1 - Del problema dei mezzi e dei fini
L'esposizione di questo problema ha da
iniziare con la sua origine storica: il '500 e il pensiero di
Macchiavelli. Allora il fine giustificava i mezzi. Compariva il fine
definito razionalmente, come obiettivo politico e sociale. Si perseguiva
il fine della edificazione di uno stato accentratore e accentrato
intorno a una figura monarchica e ogni espediente sociale ed economico
era valido per ottenerlo. Si aveva il fine di costruire
un'organizzazione sociale stabile e di garantirla con ogni strumento:
ogni strumento politico era valido, fosse esso il principato o la
repubblica.
Questo ragionare di Machiavelli era talmente radicato che si può
scrivere che nel suo mondo politico ideale tra il fine e il mezzo non
esiste rapporto alcuno, cioé che essi vivono di vita loro e di luce
propria, che non siano affatto cosostanziali, che il fine in quanto
elemento del futuro che si progetta nel presente non nasca dal presente
in maniera integrale, non si ramifichi in esso, non ne sia quasi parte,
e che, infine, l'azione dell'oggi non debba fare i conti con il fine da
raggiungere domani se non in modo superficiale, se non a partire da un
rapporto causale, da un meccanismo di causa - effetto estremamente
semplice e lineare. Allora si dice: il re è ingiusto, io uccido il re e
instauro la giustizia pur compiendo un atto ingiusto nei confronti del
re. Machiavelli insegna e afferma che dall'ingiustizia può nascere la
giustizia, che dalla guerra civile può venire fuori uno stato forte.
Il '500 è il secolo della formazione definitiva delle grandi dinastie
europee. La lotta della monarchia contro la feudalità fu lotta tra ceti
privilegiati, svolta soprattutto nei corridoi dei palazzi attraverso
faide, scontri di armati selezionati e di eserciti ancora feudali e
mercenari. Fu gioco di scacchi. Le grandi masse quasi non vi entrarono e
si vi entrarono lo fecero solo incidentalmente. Fu gioco machiavellico
poichè il gioco politico di Machiavelli ben si adatta a una minoranza
politica e sociale in lotta contro un'altra minoranza politica e sociale
per una parziale riforma dei meccanismi di potere.
È stato scritto che Machiavelli fu l'inventore della scienza politica e
il primo grande pensatore borghese in materia, il rappresentante
intellettuale di un mercante da poco arricchito, oculato, attento ma
sempre adombrato dal grande potere feudale. Fu colui che scoprì la
politica, individuò, cioé, un terreno sul quale sarebbe stato
necessario seminare intellettualmente. Il fine giustifica i mezzi
è una grande verità della scienza politica ma è una verità ancora
artigianale e come il lavoro dell'artigiano non si spiega da solo e non
si riduce all'intelletto compiutamente. In politica i mezzi hanno subito
una trasformazione graduale e costante e mai casuale, una trasformazione
guidata da una logica di fondo. Quindi Macchiavelli aveva torto: nella
storia i mezzi si sono adeguati ai fini davvero casualmente. ma si sono
adeguati, hanno subito l'attrazione dei fini. Quindi Machiavelli aveva
anche ragione: i mezzi si sono adeguati ai fini ma lo hanno fatto
casualmente, poichè i fini ponevano nuovi casi, nuove situazioni, alle
quali gli uomini erano costretti ad adeguarsi, proprio individuando
nuovi mezzi, spesso nuovi mezzi per vecchi fini. Dunque biasimo e onore
per Macchiavelli.
Dirò ora qualcosa di più: nella storia
insieme con l'evoluzione dei fini è stata un'analoga evoluzione dei
mezzi. La scienza politica borghese si rivolge a un nuovo costitutore di
mezzi, durante la rivoluzione inglese e quella francese, il popolo. Il
popolo è la sanculotteria di Parigi e non solo: il popolo, eletto a
costitutore di mezzi, si trasforma proprio per l'intervento nel mezzo
politico. La scienza politica borghese matura (quella del XVIII secolo)
comprende la necessità, attraverso il popolo, di commisurarsi con i suoi
strumenti, di stabilire con quelli delle interazioni e di dialettizzarsi
con quelli. La borghesia, individuando lo strumento nel popolo,
costituisce il concetto stesso di popolo, come idea di 'tutto il
popolo', come idea onnicomprensiva e contemporaneamente, consapevolmente
o no, cambia il popolo. Il popolo del XVIII secolo non è lo
stesso popolo del XVI: prima di tutto è diverso il peso della borghesia
medesima in seno al popolo e contemporaneamente nel popolo emergono
nuovi soggetti e nuove classi. Dopo il XVIII secolo non possono servire
a nessuno scopo politico serio e determinato l'intrallazzo, il colpo di
mano militare. Congiure, colpi di stato e putch possono avere
esecutività politica solo con l'intervento o quantomeno il consenso
costruito nel popolo proprio perché la società che si intende edificare
e strutturare è nuova, perché la rivoluzione borghese non è solo una
trasformazione politica ma sociale ovvero deve quantomeno innescarla.
Non si tratta più, dunque, della ristrutturazione dello stato teorizzata
da Machiavelli, si tratta, invece, di una ristrutturazione della
società.
In questo caso il fine risulta evidentemente legato al mezzo: non si
sono mai vedute rivoluzioni borghesi (inglese, olandese, americana,
francese, il risorgimento italiano e greco, e via discorrendo)
risolversi con tre colpi di cannone, ma, spesso, si sono invece visti
scorrere fiumi di sangue. Si è trattato, pur sempre, di una minoranza
che costruendo il concetto di maggioranza (il popolo), usandola
concretamente e responsabilizzandola sul suo progetto, eliminava
un'altra minoranza.
Tutto questo determinò la necessità di un uso molto ampio della forza e
della violenza perché bisognava esercitare un severo controllo sulla
minoranza battuta e una fidelizzazione della maggioranza illusa e
conquistata. La forza, nelle rivoluzioni borghesi, divenne un valore
ideologico. Anche qui i mezzi si adeguarono ai fini, perché si trattava
di una minoranza contro una minoranza e quindi di una lotta
necessariamente violenta e non democratica, ma acquisirono un
significato nuovo perchè una delle due minoranze aveva scoperto il
concetto di maggioranza e l'aveva concretamente chiamata in causa.
