dove i palinsesti si differenziano notevolmente e mutano di frequente e la linea editoriale e narrativa è dominata dall'incoerenza (quanto meno recitata e rappresentata) che comporta contraddittori, confronti, contributi eterogenei e programmi apparentemente contrapposti e in contrapposizione.
Non si fraintenda: la democrazia non c'entra nulla. La TV è, in verità, tutta monocratica, non prevede la costruzione dell'informazione attraverso contributi esterni e sotto l'aspetto del processo produttivo non conosce esterni da sé. Questa caratteristica è condivisa anche da altri sistemi massmediatici, ma il fatto di essere un complesso informativo chiuso e isolato è rappresentativo in modo bio – psichico (biologico, percettivo ed emozionale) della realtà ha delle conseguenze profonde: la realtà viene offerta in una semplificazione informativa ed emotiva. Questa semplificazione vale tanto per l'epoca monocratica quanto per la fase policratica: nella prima la semplicità è unica, nella seconda è molteplice, secondo una giustapposizione, però, di numerose semplicità. La semplificazione, modo di essere che tanto fece inorridire i primi critici, è rimasta la fenomenologia fondamentale della comunicazione televisiva. La televisione ha la forza di proporre la realtà in maniera semplificata, il linguaggio del reale si semplifica, perde ricchezze e contaminazioni, diventa asettico, selezionato, televisivo, appunto.
Visualità, sincronicità, aspazialità e antropometria permettono alla televisione di proporre la semplicità e subito dopo la semplicità concorre alla forza  dello strumento comunicativo. Questa interazione è resa efficace e piena di effetti comunicativi perché la complessità percettiva offerta dalla televisione (occhio, orecchio, spazio antropometrico, stati d'animo, passioni) nasconde la sua semplicità e la rende accettabile. La televisione offre una forma di piacere, di godimento, produce emozioni, trasmette informazioni senza richiedere sforzi interpretativi e costituisce una realtà, spesso drammatica e spaesante ma mai pericolosa e offensiva: concede il piacere di essere nella realtà senza partecipare ai rischi di questa presenza. Lo spettatore televisivo è uno spettatore inesistente, è colui che sta dentro la realtà senza esserci: lo spettatore ha l'illusione dell'invulnerabilità.
Questo aspetto della televisione come piacere è emerso nella seconda fase della sua storia, quando la corsa verso la realtà e la discesa verso la realtà è diventata distintiva e l'uso di spostamento e condensazione è diventata preminente rispetto alla rimozione degli elementi del reale.

Giovedì, 29 aprile

Ai margini. Arte e Multitudo.
Avevo annotato sul libro, a matita, e ai margini di un intervento sulla transavanguardia  che la transavanguardia era tutto ciò che non avrei voluto dall'arte se mai ho chiesto qualcosa all'arte.
Per me è qui il punto: Negri spiega l'arte e la spiega come 'eccedenza dell'essere'. Mi può star bene. Il problema è perché quest'eccedenza piace o è piaciuta, perché ha avuto spazio. La risposta rischia di essere metafisica. L'eccedenza copriva una mancanza? O come scrive Marx da qualche parte l'arte ha avuto la funzione di ripulire la coscienza delle classi dominanti o di nascondere la loro cattiva o falsa coscienza? Temo che oggi il tema di eccedenza, mancanza e coscienza sia del tutto fuori luogo e sgombrerei il campo da qualsiasi considerazione 'metafisica' perché la storia lo ha fatto.
Non è più possibile scrivere oggi né, credo, domani di eccedenza, mancanza e coscienza e quindi di arte. Se mai è esistita l'arte, oggi non esiste più. Non si tratta di una affermazione potenzialmente neo – romantica che presupporrebbe una nuova avanguardia artistica, nascondendola anche a sé stessa come si nasconde un amore che non può che essere clandestino, ma della fredda e realistica registrazione della realtà. Se l'arte non esiste più, bisogna inforcare nuovi occhiali per spiegare l'arte del passato o meglio quello che veniva inteso come arte nel passato.
Questi nuovi occhiali ci provocheranno dolori agli occhi ma non terribili visioni, anzi serene visioni: non ha più nessun senso separare l'arte dal sapere e questa separazione appartiene solo al linguaggio del mercante e alle sue terribili visioni, le forze del mercato.

rivedi aprile

Inizio anno

Venerdì, 1 maggio

Letture. Che cos'è un popolo / Alain Badieu, Pierre Bordieu, Judith Butler [et al.]. - Roma : Deriveapprodi, 2014. (Fuori gioco, 46).
Da qualche giorno sto leggendo, piuttosto distrattamente, 'che cos'è un popolo' di alcuni autori francesi dei quali non so nulla. Mi ha avvicinato al libro la curiosità sul concetto di popolo, depotenziato e nei fatti criticato da Negri e Hardt. Non ho trovato nulla nel testo che giustifichi il suo reintegro, anche nell'analisi espressa nel primo contributo “24 glosse sull'uso della parola popolo” di Alain Badieu. Badieu recupera una visione marxista del concetto, ma fatica notevolmente a collocarlo; convengo con lui che il sostantivo seguito dall'aggettivo di appartenenza ('popolo italiano') assume immediatamente un significato 'di destra', rimandando all'identità nazionale, ai valori dello stato e della nazione e a un'unità popolare mistificata.
Più controverso l'uso dell'aggettivale 'popolare', che nel caso di 'esercito popolare', 'guerra popolare' può richiamare un'idea progressiva e NON unitaria del popolo e identità particolari costruite in seno al popolo. Scrive a tal proposito Badieu che “popolo è un termine che acquisisce il suo valore o nelle forme, transitorie, delle guerre di liberazione nazionale o in quelle, definitive, delle politiche comuniste” (p. 11). Seppur quando ragiono da internazionalista nel senso storico, anarchico e comunista del termine posso sottoscrivere quanto affermato da Badieu, ho la chiara sensazione che rispetto all'elaborazione, davvero interessante e illuminante, di Virno e Negri il problema sia riproposto anche bene, ma su un terreno ormai sorpassato.
Anche l'internazionalismo comunista ha perduto gran parte della sua grammatica perché, per dirla in un motto, come il capitalismo ha perduto le nazioni, così il comunismo ha perduto i popoli, ed entrambi non hanno più la possibilità di individuare un coordinamento tra i rispettivi riferimenti geografici (cioè appunto nazioni e popoli). Questa confusione in materia coinvolge tutti, anche le ideologie della destra che sbandano pericolosamente tra momenti regionalisti e localistici (rinnegando e non usando l'idea di popolo e delle nazioni tradizionali, pensiamo ai 'padani' e alla 'padania' della Lega nord) e momenti nazionalistici e populisti (sempre la Lega nord sotto la 'direzione strategica' di Salvini); qui addirittura si creano popoli e sotto – popoli a seconda delle occasioni politiche. La confusione coinvolge anche le ideologie dell'internazionalismo neo – liberista e le oligarchie finanziarie multinazionali.

Sabato, 2 maggio

Letture. Che cos'è un popolo. Popolare. Pierre Bordieu introduce la definizione o meglio usa (sostituendo / scomponendo i termini di lingua nazionale e popolare) la definizione di lingua legittima o dominante e lingua dei dominati o illegittima. Il concetto 'popolare' viene ulteriormente scomposto in gerghi regionali e locali, secondo una visione nella quale la lingua si frantuma in molti insiemi e sottoinsiemi che corrispondono a diversi tessuti delle relazioni sociali e a diversi luoghi di uso ed elaborazione della lingua.
C'è il bar, la scuola, il lavoro e via discorrendo. Della realtà linguistica non si prende in considerazione solo il lessico ma anche gli argomenti utilizzati, la politica al bar e 'da bar', il linguaggio femminile (quello che si stabilisce nelle relazioni tra donne, soprattutto tra casalinghe), solitamente orientato all'amministrazione della casa e ai rapporti con la sanità e le istituzioni scolastiche, e i linguaggi giovanili orientati a descrivere il tempo libero, il divertimento e i sentimenti. Mi pare che la grande frattura linguistica passi tra la lingua legittima e codificata (scolasticamente e mediaticamente) e tutte le altre, ma è una frattura morbida che si realizza secondo gradienze diverse. Nella lingua femminile è minima, perché le donne cercano di emulare il linguaggio delle istituzioni, essendo uno dei compiti delle casalinghe mantenere le relazioni con il mondo burocratico e con l'assistenza pubblica destinata alla famiglia. Più forte la separazione con la lingua da bar dove spesso le parole comuni e lessicalmente perfette sono caricate di nuovi significati che così si avvicina alla lingua della malavita, con i suoi modi di dire specifici. Netta, per l'analisi tutta francese di Bordieu, la distanza tra la lingua giovanile dei banlieu popolati da immigrati di prima o seconda generazione e la lingua dominante; anzi proprio lì la lingua legittima si presenta come immagine del mondo, come un estraneo che costringe, in alcuni contesti specificati dalla presenza del potere linguistico e dell'ufficialità, la lingua dominata, parlata e colloquiale al silenzio, poiché la priva di qualsiasi legittimità.
Scrive Bordieu in proposito: “ … che li condanna a uno sforzo più o meno disperato verso la correzione o al silenzio” (p. 30).

Domenica, 3 maggio

Letture. Che cos'è un popolo. Noi, il popolo (Judith Butler). Questo contributo inizia con un'analisi semantica di 'noi, il popolo' come momento di dichiarazione che include e parimenti esclude gli altri. Non è questo che mi ha felicemente impressionato quanto, invece, l'idea, o meglio il tentativo di elaborare l'idea, di sostituire tutto quello che concerne l'umano e i suoi diritti con un nuovo fondamento conoscitivo ed etico. L'idea di uomo si è ormai profondamente legata alla metafisica dell'umano che in antropologia e filosofia si sostanzia nel concetto storico di stato di natura e in giurisprudenza e in scienza morale nei diritti umani inalienabili e imprescrittibili, mentre la Butler propone l'idea di corpo organico.
Il corpo organico non si riduce alla biologia ma è inerente alla psicologia, che è vista come una funzione dell'organico biologico e con la fisica poiché il corpo occupa un spazio. Attraverso i corpi organici e la loro disposizione si comunicano e manifestano programmi e idee politiche; i corpi costituiscono lo spazio politico.
Il corpo organico è un complesso di bisogni e di esigenze nella stessa proporzione nella quale non è autofondante e autosufficiente ma fondato e generato e ha, quindi, bisogno del sostegno e della collaborazione di altri corpi. Come il concetto di umano, lo stesso concetto di popolo, che pure performativamente può ancora essere usato, va ricondotto a questa materialità organica, che non si risolve in un'idea, diritto e principio conclusivo, ma è necessariamente relazionale: nessun corpo basta a sé stesso come nel no man is an island di Berkeley.
La Butler cerca (ribadisco che  mi pare un tentativo) di ricostituire l'umano senza pagare il dazio del passaggio all'ontologia metafisica dell'umano e cerca di ricostituire un'immagine della mobilitazione e azione politica che si allontani dagli schemi delle mobilitazioni e contemporaneamente le spieghi. Spiega molto, a mio parere, questo passo secondo il quale la manifestazione, l'aggregazione dei corpi in quanto tale, è già un programma politico: “Quando supportiamo diritti quali la libertà di riunirci, di costituirci in popolo, li affermiamo secondo le nostre pratiche corporee. Possono essere enunciati, ma l'enunciato sta già lì nell'assemblea …” (p. 60).
Altrove e in più punti l'autrice denuncia la 'crisi' della corporeità, dell'espressione corporea in politica e nella vita sociale e, aggiungo io, l'astrazione dell'umano, che è la descrizione di un umano dove il corpo è un accidente, una questione estetica e di presenza e percezione idealizzata. Il corpo stesso è rimasto coinvolto nell'astrazione idealizzante dell'umano, come oggetto accidentale della mercificazione, del messaggio televisivo, dell'azione pubblicitaria e della umanità del mercato.
Il corpo è un oggetto accidentale, non un valore ma un problema, un limite per la teoria della metafisica dell'umano ma, contemporaneamente, questa componente accidentale dell'umano trova una sua nuova collocazione, e per certi versi un riscatto, nell'idealizzazione del corpo come fonte di una corretta estetica, presenza e bellezza. In questo caso, allora, a questo livello della rappresentazione, il corpo, emancipato dalla sua accidentalità, diviene necessario.
La metafisica dell'umano, proprio perché odia l'accidente e ricerca il necessario da istituire e su cui istituirsi, odia anche il corpo, i suoi bisogni e la sua vulnerabilità; ha necessità, quindi, di rendere il corpo, l'accidente, un'altra cosa, un diverso da sé, che si elevi a essere concepito come sostanza, come verità e a quella si lega. Questo processo ha molti aspetti e uno di quelli riguarda certamente il metro contemporaneo ma anche moderno della bellezza: secondo questo metro, ormai quasi tradizionale, il modello fisionomico occidentale si associa a caratteristiche morali ed etiche e determina e prova le diseguaglianze economiche, sociali ed etniche.

Sabato, 9 maggio

Annotazione. La televisione si è banalizzata dopo la sua prima fase, i giochi raffinati di rimozione e condensazione si sono semplificati. Il non detto elemento predominante della prima televisione in base a una maniera produttiva che imponeva il silenzio su gran parte degli eventi, rispettando una censura politica, etica, una selezione dell'emotività, degli stili di vita e che adottava la rappresentazione di una realtà eletta è venuto meno o è stato fortemente circoscritto.
Faccio un esempio relativo alla cronaca politica: una grande manifestazione che degenera in scontri di piazza veniva rappresentata con qualche fotogramma commentato brevemente. Nelle foto non si coglieva mai l'elemento della battaglia di strada, ma si proponevano immagini d'insieme; nel commento, breve, le motivazioni della dimostrazione e il suo andamento venivano entrambi riportati con poche parole concise. Il peso specifico delle parole usate era altissimo: “alcuni elementi della non meglio definita sinistra extraparlamentare hanno provocato incidenti ai margini del corteo” era quasi un topos.
Alla rimozione delle informazioni (in questo caso il numero dei dimostranti violenti, le loro parole d'ordine, i loro obiettivi e i dettagli delle armi usate) faceva riscontro un'altissima condensazione informativa e nessun tipo di spostamento. La descrizione del corteo non lasciava spazio a nessun elemento immaginifico e imponeva un ragionamento al di fuori del televisivo sull'evento. Qui la televisione passava la palla alla stampa politica, alla cronaca locale oppure ad alcune rubriche specializzate del suo palinsesto che, solitamente non preannunciate, a giorni o settimane di distanza, si occupavano analiticamente dell'evento.
Se si pensa alla cronaca etica, ovverosia al costume, le relazioni interpersonali si riducevano a due categorie: le relazioni sul lavoro e quelle matrimoniali. I temi dell'amicizia e delle relazioni extraconiugali erano poste in assoluta minorità, presentati entrambi come momenti della vita sociale che avevano poca o nessuna influenza. L'omosessualità maschile vagamente accennata  attraverso meccanismi di autentico spostamento (solitamente, infatti, l'omosessualità e altre 'devianze' come alcolismo, tossicodipendenze e malattie mentali venivano affrontate nella cronaca giudiziaria e nera e lo stesso concetto di 'devianza' non era ancora emerso rispetto a quello di 'normalità', era un concetto pressoché privo di cittadinanza) l'omosessualità femminile ignorata in ogni sua forma, manifestazione e risultato. Tutto quello che richiamava alla conflittualità dentro le relazioni interpersonali era, quindi, o rimosso o condensato o spostato in altro.
Dentro il linguaggio televisivo la cronaca nera era fortemente supportata dalle immagini in movimento ma seguendo delle regole ben precise: ci si limitava a interessarsi a fatti di sangue e ad episodi in cui era stato fatto uso di armi da fuoco, le immagini escludevano qualsiasi possibile ed eventuale 'presa diretta' dei fatti, anche se disponibile, ed erano circoscritte allo scenario dell'evento (l'esterno della banca, del negozio o il portone dell'edificio). Raramente, inoltre, si scendeva in dettagliate descrizioni dei fatti, la dinamica rimaneva vaga, il ruolo dei protagonisti non veniva mai precisamente individuato e anche per questi particolari si passava la palla agli altri mezzi di informazione di massa.
La rappresentazione della realtà offerta dalla prima televisione era estremamente selettiva e seguiva meccanismi di scelta abbastanza rigidi e preordinati fino al punto che era abbastanza facile prevedere se un determinato evento sarebbe o no arrivato in televisione.

Lunedì, 11 maggio

Annotazione. Il capitalismo è un sistema complesso che negli ultimi quarant'anni ha reso la complessità sinonimo di impenetrabilità. La complessità economica e sociale è, infatti, presentata come un fenomeno governabile, esclusivamente, dal dominio del capitale, la ricchezza informativa e relazionale si tramuta, così, nel suo contrario: povertà e disorientamento, che non possono essere altro, se posti al di fuori di quel dominio, segmentazione, parcellizzazione, disaggregazione e solitudine. Da quarant'anni a questa parte, rispettando e nello stesso tempo usando questa complessità, il capitalismo ha elaborato un messaggio semplice, costante e proposto in maniera complessa (sotto le forme del complesso e della complessità).
La prima parte di questo messaggio, costruito in forme articolate, trasmesso in maniera indiretta e spesso contraddittoria, volutamente contraddittoria, è riducibile alla svalutazione degli standard di vita delle classi subalterne nei paesi capitalistici egemoni. Se nella precedente fase del capitalismo il punto di riferimento per la qualità della vita proletaria era lo standard operaio inglese (professionalizzato, otto ore al giorno, il tardo pomeriggio al pub, il sabato e domenica festivo, la partita di calcio ogni fine settimana e una gita fuori porta, che usufruisce di servizi buona qualità nei trasporti e nella sanità) e dopo il 1945 lo standard dell'operaio – massa americano (ugualmente sindacalizzato, immerso nel tempo libero, navigante tra eventi televisivi e sportivi) e in genere il 'vitto e alloggio' era escluso dalle problematiche esistenziali, dopo Reagan e la Thatcher e gli anni ottanta il giro di boa è stato notevole, anche se presentato come graduale, rappresentato gradualmente e come graduale, nulla di rivoluzionario, qualche piccolo passo specifico e limitato.
Lo spettro dell'economia della penuria ha iniziato ad aggirarsi tra gli stati a capitalismo sviluppato e l'economia della penuria e la sua necessità sono state introdotte e presentate utilizzando ogni paradigma disponibile, in primo luogo, ovviamente, quello economico, poi quello sociale e addirittura quello ecologico: tutto ha contribuito a dimostrare che lo sviluppo non poteva più darsi in forma libera, anarchica e lineare, ma che comportava necessariamente crisi (paradigma economico), individualismo e isolamento  (paradigma sociale) e sostenibilità (paradigma ecologico). Gli schemi ecologici sono stati in gran parte esportati in economia e sociologia: la sostenibilità è diventata il sostantivo fondante l'ideologia dello sviluppo.

Giovedì, 14 maggio

Annotazione. Il modello di vita speso sul lavoro si è spostato dapprima verso il Giappone e la Corea, stravolgendo il concetto stesso di produzione in serie e provocando un rivoluzionario cambiamento delle forme e forze produttive, ma non uno stravolgimento del modello nel suo complesso, il paradigma preso a prestito dall'ecologismo, la sostenibilità, non ha cambiato radicalmente la relazione tra reddito e lavoro e mutato le aspettative sulla qualità della vita dei lavoratori subalterni. Si è trattato di una serie di aggiustamenti, di una graduale mutazione delle vedute che, facendo spesso riferimento diretto alle teorizzazioni ecologiste intorno a uno sviluppo sostenibile verso l'ambiente, non ha prodotto un abbandono degli stili di vita precedenti; siamo grosso modo tra anni ottanta e novanta. Scomponendo questo dato negli anni ottanta (Reaganeconimcs e Thatcherismo) si privilegiò l'elemento della regressione economica, la rappresentazione, cioè, di un ritorno a un passato nella spesa delle famiglie, negli anni novanta, al contrario, emerse l'elemento 'progressivo': una delle tante facce delle poliedriche ideologie della globalizzazione faceva riferimento al problema ambientale e al problema economico come elementi di un unico processo, l'elemento regressivo, la 'crisi', passò in secondo piano e propagandisticamente anche l'impostazione neo – liberista venne posta in una prospettiva secondaria: decisiva era la razionalizzazione dello sviluppo secondo paradigmi di sostenibilità ambientale che richiedevano, ovviamente, compressione di spesa, consumi e domanda.
Dopo il 2003, dopo Afghanistan e Iraq si è iniziato ad abbandonare questo terreno ideologico e rappresentativo andando, però, in una direzione che è volutamente ignota e mal definita. È venuto fuori in tutta la sua potenza il carattere cadaverico del futuro.
Nessuno nei paesi capitalistici egemoni (anche questa definizione è ormai inadeguata, forse meglio scrivere 'capitalistici tradizionalmente egemoni') ha il coraggio e l'interesse oltre che il coraggio, di fare riferimento a Cina, Malesia, India o Romania e al loro modello di vita speso sul lavoro nella relazione con il reddito che produce per chi lavora. Cina , Malesia, India e quelli per essi rimangono come un'ombra, spesso un ricatto non voluto e non preordinato ma reale, che sta nelle cose, un problema di concorrenza sleale ma efficace e legittima.
Muoversi verso quegli standard di vita e forme organizzative della produzione significherebbe abdicare al concetto stesso di sviluppo capitalistico (come storicamente si è dato in epoca moderna e tardo medioevale) e quindi rinunciare proprio all'egemonia tradizionale: affermare che il capitalismo non ha più un centro, che è realtà assodata da almeno un secolo, ma neppure un polo privilegiato che è novità degli ultimi tre – quattro decenni, affermare, dunque, che mezzo millennio di storia dello sviluppo capitalistico non ha più continuità. Il capitalismo mondiale integrato non ha ancora la forza intellettuale, politica e costituzionale per compiere questo passo: è necessaria una ridefinizione generale del modello di sviluppo e delle relazioni tra i diversi corpi del capitalismo transnazionale, ridefinizione che alle volte fa immaginare una guerra in senso quasi tradizionale, un conflitto che va oltre le singole specificità e aree regionali, dove le contraddizioni possano emergere in maniera sincronica e non, come adesso, diacronica.
Bisognerebbe individuare meglio la natura di queste contraddizioni. Non possiamo dirle interimperialiste in senso compiuto: ogni stato  - nazione, per quanto potente, non cerca di esportare i suoi rapporti di produzione, anche perché non è davvero più possibile scrivere di borghesie e padronati nazionali come di capitalismi nazionali, ma, invece, utilizza rapporti omogenei, per certi versi neutri, e certamente transnazionali. Non è tutto così lineare, però: Cina e India spesso esercitano un ruolo imperialista che faticosamente si integra con quello 'imperiale' descritto da Negri e spesso le vestigia ancora notevoli dello stato – nazione funzionano da surrogato, da rappresentazione (e non rappresentanza) della borghesia nazionale.
Il cammino verso la costituzione di un organismo politico mondiale integrato è lungo e forse non è neppure un cammino interessante per chi dovrebbe esserne il naturale effettore. In questo senso il rischio della guerra quasi tradizionale è ancora presente, precisamente come in piena epoca moderna era ancora necessario risolvere le grandi contrapposizioni feudali e di lignaggio ereditate dal medioevo.

