pensieri chimicamente puri (1982)
[1]
Desiderare esplicitamente di fidarsi del tutto di una persona
significa amarla, ma la fiducia completa e perfetta non può
esistere perchè non ha precisi confini. Amare è un'invenzione.
[2]
L'amore concepito come naturale usufrutto dell'altro genere è cosa che
spesso rimanda a questioni di immagine sociale oltre che di sicurezza
interiore o meglio a queste due questioni che vanno trattate come
speculari e complementari. L'innamorato si sente rassicurato dall'avere un
amore nella misura in cui lo costruisce come una relazione pubblica e
accettata secondo una chiara ostentazione di normalità. La coppia è
prova e garanzia di normalità.
[3]
Queste conclusioni non devono scandalizzare. So che considerano l'amore e
la relazione tra i sessi come una faccenda che riguarda il conformismo,
l'abitudine e dunque meschina. Vedo molta meschinità, però, tra uomini e
donne, quando si tratta di praticare l'amore, anche se i più accorti tra
quelli scrivono e dichiarano pulsioni romantiche, richiamandosi a quella
poetica, quasi filosoficamente intesa. Il movimento romantico è, sarà ed è
stato solo un'illusione e una brutta illusione, quella che apparteneva a
chi ha mascherato la sua cattiva coscienza.
[4]
La principale ricerca dell'uomo è la sicurezza. L'uomo ricerca sicurezza
di sè, sicuro sentimento di sè, e per ottenere questa non ha uno
strumento dentro di sè ma solo negli altri. La sicurezza individuale ha
bisogno, per realizzarsi, degli altri e gli altri divengono un mezzo per
la nostra sicurezza, il mezzo per la soddisfazione della nostra ricerca.
Chi non si adegua a questo scopo, chi non ricerca questo tipo di
sicurezza, (pur ricercandone qualcun'altra ma di diverso genere) o è folle
o rischia di diventarlo.
[5]
Il folle si domanda: "che sicurezza può essere se mi viene dagli altri? Io
ho bisogno di più, io ho bisogno di me stesso". Chiedere di sé stessi è
una domanda irrisolvibile, troppo grande, anche se giusta e giusta proprio
perché troppo grande.
[6]
Il mondo si fonda su questo necessario cinismo e si appiattisce
su quello. È stata una decisione alla base di questo sentimento, tanto è
vero che l'uomo, come specie, è consapevole di questo necessario cinismo e
ha, in genere, una visione mesta del mondo, triste e rassegnata. Il folle
controbatte, allora, che il mondo non esiste e ne esce, abbandonando
l'ideologia del necessario cinismo. Entrambi, però, il folle e
il sano, condividono la consapevolezza che ogni più piccola mutazione in
loro è subordinata alla necessità di sopravvivere e, quindi, alla
sicurezza di sè. L'uomo non è coraggioso fino al punto di distaccarsi
dalle piccole e infinite reazioni immediate indotte dal meccanismo sociale
e storico e vive quello che, sotto ogni profilo, dovrebbe essere il suo
prodotto, la sua creatura, come una potenza astratta e
impersonale che gli è ostile e nemica. Rompere con il mondo senza uscirne,
vale a dire non seguendo l'esempio e la strada dei folli, richiederebbe
una grande spinta, una grande energia, una chimica ed economia interiore
di grande respiro ovvero l'abbandono del principio di adattamento minimo.
[7]
L'esperienza della vita ci fa chiaramente esperire come i sentimenti non
sono per nulla disinteressati, anzi sono il prodotto dell'interesse, del
nostro personale interesse. È spaventoso, invece, che alla purezza dei
sentimenti si sacrifichi la verità su quelli; è tremendo il fatto che
anche dopo averlo scoperto e sperimentato siamo naturalmente
portati a rinnegare e respingere questa scoperta perchè entra in aperto
conflitto con la nostra idea di sicurezza e di sopravvivenza. Anche qui si
tratterebbe di mettere in questione la banalità di adattamento,
sopravvivenza e sicurezza di sè, rivendicando il ruolo della nostra
specie.
[8]
Cosa significa vivere la vita? Ragionare sulla vita e prendere delle
decisioni, due cose apparentemente complementari. In verità sono in
contrasto: per prendere delle decisioni non bisogna ragionare sulla vita.
Se si assume il ragionamento sulla vita come metro delle nostre decisioni
nella vita si finirà per non prendere decisioni. Ogni
risoluzione, infatti, analizzata pensando al fine della vita, ai suoi
scopi generali, entrebbe costantemente in concorrenza con un'altra o mille
altre. Ragionare sulla vita diviene presto e naturalmente dubitare sulla
vita. Non bisogna, dunque, ragionare sulla vita per vivere la vita: è una
semplice regola e necessità.
Lasciamo, inoltre, da parte non solo il ragionamento su fini e scopi ma
ancor di più sul senso della vita, perchè ci condurrebbero in un batter
d'occhio a non poterne individuare neppure uno: che senso può avere un
ammasso coordinato di molecole di carbonio in una galassia periferica
dispersa in mezzo a migliaia di altre galassie e aggregati di carbonio
organico vari ed eventuali? Assolutamente nessuno. Se si dovesse vivere la
vita tenendo presente questa dimensione del ragionamento ci si renderebbe
conto di muoversi in un'entità assolutamente priva di senso, non potendo
più dare un senso compiuto alle proprie azioni, volizioni e decisioni. Per
agire nella vita bisogna presupporre una cosa non - vera, non
necessariamente sbagliata, e cioè che la vita abbia un senso e il suo
significato è racchiuso nel non indagarlo. Si usa e si deve usare la
componente più epidermica della nostra ragione, ma è conveniente e,
perciò, intelligente, anche perchè la componente profonda serve a ben
poco.
L'arte della sopravvivenza, e non interrogarsi sulla vita fa parte di
quella, richiede, quindi, il ritorno o la conservazione di una fase mitica
e mitologica: il mito del bisogno di vita, la teoria e
rappresentazione della carica animalesca dell'animo umano e della mente
umana. Quello che permette all'uomo di sopravvivere e di continuare
a vivere è proprio la sua natura animale che disprezza la ragione quando
si rivela inutile alla sopravvivenza.
[9]
La natura umana non è altro che la ragione, la percezione e
l'immaginazione. La natura umana non è contrapposta alla ragione perchè la
ragione ne fa parte, è parte costitutiva di quella, non c'è un separato
tra ragione e natura umana. La natura subordina la ragione allo stesso
modo in cui la ragione subordina la sua natura. È un processo
biunivoco perchè non può essere che tale, anche se ragione e natura non
coincidono perfettamente. Soprattutto nei bambini è visibile e si
manifesta questa non coincidenza. Natura e ragione, infatti, tendono
entrambe al medesimo fine che è il bene e il piacere dell'uomo sotto
profili diversi e con metodi diversi che, nella crescita, convergono, ma
rimangono tali. La natura è fonte dell'energia emotiva, che è percepibile
dalla ragione e interpretabile, la ragione la media nei confronti
dell'estrerno, di quello che sta fuori dall'individuo, siano
altri individui, siano altre realtà. Per usare una metafora storico -
politica, la prima fornisce le forze sociali, la seconda elabora, in loro
nome, strategie e tattiche. Solo una capacità di compromesso
corrispondente alle richieste della natura rende l'uomo libero nel piacere
e nel bene; la ragione concede consapevolezza, coscienza di sè alla
natura, all'istinto che, alla fine, è un istinto razionale. L'infelicità e
la mancanza di libertà (che sono la stessa cosa) non nascono da una guerra
naturale e spontanea, innata, composta tra natura e ragione ma
dall'esterno che non permette il compromesso, che non concede alla ragione
di esercitare il suo ruolo. La natura, allora, giunge a rinnegare, per
rivolta, quello che è parte di sè, la ragione, a considerarla ostile e
nemica e a identificare la felicità e la libertà in quello che non è
coordinato dall'opera della ragione, perdendo, così, coscienza e senso
anche per sè.