Vorrei soffermarmi maggiormente su questo aspetto e cioè sulla estrema
sanguinarietà delle rivoluzioni borghesi e anche sul fatto che sia
quelle inglesi che quella francese si siano rapidamente trasformate in
dittature. Per la borghesia la dittatura fu un buon mezzo per avviare,
controllandole, le trasformazioni sociali. La dittatura è solitamente
espressione del dominio di una minoranza su una maggioranza attraverso
l'uso della forza militare e qua, in questa definizione, daremmo ragione
a Machiavelli e al suo schema che sarebbe applicabile perfettamente
all'affermazione politica della borghesia. Le dittature rivoluzionarie
borghesi (quella del new model army e quella giacobina) furono
esercitate con il consenso e spesso la partecipazione attiva di larghi
strati della popolazione, il cosiddetto popolo, appunto. La vecchia
legge della 'volpe e del lione', in un contesto simile, non può bastare
e funzionare fino in fondo, ma si istituisce una nuova legge nella
scienza politica che è quella del coinvolgimento emotivo e psicologico
delle masse urbane e agricole. Il mezzo dittatoriale borghese è
perfettamente conforme e coerente con il suo fine: a una società di
massa, una dittatura di massa, a una società popolare una dittatura
popolare.
Dunque non ci fu, come il pensiero macchiavellico più superficiale
poteva lasciare intendere, una sostituzione semplice e meccanica della
dittatura dell'aristocrazia con la dittatura della borghesia.
Si è scritto a lungo, molto a lungo, dei
grandi rapporti esistenti tra lo sviluppo delle forze produttive e
la forma dello stato borghese, secondo gli immancabili abbinamenti di
rito. Queste tesi sono spesso scolastiche e meccanicistiche ma
contengono un elemento di verità. È vero che a determinati stadi dello
sviluppo capitalistico corrispondono tendenzialmente
forme di organizzazione dello stato e di creazione del consenso; questo
non fa che avvallare l'ipotesi dello stretto legame tra fine e
mezzo, tra strumento politico e situazione sociale: il fine è anche il
mezzo e il mezzo si riconosce attraverso il fine, lo strumento politico
governa la situazione sociale e la situazione sociale elabora lo
strumento politico.
Mai si è scritto in modo serio sullo stretto rapporto che deve esistere
tra fine e mezzo per chi si pone in maniera rivoluzionaria nei confronti
della società borghese. A tal proposito si è
quasi sempre affermato che non è affatto corretto definire
aprioristicamente un insieme di comportamenti ed etiche da tenera nella
lotta, di mezzi da utilizzare. Ma se il fine è cosostanziale al mezzo (e
lo è almeno fino dai tempi storici della borghesia matura) , non sarà
anche il mezzo a qualificare, e non solo, a garantire per il fine?
Questo fatto non deve avere delle conseguenze sul nostro modo di agire?
Rispondo che le sue conseguenze questo fatto le avrà naturalmente
nel processo storico. Poiché nel comunismo e nella tendenza
storica al comunismo l'identità tra fini e mezzi è naturale
anche se non spontanea. È naturale perchè essendo una tendenza
espressa dalla maggioranza della società, esige immediatamente di
adeguare i suoi mezzi a questa sua natura; ma non può essere spontanea
perché non sempre questa tendenza appartiene alla maggioranza del
proletariato e quindi viene avvertita correttamente. Spesso, al
contrario, in ragione del fatto che è patrimonio di una minoranza o che
appartiene, ineluttabilmente, a una situazione politica e sociale (la
medesima che la genera e la matura) è avvertita in maniera distorta,
ancora carica di minoritarismo e quindi di riferimenti ideologici
borghesi, o di velleitarismo e di riferimenti all'eredità delle
ideologie e organizzazioni della borghesia, proprio sul campo
della relazione tra mezzo e fine. D'altronde non bisogna stupirsi, né
tanto meno scandalizzarsi: quanti borghesi, nel 1789, avranno immaginato
la rivoluzione come un semplice 'golpe di palazzo' e movimento
dell'aristocrazia più illuminata! Quanti proletari, oggi, immaginano
ancora la rivoluzione nel modo borghese, come presa del potere da parte
di una frazione armata con l'appoggio esterno e passivo della
maggioranza del proletariato o, secondo altre versioni 'democraticiste',
come un irrealizzabile 'golpe elettorale' (ammesso che continui a
esistere chi abbia lo stomaco per digerire quest'idea).
Il mezzo proletario si definisce, invece, quotidianamente,
articolatamente, attraverso continui e grandi dibattiti, con battaglie
limitate e locali ma continue; il mezzo proletario e comunista si
definisce come pratica di negazione, mattone dopo mattone, dello stato
di cose presenti: un mezzo completamente sociale per un fine
completamente sociale.
2 - Dell'amore giorno per giorno
Di tutte le cose, ma più che mai dell'amore,
si può parlare in due modi diversi: con distacco o con partecipazione.
Questi due modi non sono opposti ma complementari, poiché non si può
parlare del fuoco e sapere cosa è solo con il gergo del fisico, senza
averlo mai visto. Quando si tratta dell'amore è prassi comune, al
contrario, considerare queste due maniere antagoniste e quasi ostili.
Perché mai? Sarà giusto dare una risposta a questa domanda, sarà giusto
cercare di illuminarci sulla conoscenza dell'amore. L'amore, bisogna
ammettere, non è uno stato d'animo conosciuto a sufficienza, l'amore
stesso disorienta la conoscenza perché smaschera e stravolge gli stati
d'animo e la conoscenza. L'amore stravolge, facendo rotolare l'anima sul
corpo, la fa soccombere davanti al corpo, è, fondamentalmente, il corpo
in ogni sua manifestazione; il corpo, nell'amore, prende sempre il
sopravvento sull'anima. Non a caso è proprio con il corpo che si
comunica l'amore, senza il corpo non è possibile nè l'amore nè la
sua comunicazione nè la sua propagazione. Qualunque affinità accenda
l'amore, anche la più alta e apparentemente incorporea, è il corpo che
la comunica, è il corpo che decide per l'incorporeo e lo spirituale.
L'amore è anche codice, non è solo un evento, ma un complesso di eventi
codificati e trasmessi con il corpo.
3 - Della poesia contemporanea
Da dove nasce la poesia contemporanea? Dalla
chiara consapevolezza che ogni cosa può essere ridotta a finzione e
immagine e che si può solo riflettere e analizzare gli schemi e i valori
di questa immagine. La realtà può essere imitata, come nella poesia
precedente, ma ora, addirittura, inventata nell'imitazione o meglio
inventata mentre la si imita, inventata nella sua imitazione. Allora
accade che la poesia si ritrae su sé stessa, riconoscendosi e ammettendo
di essere nulla più che realtà riprodotta, e finisce per analizzare sé
stessa, lavorare su sé medesima, valorizzare il suo componente
fondamentale, ogni sua singola scena: la parola.