Mercoledì, 20 maggio

Annotazione. Ai margini. Che cos'è un popolo. La definizione di popolo è un succedaneo, una conseguenza, di quello di nazione. Non è stato il popolo a costruire la nazione, ma la nazione a determinare il popolo, inteso come comunità etnica e linguistica. Quando, molti anni fa, Rosa Luxembourg criticava il principio leninista di autodeterminazione dei popoli, lo definiva vuoto e utopico. Utopico perché un popolo, inteso come noi intendiamo popolo, non avrebbe avuto interesse a costituirsi in nazione, vuoto perché una comunità etnica e linguistica allo stato puro non si è mai realizzata nella storia.
La comunità linguistica ed etnica, che poi si è riconosciuta storicamente in una nazione, ha avuto principalmente riferimenti geografici: le scienze geografiche, grazie alla loro capacità di descrivere i nodi amministrativi e politici, di circoscrivere le varianti regionali e fornire dei contorni alle specificità storiche e linguistiche, hanno fornito il palinsesto per la costituzione dell'idea di nazione. La definizione dei confini e della trama distrettuale attuata nella Francia durante la grande rivoluzione emblematizzano l'aspetto fondamentalmente geografico della nazione. La geografia del XVIII e XIX secolo ha metabolizzato le esigenze amministrative, le varianti dialettali, le minoranze linguistiche e le tradizioni storiche in un organo che si caratterizza attraverso dei confini eterni ed immutabili ed è di per sé stesso pensato come eterno e immutabile: il popolo e la corrispondente nazione. Questi confini eterni e immutabili separavano la nazione da un'alterità che annullava le diversità interne, privandole di statuto ontologico.
La nazione, come complesso geografico, distrettuale, militare e amministrativo costituisce il concetto di popolo a sua immagine e somiglianza, che non è mai stato, neppure in epoca giacobina, un concetto rivoluzionario a patto di non esaltare e fare riferimento alle differenze in seno al popolo, e dunque alla separazione e alla divisione, che nell'indivisibilità produce logicamente frattura e alterità.
Se la nazione non si è fondata sulla comunità etnico – linguistica, non si è neppure basata su una comunità economica: la nazione ha invece fatto sue e usato alcune omogeneità linguistiche ed economiche, spingendole verso un'astratta, forzata ed esogena coincidenza: la comunità linguistica è stata estesa verso il limite del confine nazionale (pensiamo alla lotta contro i dialetti, all'emergere stesso del concetto di dialetto e all'ostilità contro le minoranze linguistiche), così come la comunità economica (pensiamo alla lotta contro i dazi interne e le tradizioni monetarie particolari).

Venerdì, 22 maggio

Annotazione. Rimango legato alla vecchia tesi secondo la quale la genesi della nazione e del popolo è un prodotto dei rapporti di produzione capitalistici e di una combinazione tra le esigenze centralizzatrici della monarchia assoluta tardo – medioevale e gli istinti dell'emergente classe borghese. La monarchia aristocratica e il suo mercantilismo lavoravano sul versante istituzionale e geografico, costituendo la nazione, mentre l'economia di mercato su quello delle relazioni linguistiche, sociali e culturali, costituendo il popolo. L'economia si faceva popolare, mentre lo stato si faceva nazionale.
L'indifferenza feudale nei confronti delle diversità etniche e linguistiche era superata (esemplare il fatto che la Francia medioevale poté svilupparsi per interi secoli pur separata in un'area occitanica e un'area d'oil). Questo superamento non avvenne in funzione di un riconoscimento delle comunità etniche e linguistiche, ma in funzione della costruzione di una nuova comunità (per restare in Francia si deve scrivere di un'unificazione linguistica sulla langue d'oil, favorita dal fatto che la principale divisione delle grandi pertinenze feudali non corrispose al confine linguistico). La costruzione della nazione si basò certamente su un elemento 'popolare', come quello linguistico, ma l'idea di lingua nazionale fu il prodotto e non il presupposto di quel processo: rimane comunque importantissimo e genetico il fatto che la nazione per costituire il suo popolo usò politiche linguistiche, usò la lingua.

Sabato, 23 maggio

Annotazione. Il fatto che si usi la lingua non è indifferente alla natura del processo storico, anzi la rivela.
La lingua per come la descrive Bordieu in 'Che cos'è un popolo', ma anche Migliorini in un'opera completamente diversa (Storia della lingua italiana) è il risultato di un mercato, anzi è un mercato. In questo mercato distinguiamo ufficialità, vale a dire valore di scambio, che Bordieu identifica nella lingua 'dominante' e 'legittima' e che Migliorini risolve nel concetto di lingua nazionale, e un complesso di valori d'uso, che si intersecano e contaminano vicendevolmente con l'ufficialità: questi sono i gerghi, lo slung e le varianti dialettali e regionali.
Come nel mercato, almeno sotto il profilo strettamente fenomenico, è indifferente la presenza di un oggetto in quanto valore di scambio o d'uso, ma è il valore di scambio a decidere della sua oggettualità, della sua effettiva esistenza, anche nella lingua il lessico e la struttura lessicale vengono decisi a livello 'metalinguistico', costruiti secondo la confluenza di moltissimi lessici e strutture, valori d'uso linguistici che, validati, costituiscono il valore di scambio, la lingua 'dominante e legittima'. L'operazione è, precisamente come per l'economia di mercato, politica: si stabilisce che la circolazione degli oggetti è sottoposta a una valorizzazione esterna a quelli.
La formazione di un mercato nazionale è isomorfa alla costruzione di una lingua nazionale, c'è una fortissima analogia anche se, mi preme sottolinearlo, non una coincidenza perfetta. È, dunque, abbastanza semplice e parimenti vero affermare che alla formazione di un mercato transnazionale (o globalizzato che dir si voglia) corrisponderà l'istituzione di una lingua 'isomorfa' con le immancabili varianti regionali, dialettali e gergali, i residuali valori d'uso obliterati, comunque, dal valore di scambio, protesi anche quelli a una somiglianza verso la lingua legittima e dominante.
Ma non è questo il punto capace di spiegare il successo dell'elemento linguistico nella formazione del complesso di popolo e nazione: la similitudine è più profonda.
La lingua e gli oggetti sono in una relazione più profonda: la lingua è un modo di descrivere gli oggetti. Per oggetti non intendo solo le cose fisiche ma anche quelle immateriali (sentimenti, stati d'animo, stati sociali, figure sociali e situazioni economiche); sempre e in ogni caso la lingua ha una relazione con gli oggetti e impone per sua stessa funzione un'interiorizzazione di quelli, per certi versi è un ponte tra oggetti esterni e oggetto interno (l'uomo che parla dell'oggetto e lo chiama). Attraverso la lingua gli oggetti entrano in noi.
In estrema sintesi (tutto questo in realtà imporrebbe un ragionamento su memoria, ricordi e loro associazioni e poi sulla lingua e il lessico in relazione con i gesti e la gestualità) la lingua ci definisce rispetto alla realtà esterna a noi e ci colloca dentro quella come un oggetto in mezzo agli altri oggetti.
Per usare una terminologia 'retrò' la lingua è viscerale intima e il primo fattore del nostro riconoscimento, della nostra 'appercezione', è il fattore più immediato e primitivo di quella. In epoca tardo – medioevale e moderna (direi tra XIII e XVII secolo) questo modo viscerale, intimo e immediato di essere al mondo è stato accostato alla nuova realtà oggettuale del mercato delle merci: il mercato delle merci si è appropriato degli oggetti, trasformandoli da valori d'uso in valori di scambio, e la natura della lingua ha acquisito anch'essa un nuovo valore. L'elaborazione di lessici e strutture linguistiche che andassero oltre il localismo feudale e in genere pre – moderno è stata un'operazione molto simile a quella che ha determinato la formazione del mercato delle merci. Come il mercato delle merci trovava un proprio limite nelle potenzialità logistiche dell'epoca, nella geografia che le esprimeva e definiva, limitando i suoi orizzonti linguistici ai confini della monarchia feudale, così il mercato linguistico si formalizzava secondo variabili storiche molteplici, cercando una coincidenza con l'estensione della monarchia nazionale, del mercato che si riproduceva alla sua ombra. Questo schema, realizzato solo in particolari realtà storiche, ma seguendo questa sovradeterminazione sarebbe appropriato scrivere geografiche (Spagna, Francia, Portogallo, Inghilterra, Olanda e paesi scandinavi) ha funzionato poi da palinsesto per i 'risorgimenti' ottocenteschi del resto d'Europa (Germania, Austria, Ungheria, Italia e Grecia) che, coniugandosi con motivazioni e ideologie nuove, 'recuperarono il ritardo' (secondo un modo di dire e pensare tipico della storiografia positivista sullo sviluppo equilibrato) di alcune aree geografiche dell'occidente in materia.
Il prodotto di questo processo è stato, sotto il profilo dell'ideologia, una visione antropologica del mercato, della nazione e del popolo: mercato, nazione e popolo erano i prodotti naturali di un'antropologia, l'antropologia etnica, là dove le etnie venivano preventivamente e con naturalezza ridotte al contesto nazionale insieme con tutti i suoi potenti e vivaci deragliamenti dialettali, regionali e gergali. Alla vivacità e specificità del mercato sarebbero state associate analoghe caratteristiche della lingua, a una vocazione economica predominante, un'inflessione linguistica predominante.
In questo contesto ideologico e analitico i riferimenti alla storia linguistica dell'impero romano, che però presentò un vero processo di omologazione linguistica antesignano di quelli moderni, sono rari e spesso imbarazzati e con ragione per questa rarità e imbarazzo. La repubblica romana non fondò un'operazione etnica, ma l'omologazione linguistica percorsa e realizzata si basò proprio sul misconoscimento assolutamente arbitrario dell'ethnos e sulla valorizzazione dell'anthropos (ma sarebbe meglio dire dell'aner, del vir) secondo un'ideologia per la quale le diversità etniche, pur innegabili e nei fatti rispettate, non potevano costituire la base della 'nazione romana', come pure l'impero non poteva essere l'espressione del predominio di un'etnia sulle altre (quantomeno dichiarato e formalizzato).
Il latino e il greco, suo omologo orientale nell'impero, furono le lingue transnazionali, le lingue dell'uomo in quanto uomo, in quanto ragiona in maniera adeguata sulla realtà e sugli oggetti che lo circondano. Il post – moderno ha grandi debiti verso la classicità.

Mercoledì, 27 maggio

Annotazione. Un tempo, con estrema semplicità, abbracciavo l'idea che la nazione fosse il prodotto del popolo, la formalizzazione giuridica del popolo e che, a sua volta, il popolo fosse il risultato della formazione della borghesia in lingua per la quale i confini del mercato corrispondevano, grosso modo, a quelli della diffusione della lingua.
Secondo questo schema, che, credo, sia fedele a un'analisi marxista del fenomeno nazionale, nazione – popolo – lingua e mercato si confondevano e coincidevano, nutrendo tra loro delle ovvie differenze e delle interdipendenze, tutte poste, però, sotto il medesimo ambito. C'è una parte di verità, per me ancora adesso, in questo approccio che coglie un'unità ma la fotografa secondo una prospettiva rigidamente frontale; esiste, al contrario, la possibilità di un'altra prospettiva.
La prospettiva frontale aiuta a spiegare il fenomeno ma non aiuta affatto a comprenderlo e soprattutto la prospettiva frontale è costituita da moltissimi punti di vista che hanno anch'essi una corrispondenza nella frontalità ma non la pretesa di essere frontali.
Insomma intendo dire che l'analisi di un fenomeno non si chiude mai e un fenomeno non è mai chiuso e circoscrivibile nella prospettiva  che lo dice chiuso; chiusura, circoscrizione e visione prospettica sono utili alla divulgazione, alla distribuzione degli elementi analitici, ma non all'analisi: si devono, al contrario, afferrare tutti i fili lasciati liberi nella frontalità per tirarli e costituire una nuova frontalità e una nuova chiusura.
Nel caso specifico, suscitato dalla lettura di 'Che cos'è un popolo', ho tirato la prospettiva sul concetto di nazione, inteso come complesso giuridico e costituzionale sorto nel tardo – medioevo e sviluppato in epoca moderna (il passaggio dal titolo 're dei Franchi' a quello di 're di Francia' e più tardi, occasionalmente, 're dei Francesi').
Da un punto di vista strettamente fenomenologico la formazione degli stati nazionali olandese, inglese e francese si è data in maniera rivoluzionaria (lotta di liberazione nazionale contro la monarchia spagnola, insurrezione contro l'assolutismo monarchico in Inghilterra e Francia) che conforta e ha confortato lo schema unitario di nazione, popolo, lingua e mercato: all'affermazione di nuovi rapporti di produzione, forze produttive, culture e lingue ha corrisposto la necessità di una trasformazione radicale della forma – stato. È un approccio ed è una fotografia. Questa fotografia spiega popolo e nazione, chiude l'analisi ed è diventata rapidamente un'ideologia. Questa ideologia è abbastanza semplice: la nazione è un prodotto naturale (etnico e antropologico, nel senso che ogni uomo appartiene o ha bisogno naturale di appartenere a un gruppo) e i rapporti di produzione egemoni al suo interno lo sono altrettanto. Senza volerlo il materialismo dialettico ha fornito le migliori molecole alla costituzione di questa metafisica. Porre, al contrario, l'accento sulla nazione nella descrizione di questo processo, cioè sulla componente coercitiva e sui numerosi elementi di continuità tra stato assoluto aristocratico e stato nazionale borghese è tirare il filo verso una prospettiva nella quale l'idea di popolo e anche quella di marcato cambiano. Il mio assunto è che il popolo è il prodotto della nazione e che la nazione sia già nello stato assoluto aristocratico. Omogeneità linguistica e culturale basano la fondazione dello stato nazionale, secondo l'analisi classica, mentre al contrario sono stati il risultato di un'azione di omologazione disposta dallo stato nazionale attraverso un'infinità di dispositivi e in un lungo periodo. L'idea di popolo che viene fuori è esclusivamente ideologica, come l'omogeneità stessa corrisponde a una sovradeterminazione ideologica della realtà; sia ben chiaro, però, che nessuna ideologia o sovradeterminazione può astrarsi dalla materialità del rappresentato: dunque il popolo è davvero esistito ma non la verità e stringenza con cui è stato rappresentato.

rivedi maggio

Inizio anno


Mercoledì, 3 giugno

Letture e annotazione. Decennio rosso : romanzo / Massimo Battisaldo, Paolo Margini. - [s.l.] : Paginauno, 2013. - (Narrativa, 8). Secoli senza narrativa, poi è arrivata questa, divorata in tre giorni, che è la storia del progressivo avvicinamento e poi della militanza in un'organizzazione combattente (Prima Linea e Rosso militare – Formazioni combattenti comuniste). È stata una mia lettura e contemporaneamente una lettura di un altro, un continuo riconoscersi e non riconoscersi nei personaggi. La struttura narrativa, sciolta, ha aiutato questa oscillazione, la rivelazione di qualcosa di sconosciuto e poi il suo disvelamento. Scritto usando termini razionali la lotta armata come perfetto estraneo al movimento degli anni settanta e nello stesso tempo l'ipocrisia di questo modo di interpretare quegli anni.
Quanto c'era di me, e di gente come me assolutamente critica verso le organizzazioni combattenti, dentro Sofia, Elio, Vlad e molti altri personaggi del testo mi è impossibile stabilirlo, sicuramente facevamo parte della stessa storia anche se non della medesima vicenda; c'è un filo che ci lega e poi si spezza, continuamente. Con paradosso sono proprio gli anni, il tempo trascorso, a rendere meglio visibile il filo, laddove nell'immediato presente appariva più facilmente occultabile, laddove dall'altro capo del filo si diceva fossero 'compagni che sbagliano', allontanandoci dall'errore, dunque, senza renderci conto che quell'errore, anche se non avevamo sparato, imbracciato mitra e occultato pistole, anche se non ci eravamo messi in clandestinità e anche se avevamo aspramente criticato la lotta armata, era anche nostro e ci apparteneva, nel bene e soprattutto nel male. Questo non significa che, secondo la banalità che ha sempre contraddistinto la stampa e i media, riconosca con quelli che il movimento degli anni settanta è stato un immenso fenomeno di fiancheggiamento al 'terrorismo', ma che in chi ha praticato la lotta armata era anche una parte di noi, in certe argomentazioni, in certe analisi e in un certo modo di sentire la vita.

Giovedì, 4 giugno

Annotazione.  Non ci resta che lavorare. La vita sociale è ridotta al lavoro (precario, fisso, indeterminato, determinato, salariato, atipico, tutte questi aggettivi poco importano), questo si sa, ma c'è dell'altro e appunto quest'altro è che non ci resta che lavorare. Se anche continuasse a esistere un tempo autenticamente sollevato dal lavoro, sarebbe un tempo privo di senso.
Pensiamo un po' a quello che è diventata la politica, un tempo attività sociale per eccellenza, ora un pettegolezzo organizzato secondo rituale; qui non interessa denunciare cosa stia dietro questo pettegolezzo, chiamare e descrivere i mattoni con i quali è costruito, ma il fatto che è un pettegolezzo anche se ritualizzato ufficialmente. Le dimensioni della politica e anche conseguentemente le sue parole sono stabilite al di fuori della politica, senza possibilità di appelli. Faccio un riferimento all'attualità politica per esemplificare: alle ultime elezioni regionali si è discusso di tematiche nazionali, a quelle nazionali di problemi europei e a quelle europee di nulla. Un'esagerazione, di sicuro, ma rappresentativa della vuotezza del discorso politico che è capace solo di rimandare ad altro, fino a quando, esaurita la possibilità di rimandare e spostare e giunto davanti a sé stesso, al suo senso, diventa silenzio.

Venerdì, 5 giugno

Annotazione. La politica non rappresenta che sé stessa, ma proprio questa mancanza di rappresentanza è rappresentanza. I meccanismi politici hanno una nuova funzione e, soprattutto nei sistemi basati sulla democrazia elettorale, le scadenze hanno il compito diretto di fornire un sondaggio, una specie di saggio degli 'umori del popolo', che spesso si esprime in maniere che ricordano i plebisciti e a quelli nella logica si ispira, e il compito indiretto di formalizzare, giuridicamente e costituzionalmente, il governo sul 'popolo'.
Mancano, ormai, alla verità della rappresentanza, intesa in maniera tradizionale, il concetto di popolo come idea univoca e non prodotto di una manifesta, politicamente, interpretazione e di corpo politico che costituivano il cuore di questa tradizione.

Venerdì, 12 giugno

Annotazione. Ripensavo alle facce televisive di Tor Sapienza, di quella gente durante la 'rivolta' contro un centro di accoglienza per immigrati. Volti, espressioni, parole giunte secondo una casualità molto sospetta alle telecamere, che riproducevano discorsi contraddittori e confusi, uniti dall'unica portante informativa “non siamo razzisti ma i negri qui non li vogliamo”, che è un po' come dire “non sono un assassino ma sono d'accordo con chi uccide”. Molta ipocrisia, insomma, anche se vestita di furia plebea e di molta confusione.
A tratti si era tentati di usare l'odiosissima categoria 'popolare' statunitense del 'rifiuto bianco', che è odiosa ma cinicamente calzante. Il rifiuto bianco è il proletario bianco che non ha retto la concorrenza del mercato del lavoro flessibile e razzialmente gerarchizzato e si è fatto superare da settori ancora più deboli del suo nella gerarchia del riconoscimento sociale, solitamente composti da proletari neri e latini. Il rifiuto bianco non è tanto una categoria sociologica quanto culturale che si fonda su un  particolare stato oggettivo. Quella del rifiuto bianco è una soggettività che influenza e rinforza una oggettività.
Secondo questa cultura lo scivolamento sociale del quale si è vittime è il risultato di una sperequazione politica e giuridica svolta a favore dei neri contro gli elementi più deboli socialmente dei bianchi ed è anche uno strumento per non ammettere questa condizione sociale di partenza, questo svantaggio. Il fenomeno ha effetti concreti: sempre più  il proletario che fa parte del 'rifiuto bianco' non si sente partecipe di nulla, tende ad approfondire una concezione del tempo libero come spazio privo di comunicazione sociale e a vivere il quartiere secondo una nuova territorialità: il quartiere diventa una proprietà di chi ci abita, ma non una proprietà comune e collettiva, dove le proprietà singole compenetrano nelle altre, si relazionano e producono relazioni, analisi e nuove immaginazioni sul quartiere. Il quartiere diventa una sorta di sommatoria non coordinata di proprietà private.
La solidarietà che si sviluppa tra i proletari è, allora, una relazione che ha come scopo l'occultamento della propria solitudine sociale, che cerca di strutturare una 'tradizione' e che ambisce alla conservazione, né a un miglioramento né tanto meno a un peggioramento delle condizioni dell'esistenza. Il proletario afflitto dal 'rifiuto bianco' sembra che non ambisca a nulla né in modo individuale né ancora meno collettivo, se non a 'difendersi' dal costante attacco che ha molti volti alcuni immaginari e altri certamente concreti.
A fronte del passaggio ormai consolidato da un'economia dell'abbondanza a una della penuria, della fine dello stato assistenziale, delle garanzie sulla sanità pubblica e della sicurezza della pensione e dell'invecchiamento socialmente assistito, di un sistema contrattuale basato sugli alti salari e il lavoro a tempo indeterminato si è determinata una sostanziale e complessiva coercizione a un 'fai da te' proletario (che mette in discussione la tradizione proletaria italiana e lo stesso concetto di proletario, con effetti ideologici che sarebbe difficile analizzare) dentro un continuo rimbalzo tra diverse situazioni di lavoro, reddito e salario che produce sempre una costante: il progressivo peggioramento delle condizioni e qualità della vita unita alla diminuzione o annullamento di qualsiasi aspettativa di miglioramento o conservazione. E non è  questo un volto immaginario, ma concreto e reale, aggravato dal fatto che nella fattispecie locale Roma ha perduto gran parte delle risorse economiche che le derivavano dall'essere capitale politica e amministrativa.
Questo, comunque, al di là di Tor Pignattara e del suo caso, è un fenomeno generale: l'ideologia del 'rifiuto bianco' è potenzialmente più diffusa di quanto si creda e per certi versi incombente perché fa riferimento ad angosce che originano da una generalizzata mancanza di riconoscimento e di aspettative sociali. Le stesse ideologie che si generano e che stanno influenzando sempre più quelle complessive, elevate e ufficiali, le ideologie nate nell'università e nei luoghi istituzionalmente preposti al loro parto ed elaborazione, sono ideologie a componenti, frammentarie, molecolari, formati di rielaborazioni di un vissuto e di biografie nelle quali la combinazione degli elementi subordina il disegno sintetico. È questo uno scenario vecchio, ormai, di trent'anni: un vero 'noi e gli anni ottanta' reiterato nei decenni.
Il volto immaginario sta nel già descritto rinnegamento della propria situazione svantaggiata di partenza e nel timore che il proletario migrante sia capace di muoversi meglio in questo 'fai da te' imposto, per via delle minori aspettative, per l'abitudine a condizioni di vita limite e che, quindi, infine, si venga a trovare in una situazione di vantaggio; questo timore conferma ulteriormente al proletario bianco quello che non intende ammettere neppure a sé stesso: quello di poter divenire l'anglosassone 'rifiuto bianco', cioè colui che non ha saputo approfittare del suo vantaggio razziale nella stratificazione del mercato del lavoro e delle opportunità di vita.
L'incubo dello sfratto o della perdita dell'appartamento ai quali faccia seguito un'occupazione da parte di gente di colore e di 'nuovi venuti' (in questo complesso onirico oggi la Lega nord ha introdotto con virulenza immaginifica anche i Rom) è emblematico di questa angoscia, quando si distende al campo del vivere sociale e della riproduzione sociale: la perdita di sé come soggetto, come elemento radicato e tradizionale insieme con la fine di ogni relazione altrettanto tradizionale con il territorio e l'emergere in quello di nuove tradizioni. Il territorio e il quartiere si rivoltano contro chi lo abita.