[10]
Uno dei principali motivi della ribellione della natura contro la ragione
è l'educazione dell'uomo. L'educazione si prefigge, come primo obiettivo,
di portare fuori l'uomo dalla sua natura, sottoponendolo a comandi e
imperativi non discutibili. Facendo così l'educazione non fa appello alla
ragione, ma solo alla lotta contro la natura e si dimostra irragionevole.
Nello stesso tempo, però, necessariamente l'educazione si veste dei panni
razionali (altrimenti risulterebbe incomprensibile alla natura umana) in
modo tale che la ragione finisce per non poter esercitare la funzione che
le compete, mediare interno e esterno, con lo scopo di sopprimere
l'interno per identificarlo con l'esterno. La natura si ribella a quella
che è, a tutti gli effetti, una rivolta della ragione contro di lei e
finisce che natura e ragione cessano di parlarsi: la ragione prende il
posto della natura e la natura quello della ragione.
[11]
Lo strapotere dell'elemento razionale che l'educazione comporta fa in modo
che l'uomo educato sia funzionale e funzionante nella
conservazione e persistenza della società organizzata dall'apparato
educativo. La ragione si fa propugnatrice dei principi di dominio e
servitù come cosa naturale, come appartenenti alla natura umana, ovvero
alla sua stessa natura. I principi educativi sono naturali per la ragione
e presenti nella storia umana fin dalle origini, in quanto la nostra
specie si è sempre realizzata nella forma di una società organizzata; la
ragione stessa ha il compito di mediare interno ed esterno. Le società
organizzate secondo diseguaglianze e dominio organizzano naturalmente
apparati educativi adatti a rendere l'esterno subordinante l'interno, la
ragione subordinante la natura, e a fare della ragione qualcosa di diverso
da quello che è. Il potere della ragione, dell'elemento razionale, così
espresso e organizzato non significa affatto maggiore razionalità nella
vita associata e nelle relazioni tra gli individui ma una nuova forma di
ragione, una ragione collettiva e anonima, una ragione storica.
[12]
L'uomo nel quale la ragione e l'istinto naturale siano coincidenti o
meglio pacificamente conviventi non è compatibile con una
società dove alcuni uomini non hanno intenzione (per molteplici motivi) di
lasciare liberamente vivere gli altri uomini. Anzi quell'uomo libero
non è possibile, non solo non è compatibile. A livello psicologico si
verifica quello che accade a livello sociale in un rispecchiamento: la
realtà esterna assoggetta quella interiore. Tutto questo genera
infelicità, mancanza di felicità e di bene, non coincidenza tra natura
umana e ragione, tra istinto e il suo componente fondamentale nell'uomo.
Poichè però la tendenza al bene, al piacere e alla felicità che ne deriva
è naturale nell'uomo, allora è anche necessaria e naturale la
soluzione del problema della società, dell'esterno: l'uomo vuole cambiare
il mondo che lo circonda perchè lo deve fare, gli è necessario farlo.
[13]
L'inconscio della psicanalisi è una rappresentazione della natura umana,
uno sguardo comandato e limitato, educativo. Non ci si racconti la storia
della guarigione di un malato, di un paziente:
la guarigione assomiglia troppo a una nuova educazione, una
rieducazione psicologica alla compatibilità, dunque a una rieducazione
sociale.
[14]
Se consideriamo la grande funzione del cristianesimo nella storia sociale
la scopriamo come una storia pisicologica, una scoperta della socialità
della psicologia. Il cristianesimo è stato una sistematica frustrazione
dell'istinto naturale a favore della ragione, una ragione sistemica: la
morale. Neppure il platonismo si era spinto così avanti e così a fondo
nell'individuo come il cristianesimo con lo scopo di governare la natura
umana attraverso la ragione o, meglio, attraverso la negazione della
ragione naturale e l'affermazione di una ragione universale e astratta,
completamente estranea all'individuo. Il cristianesimo è stato, nonostante
gran parte di sè stesso, la prima vera religione integralmente razionale e
morale della storia dell'umanità.
[15]
Il cristianesimo passa come religione mistica, qualche volta si è piccato
di esserlo, se ne è inorgoglito. Non è molto credibile che l'esperienza
mistica sia preponderante nell'esperienza cristiana, anzi è molto più
credibile non ne faccia neppure parte. Nei vangeli il misticismo è
sconosciuto, solo l'apocalisse di San Giovanni propone un'estasi, anche se
indirettamente rappresentata. La vita di Gesù è la vita di un uomo.
Attraverso la mistica il cristianesimo cerca di difendersi da quello che è
stato storicamente: un complesso, un edificio razionale e morale ed
educativo.
I veri mistici furono marginali all'interno del movimento storico dei
cristiani; emblematico il caso di Francesco d'Assisi che solo dopo morto
fu considerato o meglio riconsiderato dalla gerarchia ecclesiastica.
Ancora di più emblematiche le scomuniche contro tutte le eresie a
contenuto mistico (catari, bogomili e pauliciani) che pretendevano di
riportare la ragione dentro l'istinto naturale, conciliandoli in modo
magari improprio ma questa conciliazione era profondamente impolitica.
[16]
La giustificazione del cristianesimo di fronte a sè stesso è del tutto
razionale di essere, cioè, un apparato razionale nonostante il mistero
dell'incarnazione, della resurrezione e numerosi altri incredibili
casi. Anzi la incredibilità è l'altra faccia di una religione razionale
che altrimenti temerebbe di perdere ogni connotazione religiosa. Il
terreno della mediazione sociale, terreno 'razionale' per eccellenza, è
stato genetico del movimento cristiano: basta pensare al famoso "date a
Cesare quel che è di Cesare" di fronte al nazionalismo ebraico. Il
cristianesimo è stato il cane da guardia della morale che ha, in buona
parte, inventato alla storia e ha davvero cambiato la storia.
[17]
Il misticismo cristiano si è limitato a dichiarare una guerra senza
quartiere contro la natura umana, intesa come unità consapevole tra
istinto e ragione, scindendo la ragione contro l'istinto. Il misticismo
cristiano non fa riferimento alla 'forza sociale' della mente, la natura
istintuale, ma alla forza di controllo della mente, la ragione e come tale
non è mistico, non è energia verso l'ascensione. Il 'misticismo' cristiano
è l'antiporta della psicologia clinica, ha creato le condizione per
l'invenzione della psicologia come strumento di educazione e rieducazione
sociale.
[18]
Non interessa sapere se fosse stato o chi fosse stato Gesù Cristo, basta
sapere cos'è stato il cristianesimo.
[19]
Le grandi religioni monoteiste (cristiana, ebraica e mussulmana) sono il
prodotto degli scarti mistici, ormai inutilizzabili, della religiosità
classica e sono espressamente tre religioni morali di massa. Le
caratteristiche di moralità e massificazione sono interrelate tra di loro:
la morale divenne fenomeno di massa sotto l'aspetto della sua
interpretazione razionale.