Questo è un giusto punto di partenza e presupposto. Se non operasse
così, si addosserebbe la responsabilità di essere caduta anch'essa,
insieme con il resto dell'arte contemporanea, nella trattazione
assoluta, come termine assoluto di una realtà che, invece,
continua a essere storicamente determinata; l'arte contemporanea, la
pittura contemporanea, pretende, invece, di dare un valore metastorico
al suo conclamato relativismo, ad ogni singola scena, in poesia, alla
parola. La poesia contemporanea è supina: accetta. Indaga sulle parole
e, come in un gioco di specchi, non potra che ritrovarvi la continua,
infinita, poiché riproducibile indeterminatamente e fino, dunque,
all'assurdo logico, giustificazione di sé stessa, che esiste proprio
perchè non esiste, che è logica proprio perché assurda. Questa è la
quintessenza dell'accademia, noi siamo con tutti i beni e tutti i mali
di un'accademia assoluta. È un fine accademico quello dell'attuale
poesia e questo significa molte cose: la poesia è passiva rispetto alla
realtà presente, ne accetta le intime leggi solo dopo, però, averle
attentamente studiate. Essa è conservativa: assolutizza il valore di
queste leggi, non in ragione della loro validità ma in ragione del suo
studio.
È inutile scrollarsi di dosso queste leggi attraversando una nuova e
ipotetica avanguardia poetica, perché la poesia contemporanea ha anche
ragione: queste leggi, vere o false, sono in noi. Bisogna usufruire
di queste leggi, ma non come fa la cosiddetta transavanguardia per
istituire un mescolamento accademico e una nuova avanguardia da
accademia, ma, invece, per superarle in una nuova drammatica negazione
delle leggi. La negazione delle leggi implicherà la conoscenza delle
leggi e forse un nuovo uso di quelle leggi: non sarà un'avanguardia
artistica e poetica e non si presenterà come tale. Avanguardia, oggi, è
nostalgia e sterilità.
La poesia contemporanea non sta facendo questo, non si sta muovendo in
quella direzione, nonostante la scoperta nuova della parola, della voce
e del suono. Si crogiola e addormenta nelle sue conquiste e facendo così
cede terreno e alla fine perde le sue stesse conquiste ed entra
nell'ufficialità, diventa parte della patinatura sociale che ogni stato
ha sempre richiesto: diventa pubblicità, strumento di pubblicità,
tecnica pubblicitaria. La poesia contemporanea è intelligente perché
serve una patinatura intelligente, una patinatura produttiva e
l'intelligenza della produzione.
4 - Della parola
La parola è l'immagine più colorata e
colorabile che si possa concepire; ha perso, oggi, gran parte della sua
funzione in ragione del fatto che non serve a determinare un concetto ma
è sempre più relativa al contesto. La parola è sempre più relativa ai
rapporti che si hanno in una situazione e non spiega più la situazione
ma si fa sempre di più spiegare dalla situazione. La parola, quindi,
poiché è sempre stata colorabile, oggi diviene scolorabile. Questo è un
dato incontrovertibile, almeno per me. Oggi lavorare sulla parola è
lavorare sul suo contrario genetico, vale a dire lavorare
sull'ineffabile, il non definito, l'indeterminato, la finzione estrema.
Si possono costruire mondi inesistenti con le parole e aggettivi nuovi
con vocaboli vecchi.
Ma soprattutto la parola è da sempre legata all'immagine, non poteva
esistere immagine senza parola, come parola senza immagine. Ma
l'immagine oggi ha cambiato natura: è diventata un fenomeno visivo,
sensoriale, il sensoriale sovradetermina la sensibilità. È l'immagine
visiva il grande conduttore sociale dell'attualità, di fronte a questo
nuovo conduttore le parole, spodestate, si sgretolano, eppure, così
sgretolate, continuano a formare immagini, nuovi frammenti di immagini e
in una rivolta decisa di questi frammenti di immagini avremo poesia.
5 - Della grandezza del linguaggio scientifico
La scienza è un'attività umana che va
analizzata dal punto di vista morfologico, linguistico, con grande
attenzione poiché è l'unica attività umana capace di mettersi
continuamente, secondo procedure intrinseche, in discussione. Sotto
questo punto di vista la scienza è un'attività rivoluzionaria.
La scienza è un'arte profondamente umana, esclusivamente umana,
l'esemplificazione in forme chimicamente pure delle potenzialità della
nostra specie. La scienza si distingue da ogni altra attività sotto due
punti di vista: per aver seguito puntualmente lo sviluppo storico ed
esserne stata funzionale e per essere stata autocritica e, quindi, non
solo storicamente determinata ma anche autocosciente, capace di
ragionare su sé stessa, sui suoi strumenti analitici e quindi
sostanzialmente cosciente, in verità più della politica, del suo ruolo
storico. Grazie a queste sue caratteristiche la scienza è stata capace,
anche, di anticipare la storia, vale a dire di prevedere i suoi stessi
sviluppi.
La scienza, dunque, non è libera, se è scienza non può
essere libera, in quanto è legata alle esigenze della storia è un
elemento direttamente proporzionale dello sviluppo sociale e ne è anche
un diretto catalizzatore. La scienza non è libera e non può essere
libera nella misura in cui è un elemento astratto e logico che si
vincola e si svincola al contempo dall'interazione con la vita sociale.
La scienza, così concepita, è stata l'unico fenomeno intellettuale
autenticamente astratto e quindi non direttamente, ma solo per una
specie di proporzione geometrica, legato alle categorie della politica e
del sociale, ben diversamente da come lo furono letteratura e filosofia.
La scienza ha una regola che prescinde dal sociale e dal politico, anche
se è anche una regola che si può tradurre in sociale e politico proprio
attraverso filosofia e letteratura.
La scienza non è libera, non solo perchè, secondo la vulgata e la
banalità imperante, la sua schiavitù è dimostrata dalla sua
applicazione, dalla tecnologia, dalle armi che produce e dalle macchine
con le quali produce; la tecnologia è stata direttamente sussunta alle
esigenze del dominio, coessenziale a quello, senza nessuna proporzione
geometrica, ma attraverso una relazione diretta chiara, smascherata. Lo
sviluppo tecnologico non è spontaneo, neppure in apparenza, mentre la
ricerca scientifica appare spontanea e libera. Eppure, non seguendo una
relazione diretta, ma un'interazione, una proporzione appunto, il
pensiero scientifico avanza dove il dominio sociale gli richiede di
avanzare e lo strumento per la costituzione di questa interazione è
proprio la tecnologia, con i suoi feed - back sulla società, poi
sull'immaginazione e infine sul pensiero scientifico.
La forma del rapporto tra dominio sociale e scienza non è affatto
immediata e semplice, in quanto si tratta di due entità che si
sviluppano in assoluta autonomia, sciolte l'una dall'altra, ma che
stabiliscono una relazione reciproca, dentro la quale lo strumento
dell'interazione è la tecnica. La tecnica è l'inveramento nel dominio
sociale della scienza.