Martedì, 16 giugno

Impressione. La mafia (nella mafia includo il fenomeno inteso in senso stretto, ma anche camorra, ndrangheta e alcuni segmenti, sempre più estesi, della criminalità organizzata) è nata a causa di molti fattori storici, influenze ambientali contingenti, particolarità geografiche  e geopolitiche; la mafia, dunque, ha una sua singolarità anagrafica in base alla quale è stato oggettivamente un discorso mafioso quello del “la mafia non esiste perché tutto è mafia”.
La 'mafia dell'agrumeto', la mafia agricola, è il prodotto della crisi del sistema feudale unita alla contemporanea difficoltà per lo stato centralizzato e assoluto di affondare radici e istituzioni credibili socialmente in particolari aree geografiche; la mafia, in quei casi, ha sostituito le sicurezze del sistema feudale e ha offerto un coordinamento amministrativo 'ombra'. Rispetto a un mondo economico che si dirigeva verso l'economia di mercato non poteva che divenire un sistema nascosto e illegale di potere, un sistema di 'dominio ombra', appunto. La mafia agricola è stata direttamente coestensiva alla crisi del sistema feudale e antiteticamente coestensiva all'affermazione dell'economia di mercato. La mafia ha conservato gran parte dei suoi rituali, delle forme di iniziazione e dei modi di costituire la sua formalità gerarchica di origine, a mio parere, squisitamente signorile, perché, sotto il profilo del comando interno all'organizzazione, funzionano; l'impresa mafiosa ha un organigramma generato e sostenuto secondo principi feudali e signorili.
La mafia è una delle prove della verità della legge sullo 'sviluppo diseguale' del materialismo dialettico.
La coestensività della mafia, però, è profondamente cambiata.
La mafia non poteva essere direttamente coestensiva al capitalismo industriale, nel quale la produzione e la distribuzione delle merci erano rigorosamente subordinate alla costruzione del loro valore in tempo di lavoro e il lavoro diveniva misura del valore. In questo scenario era assolutamente necessario un complesso di regole, le leggi del mercato, che stabilisse la proprietà della merce e il suo valore. Questo complesso di regole stabiliva la legittimità della merce, ovverosia ciò che era merce e ciò che non lo era: la legge della domanda e dell'offerta non risolveva da sola il mercato, il mercato ha sempre avuto bisogno di leggi e regole, di una coercizione extraeconomica per realizzarsi, e conseguentemente il mercato escludeva la produttività mafiosa e malavitosa in genere che si fondava su leggi e regole 'ombra e clandestine' che non facevano riferimento al tempo di lavoro necessario e alla regolazione del suo sfruttamento. Anche la malavita organizzata più evoluta merceologicamente (banalizzando penso alla raffinazione dell'oppio per la produzione dell'eroina) era esclusa dal mercato.
Il capitalismo industriale e la mafia erano opposti, anche se spesso la mafia riusciva a inserirsi in alcuni settori produttivi, lo faceva secondo una logica accidentale e sporadica.
La situazione è radicalmente mutata dopo il declino del capitalismo produttivo e la crescita del biocapitalismo e del peso di quello che un tempo era detto capitalismo finanziario in quello.

Mercoledì, 17 giugno

Impressione. Il valore della merce si è allontanato dal valore del lavoro e la merce ha assunto una nuova valorizzazione e un nuovo aspetto sociale. Questo è un mondo di merci astratte che sono merci non in quanto prodotti del lavoro ma in quanto le condizioni generali del lavoro umano permettono la costituzione della merce, tra molte altre cose. Le condizioni dell'esistenza, che si è sussunta al lavoro, richiedono la produzione e riproduzione della merce: la merce è entrata a fare parte delle relazioni umane e a essere essa stessa una passione, uno stato d'animo. I confini tradizionali dell'essere merce sono stati aboliti.
Il danaro che era la merce astratta, ovverosia l'astrazione delle merci per eccellenza, è diventato una merce tra le altre, fino al punto che per le merci e il danaro bisognerebbe ideare un altro nome, perché quello di merce sta diventando fuorviante e inadeguato.

Giovedì, 18 giugno

Impressione. Quando la merce perde rapporto con il lavoro succedono infinite cose, alla merce, al lavoro e alla struttura del mercato ed è successo qualcosa, anche qui di strutturale, alla malavita organizzata nei termini della relazione tra quella e il mercato. Lo sfruttamento del lavoro cessa di avere una relazione diretta con il valore della merce, la merce si autonomizza dal lavoro e diventa astratta: la trama di diritti e regole che circondava la produzione della merce, conseguentemente, perde concretezza e diventa cosa astratta, i diritti e le regole diventano ideologia e cultura e non sono più strumenti per la definizione del concetto di merce e di mercato; la trama dei diritti e delle regole rimane come punto di riferimento 'storico' ancora necessario per alcune misure sociali ed economiche, ma non più fondante la società e l'economia. Il mercato tout cour  ne esce stravolto, per certi versi sembra di tornare al libero scambio in forme pure, cosa che spiega una parte del successo delle ideologie neo – liberiste. Il riferimento storico al valore della merce come valore del lavoro reificato nella merce è importante, è una coordinata e una delle molte coordinate che disegnano l'asse cartesiano del biocapitalismo.
Il nuovo asse comprende altri paradigmi: oltre quello 'naturale' vale a dire industriale, paradigmi mercantilistici, libero – scambisti, protezionistici, artigianali, autoconsumistici e microimprenditoriali.
Il danaro è il collante e descrittore delle forze agenti in questo asse, proprio perché si è slegato da una relazione con la merce in quanto prodotta da un tempo di lavoro precisato.
In epoca industriale, il danaro aveva un rapporto stretto con il capitale: il danaro prodotto attraverso la produzione e riproduzione del capitale era l'unico danaro legittimo. Oggi stabilire la legittimità del danaro, sotto il profilo dell'ontologia e della genesi, è un compito sempre più arduo: è necessario fare riferimento esclusivo alla legge positiva, alla storia, e non ai rapporti di produzione reali.

Venerdì, 19 giugno

Impressione. Anche la legislazione fatica a seguire la legittimità del danaro e si ha sempre più la sensazione che in tema di mafia (ma a dire il vero in molto altri campi) la legislazione e gli apparati giudiziari siano inadeguati e quantomeno anacronistici. È un anacronismo inevitabile perché le nuove forme strategiche di allocazione del profitto e dei capitali sono quelle della finanza, il libero scambio in rappresentazione per antonomasia.
La mafia ha un'occasione favorevolissima per entrare a far parte del cuore del capitalismo internazionale, da quando il gioco in borsa da scommessa per speculatori e da momento di parziale tesaurizzazione delle risorse produttive è diventato lo strumento per definire i quadranti dell'asse cartesiano e per determinare e descrivere al contempo le strategie del biocapitalismo.
Secondo un'analisi svolta nella contingenza, gli investimenti finanziari sono ovviamente quelli più trasparenti per la mafia; ma non si tratta di constatare una semplice preferenza tattica, è in questione, invece, una ritrovata coestensività della mafia con il sistema economico egemone. La fine della merce e del capitalismo industriale ha reintrodotto condizioni sociali che parevano superate per sempre. Qua e là emergono rapporti di produzione servili, in base ai quali la manodopera è venduta e acquistata non attraverso il lavoro salariato, ma attraverso la concreta riduzione del suo stato biologico a 'cosa'. Pensiamo solo alla filiera produttiva che fa profitti sull'immigrazione: dal trasporto, alla collocazione lavorativa, all'ospitalità e alla creazione di stati d'animo sociali rispetto al processo immigratorio. Si può affermare che la mafia si trova perfettamente a suo agio in un contesto di riduzione dell'uomo a merce (si bade bene non a merce in quanto forza – lavoro) proprio perché la prima coestensività sociale ed economica la mafia l'ha avuta con la tarda feudalità.
Questo non significa che la mafia ha subito il capitalismo industriale (quello dell'uomo come merce in quanto forza – lavoro), anzi ha interiorizzato alcuni valori dominanti di quella forma di produzione e di mercato, costruendo una rete produttiva e di riproduzione di merci illegali, un capitalismo illegale che associava / associa al valore della merce non tanto i costi della sua produzione quanto il rischio della distribuzione.
Questa esperienza storica, una vera fase della biografia collettiva mafiosa, è stata importantissima per traghettare la malavita organizzata verso il capitalismo finanziario che si riconosce, al contrario del capitalismo precedente, nella costituzione del valore al di fuori del lavoro e nel rischio connesso alla redistribuzione a interesse del danaro.
Quindi non è più mafioso affermare che tutto è mafia e la mafia non è altro che una multinazionale finanziaria tra le altre? Oppure che l'intero sistema economico è un sistema mafioso?

Sabato, 20 giugno

Impressione. Rispondo di no, senza molti tentennamenti, non certo per assolvere l'etica di questo sistema economico, ma per individuare una verità, utile anche a una maggiore comprensione del sistema economico. La mafia non è né una buona buona né una cattiva multinazionale, è una multinazionale tra molte altre ma ha una particolare struttura: quella di avere alla base una associazione a delinquere che sottopone la proprietà privata a diverso titolo e a diverso livello a un diritto di prelazione. Questo impedisce alla mafia di essere coessenziale al capitalismo biologico o post moderno, ma solo coestensiva (anche se quello che compiono alcune multinazionali in campo agricolo e minerario nei paesi del 'terzo mondo' è spesso configurabile come coessenziale, nei metodi, al modo di agire mafioso).
Le grandi multinazionali a base e struttura legale, inoltre, si portano dietro una tecnica del managment, un modo di cooptare classe dirigente e di costituire il loro organigramma che è ancora legato agli schematismi (non alla pratiche) del capitalismo industriale. Anche se le multinazionali non traggono più la quota più alta del profitto dal lavoro industriale e produttivo, i loro insediamenti produttivi costituiscono ancora un elemento di riconoscimento, dando continuità al marchio. Per le multinazionali legali l'apparato produttivo svolge lo stesso ruolo che nella mafia viene svolto dalla famiglia: è una radice, un elemento identitario che impedisce alla Sony di essere la Ericsson e come ai Casalesi di essere i Corleonesi.
Gli organigrammi sono strutturati per aree geografiche, raramente per settori transnazionali, procedendo poi e solo dopo gerarchicamente verso una maggiore estensione delle competenze geografiche, fino alla struttura amministrativa mondiale: la 'globalità' non si presenta immediatamente ma usufruisce di localismi.
La famiglia mafiosa è la radice produttiva, bioeconomica, dell'organizzazione mafiosa: al contrario che nelle multinazionali i legami familiari funzionano concretamente nel definire organigrammi e reti di comando, o forniscono una matrice per definirli quando si estendono a terze parti estranee all'omogeneità anagrafica della famiglia.
Questo determina e ha sempre determinato una specificità della territorialità mafiosa che si estende là dove arriva la famiglia, la sua rete di influenza e i vassallaggi esterni a quella e che persegue una politica di progresso per aree limitrofe. Questo è lo specimen mafioso rispetto ad altre realtà imprenditoriali.
Il biocapitalismo, però, ha introdotto uno scenario nel quale questa specificità può più facilmente diffondersi, in estrema sintesi: il lavoro come valore non definito economicamente, rapporti di produzione in parte servili e dove il servile viaggia come un'ombra e una possibilità, la merce slegata dal valore del lavoro e l'importanza della geografia virtuale e dei saperi.

Mercoledì, 24 giugno

Impressione. Nella nuova forma che il capitalismo ha assunto la mafia trova una nuova coestensività: la merce astratta, il danaro come merce tra le merci astratte e un modo di intendere lo spazio e la geografia come risultato della circolazione dei saperi e dei flussi informativi.
Tutto questo è profondamente mafioso.
La mafia è un potere territoriale e 'feudale' costituito dalla capacità di organizzare saperi e codici di comportamento, ottenendone la validazione sul territorio. In determinate aree geografiche la mafia continua ad estendersi seguendo la fisicità e le leggi di prossimità, ma, contemporaneamente, è diventato, precisamente come il mercato, un processo extraterritoriale, indifferente alla geografia. La mafia ha bisogno di un territorio di fondazione per la parte iniziale del suo ciclo produttivo e qui segue le normali leggi della fisica, della geografia e dell'antropologia, per poi svilupparlo oltre la dimensioni delle singole corporation locali e regionali (le famiglie). L'extraterritorialità era stata sperimentata già nel secolo scorso, sul mercato dell'eroina che è stato il volano della internazionalizzazione dell'impresa mafiosa, si trattava, però, di 'colonizzazioni' tese a definire nuovi territori, non una nuova dimensione negli investimenti. Questo non è più il modo di sviluppo centrale della malavita organizzata oggi, per la quale famiglia e territorio sono il retroterra, un modo di costruire classe dirigente e manodopera, ma non l'obiettivo strategico.
La mafia degli appalti, oltre a registrare una specificità italiana (vulnerabilità delle istituzioni alle infiltrazioni illegali), rappresenta un ibrido di questo sviluppo, posto tra la mafia agricola e quella post – moderna. La mafia che investe in borsa e acquisisce e controlla gli investitori o che ha una sua cordata tra gli investitori è il nuovo modello di questo sviluppo.
Da una parte la mafia mantiene una sua specificità, un suo impatto sociale e visibilità, dall'altra questa specificità si volatilizza.
Il secondo elemento che mi preme sottolineare è che le trasformazioni nel mercato (il cambiamento della genesi della merce), reintroducendo un modo di organizzare il lavoro di tipo 'servile' o dove lo spettro del servile si percepisce, sta avvicinando la mafia alla normale imprenditorialità: gli strumenti di comando della manodopera, nelle situazione dove il valore del lavoro non è più misura del valore della merce, non possono fare riferimento naturale alle regole e alle leggi del mercato del lavoro industriale ma slittano verso forme di comando personalizzato che sono coessenziali a quelle mafiose.

Giovedì, 25 giugno

Letture. L'intelligenza collettiva : per un'antropologia del cyberspazio / Pierre Levy ; traduzione di Donata Feroldi e Maria Calò. - Milano : Feltrinelli, 1996.
Non avrei saputo scrivere meglio e dunque trascrivo ampi brani del capitolo 'L'economia dell'intelligenza collettiva'.
“L'ultima frontiera risulterà essere l'umano, ciò che non è automatizzabile: l'apertura di mondi sensibili, l'invenzione, la relazione, la creazione continua del collettivo.
Al di là della loro diversità, le professioni contemporanee hanno quasi tutte in comune certe attività di cooperazione, relazione, formazione e apprendimento permanente ( … ). Si curano più efficacemente i pazienti introducendoli alla dietetica, all'igiene, al riconoscimento dei sintomi, all'autonomia sanitaria in generale.
La produzione antropica del futuro si basa su due elementi indissolubili: la cultura delle qualità umane – di cui fanno parte, come è noto, le competenze – e l'edificazione di una società vivibile. Tutto si svolge come l'umano, in tutta la sua estensione e varietà, fosse diventato la nuova materia prima ( … ). L'intelligenza collettiva: fonte e fine di tutte le altre ricchezze, aperta e incompiuta, output paradossale perché interiore, qualitativo e soggettivo. L'intelligenza collettiva: prodotto infinito della nuova economia dell'umano ( … ).
Nell'epoca industriale ( … ) gli operai trasformavano le materie prime e gli impiegati trattavano le informazioni. Oggi la ricchezza delle nazioni è garantita dalla capacità di ricerca, di innovazione, di apprendimento rapido e di cooperazione etica tra i popoli ( … ). Oggi il nuovo proletariato non lavora più sui segni o sulle cose, ma direttamente sulle masse umane ( … ). [I nuovi proletari, nota mia] producono le condizioni di ricchezza, lontano dalle luci della ribalta, perché il suo lavoro è al contempo il più duro, il più necessario e il peggio retribuito ( … ). Questi nuovo proletari si fanno carico in prima linea delle relazioni di massa, del legame sociale intensivo ( … ) e a causa della mobilità e dell'accelerazione dei flussi, tutti vivono al limite dell'esclusione, rischiando di cadervi.
Il nuovo proletariato si emanciperà soltanto unendosi, superando precedenti categorie, stringendo alleanze con coloro che svolgono un lavoro affine ( … ). Il giorno in cui il nuovo proletariato diverrà cosciente di sé, deciderà di sopprimersi in quanto classe, istituirà la socializzazione generale dell'educazione, della formazione e della produzione di qualità umane. La tentazione al particolarismo è forte ( … ) invece di valorizzare la propria singolarità. È più facile ( … ) aggrapparsi a immagini arcaiche e ad identità stabili, piuttosto che secernere soggettività dinamiche e mutanti ( … ) a fronte di una variazione continua e massiccia delle conoscenze specifiche, la canalizzazione della trasmissione – utile in altri tempi – può diventare un freno o costituire addirittura una strettoia fatale. Alla deterritorializzazione dei flussi economici, umani e dell'informazione, all'emergenza di un nomadismo antropologico proponiamo, dunque, di rispondere con una  deterritorializzazione dell'iniziazione e dell'umanizzazione stessa ( … ) la trasmissione, l'educazione, l'integrazione, la riorganizzazione del legame sociale devono cessare di essere attività separate. Devono essere composte dall'interas società verso la sua stessa totalità, e potenzialmente da qualsiasi punto sociale in movimento verso qualsiasi altro.” (pp. 52 - 54).

Domenica, 28 giugno

Letture. L'intelligenza collettiva. Interessante è la distinzione sviluppata tra molarità e molecolarità nelle relazioni sociali. Gli apparati molari sono quelli che hanno dominato la storia dell'umanità, sono il trascendente rispetto all'immanente, per dirla in filosofia, sul campo costituzionale, istituzionale ed economico.
La democrazia e la televisione sono i più evidenti esempi di questa trascendenza e molarità e sono per Levy, che utilizza un discorso, un enunciato, descrittivo e non critico, sostanzialmente inadeguati a descrivere, rappresentare e governare la nuova economia: ci troveremmo, quindi di fronte a un'aporia, implicita, al sistema e la crisi è nelle cose, non serve denunciarla, basta descrivere le cose.
In generale, però, la molarità ha sempre rappresentato un elemento di inadeguatezza, genetica, disponendo verso un piano unitario la molteplicità; Levy scrive: “Il gruppo molare [lo stato, annotazione mia] attua una sorta di termodinamica dell'umano, una canalizzazione esterna dei comportamenti e dei caratteri, scarsamente economica rispetto alla qualità delle persone ( …). Anche la trascendenza e la separazione sono tecnologie molari, a caldo e a freddo, perché nei gruppi organizzati in base ai loro principi i cambiamenti costano cari, sono brutali e spesso catastrofici: colpi di stato, rivoluzioni, sommosse” (p. 66).
La politica e l'organizzazione sociale in genere, annota Levy, si è sempre fondata su gruppi identitari per ottenere effetti molari, cioè adeguati a sé stessa e al livello di sviluppo raggiunto, ora la costituzione di elementi identitari è, a un tempo, inadeguata alla realtà presente ma contemporaneamente è una tradizione, un modo di pensare, quasi una struttura stessa del pensiero. Come fare a meno di molarità, di trascendente e di identità, senza ricostruire un'altra molarità? O come rifondare una molarità, che è momento necessario quando si esce dall'ambito del gruppo ristretto (storicamente il clan e la tribù), senza dotarla di una trascendenza, senza ricreare il meccanismo che la separa dai suoi costituenti?
Per Levy la rete telematica offre questa possibilità, ricreando molarità in dinamica e continua ridisegnatura. Le possibilità tecniche e logistiche esistono, ma non è un problema tecnico ma politico nel senso più puro del termine.
Contro Levy annoto che il fatto che sia emersa la rete telematica è una risposta a nuove esigenze economiche e sociali, la rete ha una genesi 'politica', è una progettazione collettiva, una nuova forma di produrre e progettare. Quindi la rete è già 'politica'. Non credo proprio che il successo della telematica sia slegato dalla crisi del taylorismo e dall'emergere di nuove forme di produzione nel campo del lavoro subordinato e orientato agli 'oggetti'.
La rete telematica innerva un nuovo modo di produrre che mette in discussione gli assetti produttivi precedenti, non solo li scardina ma rende possibile la strutturazione di quelli nuovi. Contemporaneamente, per il solo fatto di esistere, non è capace di realizzare una democrazia produttiva né tanto meno economica: la democrazia si intravede, e lì, nella nuova etica della rete, nelle relazioni che si organizzano ma non riesce a essere il cuore della rete, il suo senso. Produrre in rete avvicina la democrazia ma non è la democrazia. Va anche scritto che esistono forze, all'interno della rete, che pur lavorando per la diffusione delle informazioni, le organizzano secondo parametri trascendenti e identitari (basta pensare ai riferimenti categorici, i filtri, utilizzati dai principali motori di ricerca). Eppure Google non è una situazione informativa estranea alla rete, è, per certi versi, la rete stessa. Insomma la rete continua ad avere una caratteristica di tutte le tecnologie del passato: non è un semplice strumento, non è solo un mediatore e non è neutrale ed è parte integrante delle forma di potere.

Martedì, 30 giugno

Annotazione. I sistemi politici (molari, per usare la terminologia di Levy) vanno avanti ad accumulazione di masse di energia sociale con improvvisi adeguamenti a quelle, nel tentativo di riportare il loro valore vicino allo zero. Questo modello si evidenzia bene nelle crisi rivoluzionarie ma è sempre stato il modello dello sviluppo dei sistemi politici e molari.
I sistemi sociali, inoltre, (il complesso dei rapporti di produzione, forze produttive, modi di produrre, forme produttive, saperi tecnici, mentalità, immaginari) viaggiano a velocità diverse e secondo un modello diverso. Tendono anch'essi a costituire una massa inerziale e ad assomigliare ai sistemi politici, e dunque ad acquisire, sempre con Levy, molarità, in misura minore le forze produttive e i saperi tecnici, spesso intermedia le mentalità e gli immaginari e massima i rapporti di produzione che, non a caso, hanno una forte coessenzialità con i sistemi politici (nella sua componente legislativa e politica). In genere i sistemi umani hanno energie di sviluppo diseguali e all'interno di quelle i sistemi e le ideologie politiche hanno sempre avuto il compito di nascondere queste diverse velocità, riportandole a una sola velocità.
L'ideologia è sempre stata rappresentazione di un'unità e anche quando ha cercato di comprendere in sé la molteplicità lo ha fatto immaginandola come elemento di un solo organismo.


rivedi giugno

Inizio anno


Mercoledì, 1 luglio

Annotazione. Le crisi rivoluzionarie hanno evidenziato, in forma chimicamente pura, questa massa inerziale e i suoi effetti, e le ideologie rivoluzionarie ( per come si sono manifestate e date alla storia tra XVII e XX secolo) sono diventate la quintessenza della riduzione a unità e hanno, in modo assolutamente inconsapevole, fornito la matrice per ogni ideologia d'epoca moderna: lo scopo dell'ideologia politica è diventato l'enunciazione di una progettazione complessiva e unitaria. L'ideologia è diventata l'involucro di una spiegazione complessiva e totalizzante della società e del suo sviluppo. Tutti gli operatori politici, dal XVII secolo in poi,  sono andati a scuola dalla rivoluzione, senza saperlo. Oggi, però, le scuole di rivoluzione servono più a poco, soprattutto ai rivoluzionari e in genere ha perduto senso il termine stesso, come quello di conservatori e insieme con quello di destra e sinistra.
Gli involucri progettuali ai quali questi termini fanno riferimento mancano di fondamento e di sostanza. Questo non significa che non esiste più un pensiero rivoluzionario e uno conservatore, esistono eccome e, sottolineo, molto più di prima (e chi oggi scrive di assenza di destra e sinistra è un'ipocrita che assolutizza una registrazione banalmente eseguita) ma nulla hanno a che vedere con sinistra e destra 'storiche'.