[20]
Il misticismo non è da meno della morale, agisce con altri mezzi, con
altre forze rispetto alla morale ma cerca di ottenere il medesimo
risultato con un altro sforzo. Lo sforzo rimane concentrato
sull'individuo, ovviamente. Il misticismo studia la natura umana,
l'istinto, la sua chimica e la sua percezione, non lo rinnega ma lo
riutilizza. Le pratiche mistiche sono quasi sempre corporee, assomigliano
qualche volte a pratiche rivolte alla sfera della sensibilità sessuale e
cercano di interrompere la comunicazione tra natura e ragione dal punto di
vista della natura, dell'emozione e della sensazione: il dolore diviene
piacere mentre il piacere si trasforma in dolore. Il misticismo fu ed è
una morale che si muove al di fuori dei territori della morale.
[21]
L'esperienza mistica ricompone l'unità tra natura umana e ragione,
proiettando l'uomo in una seconda realtà emotiva nella quale
ogni legame logico e analogico con la realtà esterna viene rivisitato e la
realtà diventa un sistema di simboli; la ragione, in tal contesto, ha il
compito di riscrivere la realtà esterna in funzione di questa
rivisitazione. L'esperienza morale mette al centro dell'unità tra natura
umana e ragione l'adattamento alla realtà esterna che rimane indiscutibile
e incontestabile. Sono entrambe esperienza manipolatorie della relazione
tra natura e ragione.
[22]
Perché temere la morte? Eppure il problema della morte ha dominato
l'esperienza morale degli uomini. La morte è stato il nero spettro, sempre
aleggiante, di tutte le società morali, più forte della vita poichè più
educativa, e in un mondo in cui l'educazione è fondamento della vita
sociale naturalmente più importante della vita. La paura della morte è un
fenomeno morale, è richiesta dalla morale. La morte è divenuta la misura
della nostra esistenza. Nelle società morali la ragione si impone come
autorità collettiva, anonima e indipendente dagli individui e l'emulazione
è divenuta il cuore stesso del vivere associato: imitare gli altri,
ottenere il loro medesimo adattamento alla vita e alla privazione di sè.
Questa emulazione guarda al presente ma si distende anche verso il
passato, verso quello che ci ha preceduto. Lo spirito di emulazione che la
morale richiede e che è parte integrante di quella ci costringe a temere
che la durata della nostra vita (lo spazio noi concesso) non sia
sufficiente a imparare la nostra parte in quella e a farci
adeguati. Allora la morte diventa limito estremo, invalicabile, la fine di
tutto e, sopratutto, sinonimo di sconfitta. Pensiamo a quanto la tematica
della morte sia stata sviluppata nel cristianesimo, fin dalla gioia dei
martiri davanti alle persecuzioni imperiali. La morte diventa, nel
cristianesimo, estremo valore e, al contempo, completo disvalore e guida
della vita.
Perchè, chiedo nuovamente, temere la morte? Non esiste motivo per temere
la morte che è come prima cosa qualcosa che non è, cioè è fine
dell'essere e della percezione e, quindi, non essenza e non esistenza.
Quello che non si conosce, e la morte non la si può conoscere o vivere,
non esiste. C'è, infatti, un'altra paura (estremamente vitale) a farci
temere la morte che è appunto la perdita di senso della vita. Certo quello
che viene detto dalla scienza accreditata istinto di conservazione
spinge l'uomo, come qualsiasi altro animale, a fuggire la morte ma
trasformare una fuga in timore costitutivo della vita è tutt'altra cosa.
Quanto la psicanalisi freudiana esalti il ruolo della morte nell'individuo
e nella sua esperienza esistenziale è sintomatico del suo debito verso la
morale e il cristianesimo; la morte, al contrario, non esiste, è una cosa
che va fuggita, evitata proprio perchè non è esistenza e l'esistenza è
tutto e poiché è tutto non è anche la morte nel senso freudiano e
cristiano.
[23]
La morte è diventata un mito, quindi qualcosa che trascende se
stessa (la non - esistenza) per diventare una realtà quasi concreta
(pensiamo all'ospedale che conduce all'obitorio di epoca moderna e
contemporanea) e organizzata: un fenomeno sociale con innegabili aspetti
economici e logistici. Tutto l'onore che viene concesso alla morte, tanto
nel mondo 'laico' quanto in quello religioso, quello strano rispetto che
la rende manifesta in cerimonie attentamente omologate, omogenee, il più
possibile uguali, il più possibile indifferenti alla vita dell'individuo è
il segno di un generale appiattimento delle esistenze. Le società regolate
da leggi morali costruiscono il mito della morte, quasi come momento
egalitario che manifesta la generalità della sopraffazione esercitata, e
in tal maniera costituiscono il mito si sè medesime. L'esistenza del
suicidio, che spesso è un'estrema ribellione verso questa inscindibilità
tra vita e morte, non fa che rinforzare la generalità di questa mitologia:
anche il suicida è un morto, un caso clinico, come tutti gli
altri.
Per usare Freud, l'istinto di conservazione ha assunto nelle
società morali valore fondante nella convivenza. al di là della morte e
oltre la morte, mentre il principio di piacere è diventato un
disvalore, un nemico da combattere e dirottato verso un timore, il timore
della morte, che è la sua negazione mentre apparentemente lo realizza. Principio
di piacere si è trasformato, spesso, in pulsione verso la
morte (Eros e Thanatos).
[24]
Definita la ragione, la razionalità, come un evento anonimo, collettivo,
slegato dalla natura umana e astratto (secondo l'accezione
marxiana del termine), la costruzione del mito di sè stesse da parte delle
società morali ha comportato la costruzione di un'immagine razionale,
rigorosamente razionale, della società. La società è divenuta razionalità
in essenza e le sue divisioni, le sopraffazioni e le violenze naturalità.
La società si propone come essenza della razionalità storica,
astrazione di un principio eterno ma predisposto (storico appunto) nato in
guerra aperta contro l'istinto di natura dell'uomo e la sua complessità.
[25]
L'istinto di natura umano è quel sentimento che desidererebbe l'uomo
completamente libero e abbandonato ai suoi bisogni. L'uomo senza
coscienza di sè. A questo, nella sua attività manipolatoria, la
morale contrappone la negazione dell'istinto così concepito, come privo,
cioè, di ragione e di percezione di sè, vale a dire un uomo costituito di
estrema e astratta coscienza di sè, niente altro che coscienza di sè che
è, alla fine, coscienza di nulla.
Allora, svelato questo contesto, si scopre quanto difficile possa essere
la riconciliazione tra la parte istintuale, la natura umana, e la ragione,
poichè posti in antagonismo e non in diversità, e quindi giungere, per
l'individuo, a un'autentica coscienza di sè, percezione di sè.
[26]
La coscienza di sè nasce solo dalla diversa azione tra i due poli (natura
e ragione, 'istinto' e 'razionalità) e dalla generazione di un piano di
unificazione del loro operato, che sia, quindi, cosciente dell'uno e
dell'altro polo, anzi che sia una cosa unica e una coscienza unificata di
sè.
[27]
La coscienza unificata di sè è la vera ragione, la vera 'razionalità', che
rende evidenti alla natura, all'istinto, gli ostacoli al suo sviluppo
'onnipotente'. Questi ostacoli sono immediatamente percepibili: la
presenza di altri individui e della realtà esterna. La vera ragione cerca
di instaurare una relazione con l'esterno che sia armoniosa con la natura
umana e quindi se dovesse trovare realizzazione sarebbe e punterebbe alla
distruzione della ragione e razionalità sociale dominante, come
espressione di una falsa armonia, un'armonia completamente esterna
all'individuo. Questa sintesi è l'uomo in sè e per sè, che non è un'entità
immutabile, poichè è prodotto della relazione e verifica tra interno ed
esterno, ma è un processo, un'evoluzione mentre la ragione sociale
pretende di avere una sua eternità predisposta.