La scienza, però, è un soggetto molto particolare in questa relazione
perchè, al pari del dominio sociale, o meglio di un'organizzazione
sociale complessa e coordinata attraverso strumenti linguistici e
intellettuali, è l'elemento distintivo di più alta qualità che la nostra
specie ha offerto alla storia del pianeta. Dunque il rapporto tra potere
e dominio sociale e scienza si dà, come si può facilmente dedurre, a un
livello altissimo, il più alto e il più sostanziale che nella storia si
possa immaginare: un rapporto che alla fine ripete quello, a un tempo
contraddittorio ma complesso e ricco, tra umanità capitalista e umanità
in generale, umanità nella storia e in tutte le epoche, tra idea
borghese di uomo e tutte le altre idee di uomo concretizzatesi nella
storia.
La scienza non è libera, quindi, anche per un altro motivo ed aspetto:
la scienza non è libera nella misura in cui l'umanità nel suo complesso
non lo è stata e le possibilità della scienza sono diminuite nello
stesso modo e nella stessa misura di quelle dell'umanità. La scienza,
come l'uomo, ha delle enormi possibilità conoscitive e creative. La
scienza, come l'uomo, ha delle possibilità oggettive, delle possibilità
logiche di sviluppo, che non si sono mai linearmente e compiutamente
espresse, ma, anzi, si sono sviluppate in forma compressa, come
l'economia mondiale porta il segno dei dazi doganali e delle frontiere e
come gli interessi generali portano le cicatrici di quelli individuali.
Come si danno oggi i presupposti a più vaste conoscenze scientifiche,
embrioni di un sapere che, spesso, può rimanere ghettizzato nel campo
del futuribile, così l'umanità ha in sè tutti presupposti per la sua
liberazione, per il suo ricongiungimento con sé stessa, dopo millenni di
separazione. Un esempio: la scienza relativistica è rimasta una scienza
nucleare, uno studio sulla struttura della materia, non mi pare si
sviluppi autenticamente il discorso sul tempo e lo spazio come elementi
intersecati, conseguentemente c'è estrema timidezza a formulare ipotesi
sul cosmo, sulla sua logica e sulla natura delle cose. Eppure la scienza
rimane potentemente autocritica e consapevole dei suoi strumenti e delle
sue potenzialità, rimane, quindi, progressiva.
Se da una parte la scienza è progressiva perché l'input della
tecnologia, il bisogno tecnologico, risente della progressività del
dominio sociale ed economico, della necessità di sviluppo del capitale,
e dunque assolve al compito di sopperire alle necessità materiali del
sistema economico e sociale dominante, dall'altra parte è costretta
dalla sua stessa natura a sviscerare contenuti gnoseologici che sono
indifferenti alle necessità materiali e concrete della società e a
compiere, in autonomia, delle vere e proprie rivoluzioni di linguaggio
al suo interno. Certamente, come scritto, esiste una relazione di
proporzione tra l'ordine sociale e anche questo livello della produzione
scientifica, ben oltre alla mediazione bidirezionale offerta dalla
tecnologia; la rivoluzione copernicana, newtoniana e galileiana furono
delle rivoluzioni borghesi e materialistiche nel pensiero scientifico.
Contemporaneamente, però, pur sviluppandosi entro gli schematismi del
buon senso comune e cercando di non mettere in discussione il concetto
di razionalità e buon senso, costruendo e propagando un nuovo buon senso
e una nuova razionalità altrettanto accettabili, esse hanno avvicinato
il pensiero umano alla realtà delle cose, a una più approfondita realtà
delle cose, perchè quelle nuove regole facevano funzionare molte più
cose che non le vecchie regole premoderne.
Se è vero che la rivoluzione relativistica è perfettamente spiegabile
con la cultura del primo quarto del XX secolo e con lo sviluppo
capitalistico dell'epoca e che in quelli trova la sua 'materialità', è
anche vero che la scienza post relativistica ha messo in luce la
problematica della relazione, base della razionalità tradizionale e del
buon senso, tra causa ed effetto, ha messo in crisi il valore assoluto
dello spazio, dello strumento e della misurazione e dell'assolutezza del
dato 'oggettivo', fino al punto di rompere tutta la catalogazione
positivistica che aveva dominato le scienze naturali. È stata, allora,
messa in discussione la divisione autoritaria tra generi e non ultima la
rigida divisione tra discipline scientifiche, tra fisica e chimica, tra
biologia e chimica, tra psicologia e antropologia e, ancora di più, tra
discipline scientifiche e umanistiche.
Il significato ultimo della scienza è doppio: la scienza è ambivalente,
ha due facce, le due facce dello scienziato. Lo scienziato è un uomo
dello stato, stipendiato, coinvolto nell'accademia statale, un uomo che
ha lungo studiato e che si distacca dal resto dell'umanità anche solo
per il privilegio lui riservato del conoscere e conoscerà in funzione
delle ricerche che gli sono state commissionate, ma come uomo, in quanto
appartenente alla nostra specie, potrà trarre dall'esperienze maturate
in questo isolamento e separazione dal resto della società leggi
universali, superiori a questa separazione e isolamento.
6 - Manifesto
A favore di un arte slegata dalla forma -
oggetto di rappresentazione ma legata alla forma in sè, al segno senza
significato contenutistico preciso, che sia esterno al segno, e perciò
plurisignificante. Nulla a che vedere con l'arte astratta ma
esplicativa ed espressiva del significato del segno. A favore dell'arte
come ricerca della propria posizione nel mondo: lo scritto fissa il
sapere.
L'illuminazione primordiale è terreno fecondante della creazione e
costruzione poetica. Questa è la sacrosanta fase che ha contraddistinto
cubisti e astrattisti e in quella si rivendicava la libertà assoluta da
ogni tessuto razionale, da ogni logos borghese. Ma bisogna
andare avanti e per andare avanti bisogna essere avanti con
tutte le difficoltà che ne conseguono e dare alla produzione tutte sue
potenzialità e quindi liberarla ulteriormente. Nessuna arte è libera
come nessun pensiero lo è e mai lo sarà in una società organizzata. È,
però, sicuro che l'arte, come campo del lavoro mentale, ha delle
capacità conoscitive e comunicative profonde che vanno completate e che
sono analoghe a quelle di alcune scienze.
L'arte deve viaggiare a fianco della linguistica, della psicologia,
della semiologia ma ancora di più a fianco della fisica, della chimica,
dell'antropologia, della sociologia. L'arte avanti è l'arte
che precorre i linguaggi di una nuova totalità e come tale non si può
rinchiudere in un'accademia linguistica.
L'arte intesa come organica espressione di una particolare società umana
non è mai esistita se non forse nel suono gutturale del primitivo e già
era morta nel neolitico. Quando la vita sociale ha cessato di essere una
forma spontanea di organizzazione, l'arte non era più arte (almeno
l'arte globale come la intendono gli idealisti dell'arte) e all'artista
rimase solo una radiazione di fondo.