Mercoledì, 8 luglio

Annotazione. Cosa sta succedendo alla democrazia? Meglio  chiedersi cosa sta succedendo al simulacro residuale della democrazia? Un referendum mal posto, quello greco, è stato scambiato per una grande operazione democratica: segno dei tempi.
Il referendum non rilancia una pratica democratica in Europa e nell'Unione europea ma, semmai, ne finge il rientro, come rientra in scena una comparsa teatrale. Nulla di operativo in questa democrazia, quando Zipras continua a rivolgersi ai soliti lodi arbitrali ai quali recita, grazie al referendum, la difficoltà della sua situazione.
Certamente non si può fare a meno di simpatizzare per il governo greco, ma giusto tifare, disponendosi nella stessa logica del referendum.
Un momento di democrazia dovrebbe, invece, possedere decisività e operatività, mentre qui tutto serve a dimostrare, teatralmente, che anche il simulacro della democrazia è inaccettabile. Non credo affatto che la Merkel o chi per essa sperasse nella vittoria del sì, sperava, forse, che le ragioni del no si rappresentassero teatralmente e continuassero a calcare il solito palcoscenico: un nazionalismo, uno stato nazione, che si scopre rappresentante sindacale del 'popolo' e sfida altri nazionalismi, altri stati nazione e altri rappresentanti sindacali di 'popoli'. In questo contesto, su entrambi i fronti, che non sono fronti reali ma fronti recitati, può solo crescere una forma di fascismo, nostalgico del 'socialismo del capitale', un socialismo nazionalista del capitale.

Giovedì, 9 luglio

Annotazione. La finzione della democrazia è radicatissima oggi; la democrazia fa parte del DNA dei paesi capitalistici egemoni: l'esistenza stessa di istituzioni democratiche li qualifica e li riconosce. I paesi capitalistici egemoni devono presentarsi come democrazie, quasi che governi, prefetture e tutto l'apparato di controllo sociale e finanche le banche e le borse fossero espressione di una volontà e potere democratici e appartenessero ai cittadini. I correntisti sono i veri proprietari delle banche e i cittadini del governo e quindi direttamente responsabili dell'andamento dell'economia, della finanza e della società: la partecipazione al mercato è partecipazione alla democrazia, anzi è democrazia.
Mentre la democrazia tradizionale, la democrazia rappresentativa, ha perso gran parte della sua funzione istituzionale, del suo peso concreto e storico (nel senso della determinazione della storia e degli equilibri politici), mantenendosi come relitto, riferimento archeologico, bandiera, stendardo di passate virtù, la sua finzione, invece, investe l'intera società; si è allargata (correntisti, piccoli azionisti, risparmiatori, piccoli proprietari di immobili, attivisti in comitati e associazioni e via discorrendo). Questo allargamento non determina una relazione con la democrazia tradizionale ma, anzi, lo preclude, lo nega e lo vive come sbarramento, ostacolo e difficoltà.
L'astensionismo elettorale e il successo che ottiene il modello mafioso sono, tra molti altri segni, il sintomo della crisi del ruolo della democrazia nella strutturazione dei sistemi politici. La democrazia, se mai è esistita, oggi è davvero solo apparenza, tecnica del fenomeno, tecnologia rappresentativa nel doppio senso che usa la rappresentazione del fenomeno attraverso gli strumenti massmediatici e lo rappresenta politicamente solo in quanto fenomeno e in quanto fenomeno rappresentato massmediaticamente.
Si badi bene, non si è data rottura sostanziale nella storia della democrazia: la rappresentanza politica, la delega, avevano in sé medesime il presupposto per la loro riduzione a tecnologia e rappresentazione del consenso.

Venerdì, 10 luglio

Annotazione. Il giudizio sulla democrazia va contaminato con quello sull'esperienza di Zipras perché sono due giudizi affini. Quello di Zipras è un tentativo eroico, per certi versi commovente, ma di eroismo la storia non sa che farsene, serve dell'altro per cambiarla, più coraggio intellettuale che, ovviamente, non può risiedere tutto in Zipras e che a Siriza non può essere chiesto. Zipras sta sbagliando, ma non può che fare altro che sbagliare, per il tipo di battaglia che ha scelto e per la logica che sta perseguendo nello scontro. L'errore di Zipras sta nel far riferimento, vivificandole, alle istituzioni della democrazia tradizionale e alla mitologia della rappresentanza, unita inevitabilmente alla retorica della sovranità nazionale, cose che, però, le hanno permesso, proprio queste, di ottenere un innegabile successo nel mondo elettorale. Questa è l'aporia contenuta in qualsiasi discorso sulla democrazia basata sulla logica della rappresentanza: si ottiene un consenso volatile e sottoposto e prigioniero delle mitologie che lo hanno prodotto e strutturato. La struttura della rappresentanza ha le stesse forme del riconoscimento identitario fondato sulla sovranità e da queste forme non si può uscire.
Non so quanto Siriza sia avveduto di questa trappola logica, di questo paradosso e aporia, e, appunto, di quanto sia consapevole del proprio eroismo e dell'inutilità di questo, ma di tutte le cose dette e scritte a proposito di questa vicenda, una è vera, anche se non nel senso con la quale viene presentata: vale a dire che Zipras è un segnale. È, però, il segnale dell'inadeguatezza della democrazia rappresentativa e della teoria della rappresentanza.

Domenica, 12 luglio

Annotazione. Zipras sembra il topo che spaventa l'elefante e lo è. Tutta questa confusione di proposte, veti, aperture poi chiusure, tutte rigorosamente false (una verità pubblica e ufficiale) rappresentano / mettono in scena questo spavento, lo descrivono secondo i linguaggi della verità pubblica, ufficiale e approvata televisivamente. Il problema politico è il problema contabile (e gli stati nazionali non sono altro che funzionari contabili, amministrati da addetti al bilancio) di una contabilità che l'unione europea finge di garantire; lo spavento non dipende dalla contestazione della contabilità ma dai suoi potenziali effetti sulla finzione, che potrebbe, cioè, essere costretta a rivelarsi.

Lunedì, 13 luglio

Annotazione. L'elefante si spaventa del topo e il topo si spaventa dell'elefante, ovviamente. L'elefante è costretto a prendere sul serio il topo perché la moderata indisciplina contabile della Grecia non mette in discussione tanto la contabilità europea (stiamo, in verità, parlando di poche decine di miliardi di euro) ma un disegno, un progetto generale dentro il quale la contabilità greca, la poverissima contabilità greca, è ininfluente, in quanto fatto contabile, ma serio in quanto fatto politico. Politico in quale senso? Nel senso che in Grecia, come sostengono molti ammiratori di Siriza fino al punto di farne un modello di azione per la 'sinistra' europea, la democrazia si sta finalmente opponendo all'oligarchia, ai poteri forti europei? Risponderei che il mio senso del politico è davvero un altro. Nel senso che la Grecia è una nazione, come sostengono anche molti ammiratori di Zibras nella 'destra' europea, che si sta opponendo, eroicamente, alla globalizzazione dell'economia? Direi a maggior ragione di no, perché il mio senso critico verso la 'globalizzazione' non prevede il passaggio attraverso la riesumazione degli spiriti nazionali.
Scriverei, al contrario, che ciò che spaventa l'elefante e gli fa rincorrere il topo, terrorizzandolo, è quello che in realtà si trova dentro di lui e che non potrebbe essere accettato dalla strategia del capitalismo mondiale integrato se, a causa della piccola contraddizione contabile greca, dovesse mettersi in produzione: in Grecia non si tratta né di democrazia né di nazione, ma della difesa e della resistenza di alcuni standard di vita, di immaginari, di culture e anche di saperi, conquistati i primi e costruiti i secondi, in una lotta e processo secolari. La grande Germania non c'entra nulla o, meglio, c'entra davvero poco: è solo un'occasione storica, un accidente, ma non è il fondamento di questa strategia; fa parte dell'asse strategico, magari, ma non è in grado di determinarlo. Insomma la grande Germania, come qualsiasi altra grande nazione, è forte ma non abbastanza.
L'intransigenza tedesca, quindi, (contaminata dal gioco delle parti, delle cifre e dei bilanci pubblico e massmediatico) contro la Grecia possiede le stesse attitudini, gli stessi atteggiamenti che, storicamente, hanno assunto le grandi confederazioni sindacali verso le federazioni minori: sacrifica i tuoi iscritti affinché io non sia costretto a sacrificare i miei. È sicuramente meglio che siano i proletari greci a sperimentare le terapie 'oggettive' del mercato internazionale che non quelli dell'intera Europa.
La Grecia e Zipras sono a un tempo, così, un falso e vero problema: falso  in quanto problema contabile e concreto, vero in quanto problema progettuale e ideologico. La concretezza dell'economia, il suo buonsenso, è una qualità che non appartiene più all'economia; l'economia si presenta come concretezza contro Zipras e la sua democrazia nazionale, sfidando le leggi della concretezza, perché le sue leggi generali non sono economiche.
Nella confusione rappresentativa e massmediatica esiste solo la prima concretezza ed è quella che, come al solito, ha egemonizzato il dibattito e le analisi. Anche quando si scriveva e teorizzava di una riforma dell'Europa non si è usciti da questo ambito analitico che ha accomunato tanto la 'sinistra' quanto la 'destra'. Pensiamo alla ridicola e improvvisata passione verso il sig. Draghi di gran parte della sinistra 'radicale' (quasi un eroe e un paladino della democrazia), oppure la retorica di molta destra 'tribunizia' intorno al popolo greco come ultimo apologeta del concetto di nazione (includendo in quest'orgoglio il fatto che, alla fine, i Greci, oltre un certo limite, avrebbero dovuto 'fare da sé' e risolversi nazionalisticamente la loro crisi, senza pesare sugli altri sacrosanti nazionalismi) e infine la denuncia della follia dissipatrice della cicala Zipras di 'sinistra e destra realiste'. Tutti, alla fine, marciano separati e contrapposti condividendo la stessa ideologia, la medesima sensibilità analitica, evocando lo stesso rotocalco televisivo dove litigare innocuamente.

Martedì, 14 luglio

Letture. Castel del Piano : la perla dell'Amiata : origini, economia, casati / Enzo Fazzi. - Arcidosso : Effigi, 2014. - (Genius loci, 56). Un po' infelice e fuorviante il sottotitolo che rischia di farlo scambiare per una marchetta turistica, al contrario ci si imbatte in un'opera abbastanza lontana da ogni intento di erudizione e compiacimento localistico, con continui riferimenti a informazioni di archivio e una particolare sezione dedicata all'organizzazione del territorio e alle strutture di potere nell'altomedioevo. Non indifferenti alcuni interessi urbanistici dilatati fino alla contemporaneità.

Domenica, 26 luglio

Annotazione. Delle lingue nazionali. Grande parte delle parole che costituiscono definizioni, che definiscono, cioè, delimitazione di un fenomeno, evento e processo oggettivo, non si danno nelle lingue nazionali ma in una lingua internazionale.
La lingua internazionale, l'inglese, premetto, riduce anche l'inglese a lingua nazionale, perché è un derivato dell'inglese ma non è l'inglese: non si tratta di un imperialismo linguistico, del predominio di una lingua nazionale sulle altre, ma della strutturazione di una lingua transnazionale, una sorta di iperlingua.
Proprio perché iperlinguistiche, le definizioni di questa lingua conformano la categoria dell'oggettività linguistica che, anche nell'inglese nazionale, andranno tradotte e interpretate.
L'ambito di questa iperlingua è evidentissimo in informatica, politica e, soprattutto, economia.
Come la formazione di questo vocabolario iperlinguistico sia isomorfa ai nuovi orizzonti, istituti e dinamiche del capitalismo transnazionale (ma mai come trattando questo argomento risulta adeguato il termine biocapitalismo) è chiarissimo. A una trascendenza economica corrisponde una trascendenza linguistica e come le economie nazionali hanno fatto spazio all'economia 'globalizzata', così le lingue nazionali hanno perduto il potere di definire le cose della 'trascendenza', riducendosi, in questo campo, a parlate, 'vulgate', cedendo il passo a una iperlingua.
L'iperlingua non è una lingua internazionale ma un complesso di vocaboli, di termine e di definizioni internazionale. Tutto questo ha degli innegabili effetti sulle lingue nazionali non solo e non tanto in fatto di contaminazione e importazione ma soprattutto nel modo di percepire l'uso della lingua e nel peso che le parole e le regole sintattiche stesse delle singoli lingue nazionali perdono.
A fronte dell'iperlingua, oggettiva, razionale e quindi in relazione diretta con il trascendente, vero centro gravitazionale terminologico, la lingua nazionale diviene sempre più soggettiva, immanente e centrifuga e si interrompe un processo di centralizzazione linguistica che aveva caratterizzato i grandi stati nazionali del XIX e XX secolo. Paradossalmente, sono proprio i puristi della lingua, coloro che cristallizzano, a denunciarne soggettività, immanenza e volatilità: a un pianeta che ha perduto la stella non rimane che l'orbita, qualunque essa sia. Io preferisco il deragliamento da ogni orbita, a maggior ragione se essa perde senso, in mancanza di un centro gravitazionale.
L'iperlingua ha dei precedenti storici. Molti di questi sono legati a discipline scientifiche, basta pensare al greco nelle scienze mediche e biologiche, e in genere questa iperlingua agisce in maniera analoga alle 'lingue disciplinari e specialistiche' (vampirizza, cioè, le risorse di una particolare lingua parlata proiettandole in un contesto concettualizzato, indifferente all'immanenza originale, anche se affascinata da quella e per certi versi ispirata), ma il processo attuale non ha precedenti per l'ampiezza del suo ambito; non il latino, non il greco e neppure il francese e lo stesso inglese in epoca più recente, hanno saputo fornire elementi iperlinguistici in un campo d'uso così allargato.
Al contrario di quello che accade difficilmente per le lingue disciplinari e specialistiche, inoltre, l'iperlingua viene coniugata dentro le parlate nazionali, producendo neologismi che sono, quasi sempre, interdisciplinari (pensiamo solo e banalmente al termine start up, mutuato dall'informatica e passato all'economia e alla politica, o ai nuovi significati assunti dalla traduzione 'aggiornamento' di upgrade / update, o ancora a default etc. etc.). Anzi l'elemento dell'interdisciplinarietà, della polivalenza, della multilocazione è caratteristico dei termini di questo nuovo vocabolario.

Lunedì, 27 luglio

Annotazione. Questa nuova lingua non si spiega e ricorre alle singole parlate nazionali per spiegarsi. Scrivere che questa nuova realtà lessicale è la lingua tecnica (contabile, informativa e comunicativa) del dominio, mi pare forte, anche se istituisce e si fonda al contempo su un modo di concepire la relazione tra significante e significato che è autoritario. Si badi bene autoritario di sicuro e, contemporaneamente, umano e biologico, di una biologia che si sussume al dominio in uno degli elementi distintivi della nostra specie, la comunicazione linguistica.
L'iperlingua presenta i suoi significati come decisivi e risolutivi, rispetto a quelli, anche corrispondenti, delle lingue nazionali; quando, in alcuni casi, per provincialismo o altro, vengono mantenuti i significanti in lingua, si verifica una sfasatura semantica tra la parola nel momento in cui è usata in maniera iperlinguistica e quando non lo è. Per riprendere la 'traduzione' di aggiornamento, il termine ha realmente cambiato natura sotto molteplici punti di vista; era un termine strettamente istituzionale (usato nell'ufficialità militare, burocratica e amministrativa e con scarsissima frequenza nel linguaggio parlato), associato con il significato di 'rivedere', di 'fissare una nuova seduta', tutti significati non operativi e progettuali. Aggiornamento in iperlingua ha invece un significato esecutivo: è l'esecuzione di un passaggio di stati, politici, culturali ed economici e indica un processo reale che comporta il completamente non solo di alcuni dati ma dello scenario e del contesto creativo dei dati. Aggiornamento nell'interpretazione iperlinguistica presuppone il concetto di compatibilità dei dati con lo scenario che costituiscono, un nuovo modo di produrre i dati, e poi di descriverli e nominarli. Aggiornamento descrive la realizzazione di un nuovo stato operativo.

Martedì, 28 luglio

Annotazione. Le lingue nazionali erano gelosissime di sé stesse quando descrivevano i fenomeni istituzionali e i processi economici, perché la descrizione è appropriazione, rivendicazione di proprietà e manipolazione. I fenomeni nazionali dovevano essere appropriati e manipolati da una lingua nazionale. Chiamare una cosa è, in genere, trasformarla in concetto, trasformarla da evento esterno a fatto interiore. Questa possessività sta venendo meno e i vocaboli nazionali perdono legittimità: sono i termini internazionali o di origine internazionale a definire i fenomeni. L'interiorità collettiva ha spostato il suo piano.

Mercoledì, 29 luglio

Annotazione. O meglio, l'interiorità collettiva e politica, la rappresentazione del collettivo e del politico (che nel trascendente vengono pensati come coincidenti) si è spostata su un livello iperlinguistico. Questo ha degli indubbi effetti sulla lingua parlata in termini di legittimità e, implicitamente, peso e credito.
Il peso, il valore delle parole nazionali, diminuisce in ragione del fatto che queste sono strumenti per tradurre altre parole e descrivere concetti  che parole, generate altrove, al di fuori del contesto nazionale, definiscono e delimitano. La definizione sta al di fuori della lingua e così la potenza linguistica. La condizione del mercato linguistico (ben descritto dal seppur datato Migliorini) cambia radicalmente e, probabilmente, quello linguistico non è più un mercato.

Giovedì, 30 luglio

Post per FB. Ricordo ai miei amici l'anniversario della strage di Bologna che fece 85 morti, non so quanti feriti e danni emotivi, psicologici e politici incalcolabili. Bologna si inserisce in quella collana di episodi (partendo da Piazza Fontana, passando per l'Italicus e Piazza della Loggia, per finire alla strage di Natale del 1984) che rendono la storia di questa repubblica (prima o seconda) anomala, perché in parte sottoposta a forze occulte, segrete e sotterranee e quindi non è neppure precisamente quantificabile il volume di questa parte. Alla fine non è precisamente valutabile la struttura stessa della repubblica italiana. Furono episodi violenti, con qualche esecutore materiale e nessun mandante, episodi ancor oggi 'galleggianti' sotto il profilo storico e dunque politico, episodi che evidenziano un grave limite nello sviluppo della democrazia parlamentare in questo paese.

Venerdì, 31 luglio

Post per FB. Questa scia di omicidi di massa irrisolti introduce il sospetto che ancora oggi la democrazia parlamentare italiana sia condizionata e condizionabile, un complesso istituzionale sottoposto, oltre che alle pressioni fisiologiche delle grandi lobby e delle concentrazioni di affari e di interessi pubblicamente dichiarate, a gruppi di potere occulti che per tre decenni hanno espresso concretamente i loro veti,  hanno fatto sentire la loro forza politica e hanno perseguito un  progetto e strategia politici. Che la vita della seconda repubblica non sia stata più segnata da stragi e omicidi di massa non significa affatto che quei poteri non esistano più, probabilmente hanno cambiato forma e strategia e probabilmente qui si costituisce una delle differenze tra la cosiddetta prima e la cosiddetta seconda repubblica. Fino a che, però, non si farà piena luce sulle stragi degli sessanta, settanta e ottanta, un filo di continuità rimarrà tra le nostre beneamate repubbliche, un filo invisibile ma indimenticabile.

rivedi luglio

Inizio anno


Giovedì, 13 agosto

Ceti medi senza futuro? : scritti, appunti sul lavoro e altro / Sergio Bologna. Roma : Deriveapprodi, 2007. - (Deriveapprodi, 68).
Letture. Mi preme registrare questo passo: “È un non sense parlare del lavoro come di un'attività immateriale, non esiste forse attività umana dove la fisicità, l'impegno, lo sforzo, il senso di disciplina, l'adattamento all'ambiente, la flessibilità, sono sottoposti a maggiori sollecitazioni che durante l'esercizio di una mansione lavorativa” (p. 91). Mi preme per la concretezza, che contraddistingue il pensiero di Sergio Bologna da sempre, e che gli impone di tenersi lontano da certe infatuazioni intorno alle nuove dimensioni del lavoro salariato e non. Anche se, va sottolineato a difesadi Lazzarato che viene preso di mira dalla critica di Bologna (Lazzarato, Lavoro immateriale, del 1997), paradossalmente Bologna usa tutti gli aggettivi ed espressioni che rimandano all'immateriale, quando descrive la fisicità persistente nel lavoro (senso, adattamento, flessibilità) e che chiamano in causa atteggiamenti sentimentali piuttosto che impegno corporeo e corporeità. La decorporeità del lavoro non è, però, tipica del post fordismo ma è implicita allo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo: è stato una tendenza subitanea e naturale, fin da subito il lavoro vivo e stato tendenzialmente sostituito da quello morto, ma anche MA soprattutto nel lavoro manuale, nel lavoro operaio; Lazzarato, quindi, insieme con molti altri enfatizza un processo antichissimo e non nuovo, addebitandolo tutto al post fordismo.
“Le merci possono essere immateriali – non il lavoro” (p. 92) scrive Bologna e ha ragione nella misura in cui,però, la materialità del lavoro viene associata alla sua decorporizzazione e si istituisca il concetto di una nuova materialità e fisicità del lavoro, per certi versi incorporee (senza naturalmente dimenticare settori operai nei quali l'uso del corpo conta ancora molto, non fosse altro per la necessità dello spostamento geografico per eseguire la mansione). Proprio questa incorporeità consente, in buona parte, di realizzare il processo che Bologna denuncia (e che i teorici, anche anticapitalisti, della immaterialità ignorano), vale a dire il “prolungamento degli orari di lavoro di fatto” (p. 92). questo prolungamento più che dalla tipologia della merce (prodotto immateriale) dipende, e qui vado contro l'autore, dalla decorporizzazione del lavoro, dalla possibilità di produrre beni in ogni luogo. Questo ha generato non solo la possibilità di estendere l'orario di lavoro, l'attività lavorativa, ma anche di generare un paradigma che coinvolge tutto il lavoro, anche quello corporeo: il lavoro è un'attività che tende a eliminare lo schema orario.
Il testo di Bologna non è un testo, è una miniera: poco più oltre l'autore svolge una critica alla nostalgia del posto fisso, alla nostalgia del fordismo, universo ormai irripetibile, affermando la progressività, fecondità sociale e politica, del lavoro 'precario', che può essere trasformato in un nuovo modo di affrontare il ciclo produttivo, il mercato del lavoro e il lavoro stesso. Oggettivamente per un comunista l'obiettivo dovrebbe essere il lavoro come attività libera, svolta al di fuori si schemi orari, in continua trasformazione e trasferimento; per il mio modo di immaginarlo, nel comunismo si cambierà spesso lavoro, anzi non avrà proprio senso usare il termine 'cambiare lavoro'. Il posto fisso ricorda una garanzia socialista, il risultato di un'oltrepassata da decenni dittatura del proletariato, di stato proletario, che oggi sono inattuali e inadeguati, e forse, in un paradosso della storia, può essere teorizzato, con ogni accessorio rivisitato rispetto alla tradizione socialista di un secolo fa, dalla 'moderna' estrema destra nazionalista.
Il nostro problema, credo, non è quello di rivendicare il posto fisso, ma di richiedere e imporre la possibilità di vivere nel lavoro 'precario', nell'attività,  di seguire e supportare autonomamente lo sviluppo sociale, retribuiti e garantiti. La prospettiva sindacale del posto fisso e di ottenere garanzie attraverso il posto  fisso o il contratto a tempo indeterminato è di destra, l'ideologia delle garanzie sul lavoro in genere su ogni tipologia contrattuale è (solo) un primopasso per rifonadre un pensiero di sinistra non solo sul lavoro ma sulla società.
Sono abbastanza convinto del fatto che se si sviluppasse una ricomposizione delle 'singolarità' della 'moltitudine' (per usare Negri) su una strategia del genere, i conservatori e il capitalismo denuncerebbero, con piagnistei, il danno sociale provocato nel passato, se ne pentirebbero pubblicamente e si farebbero alfieri del recupero della tradizione, della salute e della stabilità del posto fisso, oltre che, ovviamente, cercare di lavorare sul mondo 'flessiile', per scomporre il fronte. Forse sta succedendo da qualche parte, non sono molto informato.