[28]
Il sentimento mistico è un sentimento comune alle persone di più alta
sensibilità; è impensabile il misticismo in un profeta della morale e
della ragione sociale che cercano sempre l'appiattimento e la
semplificazione. È altrettanto impensabile il sentimento mistico in chi
amministra il potere, almeno nel momento in cui si dedica a
quell'attività, che è dominata dalla necessità di controllare gli
individui e gli eventi e non di comprenderli. Il mistico è alla ricerca di
una ragione e di una capacità dialettica diversa da quella sociale e
dominante anche se, alla fine, assumendo il misticismo come via di
rifugio, contribuisce a celebrare la morale. Solo in questo senso, e non
quando sono potenza morale, le religioni sono state oppio dei popoli.
[29]
Quante volte ci si trova di fronte a persone delle quali sappiamo che
hanno posizioni e idee sul mondo immutabili e ancora di più idee sulla
vita immutabili. Queste persone assumono sempre gli stessi comportamenti o
espongono sempre gli stessi concetti. Spesso, se criticati, assentono,
ammettono la loro fissità ideale e comportamentale, ma poi ignorano quelle
critiche e perseverano in idee e comportamenti, giustificandoli, però, in
altro modo: fanno il verso di cambiare la causa per mantenere fermo
l'effetto. La loro unica capacità apparente è quella di non ragionare, o
meglio di ragionare allo scopo di evitare il ragionamento. La
responsabilità di questa curiosa ma infida decerebrazione non è
comunque loro, o meglio tutta loro. Basta paragonare la quiete che
raggiungono attraverso questo falso ragionare con quello di chi,
ragionando, cerca di sostituire un sistema comportamentale, ideativo e
affettivo assodato, predisposto, con un altro, costituendolo. Questi si
sentono terribilmente isolati e inutili, sottratti all'abitudine e alla
sicurezza, al di fuori della ragione sociale e generale. Alcuni tra
quelli, liberandosi dalla ragione sociale solo a metà e non possedendo il
coraggio di percorrere tutta la direzione, hanno costituito la solitudine
e l'inutilità a propria ragione d'essere, ritirandosi dal mondo sociale, o
cercando di ritirarsi da quello. È questo il caso di molti movimenti
eremitici ed ascetici del passato. In questi gruppi di pensiero e di
sentimenti il dolore ha assunto il ruolo di ragione di vita, autentica
espressione della vita, sua realizzazione pura. Il dolore da accidente,
occasione dell'esistenza, è diventato la sua essenza.
Allora queste anime doloranti si proiettavano dentro la grande illusione
mistica che nasce dal dolore ma che è anche la fine del dolore, la sua
sconfitta: il dolore da effetto e 'sintomo' diviene, così, causa e motivo
dell'unicità e della irripetibilità, imparentate con la solitudine e
l'inutilità. Il dolore da effetto diviene motivo. Il ribaltamento del
dolore, la manipolazione del suo concetto, della sua percezione stessa, è
la grande dote (per certi versi positiva) della mistica sia essa orientale
(buddismo) sia essa apollinea (platonismo) o dionisiaca (cristianesimo e
misticismo moderno e 'laico').
Fin qui coloro che sono rimasti a metà strada.
[30]
Apparentemente basterebbe davvero poco per evitare tutto questo, questa fermata
a metà strada che è il misticismo, basterebbe accettare la
solitudine e inutilità come utile e necessaria; il rischio è che
anche questo interessante avanzamento possa diventare un atteggiamento
mistico. Al centro della nostra sfera emotiva non porremo, allora, il
dolore ma una supposta felicità che genera dal distacco e dalla quiete;
eppure la felicità che si ottiene è solo un occultamento del dolore, un
modo diverso di chiamare il dolore. In verità è difficile liberarsi dalla
ragione sociale senza assumere atteggiamenti di distacco mistico. Il
famoso dire di sì alla vita, cavallo di battaglia di Nietzsche,
rischia di essere un imbroglio ed è certamente più difficile di un
semplice sì. Più vicina alla fine del percorso che i mistici abbandonano è
la parola d'ordine di Rimbaud "cambiamo il mondo e cambiamo la vita",
diciamola più nietzchiana di Nietzsche ma anche quella si dimostra
vincolata a un'oggettività storica a una situazione esterna che non
necessariamente riguarda l'individuo e con la quale il singolo, la
persona, deve imparare a relazionarsi a ricostituirsi.
In ultima analisi non è affatto facile liberarsi dalla ragione morale,
astratta e predisposta che domina coloro che preferiscono l'immutabilità e
l'eternità prescritta. Lo stesso individuo che decide di non cambiare
atteggiamento verso l'esistenza, di rimanere uguale a sè stesso in ogni
circostanza, che vive nell'abitudine e nella sicurezza, è a suo modo un
mistico, soprattutto quando persegue la sicurezza del sentimento di sè. La
mistica è un'autodifesa palese e nascosta.
[31]
La mistica è stata un'autodifesa svolta in maniera palese nella filosofia
anti - hegeliana dell'ottocento (Schopenhauer, Kiergkegaard, Nietzsche)
che è, a mio parere, una filosofia di sopravvivenza, che
persegue tecniche di conservazione del sè contro l'apparato morale e
sociale al suo apogeo in quel secolo. La filosofia della sopravvivenza è
reale, svela le reali relazioni tra natura e ragione, la loro chimica, ma
inequivocabilmente meno vera di quelle di Hegel, che ha colto
senza spirito critico l'essenza dei nuovi tempi del capitalismo
ottocentesco e il suo sguardo / interpretazione del passato. La mistica è
stata un'autodifesa svolta in maniera nascosta nei comportamenti generali
delle classi subalterne, sia nella versione religiosa (eresie medioevali)
sia nella sua versione laica (pensiero e soprattutto organizzazione
politica socialdemocratica e comunista). Considerazioni simili in Negri.
[32]
La peggiore pretesa del pensiero umano, della ragione slegata dalla
natura, è stata quella di astrarre concetti etico - estetici universali,
il mondo delle idee. L'idealismo pretende di costruire un cielo di idee e
valori assoluti, posti per definzione al di sopra dell'uomo, ma che hanno
il compito di influenzare e guidare la vita quotidiana, la collettività e
le comunità. Dal momento che, però, l'uomo è sempre stato ostile e
diffidente verso le astrazioni ideali, allora l'idealismo si è affidato
allo stato, costituendo, in cambio, il suo ideale, formulando la mistica
dello stato come autentico strumento politico adatto all'elevazione degli
uomini al mondo delle idee, o meglio alla loro partecipazione di quello. I
valori universali sono diventati, così, valori morali imposti, difesi e
garantiti dall'autorità dello stato.
[33]
L'idealismo ha collaborato con lo stato alla costruzione etico - penale
che riduce l'uomo alla morale, a essere gioco - forza un agente morale, a
essere gioco - forza partecipe passivo dello stato di cose presenti. Tanto
l'idealista ha richiesto il ministro, quanto il ministro aveva bisogno del
pensatore idealista: attraverso l'idealismo il concetto di stato si è
depersonalizzato e si è fatto astratto e anonimo insieme con l'anonimato
delle sue leggi.
L'alleanza tra idealismo e stato, alleanza naturale, ha condotto l'uomo
alla perdita della coscienza di sé e all'alienazione dalla propria natura.