L'arte oggi: quella che si è liberata non era arte, non era niente, solo
un'espressione: il concetto di arte non si risolve in nulla di
conosciuto. Quella forma espressiva che l'idealismo imperante chiama
arte ha, in sé, dei presupposti interessanti che bisogna sviluppare a
ogni costo: sono un regalo involontario di un'epoca di abbrutimento.
Questa forma espressiva può divenire ed in parte è già conoscenza
immediata dello stato di cose presenti e anche un modo di pre -
parare lo stato di cose futuro. Pre - parare a che livello? Senza
livello.
L'arte come la scienza non è affatto una categoria del pensiero ma è un'invenzione,
vera ma non reale. Esiste ma è fittizia, è il risultato
dell'affossamento e abbrutimento della creatività generale umana. L'arte
odierna nasce da ciò che proprio secondo la definizione idealista
dell'arte sarebbe la sua negazione ed è intimamente legata alle culture
del potere, sempre, irrimediabilmente. Per fare un'altra arte bisogna
distruggere l'arte.
7 - Della stupidità
La stupidità è la facoltà (che
non mi risparmia affatto) di dare grande peso alle stupidità che ci
circondano. Il carattere stupido osserva e rispetta gli stupidi, li
ritiene oggetti privilegiati di relazione e non ne capisce la stupidità.
La stupidità ama fare la caricatura della profondità di pensiero e
all'intelligenza, giusto per ingannare gli altri stupidi, meno spesso
gli intelligenti. La stupidità si manifesta nelle relazioni umane, non è
un evento solitario, tramite esse si diffonde e diviene fenomeno
collettivo, perché non può essere un fatto personale: un'intera società
può essere stupida, non un singolo uomo. Gli stupidi, quando sono tra di
loro, si prendono sempre sul serio.
Quali sono le caratteristiche assolute della stupidità, dove sta la
stupidità e cosa è la stupidità in sé? Ammesso, ma non concesso
completamente, che possa esistere un singolo stupido per intero, uno
stupido in sé (poiché egli si realizza solo in mezzo agli altri e da
solo, nella solitudine della sua stanzetta, nella notte, egli non è
stupido e ragiona e comprende la sua stupidità, anche se le dà nomi
diversi, in ragione del suo orgoglio: solitudine, angoscia, timore,
paura) egli è un individuo non stupido in sé, ma stupido proprio perché
ha bisogno di coordinate alle quali ancorarsi intellettualmente. Egli ha
bisogno di un metro di giudizio eterno e indissolubile, con
cui analizzare sé e gli altri, in modo di avere la sensazione di avere
sia sé che gli altri in mano o in tasca. Lo stupido, così, distrugge la
realtà esterna per ricomporla in una serie di rappresentazioni unitarie,
in un'unica scena teatrale. La realtà straripante scivola sopra la sua
intelligenza, la travolge e quindi la nega. Lo stupido è l'uomo del
potere, poiché il potere è la quintessenza della stupidità, della
distruzione e della ricomposizione in chiave unitaria, della
rappresentazione della realtà, poiché il potere è esattamente ciò che lo
stupido si aspetta dalla vita e dalla realtà.
Lo stupido non ha colore politico, può essere reazionario o
rivoluzionario, l'importante per lo stupido è che si intraveda sempre la
possibilità di una rappresentazione teatrale della realtà, l'importante
è che ci si sia sempre e in ogni modo un potere.
8 - Sul potere
Dal potere non si esce finché esiste il potere. Il potere ti rappresenta, ti fa dire cose anche quando non le hai dette, ti fa fare cose anche quando non le hai mai fatte. Il potere è molto semplice, è lì, guarda, tu non puoi non essere giudicato.
9
La stupidità si manifesta nei fenomeni di relazione, nessuno è stupido con sé stesso. Non è un caso che al potere interessino i fenomeni di relazione e su quelli si fonda. Si deve essere anche con gli altri come con sé stessi, parlarsi dentro parlando agli altri e si sarà imboccata la via dell'abolizione del potere
10
L'Art nouveau amava tutto quello che oggi chiameremmo porcheria ridipinta, tanta pochezza si nascondeva dietro quelle seggiole piegate alla ricerca di qualcosa di artistico, che alla fine era bizzarria firmata da artista. L'art nouveau è il cuore stesso borghese che suggella con l'argento i suoi bisogni e interessi, i più banali e da buon borghese, privo di estro creativo, cerca la mano dell'artista. La bizzarria quando è costruita per nascondere la realtà è e rimane bizzarria.
11 - Dell'arte e dello sviluppo della società
L'arte è forma sociale per
eccellenza, l'attività più sociale dell'uomo, un'attività che è per di
sé stessa di comunicazione. L'arte raccoglie le tre caratteristiche
fondanti ogni umana società, quindi dell'uomo in comunicazione:
ideazione, lavoro, comunicazione. Queste tre caratteristiche hanno fatto
dell'arte, in qualsiasi epoca, un elemento di cultura superiore. L'arte
è stata vista come la quintessenza del suo protagonista, la quintessenza
dell'attività umana, quasi carattere qualificante dell'uomo. Molto
spesso, in questa concezione dell'arte, è stato ingigantito l'elemento
ideativo e sminuito l'aspetto manuale del lavoro insieme con quello
comunicativo: manualità e propaganda, artigianato e politica. L'arte,
allora, si valorizzava per il genio creativo superiore a qualsiasi altra
attività umana. L'arte partecipa a tutte le attività umane che sono
volte a trasformare o intervenire sulla realtà, sulle cose e sugli
oggetti, e che sono destinate a dare loro un senso e una funzione
diversa da quella originaria.
L'arte fa parte della categoria lavoro. L'arte è lavoro e lavoro non
solo intellettuale ma anche esecutivo e progettuale. L'artista davanti
alla tela: quanto l'artista influenzerà la tela e quanto la tela
influenzerà l'artista? La pennellata iniziale ritorna al pittore come
esperienza dura e solida, sensoriale, che ne genera altre e influenza,
quindi, la successiva ideazione che diventa un processo in divenire.
La critica dell'arte ha scelto alcune fasi inscindibili in questo
divenire.
Quando scrive di artisti medioevali, di architetti medioevali
soprattutto, scopre con sorpresa che non è possibile dividere il
progettista dal capomastro e il capomastro dall'operaio. Abituata a
ingegneri e architetti progettisti, reclama la coscienza dell'artista e
retrocede il progettista medioevale ad artigiano.
La preminenza del momento creativo, della libera coscienza, o meglio
della libera coscienza dell'artista, è modello. Il lavoro del vero
artista, della coscienza libera, cioè, non è un lavoro, è pura
creazione, è creazione libera, è un'altra cosa rispetto al lavoro perché
non si sporca mani e piedi con la materia, non comporta la fatica e il
sudore. Oggi è, in effetti, così, ma non è sempre stato così e
bisognerebbe chiedersi come mai non è più così.