Sabato, 22 agosto

Ai margini. Letture Ceti medi quale futuro?. Bologna è autore che stimo e per il quale nutro simpatia, anche umana. Certe cose della sua vita assomigliano alle mie, altre no. Il testo procura un sentimento: angoscia; viene descritta, inconsapevolmente e sopra e sotto le righe, la storia di un isolamento dei soggetti produttivi, che è quasi più forte di qualsiasi altra considerazione, notevole, che l'opera impone.
Forzando e allargando (Bologna mi perdoni) il paradigma classico dell'imprecisa delimitazione della categoria 'ceto medio', mi sentirei di scrivere che, secondo un'ipotesi sociologica che mi è passata per la mente, il ceto medio è stato obliterato nei suoi stili di vita e nelle forme di attaccamento e relazione con il lavoro in epoca post – fordista, mantenendo come elemento distintivo alcune aspettative di vita, necessariamente soggette alla variabilità del mercato e dell'andamento economico, quindi non uno 'zoccolo duro', il fondamento di una categoria sociologica. Il ceto medio è quindi morto, ma la sua forma obliterata è diventata modello egemone socialmente, anche per i lavoratori dipendenti a diverso titolo e a diversa modalità contrattuale.
Il post – fordismo ha rimescolato con radicalità molte carte, inventandosi un nuovo gioco. Ha mescolato elementi e comportamenti sociali organizzati, altri in buona parte spontanei, segni di una nuova soggettività come il rifiuto organizzato del lavoro operaio degli anni sessanta e settanta, il diffuso rifiuto giovanile del posto fisso persistente  dai settanta fino alla prima metà dei novanta e il venire fuori di nuovi atteggiamenti, comportamenti, stili di vita ed etiche. Li ha uniti, inoltre, con elementi oggettivi, che hanno in parte aiutato la crescita di queste nuove soggettività, in parte le hanno indotte e in parte sono state una risposta a quelle, tra questi il modo di produzione toyotista, l'inapplicabilità di un contesto produttivo generale rigido (e organizzato secondo modelli rigidi) e la nuova mobilità ed elasticità del mercato del lavoro e delle merci.
Il post – fordismo, poi, si è trasformato in un'epoca quando non solo ha imparato a mettere insieme tutti questi nuovi elementi ma ha saputo dare a quelli stabilità, un senso, uno spessore culturale,  intelligenza e riflessione su sé stessi, in una parola li ha messi in prospettiva. Questa nuova cultura e consapevolezza dello sviluppo sociale e produttivo ha affidato nuovi compiti alla sfera pubblica (spesso limitandone le competenze), allo stato, ai servizi e all'apparato scolastico ed educativo. Qui è nata una nuova epoca, quella del biocapitalismo e della post – modernità e insieme con quella il ceto medio diffuso che ho in mente. Questo ceto medio è la nuova faccia del proletariato, del lavoro non salariato che diventa tale anche quando è regolato da contratti che prevedono il salario, ma nel quale il salario è sempre più chiaramente slegato dall'orario e dalla produttività oraria.

Mercoledì, 26 agosto

Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Dovendo interpretare storicamente questo fenomeno si potrebbe così riassumere: è questa l'epoca nella quale il lavoro salariato rimane una forma e un punto di riferimento nelle relazioni tra capitale e lavoro, ma non è più la sostanza di questo rapporto. Il lavoro salariato è diventato un istituto contrattuale slegato dalla sua funzione originaria, che era quella di misurare il valore reale del lavoro per individuare il pluslavoro e il relativo plusvalore; è diventato, invece, una forma tra le altre di elargizione del reddito. Il concetto stesso di lavoro necessario ha perduto senso, se riferito al lavoro vivo, perché quasi tutto il lavoro necessario nella produzione dei beni viene eseguito dalle macchine. Il lavoro vivo, sia quello svolto nella produzione sia, ancora di più, quello svolto nella riproduzione del capitale è un'attività di controllo, supervisione e coordinamento dei flussi lavorativi.
Anche là dove il lavoro vivo si mantiene indispensabile (nell'edilizia, nei trasporti, nel commercio e nei servizi), poiché determina in maniera decisiva l'esecuzione dell'attività e la costruzione del prodotto, e anche nelle qualifiche più basse, il lavoro conserva una forma oraria, un riferimento orario, ma la fonte del suo valore non è il tempo di esecuzione ma la prestazione singola, la sommatoria di risultati e obiettivi raggiunti.

Giovedì, 27 agosto

Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Lo schema del processo lavorativo, spostandosi dalla produzione dei beni (materiali o immateriali poco importa) eseguita in una cooperazione parcellizzata (esemplari di questa la linea di montaggio taylorista in metalmeccanica o la serie manovale –  operaio comune - specializzato in edilizia) a una produzione di beni attraverso una cooperazione allargata, è profondamente cambiato. Il concetto marxista e classico di lavoro necessario non è venuto meno solo a causa dell'automazione, ma soprattutto a causa della trasformazione della collaborazione richiesta ai lavoratori da singolare a plurale. In qualsiasi campo produttivo non è possibile distinguere quello che è stato realizzato nel processo da un singolo operatore da quello al quale ha contribuito un altro. Il lavoro necessario oltre che essere diminuito è diventato comune e collettivo. I processi di automazione dei beni materiali e immateriali hanno provocato in larga parte questa collettivizzazione estrema del lavoro che è diventata il nuovo paradigma e ha formato la nuova immagine del lavoro.
Non importa, comunque, stabilire le cause ma individuare e precisare gli effetti: sono cambiati i poli, i criteri gravitazionali e i palinsesti organizzativi del lavoro. Là dove la linea di montaggio e la corrispettiva produzione in serie costituivano un'esperienza valida e adeguata a considerare ogni genere di lavoro e a valutarlo, ora il flusso pluridirezionale è intersecato con altri flussi, le serie produttive sono contraddistinte dalla congiunzione con altre serie, spesso anche da contaminazioni, dalla perdita della loro natura originaria, da sconfinamenti e quindi l'insieme di prestazioni spesso diverse comporta il risultato produttivo.
Sembra paradossale, scrivendo di un mondo del lavoro misurato sul nanosecondo e che può realmente misurare la produzione sulla base di un nanosecondo, il fatto che, mentre la produzione meccanica poneva al centro del processo la velocità di esecuzione del processo stesso, come opportunità di riduzione del lavoro necessario, oggi non è la velocità a essere importante ma la flessibilità, l'elasticità, la snellezza, la complessità e la diramazione del processo lavorativo. È importante il complesso armonico non l'avanzamento direzionale.
Conseguentemente non sono più valori fondamentali la quantità dei beni prodotti e la linearità e semplicità del processo produttivo, ma la capacità del processo produttivo di comprendere sé stesso, di coinvolgere soggetti diversi professionalmente tra loro, di costituire delle collaborazioni e delle armonie 'spontanee'. La fonte del profitto si identifica sempre più spesso nel risparmio delle risorse e non nella loro moltiplicazione: la fluidità prevale sulla velocità, la diramazione dei processi prevale sulla loro portata.
Qualche anno fa, nella sua 'Grammatica della moltitudine', Paolo Virno si imbatteva nuovamente e con altri occhi nel concetto marxista di lavoro improduttivo e in tutto l'imbarazzo che aveva provocato nel sistema marxiano, soprattutto a proposito del calcolo del suo valore e della sua misura economica. Il marxismo si imbarazzava giustamente in un mondo dove il paradigma del lavoro di fabbrica dominava il mondo del lavoro. Oggi è altrettanto imbarazzante constatare che le qualità espresse durante l'esecuzione del lavoro improduttivo (artista, progettista, impiegato, cameriere, cassiere, commesso, barista etc. etc.) sono diventate le virtù centrali del lavoro, anche di quello produttivo secondo l'accezione tradizionale, anche del lavoro di fabbrica.

Venerdì, 28 agosto

Ai margini della lettura di Ceti medi: quale futuro?. Sotto un profilo storico ancora più generale, sotto un'analisi epocale, l'attuale costituzione del lavoro, il complesso di elementi che egemonizzano la sua costituzione (misura del suo rendimento economico, forme organizzative, relazione del lavoratore con la produzione, relazione del lavoratore con il mercato delle merci e con quello del lavoro e giornata lavorativa sociale) hanno abbandonando o stanno largamente abbandonando gli archetipi propri del capitalismo industriale. Il modo di produrre, il modo di lavorare e di intendere il lavoro sorti nel tardo medioevo, quelli in base ai quali il tempo, la sua scomposizione, frazionamento e misurazione costituivano l'intelaiatura della giornata lavorativa, sono declinati. Nasceva, mezzo millennio fa, il concetto del tutto nuovo per l'umanità di 'tempo di lavoro', inteso come spazio cronologico esclusivamente, interamente e rigidamente dedicato al lavoro, un involucro chiuso che escludeva qualsiasi altra attività umana. Contro questo involucro ci fu lotta, lunga e spesso violenta: artigiani e operai agricoli rivendicarono per tutto il XIV e XV secolo il tempo tradizionale, un tempo nel quale la vita e il lavoro si compenetravano e spesso facevano riferimento al tempo divino, al tempo teologico in questa loro battaglia e resistenza e spesso ancora assalivano orologi pubblici e laici.
Oggi questo nuovo concetto, inventato nel XIV secolo, è venuto meno insieme con la convinzione della sua misurabilità economica e della sua opportunità produttiva, il capitalismo deve rivedere le sue teorie sul profitto; è venuto meno, inoltre, insieme con le basi scientifiche delle sue forme organizzative, il pensiero scientifico è cambiato; è venuto meno, infine, insieme con la necessità di fissare un limite e un'estensione alla giornata lavorativa sociale, il sindacalismo non ha orizzonti se non li cambia radicalmente.
La scienza galileiana (per rimanere nei dati epocali), che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo e delle sue misurazioni, non è più adeguata a organizzare intellettualmente questa nuova costituzione sociale è, in una parola, sorpassata.
Sotto molti aspetti, come in epoca classica, non esiste un'unità di misura che stringa l'orario con il lavoro, il tempo con la produzione dell'essere; quasi duemila anni fa, l'editto sui prezzi di Diocleziano descriveva il lavoro, sotto il profilo della sua retribuzione, come diurni, giornata lavorativa, o come caput, prestazione a corpo. Come in epoca classica, inoltre, tolta di mezzo la forza tradizionale del riferimento orario non esiste un modello egemone in materia, ma diversi rapporti di produzione concorrono ad edificare una sinergia generale. La parabola del lavoro salariato corre il rischio di ripercorrere, in senso inverso, quello della mezzadria medioevale che da relazione di sussistenza e acquisizione diretta dei prodotti della terra, di spartizione con la proprietà delle risorse per la sopravvivenza, divenne una relazione contrattuale orientata al denaro e alla remunerazione della singola prestazione d'opera. Oggi il lavoro salariato rischia di ridursi da strumento di relativa autonomia economica a forma di elargizione di un reddito compatibile con la sopravvivenza.

Domenica, 30 agosto

Annotazione. Questo non significa affermare la fine del lavoro salariato, precisamente come constatare la fine della misurabilità del lavoro necessario non equivale a dire che il lavoro, grazie all'automazione, non serve più. Sono, però, venuti meno alcuni parametri fondanti il classico e tradizionale rapporto di lavoro salariato che ha, così, un altro fondamento sociale.
Tornando all'esempio della mezzadria o di altro istituti contrattuali simili della società feudale, la loro trasformazione da emolumenti misurati in natura a emolumenti elargiti in danaro e il loro cambiamento da strumenti per una divisione delle risorse prodotte a una retribuzione complessiva per il lavoro di una stagione non hanno significato la scomparsa dell'istituto (il lavoro di mezzadria è stato abolito in Italia solo nel 1961). Il rapporto di mezzadria, pur cambiato nella forma, conteneva una verità sostanziale su quella relazione sociale; il rapporto di lavoro salariato, pur cambiato nella sostanza, contiene una struttura formale che esprime una relazione sociale: il tempo di lavoro rimane la fonte della produzione e il capitalismo continua a pagare 'formalmente' il tempo.
Molto tempo fa, circa tre decenni fa, nel pieno della restaurazione post – fordista e post – moderna (il termine restaurazione è narrativo ma inadeguato), immaginai che il nuovo orizzonte sociale del capitalismo sarebbe stato dominato dal non – lavoro. Da una parte l'automazione, minimizzando il lavoro umano necessario al profitto, avrebbe consentito la riduzione drastica degli occupati nella produzione dei beni materiali, liberando, al contempo, risorse enormi da investire nella riproduzione del capitale. Nella mia ipotesi, questo si sarebbe tradotto in una giornata lavorativa allungata nel settore della produzione primaria e secondaria e nella drastica diminuzione della giornata lavorativa nel settore della produzione di beni immateriali e dei servizi; questa diminuzione sarebbe stata tradotta dal dominio in non – lavoro che immaginavo supportato da forme alternative di erogazione del reddito, certamente di bassa consistenza ma compatibili con il processo di riproduzione del sistema e con il sostegno della domanda e dei consumi.
Era una visione fordista che cercava di decifrare il post – fordismo e dunque, certamente, inadeguata, ma il valore del processo, il processo messo a nudo, era quello; non pensavo che il capitalismo avrebbe saputo oltrepassare la valorizzazione oraria tradizionale, eppure è riuscito a farlo.


rivedi agosto

Inizio anno


Sabato, 19 settembre

Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / Karl Marx ; introduzione di Friederich Engels ; a cura di Giorgio Giorgetti. - Roma : Editori Riuniti, 1973. 4. ed (Le idee, 24). Letture.
Potrei scandalizzare qualcuno con queste righe ma sarà uno scandalo utile. Riprendere in mano un'opera come questa, che a suo tempo avevo percepito come straordinariamente lucida, innervata di realismo rivoluzionario, anzi di realismo rivoluzionario messo a stampa, e illuminata da uno sguardo a un tempo disincantato (realismo) e critico (rivoluzionario) sulla storia, mi ha procurato una strana sensazione, quasi, a tratti di sconforto. Tutto quello che mi appariva innovativo, irriverente e trasgressivo, ora mi si presenta davanti come cinico e reazionario, al punto che questi quattro articoli scritti nel 1850 in Londra non sono più un contributo rivoluzionario ma controrivoluzionario, se interpretati in funzione di un approccio analitico alla contemporaneità. Non dipende dall'autore e il controrivoluzionario non è Marx, ovviamente, ma controrivoluzionaria, e davvero in senso estremo e assoluto, è l'epoca in cui viviamo non per essere uscita completamente dagli schemi immaginati da Marx, ma per averli oltrepassati senza avere avuto il coraggio e la necessità di rinnegarli, per essere un'epoca cinica nella sua essenza.
Secondo Marx storico, seconda la filosofia della storia marxiana, lo sviluppo della borghesia avrebbe comportato l'evoluzione del proletariato, fino al punto da farne una classe capace di eliminare tutte le classi, per prima sé stessa. Al contrario lo sviluppo della borghesia ha determinato la fine della borghesia come classe, e in un autentico nonsense della storia (sotto il profilo marxista), il mantenimento del proletariato come classe 'formale'. Al contrario che nella teleologia marxiana, la fine della borghesia non ha comportato la fine del capitalismo e un proletariato senza borghesia, cioè la verità di oggi, sarebbe una vera assurdità per il marxismo classico.
La concezione e l'idea di borghesia, che Marx aveva nel 1850, non hanno nulla in comune con quella che si deve usare per descrivere i gruppi dirigenti economici attuali, mentre lo sviluppo capitalistico non fa più riferimento alla dialettica tra capitale e lavoro immaginata e descritta da Marx; con ciò non intendo che non esiste più il capitalismo o che il capitalismo si è dissolto nel popolo (anche se è accaduto qualcosa di molto simile, almeno per l'ideologia contemporanea) ma che si è realizzata un fase storica in cui il capitalismo sopravvive senza la sua dialettica costituiva.
Rimane la freschezza, la 'macchina del tempo' storiografica contenuta in questi quattro articoli, insieme con l'incrollabile convinzione dell'autore di aver individuato il motore dello sviluppo, la verità nella storia e la necessità di questa verità. Adottata oggi, quest'impostazione è, subdolamente (più di quanto si pensi), reazionaria, nel 1850 era certamente altra cosa.

Martedì, 22 settembre

Annotazione.  Ceti medi: quale futuro? / Sergio Bologna. Bologna si dice convinto del fatto che l'operaismo fu un fenomeno di pensiero post comunista. In genere, questa fenomenologia andrebbe estesa dall'operaismo al movimento degli anni settanta nel suo complesso, ponendo il suo culmine nell'anno 1977 e Bologna lo fa coerentemente, pur dedicando pochissime righe all'argomento. Anche io che militavo in uno dei molti gruppi di quegli anni, nonostante i continui riferimenti alla tradizione comunista, non potevo rimanere insensibile al fatto che stavamo partecipando a qualcosa di nuovo rispetto a quella tradizione, e che i continui riferimenti verso di quella erano spesso, anzi più che spesso, critici.
Il movimento del 1977, poi, non fece che ufficializzare questa critica, rendendola manifesta e radicale. Il movimento del '77 non fu un movimento comunista nella misura in cui la politica comunista si riduceva alla costruzione del partito e del sindacato e alla loro teoria.
Se, fino a quell'anno, era possibile parlare di partito e sindacato, anche se ormai nei termini di un nuovo partito non leninista e liberato dal leninismo e dalla militanza di professione, ed era possibile teorizzare un nuovo organismo di massa, neanche più definito come sindacato (vocabolo che era già uscito dal lessico costruttivo), non più progettato come cinghia di trasmissione di massa della linea del partito, in quell'anno certi discorsi e certe teorie, anche le più critiche e innovative, anche quelle che facevano riferimento al pensiero operaista, diventarono tanto improvvisamente quanto palesemente inadeguati. Riutilizzando, in maniera necessariamente impropria, la terminologia della tradizione comunista, quei discorsi e quelle teorie divennero, nel '77, 'controrivoluzionarie'.
Il rompicapo proposto in quell'anno fu che l'esperienza comunista tradizionale venne rifiutata, trattata come si tratta, durante le rivoluzioni, un fronte controrivoluzionario, ma non si progettò una rivoluzione alternativa e i vocaboli stessi 'rivoluzionario e controrivoluzionario' persero qualsiasi significato. Cambiò radicalmente la prospettiva, quella che potrebbe essere detta la prospettiva proletaria: dalla critica al presente, tipica del processo comunista tradizionale e 'rinnovato', si passò alla critica al futuro: il presente andava ricostruito e trasformato, non il futuro. In questo scenario, i problemi di tattica e strategia politica, croce e delizia della storia del movimento comunista, semplicemente scomparivano.

Mercoledì, 23 settembre

Annotazione. Il '77 è stato un anno mitico. Anch'io ne ho costruito la mitologia lungo la mia vita.
Si cantava in una canzone, dei primi anni ottanta e della disperazione rispetto al restauro politico imperante: “Chiedi a 77 come si fa”. La bellezza di quella domanda è che sapeva di non poter avere risposta e dunque diveniva un verso struggente, per chi lo comprendeva.
Il 77 non aveva risposte, ricette e soluzioni; eppure su quell'anno si è cercato di istituire un patrimonio da ereditare, quando, invece, il movimento non aveva né proprietà né possessi e neppure, come disse Berlinguer del '17 russo “una spinta propulsiva”.

Giovedì, 24 settembre

Annotazione. Molte bugie, enormi, sul '77 da parte di Cossiga, della stampa di allora e di oggi e della storiografia. Come annota giustamente Sergio Bologna insieme con molti altri, non è ancora possibile trovare una trattazione storica semplicemente decente su quell'anno e più in generale su quel decennio. Per la storiografia ufficiale sono gli anni di piombo, gli anni del terrorismo (neppure della lotta di classe che deviò nella follia armata, secondo qualche altra riduttiva e menzognera interpretazione), gli anni del rapimento Moro, di piazza Nicosia e null'altro o quasi. La solarità di quegli anni è stata cancellata dalla grigia immagine degli 'anni di piombo'. Questo è stato un sistema di bugie, un sistema esegetico, l'ideologia sul 1977 e gli anni settanta.
Non sono però mancate altre bugie che non hanno avuto al forza e la possibilità di costituirsi in sistema; le bugie di una parte degli sconfitti degli anni settanta, le bugie di una parte dei protagonisti di quel movimento e sconfitti e protagonisti, in questo particolare caso, spesso coincidono ma non sempre e dunque non necessariamente. Non c'è stata perfetta identificazione tra i protagonisti del movimento intorno al suo senso e significato storico.
Gli unici a dire qualche verità su quegli anni e soprattutto su quell'anno sono stati coloro che hanno smesso fin da subito di parlarne, quelli che, usando una terminologia desueta, potrebbero essere definiti la 'base' di massa del fenomeno e che per la neonata La Repubblica e buona parte della pubblicistica di allora erano etichettati come 'area' del movimento o come 'il movimento', in modo generico e astratto. Questo numeroso gruppo di protagonisti si sono certamente sentiti, almeno in certi momenti e secondo alcune argomentazioni, 'sconfitti', ma generalmente hanno rifiutato le categorie di sconfitta e di vittoria, esattamente come 'il movimento' non sapeva che farsene di tattica e strategia. Questo settore, assolutamente maggioritario, si è limitato a dire (a dire, si badi bene, non a constatare con rassegnazione) “è successo” e “abbiamo fatto”, ma “ora non può succedere” e “ora non lo possiamo fare di nuovo”. In moltissimi di costoro è calato il silenzio.
Una parte più contenuta numericamente, assolutamente minoritaria in relazione alle potenzialità quantitative del movimento di quegli anni, invece, prescindendo, completamente o in parte, da questo evidente frammento di verità, hanno cercato di spiegare 'il movimento' e anche loro stessi nel movimento, usando i metri della rinnovata tradizione comunista, metri elaborati durante l'espressione stessa dei movimenti che a vederli oggi odorano di aggiustamenti (mentre sinceramente allora puzzavano), evidenze adatte a rincorrere in qualche maniera quell'insorgenza.
Costoro, spesso, e ancora usando una terminologia desueta e per il loro caso assolutamente inadeguata, possono essere definiti e, spesso, sono stati definiti seriamente dalla stampa come 'avanguardie' di quel movimento che, in verità, non conosceva né avanguardia né retroguardia e neppure le parole corrispondenti a quei concetti.
Sono autocritico: facevo naturalmente parte di questi.