[34]
Le astrazioni dell'idealismo si dicono universali malgrado la loro
origine. Da dove, infatti, li astrae? Dalla realtà come, evidenza
lampante, l'idea di stato o di politica, che è un'astrazione
universalizzante di un'attività specifica con fortissime caratteristiche
storicizzate. Quindi l'idealismo ha assolutizzato delle esperienze
storiche, alla fine semplicemente umane, entrando in quel processo di costruzione
del mito razionale di sè stesse che ha reso universali i valori
delle società organizzate secondo la morale, secondo lo stato e secondo la
supremazia di una classe di uomini su di un'altra. I localismi statali, le
peculiarità dei poteri sul territorio, pur non venendo cancellate
(preesistenti tribalità, etnicità, tradizione giuridiche particolari,
forme di cooperazione e via discorrendo) sono riassunte in un concetto non
univoco (perchè è impossibile che lo sia) ma generalizzante e in quanto
tale valido universalmente, nello spazio e nel tempo.
[35]
La vita è contrassegnata da due contrari perfetti: da un lato la nascita
dall'altra la morte. Da una parte il passaggio dal non -
essere all'essere e dall'altra parte dall'essere
al non - essere. Ma prendiamo la vita, qualsiasi vita, e
guardiamola come se fosse un rametto o un segmento intuiremo che tra i due
estremi esiste una netta e invincibile continuità che fa essere quel
rametto un rametto e quel segmento un segmento. La vita è un continuum
spazio - temporale e dunque logico molto preciso, imprenscindibile che è
dato dalla vita stessa, precisamente come il rametto è dato dal rametto
stesso e il segmento dal segmento stesso. Alcuni dicono, pensano e si
comportano quasi di conseguenza, che nascita e morte non appartengono alla
vita, che il segmento non ha estremi e che il rametto non ha bordi. Il
prima e il dopo della vita, per costoro, diventano più importanti della
vita stessa, fenomeni che regolano la vita stessa. La vita, invece, è
anche nascita e morte, è essere e non - essere messi
insieme e non esistono preminenze e maggiori importanze.
[36]
Seguendo il filo di questa continuità spazio - temporale e logica si può
giungere a non concepire, nella vita, il passato, il presente e il futuro.
Come per chi credeva nella predestinazione, il nostro futuro è già
esistito poiché appartiene a quel percorso logico non frazionabile che è
la vita: in un segmento possiamo individuare un davanti e un di dietro,
una sinistra e una destra, ma non un prima e un dopo. Quanto sia
logicamente appropriato questo modo di intendere la vita, anche se non
effettivo, è testimoniato dal masochistico rituale dei cristiani che
chiedono perdono a Dio anche per i peccati che dovranno ancora commettere.
Questo modo di pensare la vita, tolta l'ansia moralistica in cui è immerso
presso i cristiani, può donare serenità nell'affrontarla senza farci
perdere il piacere dell'azione e dell'iniziativa in quella. Il futuro che
sarà, è stato deciso, ma deciso da noi.
[37]
Torniamo ai concetti di essere e non - essere usati
precedentemente. Concetti utili ma assolutamente falsi. Il fatto stesso
che si eguaglino dentro la vita ci dà l'idea della loro vuotezza: secondo
una vecchia legge matematica due contrari si dovrebbero annullare e, di
conseguenza, la vita stessa sarebbe il nulla. Quello che chiamano essere
è tanto ciò che alcuni chiamano davvero essere quanto ciò che
altri potrebbero chiamare non - essere. Essere è,
invece, il 'tutto', il continuo logico degli eventi in eterno, miriadi di
segmenti che costituiscono una retta o una miriade di rette. Essere
non è altro che l'esistenza delle cose e degli uomini, che non
sanno darsi che nella forma dell'esistenza. Lasciamo da parte
l'accattivante idea dell'esistenza consapevole, della coscienza di
esistere che dovrebbe qualificare la nostra esistenza e farne quasi un essenza,
un essere allo stato puro, un esistenza al quadrato. La
coscienza di esistere non ci preserva, ovviamente, dalla fine
dell'esistenza, anche se ci è molto utile nella nostra esistenza concreta
essa non può dare un significato universale alla nostra vita. Certa
filosofia indiana propone allora una immedesimazione della coscienza
individuale in una coscienza, un sè, universale ed eterno: quello, eterno
esistente ed eterno cosciente, sarebbe l'essere al quale noi
partecipiamo, così, credo, alla fine la scolastica e tutto l'idealismo
moderno. Il mondo e l'universo sarebbe un organo dotato di intelligenza e
di finalità, un organo onnipotente e onnipresente e le sue leggi, nella
versione occidentale di questo misticismo, quelle della chimica e della
fisica. Le leggi della chimica e della fisica sono regole che non hanno
prodotto il mondo con determinazione ma solo per caso, precisamente come
le leggi della genetica e, come per caso questo universo è saltato fuori,
così per caso, per una regola che contiene un errore algebrico e chimico,
svanirebbe. La coscienza universale delle scienze non esiste. Alla fine
della fiera la nostra vita non è altro che materia stellare all'inizio,
durante e dopo. Da dove nasce, qualcuno potrebbe obiettare, la validità
universale delle leggi scientifiche? Non lo so e neppure mi interessa
saperlo ma non è una questione di coscienza di sicuro, di una coscienza
universale ed eterna, di un essere o essenza. Certo
che i fili di miriadi di esistenze hanno dotato di un tale spessore il
concetto di esistenza da richiedere, quasi, l'elaborazione di un'idea che
le riassumesse tutte, ma si tratta di un prodotto della coscienza che si
confrontava con quello spessore e non di una verità.
[38]
L'arte è la quintessenza della comunicazione umana. Un sorta di
astrazione concentrata della comunicazione sociale. Quale il limite
dell'arte? Di essere la quintessenza della comunicazione di una parte
dell'umanità senza l'altra e, spesso, contro l'altra. Ha poco senso
domandarsi, in un contesto simile, quale sia l'arte più espressiva,
maggiormente vicina alla vera natura dell'uomo; Platone e Schopenauer
dicevano la musica, altri le arti figurative (Aristotele immagino) ma
all'arte manca, qualsiasi essa sia, il carattere universale. È una bugia
sociale, quindi, e tale rimarrà fino a quando sarà detta arte.
[39]
Notevoli sono le affinità tra il mito di Dioniso e il mito di Cristo.
Dioniso risorgerà e libererà l'umanità dalla galera delle forme individue
e dal dolore poiché ogni giorno egli stesso ha sofferto di questa
separazione e individuazione; Cristo risorgerà come Dio e in quanto Dio di
tutti gli uomini (non solo degli Ebrei), realizzando la riconciliazione
degli uomini con Dio. La differenza sta nel fatto che la rinascita
cristiana avverrà sotto il segno dell'individuazione (il corpo), quella
dionisiaca nella definitiva liberazione dal corpo.