L'arte medioevale è legata alle regole feudali, è codificata, immersa in
una cultura che lavora intorno a un testo fondamentale, quello
religioso, e in una società regolata su un insieme di testi non scritti
che compongono la legge consuetudinaria feudale; il testo religioso è la
cultura, la legge consuetudinaria è la società. L'arte medioevale si
fonda sul contenuto, sul messaggio, non sulla creatività, che è un
valore accidentale in quella, dell'artista; si fonda su un contesto di
segni in cui è inserita e in quanto vi si inserisce. Il rapporto
ideazione - lavoro - comunicazione è ben regolato da questa intelaiatura
e l'artista è solo un capo bottega inserito nel sistema produttivo
feudale, parte integrante e non particolare del tessuto produttivo della
società. La sua immaginazione è strettamente regolata, codificata, dal
rapporto di committenza, vale a dire dal desiderio del committente, dal
testo religioso e dall'ambiente sociale nel quale si rappresenta il
testo. L'opera è già pensata nei codici e nelle regole, si tratta solo
di organizzare al meglio il lavoro.
Intorno al XIII secolo la società cambia: il danaro del mercante
conquista spazi di potere economico, sociale e politico. La
codificazione feudale non scompare, rimanendo valida, regola il flusso
del danaro e di queste nuove energie economiche, ne regola l'uso, ma non
riesce a disciplinarne il principio originario, cioè l'accumulazione
attraverso lo scambio di merci; lo scambio di merci e la relativa
accumulazione, infatti, sono liberi e rispondono a delle leggi che sono
estranee alla codificazione feudale e che le sono, in realtà, nemiche.
Il danaro non si muove e non si distribuisce secondo codici, ma secondo
leggi generali, secondo assiomi e conseguentemente il potere che da esso
deriva è cosa non codificabile. Il danaro introduce dinamiche generali,
leggi generali, che investono direttamente gli uomini senza essere
trasportate da altri uomini, mentre accadeva il contrario nella società
feudale e anche in quella classica. Le dinamiche del danaro e del
mercato non si affermano attraverso le relazioni umane e culturali, o
attraverso la coercizione politica e statale, ma, invece, rispondono a
motivazioni materiali che stanno tra gli uomini.
Il danaro è libero e materialista, è un'energia immanente che trascende
l'umanità, è un odore di libertà che rende tutti gli uomini uguali e
tutti i luoghi uguali.
Il testo religioso subisce frequenti confronti e la necessità della
spiegazione continua e viene spesso puntellato, aiutato, completato.
Spesso, altre volte, il testo è contaminato da presenze estranee, che
vengono dal passato, tratte dal paganesimo e dall'epoca romana e greca;
è questa l'epoca di Dante. La codificazione dell'arte è mantenuta, il
corpo dell'opera rispetta ancora determinate regole, ma gli esiti e
l'origine cambiano: entra prepotentemente, come fatto visibile, la
personalità e le scelte dell'artista, la creatività diviene non più un
accidente ma un componente fondamentale dell'opera. L'artista crea nel
codice, ma lo fa a partire da un principio che è al di fuori di quello,
dall'interpretazione della coscienza religiosa, dalla libertà di usare
le immagini del testo. L'artista medioevale poteva scegliere brani del
testo, seguendo le sue inclinazioni e preferenze religiose, seguendo
qualche eresia, magari, e manifestava la sua eventuale eterodossia con
la riproduzione fedele di alcuni brani anziché altri: il ragionamento e
la coscienza erano interni al testo sacro e al codice. L'artista del
tardo medioevo scopre la coscienza distesa al di fuori del testo e del
codice. Il codice, allora, scoppia di distinzioni, effetti, ed è
rispettato anche da quelli nella forma, ma trasformato nella sostanza: è
l'elaborazione continua del gotico.
Nel XIV secolo, per molti critici dell'arte, il tardo gotico è stato il
colpo di coda culturale della società feudale ormai in palese crisi. No,
niente affatto: il tardo gotico è, invece, stato la ricerca di un
complesso di valori adeguati al nuovo mondo, che andavano ricercati
dentro il vecchio. L'artista travolge ogni regola per ricostruirla con
lo stesso nome e la stessa funzione in maniera nuova. Gentile da
Fabriano offre un'immagine allucinata del vecchio modo di fare pittura.
L'allucinazione sta tanto nel rimodellamento delle vecchie regole e
nell'imprigionamento dei nuovi brani del testo e della cultura. Il testo
cerca di conquistare l'esterno, il codice di comprendere la legge. La
coscienza dell'artista sulla soglia della liberazione? Certo. Ma Gentile
e il tardo gotico paiono avere consapevolezza del fatto che si tratterà
di una liberazione allucinata. Liberazione dai codici feudali e dalla
cultura codificata, certo, ma anche dal lavoro manuale, come elemento
centrale dell'opera artistica, dall'opera come concretezza e unità
produttiva.
La liberazione dai tratti allucinati del tardo gotico è l'affermazione
dell'artista come figura sociale autonoma ed indipendente dalla società,
dell'artista come imprenditore, come direttore, padrone e progettista
del lavoro manuale, per primo del suo e nel caso di quello altrui.
Il nuovo imprenditore del XV e XVI secolo ricodifica sé stesso,
ricodifica il lavoro intellettuale, incapace di abbandonare una
lettura codificata della
realtà e di abbracciare regole generali, leggi, che sono
disorientanti. La creazione, grande scoperta dei due secoli precedenti,
non viene certamente lasciata da parte, anzi, ma viene legata al mito
classicista: allontana sé stesso dalla bottega artigiana e si avvicina
al potere del danaro, al materialismo che rende liberi, che sta al di
fuori della realtà e che ricodificato diviene un feudalesimo del danaro,
il danaro associato a un buon e bel nome, all'onesto ed esperto uomo, a
un nuovo umanesimo. La ricodificazione classicista ha questo
significato: codificare una cultura, come quella classica che, per sua
natura e alla lunga, si dimostrerà incodificabile, proprio come il
danaro. La commessa rinascimentale è tutta qui.
Dopo il rinascimento, il barocco torna ad assomigliare al tardo gotico,
è il tardo gotico della società mercantilista. Siamo al XVII secolo e le
rivoluzioni borghesi liberano l'artista anche dal classicismo, egli può
vantare una coscienza libera senza la scorta di un codice, ma
riprendendo la classicità come nuova misura, come base per una nuova
libertà.
Dal XVII secolo l'epoca dell'occidente europeo ha iniziato a pensare sé
stessa come la prima epoca libera della storia dell'umanità, secondo
l'idea che un'epoca libera è contraddistinta dalla sua capacità di
superare e riassumere al contempo tutte le epoche precedenti della
storia dell'umanità; debitrice di questa presunzione, anche la nostra
epoca ha la presunzione di possedere il metro di giudizio valido per
tutte le altre, poiché il suo metro è libero e in quanto libero e
incondizionato, eterno. La libera coscienza è una coscienza
necessariamente eterna e assoluta e dal momento che la nostra epoca, dal
XVIII secolo in poi, ha il vanto di essere scientifica, la libera
coscienza oltre che assoluta ed eterna è anche scientifica. La legge è
vera anche ribaltata: la scienza è libera ed eterna.
