Nel 301, cioè
nel diciottesimo anno di regno, Diocleziano si decide a emettere uno
dei provvedimenti più articolati del suo
principato e lo fa con il consenso degli altri tre tetrarchi che, infatti, compaiono tra i firmatari della legge: si
tratta del celeberrimo edictum de pretiis rerum venialum, cioè della legge sui prezzi
delle merci. Questo testo ha un'innegabile
valore storico, al di là degli effetti che produsse, giacché fotografa, involontariamente ma necessariamente, la realtà
economica dell'impero nelle sue varietà
merceologiche, nel numero, la retribuzione e la forma degli emolumenti
dei diversi mestieri artigiani, nel numero dei
porti e degli scali marittimi e delle rotte commerciali.
Insomma fornisce una messe di notizie davvero
notevole, notizie che possono essere usate anche
retrospettivamente. Diocleziano e i suoi
colleghi censiscono tutto.
Famosissimo il preambolo della legge dove le
preoccupazioni antinflazionistiche vengono immediate
espresse. I quattro imperatori, pacificati i
confini e respinti i barbari, si rivolgono ora, si scrive in quello, ai problemi interni e soprattutto a quel fenomeno
preoccupante che manda in rovina la maggior
parte delle fortune e cioè una bramosia di arricchimento e
speculazione economica insaziabile.
Al centro di questa aspirazione smodata
all'arricchimento stanno, secondo il decreto, due categorie
di uomini, gli improbos et immodestos, cioè i disonesti e gli sfrenati, due categorie da codice penale, per dirla con linguaggio moderno, formati
da autentici complottatori verso il genere
umano “sine
respectu generis humani” si legge nel preambolo. D'ora innanzi
verranno stabiliti per legge quae pretia in singularum rerum vendicionibus excedere nemini licitum est e cioè 'i prezzi di vendita cosa per cosa che non è permesso
a nessuno di oltrepassare'. Insomma
un immenso calmiere sui prezzi. Si badi bene, su tutti i costi, sia
quello delle singole merci, sia quello della
forza lavoro. Cioè se da una parte si
stabilisce un maximum sui prezzi delle merci, dall'altra lo
si stabilisce sui salari e le singole
prestazioni d'opera. Un deflazionismo perfetto e completo in sé. La legge prende in considerazione ben trentasette classi di
merci e di prestazioni rilevanti sotto il
profilo economico: tra quelle sono i cereali, i vini, gli oli, le
carni, il pesce, gli ortaggi e la frutta, le
paghe degli operai, le pelli conciate e no, le calzature, le materie
minerarie, la legna, i prezzi dei trasporti
terrestri e quelli marini, l'abbigliamento, i prodotti tessili e via
discorrendo. Alla fine, all'interno di queste
classi, vengono stabiliti i massimali, espressi in denarii, per circa
duemila merci.
Le unità di
misura utilizzate sono, solitamente, il modium castrense, per i prodotti agricoli, la libbra
per quelli alimentari, il mezzo litro per i liquidi, la giornata di
lavoro o il caput, la singola prestazione d'opera, per
i lavoratori. A mo' di esempio apriamo due
titoli del decreto.
Il quarto titolo riguarda le carni: una libbra di
maiale e di vacca hanno il medesimo prezzo, dodici
denari; il fegato arriva a sedici; il prosciutto varia, a seconda
delle qualità, da sedici danari a venti; la
salsiccia di maiale appena due, quella di vitello dieci; una salsiccia
pregiata, la lucanica cioè Lucana, ben sedici e via discorrendo. Apriamo
il settimo titolo de mercedibus operariorum (sugli emolumenti dei lavoratori): gli operai
pagati a giornata sono quelli agricoli (venticinque denari), il fabbro
(cinquanta), il pittore murario
(settantacinque), il pittore specializzato (centocinquanta), il
carpentiere (cinquanta), il pastore (venti);
per altri è stabilito un massimale a corpo, come per il barbiere e il balneatore privato (quello che fa fare il bagno).