[40]
L'essenza delle religione è la compensazione. È una compensazione che
serve a rafforzare l'arte di sopravvivere, l'istinto di sopravvivenza,
offrendo a quello sussidio. L'istinto di sopravvivenza, che ha sempre
veste razionale ed è un istinto razionale, impone all'uomo di
accontentarsi e gratificarsi di fronte alla necessaria assurdità
dell'esistenza, quando non voglia abbandonare la speculazione filosofica e
il ragionamento sul senso della vita ma, al contempo, desideri continuare
ad agire e a fare la vita. L'esistenza di uno scopo per il
mondo, uno scopo dato dall'esterno del mondo è una fortissima
compensazione. Ancora più forte si fa questa necessità di compensazione
quando la società non offre all'uomo le possibilità di una vita sicura;
questa si intreccia all'altra. E si intreccia in un altro modo: la
religione porta con sè, oltre che un fine ultimo per il mondo e per la
vita, anche un fine ultimo per la società e, quindi, una giustificazione
per le proprie sofferenze sociali ed economiche. Infine introduce un
concetto attivo e fondante per la società, la vita in società e la
sopportazione delle sue regole: la morale; addirittura la morale diviene
la regola sociale e non si riesce più capire se prima è nata la società e
poi la morale oppure la morale e poi la società. Sicuramente la morale ha
reso possibile il vivere asociato e il vivere associato ha richiesto la
morale. Quindi il sentimento religioso ha due matrici: la relazione
dell'uomo con la natura, con il mondo, per certi versi una matrice
filosofica, la relazione dell'uomo con gli altri uomini, per certi versi
una matrice sociologica. Sulla prima non credo si debba spendere molto: è
dote inutile ma inevitabile la capacità speculativa dell'uomo, il
ragionamento astratto sul senso della vita. La seconda si lega alla prima
perchè fa riferimento alla capacità speculativa, che si cimenta con un
ragionamento astratto sulla realtà sociale, trasformando gli uomini in
relazioni e le relazioni in simboli, per introdurre la sua compensazione.
Ma se la prima compensazione è quasi costituiva, di fronte al problema
della nostra 'finitezza', alla potenza della natura nei nostri confronti e
alla nostra debolezza di fronte a quella, la seconda appare meno
essenziale e costitutiva. Perché una società formata da uomini percorsi
dalle stesse ansie e paure verso il mondo della natura dovrebbe diventare
fonte di paura e ansia essa stessa, quasi una seconda natura ostile?
Le relazioni stabilite tra gli uomini non sono, evidentemente, così
gratificanti e le relazioni non perfettamente simmetriche: quanto più una
società si allontana da relazioni simmetriche tra i suoi componenti, tanto
più accumula energie presso alcuni e toglie energie ad altri. La società
cessa di essere una collaborazione tra soci e finisce per essere il
dominio di alcuni soci sugli altri soci, cessa di essere collaborazione
concreta per divenire collaborazione astratta, sciolta dal suo significato
iniziale. Qui si forma la morale, nel cuore dei dominatori come potenza
intellettuale e nel cuore dei dominati come compensazione e gratificazione
per la loro subordinazione. Il sentimento religioso, allora, si fortifica
e cementa, fino al punto che, con il progredire della forma sociale, non
ha bisogno neppure di un Dio e di una trascendenza, ma solo di un fine,
una finalità morale che può essere tranquillamente laica. È qui la cifra
del sentimento religioso dei laici e degli atei di cui furono maestri i
rivoluzionari francesi che abbatterono definitivamente la trascendenza
della morale e della legge, per farne un prodotto dell'immanenza, pur
sempre di valore universale.
[41]
La religione autonoma (la relazione diretta con Dio), laica e atea (la
relazione diretta con lo spirito della legge e della morale) non è affatto
stimolo all'indipendenza dello spirito dalla speculazione e dalla
compensazione, anzi alle volte è peggiore dipendenza di quella causata
dalla religione strutturata, gerarchizzata e autoritaria. Essa fa
riferimento alla libertà dello spirito con ogni sua forza e si proclama
essere il prodotto di una scelta e speculazione libere. Dove si trova,
però, questa libertà? Questa libera scelta? In un altra immagine divina,
in un'altra trascendenza, questa volta non divina ma umana, vale a dire in
qualcosa che è anche dichiaratamente creato dall'uomo, mentre nella
religione autoritaria almeno il responsabile era Dio. Quindi è l'uomo a
diventare e a riconoscersi come nemico di sè stesso, il peggior nemico di
sè stesso, l'artefice dell'asimmetria e dell'ingiustizia e il moralista
che le giustifica.
L'uomo che crea libere scelte, poi, è un impossibilità logica: spirito
libero è una frase vuota. Ogni pensiero, ogni emozione e ogni idea sono
determinati da processi analoghi a quelli che regolano il 'tutto', non
sono liberi ma determinati. Proprio coloro che si riempono la bocca di
ordine, morale e valori se ne dicono forniti dal loro libero pensiero e
dalla comunità di liberi pensatori che frequentano, mentre,
contemporaneamente, ritengono le loro compensazioni necessarie socialmente
e moralmente. Sono una contraddizioni in termini: perseguono il
determinismo e il finalismo facendo l'elogio alla diserzione dall'ordine
logico attraverso il 'libero pensiero'.
[42]
La religione autonoma ha la grande proprietà rispetto a quella eteronoma e
indotta di scegliere i processi ideativi, di fondarsi da sè medesima. Il
fondamento dei suoi precetti, della morale, sono slegati dalla ritualità
ecclesiastica e vivono di luce propria. La religione autonoma cerca di
porre la ragione alla base della morale e non ha bisogno di riti,
cerimonie e divinità; facendo così pone l'uomo davanti a sè stesso. Appare
certamente arida nei confronti della religione autoritaria e tradizionale,
ricca, invece, di segni, simboli e cerimonie. Sia la religione autonoma
quanto quella eteronoma vivono in parallelo con il mondo sociale che le
ospita, ne sono un prodotto e lo producono, ma la religione autonoma
mostra più direttamente l'epoca in cui vive il suo artefice ed ha il
pregio di presentarsi come originata da una personale espressione,
un personale ragionamento dell'individuo. Questo ragionamento
pretende, però, di farsi universale, di proporsi agli altri individui e a
tutte le epoche, di essere valido universalmente, precisamente come per la
religione eteronoma e autoritaria. Quindi la religiosità autonoma e laica
e quella eteronoma e divinamente determinata non si dividono sul come
della morale, sulla sostanza dei suoi precetti ma solo sul perchè, sulle
cause che originano la morale e i suoi precetti. In verità entrambe non
sono altro, anche se dette secondo una mitologia differente, espressione
della relazione tra l'individuo, la natura e la società, espressione delle
esigenze generali della società e questa generalità comporta il carattere
di astrattezza delle norme: un'energia slegata dall'individualità,
un'energia psichica, tende a darsi nelle forme dell'astrattezza
dell'indifferenziato, dimenticando la sua origine e sorgente.
[43]
Le religioni istituzionalizzate (cristianesimo, islamismo ed ebraismo)
sono la completa decerebrazione dell'uomo, la rinuncia alla sua capacità
di usare la ragione. La ragione diviene un disvalore, un elemento
negativo, un nemico. Nella loro componente mistica le religioni
istuzionalizzate fanno ampio riferimento a questa decerebrazione:
l'istinto di conservazione, la sicurezza del sè viene posta al centro
dell'uomo e non come valore razionale ma come dato emozionale, ilotico.
L'uomo comprende il senso del mondo, secondo quelle, solo rinunciando a sè
medesimo.
La religione autonoma, invece, propone una visiona parziale e relativa del
mondo, il punto di vista dell'uomo e poi dell'individuo sul mondo.
Non rinuncia a una visione complessiva sulle cose del mondo ma mantiene
sempre rispetto a quella una sorta di timore e di pudore: potrebbe anche
non essere così. Certamente propone anche non la distruzione della mistica
ma l'elaborazione di una mistica personale. Spesso molti profeti della
modernità hanno considerato la religione autonoma, laica e personalizzata
come un nemico peggiore di quella autoritaria e istituzionalizzata poichè,
in parte a ragione, hanno denunciato il fatto che in quella la
mistificazione della sua genesi è posta alla massima potenza: l'uomo
pretende, con quella, di superare l'uomo e di darsi delle regole 'umane' e
universali, di costruire l'uomo a partire dall'uomo. A mio parere, però,
la religione autonoma e laica, la religione moderna, egemone nei paesi
'occidentali e sviluppati', ha il pregio di essere intrinsecamente
relativizzabile e quindi nei suoi fondamenti ha anche lo strumento per la
sua negazione critica.