Quindi scienza, libertà ed eternità si fondono in un sistema
intellettuale, e la creatività diviene espressione di questa triade e il
livello artistico di un'epoca è valutato secondo la coerenza con questa
triade contemporanea. In questo sistema intellettuale, la fase creativa
nella produzione artistica è posta in primo piano e in base al ruolo che
la fase creativa svolgeva si è valutato il livello artistico delle
diverse epoche, si è tracciato, cioè, il giudizio critico - storico.
Sempre, quindi, il critico moderno si è messo alla ricerca dello spirito
libero nelle epoche precedenti, che potesse funzionare da ideale
conferma del sistema intellettuale moderno, che non poteva presentarsi
come un'assoluta novità, pena la perdita di credibilità, pena
l'insinuazione del dubbio sulla sua validità universale. Così è stata
inventata tutta una fioritura di spiriti liberi nel passato, spesso
incompresi, in disaccordo con i contemporanei e in una terrificante
sofferenza.
Ma cos'è uno spirito libero? E in che ragione sarebbe libera la
coscienza dell'artista moderno? Probabilmente libera in quanto separata
dalla materialità del processo produttivo artistico? No. Questa libertà
è una finzione.
Il lavoro dell'artista, cacciato dalla porta attraverso la sua libertà,
rientra dalla finestra, deve, infatti, continuamente rapportarsi con gli
strumenti del suo lavoro, qualsiasi essi siano, computer, penna, sacchi
di plastica, pennello, scalpello e con la materia, anche quando è
immateriale, anche quando è un documento elettronico, anzi in quella è
la fase centrale del suo mestiere.
Libero in quanto separato dal contesto sociale nel quale guarda e prende
appunti? Direi di no, perché non prenderebbe nessun appunto.
Libero in quanto capace di pensare la realtà? Ci sono milioni di persone
che pensano la realtà, con sbagli, errori e correzioni, precisamente
come un artista. Ci sono milioni di persone che pensano la realtà
liberamente.
La libertà ideativa e creativa dell'artista è una chimera, non esiste,
non c'è pensiero che sia libero dalla realtà che produce la sua libertà.
L'artista può giocare ogni sua libertà molto meno nel momento della
creazione, ideazione e progettazione, che nel creare, produrre, lavorare
secondo schemi 'liberi'. Procedere da un'idea è scomporla liberamente,
analizzarla. Anche le idee rivoluzionarie non sono libere, sono prodotti
organizzati (anche liberamente, anche nella negazione della libertà
apparente) e non dicono niente di nuovo sull'arte, perché non possono
dirlo, dovrebbero sposarsi con un agire rivoluzionario al di fuori
dell'arte per essere arte rivoluzionaria, e introdurrebbero una
dimensione di negazione dell'arte stessa; magari continuerebbe a essere
chiamata arte, ma non sarebbe più arte.
In verità, da qualche parte, qualcuno ha iniziato a capire questo: c'è
stato un Picabia contro un Breton. L'arte rivoluzionaria, l'arte delle
avanguardie, anche se in larga consapevole della trappola, ha
rinverdito, proprio quando veniva criticato più profondamente, il tema
della libertà dell'arte, offrendo, non casualmente, un buon servizio
alla borghesia, ai suoi galleristi e al mercato artistico.
La borghesia ottocentesca ha inverato la libertà artistica, che è
diventata un plusvalore, un valore aggiunto al prodotto artistico, un
valore sul quale fondare un mercato che si distendeva, ovviamente, anche
sulle opere del passate, nate sotto un altro segno e concezione, in
onore all'universalità del sistema intellettuale. La libertà artistica,
oltre che essere una buona confezione per il plusvalore dell'arte, è
stata anche una scimmietta pazza che, facilmente ammaestrata, danza
davanti al mercato. Questa libertà dell'artista, premiata dal mercato e
perfettamente inserita in quello, ha dimostrato la possibilità della
libertà in generale e che quella era l'epoca della realizzazione della
libertà in generale.
L'artista ribelle è diventato un vero plusvalore, per poi essere
surclassato dall'artista scientifico ed erudito, ragionato, consapevole
della sua storicità, integrato, sereno, dipendente di qualche giornale,
redattore di rivista, collaboratore universitario etc. etc. Ma non è che
prima c'era libertà (nel romanticismo) e dopo meno.
Della coscienza dell'arte, della coscienza artistica non è il caso di
parlare.
12 -
L'artista attuale rivendica la sua diversità attraverso la critica dell'arte, non più in forza dello spirito romantico e del mistico slancio, che faceva il verso di ignorare la critica mentre la costituiva, invece, ma con il plusvalore del sapere, della conoscenza. Questo plusvalore, come ogni altro plusvalore, è il prodotto di generazioni artistiche che hanno operato espropri illeciti, non chiamandoli espropri, ma riletture e nuove interpretazioni. In quest'epoca non ci deve affatto stupire la nuova ondata barocca del cosiddetto post moderno e della transavanguardia: perfettamente in linea con i tempi.
13 -
Se l'artista è lo scimmiottamento dell'uomo libero, un uomo libero che vive solo sul palcoscenico dell'arte, quando ha simulato tanto bene da ottenere oggettive conquiste e da vedere il suo palcoscenico finalmente da lontano, allora il palcoscenico dell'arte diviene l'ultimo codice, il codice postumo, che gli viene imposto e della cui imposizione può simulare la denuncia, sulla quale irrimediabilmente capitalizzare il suo lavoro. Avete visto dada e avete visto action painting?