Alucuni
storici hanno veduto, nell'editto, la prova di un'economia
statalizzata e di una produzione ormai del
tutto nazionalizzata e che, dunque, il provvedimento si rivolgesse
esclusivamente ai negozi, i commerci e le
lavorazioni direttamente controllate dallo stato. Certo,
buona parte delle forniture dell'esercito e buona parte delle risorse
minerarie appartenevano allo stato già da lungo
tempo; diciamo che i principi si erano garantiti il controllo
di alcuni settori strategici dell'economia, soprattutto, come è ovvio,
quelli legati alla difesa e alla produzione
bellica. Pare però difficile immaginare un'economia monopolizzata dalla presenza del pubblico. Anzi, nel
preambolo della legge, non solo si omette qualsiasi riferimento a
operai e merci di pertinenza e produzione
statale, ma si descrive un problema tipico del libero mercato: le tendenze inflazionistiche e la presenza di grosse
concentrazioni di ricchezza privata, capaci di influenzarlo
negativamente. Lo sforzo del decreto va,
invece, nella definizione del quadro contrattuale delle future relazioni economiche e sociali tra privati e in questo senso
l'editto sui prezzi è un provvedimento
incredibilmente articolato che pretende di cristallizzare la dinamica
sui prezzi, bloccandola. Lo
stato si fa arbitro della politica economica e delle relazioni tra le
classi sociali imponendo un quadro ove prezzi e
salari siano bloccati e controllati.
Si tratta di un tipico intervento indiretto dello
stato nell'economia, secondo modelli in qualche caso
già sperimentati nel mondo orientale, di un dirigismo dello stato e
non di un suo diretto monopolio nell'economia e
nella società. Raramente
nella storia economica si è visto uno sforzo così complesso e radicale
come quello messo in campo da Diocleziano tra
il 293 e il 301 e che, parimenti, si sia posto come obiettivo
la definitiva soluzione dei problemi economici e sociali.
Nel preambolo dell' edictum si fa più volte riferimento alla eternità della pace esterna ottenuta dai tetrarchi e la si mette in relazione con la definitività che deve produrre la legge nel campo sociale interno; come, in buona sostanza, gli imperatori avevano allontanato le minacce esterne, così essi ora, si sarebbero adoperati a combattere quelle interne. L'editto ci testimonia di moltissime cose, spesso anche di inezie; ci è riportata, ad esempio, una cultura materiale e un gusto gastronomico, e dunque una conseguente domanda economica, in base alla quale la carne di maiale era apprezzata tanto quanto la carne di vitello e che certi parti del maiale avevano un apprezzamento ancora maggiore e irraggiungibile per il vitello. Ci viene descritta, nel calmiere, una gerarchia retributiva che riflette una divisione del lavoro, nella quale le componenti intellettuali e ideative hanno la preminenza su quelle manuali e così, ad esempio, il pictor imaginarius guadagna il doppio del pictor murarius. In questi casi, la legge, al di là dei propositi calmieristici, registra una situazione di fatto e se i valori monetari sono sicuramente ribassati le relazioni e proporzioni corrispondono a quelle reali e in uso.
L'editto ci
dice molto sull'epoca proprio per le sue forme e per gli scopi che si
propone: c'è l'idea, l'utopia se volete, che
l'azione dello stato sia invincibile e che immodesti et improbi nulla potranno contro il
decreto. Sempre per citare il preambolo di
quello, lo stato è capace di introdurre aliqua continentiae ratio, 'una certa ragionevole
moderazione' nel mondo dell'economia; alla luce di questa ragionevolezza il corpo sociale si inchinerà e gli
speculatori cesseranno di opprimere i deboli e gli
umili.
Lo stato è la fonte della ragione sociale e unica
garanzia per il genere umano, anzi è l' unico depositario
della ragionevolezza sociale e, in base a questo, indiscutibile e
indiscusso mediatore sociale giacché,
platonicamente, la ragione è invincibile.
Ma la ragione del decreto è quella dell'armonia;
un'armonia che cerca di ridurre gli scompensi sociali
attraverso un disegno che non tiene in nessun conto delle ragioni
profonde degli attori del processo economico. Insomma è il processo economico che si deve sussumere a
quello politico: il processo economico,
l'economia monetaria, il commercio pienamente dispiegato non
posseggono alcuna razionalità e neppure una
forma ma sono solo, sempre per usare le parole dei tetrarchi nel preambolo, hanc bachalandi licentiam, 'questa possibilità di smaniare invasati' dietro all'arricchimento personale. Questa possibilità, proseguono i
Tetrarchi, determina la dissipazione delle
risorse sociali, l'impoverimento progressivo e la rovina degli
indigenti urbani, piccoli commercianti e
soldati pagati a denario che sono il cuore dell'impero. La politica, invece, dominerà l'economia perché l'impero è la
ragione che illumina il genere umano. Lo stato
è il progetto, la ragione, la luce che illumina la società, gli immodesti et improbi sono l'emotività,
la cupidigia e la passionalità, la nuda materia che va governata.