Nulla di tutto questo per la religione autoritaria e divinamente ispirata
nella quale è forse vero che è minore la dose di mistificazione e
falsificazione, poiché non pretende di rappresentare l'uomo, ma il divino
nell'uomo, ma nella quale la dose di forza, violenza e coercizione è
massima: essa nega l'uomo senza neppure guardarlo, toglie dalle mani
dell'uomo ogni strumento critico su sé stesso e ne fa un essere
trascendente e moralizzato nella trascendenza. Il piano dell'umano è
indifferente a questa trascendenza e l'uomo, alla fine, non esiste se non
come strumento per la divinità e della sua divinità.
[44]
La formazione di valori morali autonomi è naturale nell'uomo poichè ama
stabilire delle regole di utilità per sè nelle relazioni con gli altri e
le relazioni con gli altri sono alla base del carattere della nostra
specie: l'uomo è un animale di branco e di gruppo. L'elaborazione delle
regole ha l'effetto immediato di rendere migliori le relazioni con il
resto della specie ma anche l'effetto secondario di illudersi di governare
il futuro. Seguire le regole, vederle condivise e rispettate anche dagli
altri uomini determina la sicurezza del futuro e anzi genera l'idea stessa
di futuro. Il futuro è un prodotto della morale o meglio dell'idea che
l'osservanza collettiva delle regole di convivenza produca la possibilità
stessa del futuro. L'organizzazione sociale, lo stato, anche il più
embrionale, si pone, come prima cosa, il problema della prevenzione e
della previsione, l'organizzazione degli individui che lo compongono e
dunque progetta il futuro. La morale e lo stato sono la causa e l'effetto
dello stesso processo e non facilmente separabili l'uno dall'altro. Questa
è la componente buona della morale, quasi una caratteristica
della nostra specie: la scoperta della convivenza, della cooperazione e
del futuro.
Ma cosa è accaduto alla morale e allo stato per trasformarsi prima in un
portato divino e poi in un universale umano? È accaduto che le forme delle
relazioni dentro l'organizzazione sociale si sono complicate, che alcune
energie dirette verso la collaborazione han dovute cambiarsi in indirette,
che si è generato un surplus economico e psichico dentro le relazioni, e
questo surplus è stato prelevato, immagazzinato e sottratto ai suoi
autori. È nato, allora, lo stato per come lo conosciamo oggi ed è nata la
morale per come la conosciamo oggi sia essa eteronoma o autonoma. Anche la
religione e morale autonome, che apparentemente potrebbero assomigliare
alla morale primordiale e forse alla religione primordiale, sono solo
delle ricadute, degli effetti secondari della morale eteronoma e dello
stato asimmetrico, anzi, oggi sono lo strumento più funzionale alla sua
legittimizzazione e la morale e religione autoritarie ed eteronome degli
utili puntelli folclorici.
Ciò che bisogna fare e per questo adoperarsi è recuperare il senso della morale
originaria e insieme con quella dello stato originario, fare
in modo che l'esistenza del futuro e della progettazione non sia posto al
di fuori, come oggi accade, dal futuro e dalla progettazione, dalla
utilità autentica della collaborazione tra gli individui. Tornare alle
energie dirette e simmetriche, non significa tornare al paleolitico, ma
andare verso un nuovo paleolitico, quello della liberazione e della
tecnologia, non significa tornare a una società semplice e 'autentica' ma
verso una società complessa in ragione della sua complessità e non della
divisione e differenza che si sono costiuite sulla complessità.
Conciliare, quindi, la coesistenza tra gli individui, l'istinto vitale e
la ragione e costituire un nuovo modello di ragione che non può essere
quello che ha costruito il finalismo di morale autonoma ed eteronoma.
Questa nuova morale non sarà nè autonoma nè eteronoma, sarà una morale necessaria.
Questo significa che il mondo sociale procede necessariamente verso
la liberazione cioè verso un fine? Sì, il mondo sociale ha un fine
ma è un fine necessario e intrinseco, non imposto ed estrinseco e come
tale non ha un vero fine.
[45]
Il problema della sostanza della realtà, la verità, è soprattutto un
problema di forme e di contenuti e delle loro
relazioni. La forma e il contenuto non esistono per sè stessi, in quanto
tali, ma sono una relazione, un rapporto, tra il modo di presentarsi della
realtà e il modo di essere della realtà. Non sono punti fermi. In che
rapporto sta la forma con il contenuto? In che rapporto sta il
comportamento umano con la sua intima essenza, in che rapporto stà
l'effetto con la causa? La forma è il modo di presentarsi, mostrarsi e
realizzarsi di un contenuto in ordine sociale e ideologico: l'uomo e
l'uomo sociale. Ma quante relazioni vengono costituite tra l'uomo sociale,
la presentazione di sè, e l'uomo in quanto tale, la ragione fondamentale
dell'uomo? Infinite e talmente sconfinate da mettere in discussione gli
stessi concetti di uomo e uomo sociale. Lo scopo fondamentale dell'uomo,
il suo contenuto, è quello di sopravvivere e avere sicuro sentimento di sè
all'interno dell'ordine sociale e chiaramente questo sè, al di fuori
dell'ordine sociale, esiste come polo, motore inestinguibile della
presenza dell'uomo in quello, nella società. Potrebbe essere il polo del contenuto
che si contrappone, interagendo però, a quello della forma. La
relazione primordiale tra forma e contenuto si
è andata, nel corso della storia e dello sviluppo dei sistemi sociali,
complicando.
Inizialmente la relazione tra rappresentazione di sè e sè istintuale era
diretta. L'uomo era soprattutto ciò che faceva e quello che doveva
fare per mantenersi in comunità, come uomo tra gli uomini; la sua
intima essenza, la sua verità non contava nulla e la sua verità si
riduceva alle relazioni sociali dirette che instaurava. Non si poneva il
problema della verità sull'uomo. Esisteva un codice comunicativo generale
funzionale al gruppo di appartenenza, che si traduceva in un codice
religioso e morale proprio del gruppo, capace di 'spiegare' la presenza
dell'uomo nella natura e la società umana che affrontava i pericoli, i
rischi e le potenze della natura; questo codice andava rispettato
scrupolosamente sia per conseguire la cooperazione sociale sia, per
effetto secondario, per conquistarsi il rispetto della natura. Lo scrupolo
cerimoniale faceva parte della legge e ne era l'essenza.
Poi vennero gli altri gruppi e i contatti con gli altri gruppi umani, che
si erano dotati di altri e scrupolosi codici di comportamento. Questo di
per sè non poteva comportare la crisi dei codici, tutt'altro, ognuno
trovava valido il suo, legandolo alla sua individualità, al suo contenuto.
Accadde qualcosa, però, all'interno di alcune comunità che, in presenza
del contatto con altre comunità, determinò una variazione, una mutazione,
netta. Le relazioni all'interno di alcuni gruppi si volsero alla
realizzazione di un surplus e al suo immagazzinamento, sia sotto il
profilo produttivo quanto in quello emotivo. In quei gruppi la relazione
tra contenuto e forma si era data la forma polare: la
forma prevaleva sul contenuto e pretendeva di
descriverlo; la forma diveniva priva di alcuni aspetti del contenuto e si
faceva astratta e cioè generale, valida anche al di fuori della comunità.