Venerdì, 25 settembre

Annotazione. Il termine 'agitatore' e 'organizzatore', recuperato dalla migliore tradizione sindacale, andrebbe recuperato per sostituire quello di 'avanguardia'. Nei fatti, nel concreto agire, fu sostituito il termine 'avanguardia', anche se non ci fu niente di formale e di stabilito ufficialmente.
Quel movimento non ebbe né avanguardia né retroguardia ma solo un'incredibile schiera di 'agitatori e organizzatori'.
Torniamo, però, alle verità parziali, a una specie di assenza di verità (un movimento senza verità) che lo contraddistinse e alla piccole bugie con le quali si è cercato di interpretarlo nella sinistra che valga la pena di essere considerata tale.
Personalmente scelsi una di quelle e le sono rimasto fedele per lunghissimi anni, anche se, confrontata con la mia percezione immediata che proveniva dalla diretta partecipazione al movimento, la trovai subito riduttiva; ma era comoda e tranquillizzante. È una piccola bugia, intelligente credo, che ho anche ritrovato in Paolo Virno, in suo contributo ad Arte e Moltitudine di Negri (credo nuovamente).
La bugia era una tesi e la tesi era semplice.
In quegli anni e segnatamente tra '73 e '77, si manifestò, in embrione, una nuova composizione di classe, il cosiddetto 'operaio sociale', che sarebbe stata egemonica nella nuova costituzione di capitale. Fu proprio l'immaturità, la gioventù di questo soggetto a determinare la sua esplosiva manifestazione sociale e politica: quella nuova composizione era appena prefigurata, abbozzata, e intravedeva appena i nuovi scenari del lavoro e dello sfruttamento sulla scorta, però,  dell'esperienza e percezione della composizione di classe precedente, l'operaio – massa. La combinazione tra la percezione e la soggettività dell'operaio di fabbrica dequalificato e l'esperienza di questo nuovo soggetto si tradusse in un'ulteriore e radicale assunzione dei comportamenti politici dell'operaio – massa da parte del nuovo soggetto. Questo aveva portato a un cortocircuito tra linguaggi, ideologie e stili di vita in via di sparizione e sotto attacco per via della ristrutturazione industriale, quindi costretti sulla difensiva (l'operaio di fabbrica, le sue culture e le sue forme di lotta) e reti, gruppi emergenti che ereditavano questa complessità conflittuale solo nella misura in cui e perché potesse essere tradotta in un'ipotesi e dimensione offensiva. Si prefigurava, quindi, un nuovo scontro di classe usando, radicalizzandoli, gli strumenti di quello vecchio.
Con questo si potevano spiegare molte cose e non ultima il relativo successo propagandistico delle organizzazioni combattenti, che rappresentavano, in maniera mistificata, l'ipostasi dell'offensiva dell'operaio – massa. Il problema, per molti, fu quello di trasferire, in qualche modo, l'antagonismo espresso dall'operaio della fabbrica all'operaio escluso dalla fabbrica o che rifiutava la fabbrica.
La seconda bugia, meno intelligente, nell'interpretazione di quegli anni, fu confezionata, infatti, intorno a un problema che per il movimento non esisteva e che non si era volontariamente e coscientemente posto, il problema organizzativo. Essendo impossibile individuare avanguardie e individuarsi come avanguardie, si ritenne che il momento organizzativo espresso dal movimento dovesse essere eminentemente ed esclusivamente politico, seppur speso in forme magmatiche e quasi inconsce. Si sarebbe dovuto verificare, alla fine e detto con cinismo, un secondo pasto sul corpo del movimento, come si diceva a proposito del cadavere del 68, ma questo non fu possibile per moltissimi motivi contingenti e congiunturali e soprattutto perché il 77 non fu un nuovo 68 e gli anni settanta sono stati diversi, almeno in Italia, dagli anni sessanta e infine perché la stretta repressiva, incuneandosi in questa chiara debolezza politica, colpì mortalmente le forme organizzate, che facevano riferimento a questa analisi.
In effetti nulla di più lontano dagli anni settanta era l'idea di una nuova lotta sindacale svolta sul terreno economico (cosa che consentiva di pensare alla costruzione di una direzione esclusivamente politica del movimento), ma ancora più lontana era l'idea di una sostanziale autonomia del politico svolta con sensibilità e strategie rivoluzionarie, in una riproposizione del leninismo. In questa seconda ipotesi, in questa seconda bugia, quindi, si scambiò l'assenza o l'indifferenza verso rivendicazioni di carattere strettamente sindacale con la volontà di far emergere una direzione politica.
La stretta repressiva, per qualche anno, veramente anni troppo lunghi, venne considerata come la causa principale del fallimento del movimento degli anni settanta, recuperando una visione quasi bordighista dello scontro sociale, mentre, al contrario, la restaurazione, in ogni epoca e in ogni luogo e non solo alla fine degli anni settanta in Italia, è un fenomeno un tantinello più complesso, non reprime per restaurare, ma rinnova per restaurare e per reprimere.
Il movimento italiano 73 – 77 in Italia non fu né un cortocircuito tra composizioni di classe e nemmeno un orfano involontario della direzione politica comunista che non poté costituirsi, o meglio non solo questo.

Domenica, 27 settembre

Annotazione.  Se c'è del vero nell'analisi che ho ritrovato in Paolo Virno, perché fa i conti con il movimento, ce n'è ben poco nella seconda, perché non vede il movimento.
Che gli anni centrali di quel decennio abbiano rappresentato la manifestazione esplosiva di un nuovo soggetto e che questa manifestazione abbia avuto tutte le caratteristiche comportate dalla sua 'immaturità' è un'interessante tesi storica e sociologica, ma lì rimane, nella storia e nella sociologia. Al punto iniziale, l'immaturità, non mi pare sia seguita la parabola che ci sarebbe dovuta attendere, se l'assunto della tesi era corretto, almeno in Italia. Insomma per l'Italia questa tesi non è valida, anche se interessante e utilizzabile, per certi versi: il nuovo soggetto, sottoposto alle classiche regole di sviluppo dell'antagonismo e apparentemente rispettandole e confermandole ai suoi esordi nella storia, non ha più seguito queste regole.
Fenomeni coevi e precedenti (soprattutto nel mondo giovanile) potrebbero aiutare per comprendere questo deragliamento dalle regole. Il movimento punk, la swinging London e anche quel multiforme movimento di stili di vita e di forme politiche etichettato in freack nel mondo americano; tutte quelle cose che si usava dire, un tempo, controculturali o alternative. Le due definizioni sono inadeguate: si tratta solo di culture. In queste culture, infatti, nel loro concreto e quotidiano costituirsi, nelle relazioni tra gli individui che le fabbricano, non ha prevalso affatto l'elemento alternativo, l'elemento ideologico, ma l'elemento concreto: quello che permetteva di affrontare il presente in maniera non solitaria, comunitaria ma non organizzata. Questi movimenti o fenomeni sociali non hanno preteso di costituire un'identità (l'anarchico, il comunista, il ribelle) ma una comunità basata sulla diversità dei suoi componenti.
Cosa può c'entrare quello che era detto l'operaio sociale con questa comunità basata sulla diversità? Molto.
L'ambiente di lavoro, la relazione con il lavoro e con il mercato perdeva, per l'operaio sociale, l'omogeneità caratteristica per l'operaio di fabbrica.
Nel periodo 73 – 77, in Italia, insieme con tutte le forme politiche tipiche della generazione operaia (ma ormai sarebbe meglio dire proletaria) precedente, e quindi un'apparente omogeneità di segni e linguaggi politici, venne fuori, per la prima volta, la disomogeneità dei movimenti giovanili intesa come valore antagonista.
Tutte le esperienze giovanili di massa, nel pensiero comunista tradizionale e non, erano state considerate (quando venivano prese in considerazione) espressione generica del disagio sociale, prodotto dell'inadeguatezza del sistema e sempre segni, sintomi (alla fine patologie) dell'ingiustizia sociale e del deserto esistenziale che il capitalismo provoca. Al pari della malavita, dell'alcolismo, delle tossicodipendenze e finanche delle 'trasgressioni sessuali', i movimenti giovanili non potevano essere la risposta al capitalismo ma solo gli effetti secondari della critica spontanea al capitalismo.
L'operaio sociale, al contrario che in tutte le teorie dello scontro di classe precedenti, pretese di rimanere nella categoria dell'effetto secondario, non ambiva a essere la risposta e a ricostituire una composizione di classe: l'operaio sociale usciva dalla dialettica.
Come tale, in molte sue componenti, (e bisogna inevitabilmente rientrare in questo argomento perché è la logica stessa del ragionamento che lo impone) riprese il linguaggio dell'operaio – massa e lo estremizzò per manipolarlo e riforgiarlo al punto di renderlo capace di rappresentare quella separazione che, invece, era del tutto estranea alla sua ideologia e alla sua soggettività. Questa manipolazione estremistica in funzione della separazione, divenne separazione secondo le vecchie grammatiche del comunismo che poteva anche (in particolari casi umani) condurre alla lotta armata e alla pratica costante della violenza e della forza di piazza, oppure, su tutt'altro versante, giungere a un resuscitato e reimportato dal mondo anglosassone universo delle 'controculture' e della 'creatività alternativa'. Questo è accaduto soprattutto tra 76 e 77 in maniera strisciante e  tra 78 e 80 in forma conclamata. Questa era l'unica omogeneità percorribile e la si poteva percorrere solo come omogeneità politica e ideologica, riprendendo in mano, stravolgendole, la soggettività dell'operaio di fabbrica e la tradizione della sinistra comunista.
Tolte queste componenti, importanti, che non riuscirono mai a essere maggioranza e a segnare autenticamente lo sviluppo del movimento, nel 77 l'omogeneità e l'identità di classe tradizionali al mondo comunista furono, in tutta semplicità, ignorate; il 73 – 77 sono l'elogio della complessità e della differenza.
Contrariamente a ogni previsione e contro ogni forza testimoniale posteriore, l'operaio sociale italiano ha rispettato l'assunto originario della sua prima manifestazione storica: si è sciolto nella società, scomparendo politicamente.

Lunedì, 28 settembre

Annotazione. Di qui in poi non posso che ragionare per sommi capi e scrivere analogamente. La mia militanza, ormai poco convinta, terminò nel 1985 e il mio interesse verso gli eventi della politica scemò, fino che arrivai al punto, dopo il '95, di praticare una specie di blocco informativo, un autentico e radicale rifiuto della politica.
Gli anni ottanta furono un incubo, i novanta un enigma e dopo l'ignoto insondabile. Sono stato un piede che continua a camminare su un callo: la memoria mi impediva di camminare diritto ma mi faceva sentire il cammino.
Per me, la fine definitiva della politica ha coinciso con una riforma istituzionale, che considerai e considero tutt'ora il suggello della restaurazione avviata alla fine degli anni settanta: l'abbandono del sistema elettorale proporzionale, sia per quello che è stato, sia per come è stato ottenuto.
Il sistema proporzionale garantiva la possibilità di una rappresentanza molto allargata, (spesso caotica ma cosa importa quando è in tema la democrazia?) l'accesso, magari in maniera falsificata, di soggetti diversi alla rappresentanza parlamentare; il maggioritario era la negazione della polivocità, ormai lo ammetto residua, della politica italiana. Se i cosiddetti 'inciuci', gli accordi elettorali, di potere e di clientela, con il proporzionale venivano dopo le elezioni ed erano necessariamente frammentati e deboli, descrivendo abbastanza fedelmente le intenzioni (lo ribadisco, falsificate) dell'elettorato, e davano vita a un'instabilità politica veritiera, con il sistema maggioritario gli 'inciuci' erano definiti prima, nelle segreterie dei partiti e nelle amministrazioni locali, erano centralizzati, apertamente posti al di sopra del corpo elettorale, che sceglieva solo dopo la costituzione del cartello e non entrava nella sua formazione.
In secondo luogo, mi scandalizzò il plebiscito con il quale era stato ottenuto quel risultato: non ci furono, sostanzialmente, oppositori all'eliminazione della proporzionale: l'elettorato ratificò una decisione già presa nelle principali segreterie dei partiti e nelle direzioni delle organizzazioni imprenditoriali e, probabilmente, in gruppi di potere economico internazionale. La fine del proporzionale fu coerente, in maniera cinica e maligna, con sé stessa.
Qua e là, in quei lunghi decenni, sprazzi di luce, come la marcia dei migranti nel luglio 2001 a Genova, in occasione della contestazione del G8, oppure un altro referendum, a fine anni ottanta, sul nucleare, dove l'accordo delle segreterie e delle organizzazioni imprenditoriali venne ampiamente disatteso; eventi, però, subito rinnegati da una miriade di episodi uguali e contrari.
Quando mi metto a scrivere di quegli anni, dall'ottanta al 2010, trenta lunghissimi anni, è come se tirassi fuori i fatti da un ricordo inconscio, da una sequenza senza logica apparente, che non sia quella onirica.
L'instaurazione della sedicente seconda repubblica (che si è detta così, da sola) e la coeva e imprescindibile per quella legge elettorale furono il segno profondo della irrimediabile stabilità raggiunta dalla restaurazione, stabilità preannunciata dai risultati di un altro referendum, quello sulla scala mobile del 1984. La restaurazione italiana ha assunto, così, un consenso di massa e un aspetto bonapartista, con il buonsenso dell'uomo forte, anticipato secondo gli stilemi della 'prima repubblica' da Bettino Craxi, con il populismo e la demagogia, propri della 'seconda repubblica', di Berlusconi e con la recente fioritura massmediatica di Matteo Renzi.
La spinta propulsiva del '77, spinta mitologica e nei fatti inesistente, se misurata con i metri della politica moderna, con i concetti di rappresentanza e organizzazione della rappresentanza, si incrinava anche nell'immaginario e gli anni settanta si allontanavano sotto ogni punto di vista.
L'allargamento della democrazia si era trasformata nell'elezione diretta del capo dell'esecutivo, spacciando la fortissima e arrogante limitazione della democrazia rappresentativa per un balzo in avanti verso la democrazia diretta. La lotta sindacale, dopo l'accordo governo – sindacati sul costo del lavoro (anche questo, come la riforma elettorale, non a caso quasi coevo alla genesi della 'seconda repubblica') si era ridotta ad alcuni settori dell'impiego pubblico e ad ancora più ristretti settori del lavoro privato, conformando ideologicamente e nell'immaginario, una comoda casta da contrapporre al resto dei lavoratori, precari, indipendenti, autonomi e via discorrendo. La lotta di classe, se ricercata secondo le fenomenologie precedenti, era scomparsa.
Insomma era il solito piagnisteo del reduce, vero, ma del tutto inutile, tanto inutile quanto era inesistente la spinta propulsiva del millenovecentosettantasette.

Martedì, 29 settembre

Annotazione. L'analisi della situazione italiana di fine anni settanta e ancora di più degli ottanta, sotto un profilo marxista, avrebbe certamente richiesto la formazione di un'organizzazione politica, di una sorta di direzione politica delle forze residue e testimoniali degli anni settanta, alla fine, per la durezza dei tempi, un'organizzazione di stampo leninista, anche se non dichiaratamente leninista.
Quelle stesse forze residuali e testimoniali, aggiunte a poche altre nuove, andavano, però, verso altre direzioni; la principale tra queste fu l'esperienza dei centri sociali che tutto erano fuori che la proposizione di una direzione politica.
Nella misura in cui le teorie classiche del marxismo richiedevano, per certi versi esigevano, una stretta organizzativa a fronte di una composizione di classe ancora inespressa o che si esprimeva secondo forme non previste e decifrabili, il marxismo diveniva ogni giorno più inadeguato.


rivedi settembre

Inizio anno


Sabato, 3 ottobre

Annotazione. Il mito del '77, in me, è definitivamente tramontato nel 2008, di fronte alla grande recessione. La crisi, esclusivamente finanziaria, nella fenomenologia, del 2008 e, soprattutto, il suo prolungamento indefinibile (più che indefinito), ha introdotto una nuova fase nell'epoca della post modernità e, anche se non ho gli strumenti necessari per avvalorare questa tesi, la parabola dell'operaio sociale, o meglio di quel soggetto che per comodità continuo a definire così, è finita insieme con quella; se mai c'è stata (e non c'è stata) è terminata la spinta propulsiva del '77 e la sua mitologia.
Si potrà scrivere: “Il '77 è morto, viva il '77”.
Quale percezione dell'operaio sociale in Italia? Sotto i metodi analitici tradizionali nessuna. L'operaio sociale non si è fatto indagare, non si è lasciato interpretare e ha fornito pochissime informazioni di sé. Sotto questo aspetto assomiglia alla costituzione di capitale che lo ha 'affrontato'; il capitalismo post fordista è trasparente, non ha volto, non in quanto sia volontariamente restio a rendersi visibile e a manifestarsi, non perché cerchi di occultare i suoi centri e le sue forme di potere, ma perché non li ha. Non li ha nelle forme tradizionali e conosciute.
Il capitalismo post fordista, ma io amo moltissimo il termine affermativo di biocapitalismo, non è un nuovo capitalismo finanziario, anche se, preso attraverso un'analisi classica, potrebbe sembrarlo; non è il nuovo capitalismo produttivo, anche se la produttività investe ogni aspetto della vita sociale. Mi piace scrivere di biocapitalismo anziché di post moderno, post fordista o anche di società imperiale, proprio perché la produzione si è sciolta, in tutti suoi aspetti, nella società, diventando, appunto, una componente biologica dell'essere in società, o meglio essere in società è produrre, ed è impossibile non produrre e questo avviene con la stessa ineluttabilità di una legge di natura (biologica). Post moderno, post fordista e impero colgono solo alcuni aspetti di un assetto più generale.
Nel biocapitalismo, il capitalismo finanziario si presenta come facciata del sistema, come modo di essere della naturalità, come estetica della naturalità economica, e anche se è una presentazione la facciata finanziaria è veritiera in quanto la concentrazione e centralizzazione della progettualità produttiva non è più il cuore dello sviluppo ma lo è la sua diffusione. Il comando d'impresa non si progetta nell'impresa ma in una realtà collettiva e sociale che la traborda e che la investe; l'aspetto finanziario registra e organizza concretamente questa nuova forma di comando capitalistico.
Questo aspetto della costituzione di capitale, come realtà produttiva diffusa ma concentrata finanziariamente (che ciò avvenga in maniere multinazionali o no è del tutto indifferente) istituisce un vero dominio politico senza l'ausilio della politica, un vero dominio di classe espresso in forme pure, cioè completamente astratte, impersonali, neutre. È questa la novità della seconda fase del capitalismo post fordista che ha esplicitato i contenuti della prima.
L'operaio sociale ha dovuto affrontare questo sistema; ha cooperato in questa economia diffusa e progressivamente deprivata di momenti di  comando visibile e individuabile, per il quale la stessa idea di azienda è in crisi e pare inadatta a rappresentare una realtà concreta e autentica sotto il profilo produttivo, per diventare una realtà 'affettiva' e un luogo operativo dove si opera una 'riterritorializzazione' del lavoro, un recinto produttivo e relazionale e non una vera e indipendente realtà economica.
L'operaio sociale, per forza di cose, non ha una relazione stabile con l'azienda, perché l'azienda non ha più una identità economica e quindi una relazione stabile con sé medesima; stabile per l'operaio sociale è divenuta la relazione con la produzione e il mercato, mediata (dall'azienda) o immediata e il lavoro è entrato direttamente sul mercato, anche il lavoro formalmente subordinato e dipendente direttamente dalle aziende.
Si è tornati al prefordismo, si è tornati a situazioni prekeynesiane, ma con enormi diversità di scenari, tecnologie, stili di vita e retroterra culturali. L'operaio sociale è stato protagonista e oggetto di questa schizofrenia della storia e della società.

Martedì, 6 ottobre

Annotazione. Che fine ha fatto l'operaio sociale? Domandarsi di un'eventuale spinta propulsiva del '77, applicando le categorie storiche del marxismo rinnovato negli anni sessanta e settanta, è chiedersi necessariamente di questo, almeno secondo la mia primitiva (sotto ogni punto di vista) analisi. Se ne è fatto un gran parlare, tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta, in certi ambienti intellettuali, poi, che io sappia, l'operaio sociale è scomparso dall'analisi.
Il paradigma introdotto da Negri e Hardt, agli inizi di questo secolo, la 'moltitudine', è tutt'altra cosa dall'operaio sociale. Non descrive una composizione di classe, non individua un soggetto sociale, ma è un concetto 'geo – sociale', un nuovo modo di intendere l'ambito nazionale e l'identità nazionale; un'idea epocale, insomma, che riassume la fine dello stato nazionale e del corrispettivo concetto di popolo.
È chiaro che esiste una relazione tra la teoria dell'operaio sociale e quella della moltitudine, ma l'ambito d'azione della prima era molto più circoscritto, limitato e specifico: l'operaio sociale era una determinata composizione di classe, mentre la moltitudine presuppone, invece, una relazione con la geografia, la geopolitica e le frontiere; in una parola moltitudine disegna una nuova umanità della quale l'operaio sociale potrebbe essere solo un frammento, anche importante, piazzato in una particolare fase storica. La teoria dell'operaio sociale, così, è rimasta come un complesso di cavi scoperti, abbandonati, dentro un'asfaltatura che a tratti li nasconde e nessuno sa esattamente a cosa servono.
A mio pare servono ancora perché da troppo tempo (che io sappia) si è smesso di scrivere di composizione di classe. Negri e Hardt hanno affrontato il problema con la necessaria, rispetto all'economia della loro opera, frammentarietà e indifferenza; gran parte dell'opera di Sergio Bologna, invece, offre un approccio molto specifico ai temi del lavoro post fordista che introduce il problema, con concretezza, ma non lo affronta.
Questi atteggiamenti sono interessanti ed eloquenti e sono già, forse senza volerlo, un logos intorno all'operaio sociale.

Giovedì, 8 ottobre

Annotazione. Ho, molto frettolosamente, fatto qualche ricerca, esclusivamente in rete, sull'operaio sociale e mi sono trovato davanti un fossile informativo. Non dico che tutto sia rimasto fermo all'intervista di Antonio Negri del 1978, 'Dall'operaio massa all'operaio sociale', ma davvero poco oltre. Quelli che poi hanno cercato ancora, pochissimi in verità (a meno che la fretta non abbia influenzato i risultati della mia ricerca), di occuparsi della questione fanno riferimento a Moltitudine e Impero, a Paolo Virno della 'Grammatica della moltitudine', a Vercellone (che mi propongo di leggere) e poche altre opere.
La portata, però, del concetto di operaio sociale è completamente diversa da quello di Moltitudine e la tendenza a identificarli, anche se ovvia, è sbagliata nella misura in cui è superficiale. La relazione o meglio l'affinità tra la teoria dell'operaio sociale e il paradigma della moltitudine sono profonde, invece, ma proposte nella maniera in cui l'ho letta e interpretata sono superficiali, sciocche e, per fortuna e ad onore della linearità, neanche affermate direttamente.
Personalmente sento questa relazione e affinità profonde dal punto di vista conoscitivo, nel senso che è impossibile intendere e considerare veramente la moltitudine senza essere passati attraverso l'operaio sociale e la sua interpretazione. Se la teoria dell'operaio sociale non fosse valida, e magari si fosse trattato di un piacevole, intelligente ma vano sproloquio, allora anche la teoria della moltitudine non lo sarebbe. Non si tratta, comunque, solo di una faccenda conoscitiva, di una correttezza logica: se lo scenario, che la genesi dell'operaio sociale avrebbe determinato, ha altre origini, struttura e natura, questo ha innegabili conseguenze sull'analisi politica e sullo stesso modo di concepire e interpretare la nostra vita quotidiana.
Probabilmente, infatti, ha seriamente scritto dell'operaio sociale chi ha descritto la vita quotidiana e le sue metamorfosi in epoca post fordista; Sergio Bologna è tra questi: quando descrive il nuovo lavoro autonomo in Italia, il lavoro 'indipendente', sta, probabilmente, scrivendo dell'operaio sociale italiano e Bologna fa questo in una forma d'inchiesta che è perfettamente commisurata con le caratteristiche di questo, lo ribadisco ipotetico, soggetto. L'operaio sociale si fa conoscere dal di dentro, non dal di fuori e la sua inchiesta è un'inchiesta interna.