Per
parafrasare il titolo di un'opera moderna e di radicale tendenza
rivoluzionaria si potrebbe dire, per Diocle, di
un Platone oltre Platone; e d'altronde Gallieno, la cui politica
economica non era giunta mai alle conseguenze
drastiche di quelle di Diocleziano ma che, in buona parte, la ispirò e precedette, non aveva cercato di fondare, in
Italia meridionale, una città ideale, governata
attraverso istituzioni perfette e filosofiche, di nome Platonopoli?
Accanto a Gallieno, in quella impresa, era
niente po' po' di meno che il massimo pensatore del platonismo
moderno, un certo egiziano di nome Plotino.
Le ragioni dell'economia, irriconoscibili come
tali all'imperatore, avevano la loro forza e la loro
capacità sociale e dunque destrutturante, avevano, in buona sostanza,
una loro logica e razionalità. E il sogno di
Valerio si trasformò, in breve, in incubo.
Le merci calmierate sparirono, il danarius rimaneva come un'inutile trofeo
in mano al popolo minuto; si diffuse il mercato
nero sul quale faceva fede il valore reale dell'argento sul rame e il
danaro dei poveri si deprezzava. Accaparratori
e speculatori, anziché sparire, si arricchivano in clandestinità.
Diocleziano reagì alla sua maniera e giacché era
un soldato più volte inviò l'esercito a requisire granai
nascosti. Si comminarono condanne a morte poiché lo stesso preambolo
del decreto equiparava i reati di quel tipo a
autentici 'crimini contro l'umanità'. Alla
fine, però, dovette cedere: usciti da una lunga guerra esterna si
sarebbe dovuto gestire una faticosissima e
costosissima persecuzione sociale interna. Nel 302, appena un anno
dopo l'emanazione, l'editto sui prezzi venne
ritirato.
Fu una
terribile sconfitta, giacché il principe, difendendo gli assetti
tradizionali della società dal dilagare
dell'economia monetaria e delle sue contraddizioni, aveva sperato di ridonare armonia e 'razionalità' all'impero,
soprattutto di riconquistare a quello la
fiducia e le simpatie, anche religiose, delle masse urbane diseredate
che, sempre più in oriente, si erano
allontanate dal politeismo tradizionale e avevano abbracciato novae religiones, cariche
di speranze di salvezza e di riscatto.
Diocleziano, sul solco di Augusto in verità ma con
una concretezza nei provvedimenti economici che
ad Ottaviano era sconosciuta, si propone di offrire attraverso la sua
politica economica quella salvezza e quel
riscatto. Le masse sarebbero ritornate
all'impero e, nella prospettiva carismatica che ormai lo uniformava, alla sua religione tradizionale. Religione
e società continuavano a intersecarsi e, come abbiamo capito,
moltissime cose, vecchie e nuove, recenti e
tradizionali, andavano a formare una matassa, nell'immaginario, nella cultura e nell'ideologia, che era difficile dipanare.
Il testo del decreto (frammenti sopravvissuti)
Il testo dell'editto è tratto da: http://www.hs-augsburg.de/~harsch/Chronologia/Lspost04/Diocletianus/dio_ep_i.html
Proponiamo qui un breve e curioso sommario di quanto contenuto nel documento.
Nella Praefactio che è un lungo preambolo della legge vengono esposti le motivazioni di fondo del provvedimento che sono sociali e carismatiche ad un tempo. Si scrive, oltre ai passi già citati "quis enim adeo optumsi pectoris et a sensu humanitatis extorris est, qui ignorare possit, immo non senserit in venalibus rebus, quae vel in mercimoniis aguntur vel diurna urbium conversatione tractantur, in tantum se licentiam difusisse pretiorum, ut effrenata livido rapiendi nec rerum copia nec annorum ubertatibus mitigaretur?". In buona sostanza gli imperatori scrivono che non si può ignorare il fatto che si è affermata una libertà nello stabilire i prezzi che non ha più relazioni con l'andamento della produzione agricola ed è solo prodotto dell'attività di speculatori.