14 -
L'impegno ideologico e l'impegno
artistico si assomigliano. Si dà, in entrambi i casi, produttività
all'improduttivo, si inventa produttività nell'antiproduzione. Si lavora
per la produzione senza produrre. Si rappresenta il mondo, gettandolo
sul palcoscenico, come se si succhiasse l'essenza delle cose e la si
digerisse. Per prima cosa l'artista, e noi insieme con lui, succhiamo e
digeriamo noi medesimi. Poi, solo dopo questa digestione, si recita un
copione: quello della nostra complessità perduta. Ci si reprime
gioiosamente (la digestione è piacevole e questa è l'essenza dell'arte)
e per mascherare la nostra repressione si enfatizza quella esistente
nella realtà, quasi non ci riguardasse ma riguardasse gli altri, il
mondo, non noi. L'arte è stata questo, almeno fino a dada; l'arte ha
cercato di andare avanti e per andare avanti ha dovuto superare sé
stessa e quindi la sua maschera: ha conosciuto dada. La politica non
ancora: l'ideologia deve conoscere dada per liberarsi ed essere funzione
di liberazione e organizzazione del mondo e non strumento di liberazione
e organizzazione sul mondo. La politica e l'ideologia per essere in sé
tutto il mondo e per produrre liberazione devono abbandonare quello
che è sempre stato specifico e connaturato in esse, devono, sotto
un certo punto di vista, scomparire. Le politiche e le ideologie non
hanno fatto altro, dal seicento in poi, che riempirsi la bocca di
libertà e liberazione, della rappresentazione scenica della libertà e
della liberazione, che, polarizzate in alcuni attori e scenografie, non
si realizzano mai, che divengono l'attualità inattuale. Dada era
funzione agente, non analizzava la realtà, l'aveva in sè solo
cambiandola, obliterandola. La nuova politica deve essere questo: avere
la realtà che si libera, produrre hic et nunc pensiero
dell'oggi (e non sull'oggi), modi di affrontare la vita e i suoi
problemi, modi di affrontare sé stessa, quindi la collettività e la vita
collettiva. È solo la realtà che può fornire alla politica questa
energia e non viceversa, anzi la realtà si deve trasformare in politica
e non, come avviene da secoli, teatralizzarsi in quella. L'attore di
teatro, proprio perché è solo strumento passivo dei contenuti
dell'autore, è sempre pronto a cambiare ruolo, parte e recita. È solo un
caso fortuito e miracoloso se si trova a recitare nel teatro della vita
(che non è un teatro) e a produrre cultura anziché interpretarla.
Non si tratta, dunque, per la politica e l'ideologia, di scegliersi dei
buoni attori e di cacciare via i cattivi, è il caso invece di negare la
rappresentazione alla quale le ideologie, tutte le ideologie, si sono
condannate. È tra l'altro una rappresentazione che prevede spettatori e
attori, che divide l'umanità in due parti: la parte cosciente che sa
recitare e l'altra parte, quella incosciente, che simula le
contraddizioni della prima, ingigantendone alcune più funzionali al
processo teatrale e alla recita.
È così che l'ideologia rivoluzionaria, per come è stata organizzata e
strutturata fino a oggi, ha avuto sempre una funzione di recupero e di
allontanamento dalla realtà dei soggetti ribelli che producevano, al di
fuori di quella, nei loro desideri, nella loro prassi, nel ragionamento,
liberazione. L'ideologia rivoluzionaria era costretta, in quanto
ideologia, a collocare questi desideri, pratiche e ragionamenti sul
piano del simbolico, del rappresentativo, dalla realtà all'idea sulla
realtà, dall'oggi al domani. Ogni logos principiava con il
rituale riassunto delle tipologie del capitalismo ("è tipico del
capitalismo"). La società non può che difendersi con le sue tipologie
universalizzate, con la sussunzione della libertà e della liberazione in
un contesto simbolico, perché come valori, libertà e liberazione, non le
appartengono autenticamente, ma le appartengono solo come blasoni e
stemmi araldici.
15 -
L'ideologia rivoluzionaria
richiede la trasformazione della realtà. Ma la realtà si trasforma da
sola, motu proprio, ed è proprio così che individua gli
antidoti: non è la repressione ma la produzione e il cambiamento a
garantire la conservazione. Il pensiero scientifico offre la forza e la
possibilità alla società capitalista di andare avanti come un diverso
dall'umanità (in quanto separato da essa) ma che dall'umanità e dalle
potenzialità degli uomini è stato emesso.
La repressione interviene solo in quelle situazioni che pregiudicano
l'avvio di una nuova produzione, di una nuova trasformazione, la
repressione si abbatte sui soggetti politici e sociali arretrati, legati
al passato. Allora la repressione riesce a essere vincente. Chi invece
non si oppone alla nuova linea produttiva ma cerca di renderla
produttiva in modo nuovo, come se fosse davvero emessa dall'intelligenza
collettiva e dall'umanità nel suo complesso, è difficilmente colpito
dalla repressione e se viene esercitata è, solitamente, perdente.
Accade, però, raramente.
16 -
Il metodo del potere ricorda quello delle donne del passato che erano terrorizzate dalla tentazione della carne: "Vai avanti e troverai un altro uomo a cui pensare e un'altra carne da desiderare, ma tienilo ben nascosto".
17 - Della poesia e della sua attuazione
Poesia, mistica madre, quando
guardava tutte le epoche realizzarsi; parlava a quelle e diceva: "in me
sapete trovare il vostro slancio vitale, la vostra natura". Poesia,
generata da un parto dolorosissimo e con gran fatica da ogni epoca. C'è
un uomo a generarla, un uomo al centro d'essa, al centro di tutte le sue
diramazioni; ognuna di esse parlava della difficoltà ch'egli aveva a
guardarsi intorno, a capire quello che stava accadendo.
Poesia così affascinante poiché limitata e come tale indefinita, sempre
generata dall'ansia della comprensione, da un respiro affannoso dietro
alla realtà. La poesia è già di per sé stessa inattuabile, un frutto
moscio, una difficoltà esplicitata.
Oggi parlare di poesia: ci sarebbe da ridere molto e di gusto, ma non
alla maniera del saggio indiano lontano e distaccato, tutt'altro alla
maniera del folle piantato sulla colonna a predicare al deserto.
La poesia è stata un'astrazione, astrazione di procedimenti mentali -
psicologici (fino al romanticismo), una sorta di poesia 'mitica' e poi
astrazione di procedimenti di ricerca. L'individuo ha sempre cercato
nella poesia il modo di travalicare la sua epoca, di creare, costruire,
valori universali, metastorici. Nell'abbruttimento del contingente la
poesia ha significato la rapida aviolinea verso l'incorruttibilità,
verso tutto quello che nel contingente deperiva o veniva sentito come
deperibile. La paura della morte è uno dei motori della produzione
poetica.
Il parto poetico è doloroso poiché è smaliziato e cinico; il poeta
conosce i limiti del suo prodotto ma alla fine non sfugge e rimane lì a
crogiolarsi nel paradosso.
Oggi, nell'epoca terminale, l'epoca nella quale tutti i nodi vengono al
pettine, ma sul binario peggiore che si possa immaginare, nella forma
più assurda e mistificata (eppure ci siamo arrivati, comunque, a questo
termine), anche la poesia è stata costretta a tastare questi nodi, a
prendere il pettine, ad indagare il linguaggio e ha fatto di questa
esigenza epocale, del pettine, un feticcio, come sempre, ed è rimasta
poesia, così.
Poesia, categoria a sé stante, si è mantenuta come categoria a sé
stante, mentre basta osservare la gente che cammina per strada per
comprendere che la poesia si è rapidamente distribuita come sotto
prodotto del mondo televisivo, cinematografico e radiofonico, ma si è
distribuita.