Venerdì, 16 ottobre


Annotazione. Sotto l'aspetto della fenomenologia politica, tolta la evidente e chiassosa irruzione tra '73 e '77, in Italia l'operaio sociale non è esistito; dopo aver 'compresso' su di sé le forme del precedente antagonismo operaio e le nuove contraddizioni del lavoro e della vita fuori dalla fabbrica, l'operaio sociale è scomparso. Ha lanciato schegge e frammenti e l'esperienza dei centri sociali è certamente da mettersi in relazione con questi elementi politicamente residuali, ma non ha lasciato una traccia continuativa, un'abitudine politica e una prassi.
Molto spesso l'ideologia residua dell'operaio sociale ha fatto riferimento, per tutti gli anni ottanta, a una versione 'decompressa' dell'operaismo tradizionale e non a un nuovo operaismo che non si costituiva, come a dire: dopo l'operaio – massa il nulla. La critica al lavoro di fabbrica è rimasta riferimento della critica generale alla società, mentre il lavoro salariato ha continuato a essere identificato con il lavoro dipendente. Quest'asse categorico non è stato toccato, anche se è stato vissuto come ormai inadeguato, non è stato sostituito con un nuovo asse cartesiano, probabilmente perché non era possibile farlo. La 'decompressione' ha comportato il più che giustificato rifiuto della retorica sul lavoro, ma anche quella relativa al rifiuto del lavoro, sulla difesa del posto di lavoro e sulla disoccupazione, evitando di scambiare il declino dell'occupazione nella fabbrica con il declino dell'occupazione in generale; il nuovo mercato del lavoro, però, era paradossalmente accettato secondo il metro di quello vecchio e quindi se non si usava il termine disoccupazione, si finiva per descrivere una situazione lavorativa flessibile con gli schemi validi per una situazione rigida. Il '77, alla fine, aveva fatto proprio questo ed è come se tutti siano rimasti figli di quel movimento, ma nella sua inattualità piuttosto che nella sua attualità.

Martedì, 20 ottobre

Annotazione. E veniamo, se sono capace di questa guida, all'attualità. Lo ripeto ho davvero trrovato poco sull'operaio sociale, né inteso secondo la definizione originaria, adottata dal pensiero rinnovato del marxismo italiano degli anni settanta, né inteso e interpretato secondo le nuove lenti e il nuovo scenario che si può riferire al concetto di Moltitudine. L'operaio sociale è scomparso e non ne è rimasto neppure il fantasma che si aggiri in Europa come nel famoso passo del Manifesto. Dunque, la ricerca, ostacolata dalla mia povertà documentale e dalla mia soggettività, sarà ancora più difficile, ma come per l'esistenza di Dio secondo la scolastica medioevale, sono convinto della sua esistenza.
Se non fosse esistito l'operaio sociale, io dico, non sarebbe esistito neppure il capitalismo post moderno, il biocapitalismo sarebbe un'illusione, una rappresentazione, spesso, non a caso, il nuovo capitalismo ama rappresentarsi proprio così: come una non essenza, un gioco, una virtualità e quasi come il campo di produzione di un divertimento tutto vale quanto il suo contrario.

Mercoledì, 21 ottobre

Annotazione. Il sistema sociale dell'attualità è un sistema che ha reso pane quotidiano la guerra e la crisi economica; il suo modo di essere, di presentarsi, di organizzarsi e alla fine di rappresentarsi è quello della crisi e della guerra, costanti e continue: non c'è pace e non c'è sicurezza.
Una serietà così disarmante, una gravità vera e propria, una forza fisica che spinge continuamente verso il basso e in una sola direzione, danza, però, sull'orlo del gioco.
E tutto questo cosa ci entra con l'operaio sociale? Con il nostro Dio che per il fatto stesso di essere pensato, o essere stato pensato, esiste o è esistito, e per il fatto stesso che esiste nel pensiero, esiste?
C'entra, eccome se c'entra.
L'operaio sociale è stato  ideologia di guerra ed economia del trapasso dall'abbondanza alla penuria,  è stato il protagonista di queste due situazioni e cioè colui che, con il tempo di lavoro e con il tempo di vita, ha reso possibili uno stato di guerra endemico, guerra esterna e intestina, guerra senza confini definiti, guerra senza il nome della guerra, e un passaggio da una domanda forte e da redditi alti a una domanda depressa e a redditi bassi. Ha nascosto questa novità, rendendola sostenibile, e ha contribuito a realizzarla senza che la dimensione bellica e pauperistica divenisse egemone. Questo è stato il suo miracolo: ha per certo versi preservato il mondo dal suo cambiamento.

Giovedì, 22 ottobre

Annotazione. È una grande fortuna non avere gli strumenti necessari per scrivere dell'operaio sociale in maniera scientificamente determinata. Credo che non serva un profilo intellettuale per descrivere questa composizione di classe, anzi sono convinto del fatto che sarebbe dannoso.
È, al contrario, una descrizione interna quella che dovrebbe dominare la scena, che dovrebbe venir fuori da quella 'intellettualità di massa', che ha contrassegnato il primo manifestarsi di questo soggetto. Una descrizione interna è, in primo luogo, una non descrizione e contemporaneamente un'azione operativa, una registrazione che propone una trasformazione dei contenuti della registrazione.
Bisognerebbe rileggere il principio di indeterminazione di Heisenberg per definire meglio questa parte del processo conoscitivo.
La prima caratteristica manifesta, che balzò proprio agli occhi fin dagli anni '70 per poi conservarsi anche dopo, fu quella di essere un fenomeno intellettuale di massa e non un movimento politico di massa. L'operaio sociale, cioè, dava vita soprattutto a situazioni intellettuali, culturali, comunicative che non si traducevano immediatamente in un'ipotesi politica linearmente legata a quelle situazioni.
L'intellettualità dell'operaio sociale non dipendeva direttamente dal livello di scolarità, non è stato un concetto circoscrivibile alla sociologia, ma veniva fuori dalla maniera nella quale la scolarità di massa ottenuta da un paio di generazioni pervadeva l'intera società, in generale, e gli strati proletari, in particolare. L'operaio sociale istituiva reti e linguaggi culturali, funzionali alla sua riproduzione intellettuale e funzionanti indipendentemente dal dato iniziale stabilito dal tasso di scolarità. Queste reti e linguaggi funzionavano rigorosamente meglio al di fuori del contesto scolastico ed educativo ufficiale, anzi funzionavano autenticamente solo fuori da quello.
In secondo luogo, l'operaio sociale non tendeva a costituirsi, seguendo la tradizionale fenomenologia marxiana, in 'classe operaia' e quindi in composizione di classe; parimenti, però, continuando a contraddire la prospettiva marxiana, pur non costituendosi in classe, non si abbandonava al ruolo, altrettanto tradizionale, di 'forza lavoro', di massa produttiva passiva. L'operaio sociale non è stato né l'una né l'altra cosa; di qui la difficoltà gnoseologica che impone, di qui l'esigenza del presupposto quasi scolastico sulla sua esistenza.
Il terzo carattere, anch'esso non immediatamente manifesto ma facilmente esperibile, fu il rifiuto del lavoro manuale, che era percepito come un'attività residuale, anacronistica e quasi archeologica, la cui necessità era valutata  una trappola distesa dentro il mercato del lavoro. Per l'operaio sociale, la componente decisiva del lavoro era quella intellettuale e comunicativa e quelli dovevano essere i nuovi orizzonti del lavoro sociale; chi affermava il contrario mentiva.
Questi sono stati i tre modi di essere dell'operaio sociale italiano negli anni '70, dai quali discendono molti altri modi, sviluppatisi nei decenni posteriori.

Venerdì, 23 ottobre

Annotazione. I tre modi di essere principali dell'operaio sociale, in estrema sintesi, sono stati: nuova intellettualità, rifiuto volontario e/o impossibilità di costituirsi in classe e rifiuto del lavoro manuale. Questi tre modi possono essere detti anche diversamente come critica al ruolo dell'intellettuale, critica alla politica e critica al lavoro salariato. Queste tre critiche, apparentemente esplosive e antagoniste, però, non hanno sortito alcuna esplosione e da quelle sono discesi altri caratteri, modi di essere, quasi impercettibili, sotto l'aspetto culturale, politico ed economico.
Questi caratteri, quasi nascosti, privi di bandiere e barricate, si sono però mantenuti nell'involucro originale delle tre critiche.

Giovedì, 29 ottobre

Annotazione. La composizione di classe è un fatto oggettivo e soggettivo: oggettivo quando il soggetto guarda al suo modo di essere forza – lavoro, soggettivo quando guarda alla sua costituzione in classe operaia. Questa la veduta, che ancora condivido, del marxismo rinnovato italiano e non degli anni sessanta e settanta. Nel primo caso la composizione di classe si identifica e ricompone in quanto  sottoposta al ciclo produttivo, nella misura in cui partecipa a un determinato modo di produzione, nel secondo caso, invece, si ricompone perché si riconosce protagonista del ciclo e individua la possibilità di intervenire e riorganizzare il modo di produzione. Da un punto di vista economicista, quando la composizione di classe ragione in termini oggettivi ha in mente il salario e la produttività, nel secondo caso reddito e stili di vita.
Questa dicotomia, nel caso dell'operaio sociale, è scomparsa e non sbagliando del tutto i teorici degli anni '70 avevano individuato la possibilità che il piano della soggettività fosse strutturante nell'operaio sociale, traducendo questa caratteristica, dal punto di vista della dialettica marxista classica, nella potenzialità di un'immediata acquisizione di elementi comunistici, in un'attualità e urgenza del comunismo e in un sacrosanto rinnegamento della necessità della transizione socialistica e dello stato 'proletario'.

Venerdì, 30 ottobre

Annotazione. In questa maniera, alla novità furono fatti indossare gli abiti della rivoluzione leninista, con molto sforzo e molti rattoppi e aggiustamenti. Dopo di allora le teorie che solo indirettamente (poiché si smise di scriverne apertamente) facevano riferimento alla nuova situazione sociale, determinatasi dopo la fine degli anni settanta, nel soggetto 'nascosto' sottolineavano il ruolo di forza – lavoro, terribilmente esposta ai ricatti del nuovo mercato del lavoro contraddistinto dalla flessibilità  e dalla mobilità. C'era, negli anni ottanta, un diffuso modo di sentire, soprattutto in alcune riviste (Wobblie, Metroperaio, ma anche, in area istituzionale e patinata, Alfabeta), secondo il quale la fine della centralità della fabbrica aveva prodotto un proletario – zombie, un orfano del lavoro. Nostalgici della fabbrica e del rifiuto del lavoro che la fabbrica permetteva, questi soggetti erano schizofrenia fatta a persona, o meglio un soggetto sociale schizofrenico e irrimediabilmente scomposto. La retorica sul precariato, sul diffondersi di contratti a tempo determinato e sul frazionamento temporale generalizzato del lavoro dipendente, governò lo scenario: il lavoro stabile, salariato e  a vita rimaneva il paradigma di rifermento per descrivere la contemporaneità e criticarla. Erano, comunque,  tanti modi (più o meno eleganti, più o meno intelligenti) di scrivere di operaio sociale senza citarlo e senza prenderlo in carico analitico; si faceva questo a ragione veduta, poiché si aveva, probabilmente, l'inconsapevole consapevolezza di non essere in grado di rappresentarlo se non in modo generico, approssimativo e limitato. Di quel processo sociale era ben descritto il distacco dalla fabbrica che imponeva, dai suoi luoghi, dalle sue abitudini, dai suoi effetti collaterali, ma vigeva un sostanziale silenzio sulla direzione che quel distacco indicava. Solo Metropoli, tra tutte le pubblicazioni che frequentavo, dirigeva lo sguardo verso il 'dove', cercando di ignorare quell'ingombrante 'da'.

rivedi ottobre

Inizio anno


Mercoledì, 4 novembre

Annotazione. Questo soggetto irrappresentabile e ai limiti dell'esistenza stessa, come è stato rappresentato ed è esistito? Negli anni ottanta la contrattualistica italiana ha scoperto forme di relazione di lavoro, quasi tutte orientate verso il mondo giovanile, a tempo determinato; questo tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. L'oggetto di questa nuova disposizione contrattuale era, al contrario che nel passato quando si svolgeva verso lavori di bassa qualifica e manuali, il lavoro intellettuale. Assunzioni a tempo nella scuola (paradigmatiche le supplenze annuali), gruppi di lavoro a tempo e progetti circoscritti nel privato hanno dominato la scena di fine settanta e di tutti gli anni ottanta. Le assunzioni a tempo (spesso i Contratti di Formazione Lavoro) sono state usate anche nel settore creditizio, assicurativo e manifatturiero come strumento per istituire un salario di ingresso e un periodo effettivo di prova e tirocinio. Il mercato del lavoro dipendente, pur conservando le sue caratteristiche di fondo, si segmentava e frantumava. Il costo del lavoro rimaneva alto nei settori a tempo indeterminato si abbassava in tutti gli altri.

Giovedì, 5 novembre

Annotazione. Il costo del lavoro si abbassava non solo in ragione del fatto che l'inquadramento formativo era solitamente eseguito a un livello contrattuale più basso di quello corrispondente e previsto per il tempo indeterminato, ma soprattutto perché, spesso, prevedeva interruzioni e reintegri, sospensioni e nuove assunzioni, quindi continue soluzioni di continuità e gli enti pubblici  che rendevano la relazione più leggera economicamente. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, in Italia, sono stati il pubblico impiego e gli enti pubblici a funzionare da pilota in questa sperimentazione contrattuale. Importantissimi, sotto questo profilo, i progetti a carattere tecnologicamente elevato, volti all'innovazione dei sistemi informativi, che hanno predisposto un uso sistematico e contrattualmente spregiudicato di manodopera a tempo.  In quest'ultimo specifico settore, inoltre, lo stato, le regioni e le università si sono portati, già negli anni '80, ancora più avanti, aggirando la necessità di avviare relazioni di lavoro dipendente contrattualizzato e affidandolo a 'risorse formalmente esterne' all'impresa. L'uso di contratti di collaborazione temporanea e di ditte individuali è diventato normale nei settori di ricerca e sviluppo. Negli anni '80, l'impresa pubblica, a dispetto dell'immobilismo proverbiale, ha posto le basi per il superamento del rapporto contrattualizzato di lavoro dipendente, in quanto relazione assolutamente egemonica, là dove nel privato rimaneva il punto di riferimento principale.

Sabato, 7 novembre

Secondo Corradino Mineo quando parla con Civati, Renzi è in balia sentimentale e politica della Boschi, mentre la Boschi sarebbe in balia della sua ignoranza e presunzione. Un'analisi perfetta quella di Corradino perché politicamente adeguata a descrivere gli standard dell'analitica contemporanea.

Mercoledì, 11 novembre

Annotazione. Credo che in USA, negli anni '50, sia emersa una figura simile a quella italiana degli anni ottanta e successivi. Là dove il valore della produzione diminuiva rispetto a quello della riproduzione del capitale. Penso all'enorme spazio propagandistico, alla propaganda post bellica che metteva in rappresentazione lo stile di vita americano; lo penso sia dal punto di vista della rappresentazione che del rappresentato: entrambi, infatti, sono parte dello stesso processo e la parola propaganda, proprio per questo, è inadeguata.

Giovedì, 12 novembre

Annotazione. La storia americana dell'operaio sociale è più lunga di quella italiana ed europea. Come non mettere in relazione tante sceneggiature cinematografiche nord americane dei '40 e '50 con lo stile e le abitudini di quel soggetto? Penso all'investigatore privato free lance, all'apolide cosmopolita, all'avventuriero internazionale, al bank robber, che sotto la trama della 'propaganda' rappresentava una nuova biologia sociale. Ho in mente soprattutto gli anni sessanta, la freack generation, la lotta contro la coscrizione obbligatoria, il movimento dei neri, le rivolte dei ghetti bianchi e neri e la sconfinata epopea delle gang giovanili e proletarie. Ho in mente, ancora, l'impostazione forzatamente terzomondista e leninista del black panther party dove la fabbrica non è all'orizzonte, ma lo è la vita sociale, il quartiere e dove sono le strutture di comando del capitale disposte sul territorio a essere l'oggetto principale di critica. Ho in mente il movimento americano degli anni sessanta e della prima metà degli anni settanta nella sua complessità dove non esiste un'avanguardia riconosciuta e neppure un tessuto unitario, ma alcune minoranze si muovono, rimanendo minoranze e conservando le loro identità 'minoritarie' e qui ancora una volta, più che l'elaborazione teorica l'esperienza concreta e 'politica' del BPP, seppur leggibile secondo le metriche del marxismo leninismo tradizionale o del maoismo, è importantissima e illuminante.

Martedì, 17 novembre

Annotazione. In un contesto simile, il primissimo imprinting dell'operaio sociale italiano è stato quello della dequalificazione mansionaria. Siamo nella seconda metà degli anni '70 quando, tipicamente, il nuovo soggetto produttivo andava a ricoprire ruoli e impieghi lasciati liberi dal lavoro dipendente e garantito del tempo indeterminato, ruoli e incarichi dove il contratto a tempo indeterminato era inutilizzabile dal comando d'impresa. Questo processo si è realizzato sia nei lavori a contenuto manuale sia in quelli a contenuto intellettuale; si è, inoltre, manifestato o attraverso assunzioni a tempo determinato, ottenute in varie dorme e a diverso titolo, sia, e soprattutto, nel campo del lavoro svolto a favore della pubblica amministrazione, attraverso la formazione di società di persone (solitamente in forma cooperativa) che avevano nell'oggetto sociale medesimo la fornitura di servizi alle imprese pubbliche. In queste relazioni di lavoro, egemone era l'elemento di una relativa libertà dall'impegno contrattuale tradizionale; il vincolo del lavoro dipendente perdeva forza sia sul lato dell'imprenditore sia sul lato dell'operaio; mancava, inoltre, quasi completamente, un logos sulla professionalità del lavoro, sul mansionamento, mentre era centrale l'esigenza di ottenere un reddito. Seguendo gli assiomi dell'operaio – massa, il reddito rimaneva svincolato dalla produttività e dunque operaio sociale e operaio massa si assomigliavano fino, quasi, a confondersi. Inoltre, seppur ampiamente ignorata, la contrattazione collettiva forniva ancora un adeguato quadro di riferimento, una sponda, e l'immagine egemonica del modo di produrre e di lavorare.

Giovedì, 19 novembre

Annotazione. Aggiungo, inoltre, anticipando alcune (probabili) riflessioni che la mancanza di un legame stretto tra reddito e produttività per l'operaio di fabbrica fu un fatto sensazionale, il risultato di una lunga serie di atti rivoluzionari e sovversivi sul contesto produttivo e contrattuale e di una ondivaga e difficile assunzione di soggettività, mentre per l'operaio – sociale è diventato banalità e regola, la regola stessa del contesto produttivo e contrattuale in cui era inserito, con tutte le ambivalenze del caso. Questa ambivalenza, negli anni settanta e nella prima metà degli ottanta, non era ancora pienamente esplicita e per moltissime di queste situazioni di lavoro lo svincolamento dalla produttività e da una relazione contrattuale stabile manteneva il carattere di una rivendicazione e strutturazione di un reddito garantito e in buona misura indipendente dal lavoro autenticamente fornito.
Non è affatto vero, dunque, che gli anni sessanta e settanta non abbiano lasciato traccia, ma è vero il contrario proprio là dove si crederebbe meno di trovarne l'eredità e cioè sul terreno dello scontro sociale e del mercato del lavoro. È rimasto, infatti, un profondo segno sia nella costituzione del capitale, sia nella soggettività del proletariato. Queste tracce non sono, però, linearmente predisposte, come non sono, altresì, sotterranee, ma sono forti e potenti anche se di una nuova forza e potenza.
Questa potenza e forza hanno avuto la forma di una nuova epoca, radicalmente diversa da quella precedente, con nuovi metri, stili, modelli intellettuali e modi di interpretare non solo la realtà ma il pensiero stesso sulla realtà.
Questo non significa che tra settanta e ottanta non si abbia motivo di dipingere una sconfitta: la strutturazione di ampi settori di precariato ha progressivamente eliso il legame tra lavoro e reddito, trasformando la liberazione del lavoro dalla dipendenza produttiva in una liberazione dalla produttività economicamente insostenibile. Il 'precariato', dunque, è stato  costretto a ridisegnarsi e ripensarsi, è stato costretto a farlo e ha subito passivamente un processo che era caduto sotto la guida di altre mani, estranee al movimento di liberazione dal lavoro salariato dei due decenni precedenti: per dirla con Marx il valore d'uso si era nuovamente trasformato in valore di scambio.
Letture. Anche se non troveranno margini in questo diario in movimento, devo segnalare la lettura di Convenzione e materialismo di Paolo Virno, testo del 1986 che ho lungamente rincorso e che in questi primi capitoli rimbalza tra Heidegger e Benjamin.

Venerdì, 20 novembre

Annotazione. Il passaggio, almeno in Italia, è stato politico nel senso essenziale del termine: il dominio capitalistico ha ripreso il controllo del lavoro. Facendo così, ha ribaltato la sostanza della nuova epoca che iniziava ad aprirsi: la liberazione dal lavoro è diventata marginalizzazione nel mercato del lavoro, il rifiuto della produttività si è trasformato nell'instaurazione di un nuovo comando d'impresa che, in effetti, non si concentrava più sui valori della produttività e che emergeva slegato e, per certi versi, emancipato dalle ragioni e dalla razionalità dell'economia classica e dopo di quella da quella marxista. Il persistere dell'egemonia, almeno fino ai primi anni novanta, della contrattazione collettiva, che continuava a rivendicare centralità per il lavoro dipendente e salariato in maniera tradizionale, non ha affatto contribuito a combattere il processo, anzi lo ha favorito, rafforzando le separazioni che il dominio via via innalzava. La responsabilità del sindacato in Italia nel determinare questa sconfitta è stata enorme: l'ha amministrata e l'ha resa politicamente accettabile, l'ha spesso interpretata come una sconfitta della 'nuova destra' quando, al contrario, venivano minate le fondamenta di una riedificazione sotterranea, lenta e difficile, dell'unica sinistra possibile. Ma sarebbe un discorso molto lungo.