Nel De Frugibus si fissa il prezzo del frumento (cento danari per modium), dell'orzo (sessanta), della segala (sessanta), del miglio trattato (cento) e di quello grezzo (cinquanta), della fave sgusciate (cento) e di quelle intere (sessanta), delle lenticchie (cento), dei ceci (cento).
Nel De Vinis si fissa il prezzo in danari di mezzo litro di vino Piceno, Tiburtino, Sabino, Sorrentino e Falerno (trenta danari), dei vini invecchiati di prima scelta (ventiquattro) e di seconda (sedici).
Nel capitolo De Oleis si stabiscono i prezzi per mezzo litro di olio che, a seconda della qualità, variano da un massimo di quaranta danari a un minimo di otto; l'aceto costa sei danari; il miele di prima qualità vale quaranta danari e quello di seconda scelta ventiquattro.
Il De Carnis dispone il prezzo di numerosissime tipologie di carne, quella di maiale (dodici danari alla libbra), di bue (dodici), di capra (otto), del lardo (sedici), della salsiccia lucana ricavata dal maiale (sedici) e quella ricavata dai bovini (dieci), un fagiano di allevamento (duecentocinquanta) e quello selvatico (centoventicinque), mentre una femmina del fagiano costa duecento danari se in allevamento e cento se selvatica, così come l'anitra allevata e non, il pollo vale sessanta danari, mentre la pernice trecento, la tortora scende a sedici danari, la lepre centocinquanta, dieci passeri sedici danari e dieci storni venti, una libbra di agnello costa dodici danari.
Nel capitolo De Piscis si determina il prezzo del pesce di mare di prima scelta a ventiquattro danari e di quello di seconda a sedici, quello di fiume dodici e otto, invece; le sardine sedici danari alla libbra.
Nel De Oleribus abbiamo i prezzi imposti per cinque lattughe di prima scelta in quattro danari e di seconda qualità in due danari; dieci porri di prima qualità costano quattro e due di seconda scelta, anche dieci rape costano quattro e di seconda qualità valgono la metà; dieci cocomeri sono anch'essi quattro denari e due danari se di seconda scelta; cinquanta asparagi selvaggi quattro danari e cento castagne costano anch'esse quattro danari; un uovo vale un danaro; poi vengono i diversi tipi di mele: dieci granata costano otto danari, della qualità Cydonea la metà; mezzo litro di latte di pecora o capra viene otto danari mentre una libbra di formaggio non stagionato ne costa otto.
Poi viene l'articolo dedicato al costo della forza lavoro, il De Mercedibus Operariorum. Una giornata di lavoro di un operaio agricolo esperto va pagata venticinque danari; cinquanta denari è la paga giornaliera di un fabbro esperto; un muratore esperto guadagna cinquanta danari; un marmista raggiunge il salario quotidiano di sessanta denari, come il mosaicista; un pittore di pareti guadagna settantacinque danari se specializzato in raffigurazioni ne ottiene centocinquanta; un pastore riceve venti danari al giorno mentre un mulattiere venticinque; il barbiere può chiedere due danari a taglio; un maestro di grammatica latina e greca duecento danari, mentre un avvocato mille danari; il balneatore due danari a lavaggio.
Nel De Pellibus viene determinato che, secondo un'unità di misura non specificata, le pelli di Babilonia debbono costare cinquecento danari, se di primascelta, e quattrocento in caso contrario, la pelle di Fenicia cento, il cuoio di bue grezzo cinquecento, la pelle di capra quattrocento, quella di lupo venticinque, il castoro venti, d'orso cento, la pelle di leopardo e quella di leone mille danari.
Nell'articolo dell'editto dedicato alle calzature, De Formis Caligaribus, si scrive che un paio di scarpe militari valgono cento danari, centocinquanta denari le calzature patrici e cento le calzature dei senatori, sessanta quelle femminili, settanta quelle per l'ordine dei cavalieri.
Nel decimo
capitolo De Locramentis si tratta infine
dei prezzi delle bardature, armamenti e finimenti delle cavalcature,
muli, asini e cavalli.