Questi gruppi, immagazzinando energie psichiche, emotive e produttive,
potevano affrontare la relazione con le altre comunità in maniera diversa
dalla tradizionale relazione simmetrica: nella misura in cui le loro
relazioni interne si erano date nell'asimmetria, così tendevano a imporre
asimmetria anche in quelle esterne e a proporre un quadro di relazioni
astratte. Questo slancio, questo surplus vitale e produttivo, portarono
alla soggezione degli altri e alla determinazione di una religione
astratta e, come tale, unificante. E proprio in questa fase, quella del
paganesimo classico, si presenta, per la prima volta, il problema del contenuto
cioè il problema della 'vera natura' dell'uomo in ragione di quanto la
relazione tra forma e contenuto era divenuta polare, quasi costituiva di
due entità separate. Il paganesimo visse queste due realtà separate, ne
fece quasi la sua etica, la concezione dell'uomo.
Il problema dell'uomo e la costituzione di un'identità polarizzata preparò
il campo, ben presto, a una terza fase dove lo slancio ideologico -
religioso scelse risolutamente il polo della forma, negando il contenuto,
e mettendo alla berlina ogni sentimento individuo e personale, ogni
soggettività al quale ormai si era ridotto il contenuto, il polo
della natura istintuale dell'uomo. Ogni sentimento personale venne
equiparato alla colpa e la socialità determinata divinamente
divenne l'unica forma di convivenza: le società classiche si trasformarono
in società di massa, facendo l'elogio dell'eguaglianza di tutti
nell'oppressione. Chiedersi il significato della vita, cosa indifferente
all'uomo tribale, ma interessante per quello classico, era sinonimo di
peccato: si tornava, in altre forme, all'uomo della comunità primordiale.
L'astrattezza e la generalità governò il pensiero e la società e le sue
regole divennero espressione di una sacra trascendenza, posta fuori dalla
storia, sovrastorica. La società, appoggiandosi alle grandi religioni di
massa, nascondeva i suoi reali scopi, che erano quelli del dominio
di una parte degli uomini sull'altra, in fondo all'inconscio sociale, a
quello che non poteva venir detto. La ribellione contro la società
diveniva ribellione contro Dio, l'onnipotente e pluriforme Dio - Re, Re
divinizzato, che riassumeva in sè anche le precedenti figure di Re -
Sacerdote e Re - Stregone. La relazione tra forma e contenuto
paradossalmente si semplificò, tornando, quasi, a quella tribale ma ora
era la forma, l'uomo sociale, a subordinare e annullare l'uomo.
Il feudalesimo fu una forma particolare e speciale di tribalità che
sorpassò lo stato classico.
Nella società capitalista la polarità cancellata dalla società feudale si
ripresenta, il problema dell'uomo si ripresenta e non casualmente la
cultura classica viene recuperata. Il contenuto viene davvero
pensato come essenza dell'uomo (istinto di conservazione, istinto di
piacere, cooperazione tra gli individui) che interviene direttamente nella
forma fino al punto che essenza e forma vengono pensate, e sono,
un unico logico. L'essenza influenza la forma e a sua volta la
forma influenza l'essenza: l'uomo agisce a partire dal suo modo di sentire
e di percepire sé, che è il suo essere, e il risultato della sua azione
cambia quel suo modo di sentire: il contenuto e la forma vivono
di cicli interattivi. Il capitalismo offre una grande libertà: ognuno
coltiva il suo codice comunicativo, o lo può coltivare, e ognuno galoppa,
inconsapevolmente, verso la libertà comunicativa, proprio come la società
assume contorni liberali e libertari e considera la sua forma espressione
diretta della sua essenza. La polarità tribale e classica viene risolta
non nel senso del governo della forma ma in quello dell'essenza sulla
forma: nel capitalismo il contenuto affonda la forma.
Il capitalismo scrive e parla di necessità alla società, e la
società è la sua società: il contenuto è naturalmente svolto
nella forma del capitale che è la naturalità dei rapporti
sociali ed economici. In mezzo a tutto questo materialismo e necessità,
dove il contenuto diviene la forma e l'uomo ritrova, finalmente,
sè stesso e la sua vera natura, proprio dentro questi il capitalismo
elabora le sue liturgie e i suoi miti. Anche il contenuto del
capitalismo, apparentemente così concreto e lineare, ha bisogno di una forma
ma non di una forma trascendente, che criticherebbe la sua necessità, ma
di una forma immanente. Il capitalismo elabora una sorta di idealismo
del materiale che è la filosofia moderna e che è l'idealizzazione
delle necessità e delle leggi necessarie al capitalismo per riprodursi. La
riscoperta del polo del contenuto così diviene illusoria, una
finzione e con quella anche la libertà dei codici di comunicazione che si
danno in forma libera ma senza una libera operatività: non a caso durante
il capitalismo viene definitivamente formalizzata l'idea dell'arte e perde
di significato e di ruolo il personaggio dell'artista.
[46]
Il ricatto nucleare è una vera e propria sindrome depressiva iniettata sul
sociale per rafforzarne la governabilità.
[47]
La profonda analogia che esiste tra amore e follia sta nell'iniziamento.
Non ci si accorge quando ci si addentra nel vortice dell'amore come quando
ci si avvicina alla follia. Entrambi gli stati d'animo si costruiscono
gradualmente, impercettibilmente. Da questa inconscienza potrebbe anche
derivare il fascino innegabile di entrambi che si presentano
silenziosamente alla coscienza.
Amore e follia, inoltre, riguardano il ragionamento su noi stessi e
provocano un cambiamento nel nostro modo di percepirci.
[48]
L'attività artistica, quella conoscitiva e, in genere, le attività
intellettuali dell'uomo sono determinate dalla volontà di comunicare e
quindi di trovare un linguaggio per la comunicazione. L'uomo non sa che
farsene del suo pensiero se rimane solitario, fermo dentro di sè. La
volontà di comunicare il proprio pensiero origina da un processo simile a
quello dell'amore e della follia: comunicando il nostro pensiero, ci
comunichiamo agli altri, provocando un cambiamento nel nostro modo di
percepirci e di ragionare su noi stessi. Quando, infatti, ragioniamo in
funzione della costruzione di idee adatte alla comunicazione, ragioniamo
in vista della comunicazione, ragioniamo diversamente che davanti solo a
noi stessi. Il fatto stesso di pensare alla comunicazione ci impone un
diverso modo di ragionare, non solo una maggiore attenzione e precisione
ma anche altre idee, altri elaborati: le idee solitarie si trasformano
quando pensano di diventare pubbliche e collettive. Le idee solitarie
devono commisurarsi con le idee degli altri, le loro obiezioni e critiche
e devono immaginare gli altri.
[49]
Le cose che si pensano o si possono pensare appartengono tutte, nessuna
esclusa, a un meccanismo che trova nella realtà materiale il suo
principio; la realtà materiale è tutto quello che ci circonda dalle cose
materiali a quelle ideali, dagli attrezzi ai principi. Tutto quello che
colpisce la nostra mente è la realtà materiale. L'uomo risponde sempre e
solo a stimoli esterni, a sollecitazioni esterne perché appartengono alla
sua stessa natura, che è materiale. L'uomo è una realtà dialettica,
costituita dai due 'poli' di contenuto e di forma, che
si mette in relazione con un'altra realtà vissuta dialetticamente, la
realtà esterna che viene interiorizzata. La realtà esterna produce nuove forme
nell'uomo che intervengono sul suo contenuto, modificandolo:
l'uomo non è mai identico a sè stesso, è un processo di modificazione.
Anche la realtà esterna è un processo di modificazione. La sintesi di
questo rapporto è dinamica, inevitabilmente, è un ulteriore balzo nello
sviluppo sociale che tende incessamente a superare i suoi presupposti
senza fermarsi mai.
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