Lunedì, 23 novembre

Annotazione. Dopo undici mesi è inutile tornare a Parigi, se non per vederla sempre più separata dalla sua periferia, araba e mussulmana, con alcune schegge islamiste. Inutile ribadire che i casseur protagonisti di reiterati riots sono stati affrontati come un problema di ordine pubblico e che una piccola minoranza di quelli, posta al crocevia tra integralismo reinventato e post moderno (nel quale, secondo un vecchio detto anarchico, “l'odio di classe si è trasformato in odio contro l'umanità”), reinterpretazione di una guerra di indipendenza nazionale, che ricorda certe metodiche e teorie delle pantere nere, traffici internazionali di armi e di manodopera e l'attività dei servizi segreti, ha presentato il suo conto.
Ha presentato questo conto nell'unico luogo doveva poteva presentarlo: nel centro della metropoli e dei suoi divertimenti, nel cuore del tempo libero negato alle banlieu e in un nuovo livello dello scontro contro l'ordine pubblico, secondo il quale le armi da fuoco e gli esplosivi hanno sostituito le pietre e le bottiglie incendiarie. Il palinsesto ideologico islamista radicale si presta perfettamente a questa sintesi che è davvero tranquillizzante politicamente per tutti: individua un nemico univoco, rende lineari le cose, evita analisi più articolate e semplifica la paura. Una paura semplice è facilmente amministrabile e può essere terribilmente efficace in politica.
Già negli ultimi riots, se non ricordo male, l'odio indiscriminato contro tutto e tutti si era  manifestato, come quando i dimostranti, assalendo gli autobus, principiarono a incendiarli con i passeggeri ancora a bordo, episodi incomprensibili se letti dentro una logica normale, anche quella estremizzata dei black bloc. Era già tutto scritto lì, per arrivare ai fucili mancava un testo, in questo caso un testo sacro, e il conseguente partito armato, in questo caso verniciato di santità.


rivedi novembre

Inizio anno


Sabato, 5 dicembre

Annotazione. Il passaggio è stato politico perché la stessa contingenza imponeva il protagonismo della politica. La critica e l'insubordinazione operaia e sociale, in Italia, avevano assunto una fortissima caratterizzazione politica, avevano determinato il sorgere di movimenti, partiti e di una miriade di situazioni organizzative e, addirittura, lo strutturarsi di una nuova corrente nel pensiero comunista o più generalmente antagonista. Non era assolutamente possibile prescindere dalla politica in Italia, se si voleva accompagnare l'attacco sociale ed economico all'operaio di fabbrica. Tra la fine degli anni '70 e il primo lustro del decennio seguente, infatti, si attuò una radicale ridefinizione degli assetti istituzionali italiani, pur compiuta nel rispetto delle formalità stabilite dalla costituzione del 1948.
Si fece strada l'idea, del tutto estranea al parlamentarismo della 'prima repubblica', di un governo forte e personalizzato, che garantisse e giustificasse la regia di uno spettacolo teso a rivedere la legislazione sociale, l'estensione dello stato di diritto e il potere contrattuale della forza lavoro.
Lo scenario fu dominato dalla legislazione d'emergenza, dall'ideologia del complotto rivoluzionario e del sospetto, dall'uso del carcere secondo logiche in gran parte informate dalla punizione politica e dall'equiparazione dell'antagonismo sociale con il terrorismo delle organizzazioni combattenti. Riuscendo a unire la critica al marxismo con la critica al 'totalitarismo' sovietico e con la lotta al terrorismo rosso, la lotta di classe da valore relativo del primo assetto costituzionale si è trasformata nel negativo per antonomasia, effetto e causa ad un tempo della fine delle solidarietà, dei valori umani e della crisi della società: lotta di classe e il termine stesso 'classe' divennero parole proibite, un contro natura storico e politico, per quanto atteneva all'esperienza sovietica e al socialismo reale, e umano ed etico, per via della loro parentela fiancheggiatrice e ispiratrice verso i gruppi armati.
Questa reazione ideologica e politica ebbe specificità tutte italiane, sulle quali la guerra anti terroristica esercitò il peso maggiore ed contribuì a fornire la facciata formale all'intero processo, che fu davvero uno stato di guerra senza quartiere contro il movimento degli anni settanta. L'opposizione di classe venne disorientata, spesso distratta verso tematiche minoritarie, disarticolata, instupidita e ridotta al silenzio, tanto attraverso procedure repressive quanto grazie a una potentissima, diretta e coordinata mediaticamente offensiva svolta sul piano ideologico, politico ed etico. Si mise in scena, spesso utilizzando le sottigliezze ideologiche e filosofiche acquisite dal campo antagonista e libertario durante i sessanta e i settanta, l'impossibilità e l'inattualità dell'antagonismo che veniva considerato un fenomeno residuale, arretrato e pre - moderno.
L'attacco economico e sociale, la struttura, si confuse in maniera perfetta con l'attacco politico e ideologico, la sovrastruttura. Questa combinazione produsse un impatto al quale le forme organizzative e le strutture teoriche medesime della soggettività proletaria non seppero resistere, anche perché intrinsecamente deboli e vulnerabili proprio a quell'attacco che fu svolto in forme politiche e ideologiche, spesso becere, ma capaci di cogliere il segno di una debolezza nel fronte nemico: l'attualità del capitalismo si scontrò con l'inattualità dell'organizzazione comunista.
Il passaggio è stato politico, però, anche perché il quadro generale, il nuovo scenario del capitalismo internazionale, richiedevano il protagonismo della politica, o meglio un nuovo protagonismo della politica. Nella misura in cui l'economia si slega dal valore tradizionale del lavoro, dalla sua misurazione in forme orarie come autentica base del profitto, esercita un comando diretto sul corpo sociale, anzi il comando tende a trasformarsi in dominio, espresso, si badi bene, in maniera non strettamente coercitiva, in forme che non implicano, cioè, la riesumazione di forme di potere pre – moderne (anche se ha recuperato da quelle più di un elemento).
Questo comando dell'economia è immediatamente politico e dunque l'economia sussume realmente la politica; la sussunzione reale della politica all'economia non comporta, però, un'immediata visibilità dei luoghi del potere economico come luoghi del potere politico, ma, invece, un nuovo modo di fare politica.
La sussunzione reale, il processo autentico, va occultato; come se l'economia non avesse assunto direttamente il controllo della vita sociale senza la mediazione del lavoro e del mercato che hanno rappresentato il cuore della mediazione politica del capitalismo moderno e dunque la struttura della politica e delle ideologie dell'ottocento e del novecento.
La crisi delle ideologie è inevitabile in questo contesto ed è stata ben rappresentata, già negli anni ottanta dalla reaganeconomic e dalla offer side economy, vale a dire da ideologie economiche, immediatamente politiche, e dalla sopravvivenza dell'unica ideologia politica possibile, il cosiddetto neo – liberismo. Il neo – liberismo dice la verità, nascondendo la sorgente della verità: la mediazione non è più possibile, la mediazione appartiene al passato, non sono percorribili alternative ideali mentre il mercato e il profitto di impresa devono regolare il mondo e ristabilire una mediazione immanente all'economia, anzi ne sarebbero la realizzazione. La fine della mediazione, però, e il trionfo del neo liberismo insieme con quella sono possibili proprio in ragione della morte del mercato, del plusvalore e del lavoro salariato tradizionale, cioè dei fondamenti del liberismo nuovo o vecchio.

Domenica, 6 dicembre

Annotazione. Ovviamente anche il mondo economico ha subito una trasformazione complessiva, a qualcheduno piace l'aggettivo globale, nella direzione di una perfetta integrazione delle vecchie economie nazionali e dei diversi piani della produzione (manuale, intellettuale, informativo e via discorrendo) in un'insieme organico, nel quale le parti e il tutto non sono più individuabili. Questo radicale cambiamento ha richiesto la destrutturazione dello stato sia come espressione della sovranità nazionale che come fornitore di assistenza sociale (la profetica deregulation  reaganiana). Lo stato, dagli anni ottanta in qua, si è fatto impresa, diventando un'agenzia economica inserita in un disegno complessivo più ampio delle sue competenze e pertinenze geografiche e più forte della sua consistenza economica e finanziaria, quando pensiamo al fatto che il fatturato di molte multinazionali oltrepassa il PIL di alcuni stati nazionali o che i flussi finanziari determinati da una settimana di movimenti in borsa sono più ampi dell'intero debito pubblico europeo.
Questo non significa che lo stato ha cambiato funzione, quella cioè di rappresentare in maniera ufficiale gli interessi contrapposti all'interno di un particolare e delimitato contesto sociale e geografico e di privilegiare tra questi gli interessi preminenti economicamente, e ha, quindi, mantenuto la relazione con la sua base fondante, il corpo sociale circoscritto dalla nazione, il popolo. Ha continuato ad esercitare questo compito, però, solo in funzione della trasmissione, in forme politiche, delle necessità imposte dal capitale multinazionale o globalizzato che dir si voglia. Il centro genetico dello stato capitalista moderno è venuto, in realtà, meno: i gruppi preminenti nell'economia non sono più gruppi che hanno riferimento con le nazioni e i popoli nazionali, non sono più la borghesia nazionale.
Inevitabilmente, in questo contesto, i margini di manovra, di lavoro, le possibilità operative concesse dalla storia ai singoli stati non permettono  significative dialettiche e oscillazioni e ancor meno alternanze di forme ideologiche e di forme di governo diverse e contrastanti, di strategie di lungo respiro diverse e polemicamente opposte. Lo stato nazionale, però, nonostante la cogenza di questo processo, per logica di cose, per tradizione e abitudine storica e per comodità istituzionale, questo soprattutto ma non solo là dove si conserva un simulacro di democrazia rappresentativa, conserva un ruolo di estrema e ultima mediazione, posta ai margini del processo, quasi in una 'sotto – politica', nella sostanza ininfluente, ma nella spettacolarità del simulacro rappresentativo donato di importanza.
Il capitalismo, il biocapitalismo, non può fare a meno dello stato, poiché non ha alcun interesse a farsi stato direttamente: l'interesse pubblico, che è sempre più il nuovo comunitarismo capitalista, le infrastrutture produttive  possono possedere l'intelligenza strategica, la rappresentazione e la narrazione loro necessarie, solo quando sono poste fuori dall'intelligenza, rappresentazione e narrazione del sistema economico. Continua ad esistere, quindi, un'autonomia del politico nella progettazione e nella teoretica del capitalismo, poiché l'autonomia del politico preserva l'assoluta indipendenza dell'economico: l'intelligenza politica è oggi la destrutturazione definitiva e irreversibile dell'intelligenza della politica sui processi economici.

Martedì, 8 dicembre

Letture. Convenzione e materialismo / Paolo Virno. A proposito o per un inquadramento possibile dell'operaio sociale e della corrispondente fenomenologia del lavoro, è capitato alla mia lettura questo brano di Virno, quasi come quando si apriva il vangelo a caso allo scopo di trarne ispirazione. Il testo, scritto del 1985, descrive davvero questa trasformazione nella sociologia del lavoro.
“L'irreversibilità di una crescita autopropulsiva del sapere separato dal lavoro, mentre condanna senza appello ogni mitologia sulla ricomposizione di mano e mente, sviluppa le condizioni per cui già oggi il lavoro salariato tradizionale si presenta sovente come un'escrescenza parassitaria, come faux frais (falso costo), al pari di certi 'costi di circolazione' nelle pagine di Marx. Non l'attenuazione, ma l'approfondimento dell'autonomia del general intellect costituisce, oggi, una condizione di emancipazione, o almeno un principio – speranza. È questa accentuata autonomia che modifica alla radice la morfologia del processo produttivo, facendo del lavoro intellettuale la forma generale dell'attività umana, il pilastro centrale nella produzione diretta della ricchezza (…) è l'insieme dei paradigma di volta in volta disponibili e utilizzati che spiega la struttura della produzione contemporanea, non viceversa. La discussione epistemologica centra il suo obiettivo allorché riesce a chiarire la strumentazione del lavoro intellettuale: ma in tal caso, perché è questa strumentazione a definire quel lavoro, la discussione epistemologica diventa senz'altro analisi del processo produttivo (…). La principale fra queste argomentazioni … è, per dirla nei termini di una discussione canonica del movimento operaio, la non riducibilità del lavoro potenziato e complesso a lavoro semplice. (…) nell'argomentazione marxiana questa 'riduzione' ha luogo attraverso il confronto fra i diversi valori di scambio … delle forze lavoro. (…) È  chiaro che essa è possibile solo a condizione che il mercato funzioni effettivamente come trasparente sintesi sociale (…) affinché il mercato possa esprimere convenientemente la 'riduzione', è necessario che la cooperazione lavorativa sociale risulti interamente trasferita e rappresa nel capitale fisso, di modo che il lavoro semplice, dipendente dalla macchina, costituisca la permanente unità di misura sia del lavoro in genere sia del valore delle merci (…).
Ebbene proprio in questo diretto materializzarsi della 'riduzione' all'interno del processo lavorativo si situa il punto critico (…). La socializzazione non ha il suo limite nel sistema delle macchine ma si sviluppa a monte e valle di esso: ampi strati di forza lavoro svolgono attività di 'sorveglianza' e di 'coordinamento' nei confronti della produzione immediata (…). L'atto di produrre viene progressivamente a coincidere con l'atto di comunicare e la predominanza dell'agire comunicativo segna un avanzamento delle forze produttive che non si traduce linearmente in forza produttiva del capitale, ma si trattiene e sedimenta all'interno della struttura complessiva del lavoro vivo (…). La riduzione è impossibile … il lavoro complesso moderno … rappresenta una catastrofe permanente per la teoria del valore in quanto misura vera di proporzioni reali” (pp. 65 – 67)
Ora questo lungo passo potrebbe essere un insieme di note alle mie riflessioni sull'operaio sociale ma anche all'operaio sociale in quanto tale, inteso come concetto sociologico ed economico. Ancora di più, per quanto ho capito dei Grundisse, la descrizione di Virno pone, in questa fase dello sviluppo capitalistico, quello che era il nucleo stesso del progetto comunista, inteso come evoluzione ultima del socialismo, estinzione dello Stato e fine dell'economia classica.

Venerdì, 18 dicembre

Letture. Convenzione e materialismo / Paolo Virno. Ancora su questo scritto degli anni '80, certamente utile a comprendere il soggetto presupposto e indimostrabile insieme con il capitalismo post – moderno. Emerge in questo brano quasi una perdita del materialismo in nome del materialismo stesso che è disorientante. Nel momento in cui Virno propone di individuare i fondamenti di un nuovo ethos materialistico, oltre Kant e decisamente antitetico a Hegel, produce alcuni brani notevoli, disorientanti ma, credo, utili.
“È  la pienezza dello sviluppo storico a determinare, per la prima volta, un'autonomia non mistificata dell'ethos (…). La 'seconda natura', compiutamente intellegibile, cui tendeva la legge morale kantiana, si presenta come realtà empirica immediata, l'universalità è realizzata … la base della produzione della ricchezza non risiede più nel pluslavoro operaio, ma nell'autoproduzione del sapere sociale, nell'autonoma potenza del sapere astratto, nella scienza come principale e immediata forza produttiva (…). A venire meno è la coincidenza, spinta talvolta fino alla sinonimia, fra il concetto di universalità reale e quello di una generale equivalenza. Il denaro, nelle sue diverse figure, non è più esempio eminente dell'incarnazione mondana dell'universale.” (pp. 101 - 103)

Lunedì, 21 dicembre

Ai margini. Convezione e materialismo / Paolo Virno. Cosa può entrarci l'esistenza e natura dell'operaio sociale nel noumeno di Kant? Il noumeno kantiano è uno sviluppo che crea le sue regole, le trova in sé affidando un ordine logico al mondo. Le regole dello sviluppo derivano da e sono un sistema operativo logico. L'operaio massa era il risultato di una realtà nella quale il rapporto causa – effetto, il macchinico e il meccanico, erano decisivi; il soggetto che gli tiene dietro affronta una realtà nella quale il rapporto causa – effetto è generato dall'operatività sociale. Il lavoro non dipende più da un sistema esterno, dato, che sottopone l'individuo a delle regole scientifiche di produzione; la nuova scienza di Virno, al contrario, rende il lavoro una potenza interna al processo produttivo (come nel fabbrichismo taylorista, in verità, ma in forma potenziata all'ennesima volta). Riprendere Virno di Convenzione e materialismo per 'spiegare' l'operaio sociale è certamente audace, troppo audace, a tratti intellettualmente disonesto, quasi inconcepibile. Ed è vero. C'è un ma, però c'è un ma.
Se è vero che il noumeno kantiano si è trasformato in elemento produttivo, in schema della produzione capitalista contemporanea, è anche il vero il fatto che questo spostamento ed estensione del suo ruolo impediscono di scrivere ancora con certezza e onestà di produzione capitalista. La produzione capitalista non esiste più, esiste la produzione (il noumeno) e la sua specificazione capitalistica è solo uno dei suoi fenomeni. Allora, seguendo questo filo logico, è naturale che l'operaio sociale sia un soggetto indimostrabile, indimostrabile come produttore, operaio, perché esattamente come la produzione l'essere operaio è solo una specificazione del lavoro, una determinata fenomenologia. Si può però leggere meglio questo assunto. Se la produzione è una potenza scientifica indipendente, esterna al capitalismo, se ne possono trarre due conseguenze importantissime; il capitalismo non ha più forme produttive sue proprie e non esiste quindi un concorrente economico possibile al capitalismo, un modello di sviluppo residuale e preesistente o contemporaneo ma alternativo, proprio perché la produzione capitalista è diventata l'unico modello e schema di produzione fino al punto che il sapere produttivo percepisce il capitalismo come un accidente e un attributo indispensabile ma non strettamente necessario alla produzione; ma soprattutto l'operaio, la forza lavoro, non ha più modelli di lavoro esterni al rapporto di capitale, che è il rapporto di lavoro e quindi oggi ognuno è operaio, fino al punto di rendere superflua la parola operaio e la parola forza – lavoro.

Martedì, 29 dicembre

Annotazione: il professore di storia e filosofia del liceo affermava, in un periodo che difficilmente avrebbe accolto le sue parole quantomeno in molti ambienti intellettuali, che il comunismo richiedeva una preliminare trasformazione dell'uomo, un salto morale, come lo diceva, un miglioramento di sé e che solo dopo, solo in presenza di questa condizione, sarebbe stato possibile realizzarlo.
L'etica, quindi, veniva prima dell'economia e aveva il compito di determinare l'azione politica.
Rifiutavo con forza questa concezione: per me il comunismo era e sarebbe stato il risultato naturale, meccanico e automatico dello sviluppo economico e sociale. Il comunismo era inevitabile. Nella mia concezione, quindi, il comunismo era un prodotto spontaneo della storia, era spontaneità, anche sotto il profilo politico. In quest'ottica, la nuova etica sarebbe stata l'effetto e non certo la causa del cambiamento; la soggettività sorgeva spontanea e non si trattava di fare altro che organizzarla.
A quarant'anni di distanza questo rimane, per me, un drammatico dilemma, un dilemma intenso, anche se l'apparente e contingente crisi e inattualità del progetto comunista sembra dare maggior ragione alle tesi del professore, almeno indirettamente e per via mediata, poiché risulta evidente la necessità di uno sforzo e la presenza di un'aspirazione ideale che voglia realizzarsi nella storia.

Mercoledì, 30 dicembre

Annotazione. Secondo il professore del liceo, la tensione morale era alla base del progetto comunista e quindi il comunismo non era solo un nuovo modo di vedere e interpretare la realtà ma, pure, sé stessi e gli altri, anzi la componente umana, antropologica, etica appunto, superava per importanza quella economica e sociale. Il mio punto di vista era completamente opposto: l'etica era un prodotto storico, l'etica era un'ideologia e in quanto tale, alla fine, non esisteva, come particolare e definito terreno disciplinare. Compito dei rivoluzionari era quello di criticare l'etica del presente e ripudiare progetti etici riguardanti il futuro, compito dei rivoluzionari era quello di costruire un nuovo mondo dove, ma per forza di cose e per necessità storica e non per libera scelta e quindi in modo profondamente anti etico, l'umanità si sarebbe liberata dell'economia e del dominio dell'economia sulle sue azioni. Allora una disciplina etica,  come realtà effettuale e non come astrazione idealistica, avrebbe potuto strutturarsi. Rifiutavo, in ogni caso, ogni concezione etica che non potesse avere una giustificazione materialistica e del problema della fondazione materialista dell'etica non mi curavo affatto.
L'etica non era affatto un problema perché sarebbe venuta fuori e nessuno si sarebbe sognato di chiamarla etica o peggio ancora morale.
Porre, come faceva il professore, l'etica alla base stessa della costruzione del comunismo, fare del comunismo un movimento etico, mi pareva rinnegare il comunismo e renderlo un progetto politico analogo a molti altri e precedenti, togliere al pensiero comunista la sua originalità, riducendolo a un'ideologia tra le altre. La trascendenza ritornava, sotto mentite spoglie, a confondersi e influenzare l'immanenza, mentre al contrario io diffidavo di qualsiasi cosa che non fosse radicalmente immanente.
Fraintendevo e fraintendendo, organizzavo inconsapevolmente un bel dibattito interiore, ancora aperto.


rivedi dicembre

Inizio anno




Bibliografia consultata e consigliata
:


Antologia degli scritti politici / di David Hume; a cura di Giorgio Giarizzo. - Bologna:  Mulino, 1961 (I classici della democrazia moderna)

Arte e Multitudo / Toni Negri ; a cura di Nicolas Martino. - Roma : Deriveapprodi, 2014. - 1. ed. (Doc(k)s)

Castel del Piano : la perla dell'Amiata : origini, economia, casati / Enzo Fazzi. - Arcidosso : Effigi, 2014. - (Genius loci, 56)

Ceti medi senza futuro? : scritti, appunti sul lavoro e altro / Sergio Bologna. Roma : Deriveapprodi, 2007. - (Deriveapprodi, 68).

Che cos'è un popolo / Alain Badieu, Pierre Bordieu, Judith Butler [et al.]. - Roma : Deriveapprodi, 2014. (Fuori gioco, 46)

Convenzione e materialismo : l'unicità senz'aura / Paolo Virno. - Roma : Deriveapprodi, 2011. - 2. ed. rivista e corretta. - 1. ed.  1986

Costituzione e lotta di classe / Hans-Jurgen Krahl. - Milano : Jaca Book, c1973. - (Saggi: per una conoscenza della transizione; 52

Decennio rosso : romanzo / Massimo Battisaldo, Paolo Margini. - [s.l.] : Paginauno, 2013. - (Narrativa, 8)

Essere figli: racconti di vita vissuta e di crescita / Laura Musso. - Chieri : Gaidano & Mattia, stampa 2011

Etica e trattato teologico - politico / Baruch Spinoza ; a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani. - Novara : UTET ; De Agostini, 2013

L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione / Pekka Himanen ; prologo di Linus Torwalds ; epilogo di Manuel Castells ; traduzione di Fabio Zucchella. - Milano : Feltrinelli, 2001. (Serie bianca)

Grammatica della moltitudine: per un'analisi delle forme di vita contemporanee / Paolo Virno. - Roma :  Deriveapprodi, 2004. - 4. ed. -  (Fuorigioco; 5)
 
Impero : il nuovo ordine della globalizzazione / Michael Hardt, Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2002. - 4. ed. (Collana storica Rizzoli)

L'intelligenza collettiva : per un'antropologia del cyberspazio / Pierre Levy ; traduzione di Donata Feroldi e Maria Colò. - Milano : Feltrinelli, 1996. - 1. ed. (Saggi, 1716)

Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 / Karl Marx ; introduzione di Friederich Engels ; a cura di Giorgio Giorgetti. - Roma : Editori Riuniti, 1973. 4. ed (Le idee, 24).

Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale / Michel Hardt, Antonio Negri. - Milano : Rizzoli, 2004. - 1. ed. - (Collana storica Rizzoli). - Tit. orig.: Moltitude. - Trad. di Alessandro Pandolfi.

Ricordi di un bevitore : l'incontro fatale con John Barleycorn / di Jack London ; traduzione e presentazione di Paolo Cassella. - Bussolengo (VR) : Demetra, 1995. - 2. ed. (Acquarelli ; 35)

Scritti scelti / Rosa Luxembourg ; a cura di Luciano Amodio. - Torino : Einaudi, 1976. (NUE: nuova serie ; 2)
 
Storia della lingua italiana / Bruno Migliorini ; introduzione di Ghino Ghinassi. - Milano : Bompiani, 1997. - 5. ed, - (Saggi tascabili, 31)

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