Gli editti di Teodosio (380 - 392)
1.
L'editto di Tessalonica (marzo 380)
1.1. Cunctos populos: la generalità dell'editto
L'editto del marzo 380 è semplice, quasi un preambolo di una
legge più che una legge vera e propria e articolata. Non
contiene decreti attuativi e non prevede pene specifiche per
coloro che si oppongono a quello; per incontrare quelli
dovremo attendere dieci anni e il governo solitario di
Teodosio, privo della collegialità con Graziano.
Si tratta di una dichiarazione di principio e di una generale
dichiarazione d'infamia verso coloro che non professano la
fede cattolica.
In verità la possibilità di praticare ancora il paganesimo,
nell'editto, non è neppure contemplata: il paganesimo si pone
in una totale e completa zona d'ombra, zona grigia alle
istituzioni e all'impero. Da questo schema legislativo e da
questa maniera di procedere si può considerare veritiera la
notizia dell'emissione di un editto contro il culto pagano in
precedenza, sotto Costanzo II, perché oggettivamente il cunctos
populos presuppone una legislazione consolidata, anche
se, probabilmente, non ancora applicata con decisione.
L'editto stabilisce come prima cosa una scelta di campo
precisa nella teologia cristiana, vale a dire sancisce
un'ortodossia alla quale l'autorità politica deve riferirsi e
che deve difendere, e solo in seconda battuta e indirettamente
stabilisce la proibizione del culto pagano dentro l'impero;
questa interdizione è scritta tra le righe, non dichiarata,
come, invece, sarà nei decreti attuativi dei primi anni
novanta. In quelli si decise di dare una maggiore concretezza
alla legge del marzo 380, probabilmente, per combattere la
diffusa resistenza degli ambienti pagani occidentali, ma anche
di una parte di quelli orientali, quando scontri e gravissimi
torbidi tra pagani e cristiani accaddero di continuo.
1.2. I dati di partenza: gli assiomi di Costantino I
Fin dal 'falso' editto di Costanzo II, redatto circa trenta
anni prima e intorno al 347, la tentazione di proibire le
pratiche religiose tradizionali e pagane, si era presentata
alla mente degli imperatori; sappiamo che però quell'editto,
se mai fu veramente emesso, rimase largamente inapplicato.
Anche Valentiniano e Valente (365 - 378), pur censurando il
culto pagano, non emisero decreti restrittivi e in generale
fino al 380 possiamo descrivere la continuità della politica
costantiniana in materia.
Questa politica si può così sommariamente riassumere: divieto
del culto pubblico pagano più visibile, censura delle pratiche
familiari ma sostanziale tolleranza versi i culti più defilati
oppure verso quelli conclamati ma che non entrano in aperta
contraddizione con la nuova etica cristiana. Segnatamente
vengono ostacolati l'aruspicina privata, i culti orgiastici e
quelli apertamente volti verso Afrodite e Dioniso e in genere
tutti quei fenomeni che rimandano al culto del corpo, inteso
anche sotto il profilo sportivo, e ovviamente alla sfera
sessuale.
In generale comunque il periodo costantinide descrive
inevitabilmente una sostanziale ostilità verso il paganesimo
che nel corso dei decenni cresce e gli eventi accelerano
questa tentazione, ma non si giunge a un provvedimento anti
pagano.
Contemporaneamente esiste un aspetto, nel disegno
costantinide, che è rivolto verso la chiesa cristiana.
In questa assiomatica era fondamentale favorire in quella
l'affermazione di una teologia univoca, di un'ortodossia, ma
si chiese a più riprese all'organizzazione cristiana di non
addentrarsi in questioni filosofiche troppo profonde e
soprattutto di non costruire la polemica dottrinaria su
quelle.
Insomma Costantino (313 - 337), Costante (340 - 350) e
Costanzo II (350 - 360) chiesero alla chiesa di costruire
un'ortodossia teologicamente 'leggera' che tenesse conto delle
necessità di mediazione imperiale in quella e della
complessità religiosa dell'impero, sia nella sua parte
occidentale sia in quella orientale.
Dopo il 380 le cose cambiano anche su questo versante
dell'eredità costantiniana.
1.3. L'editto di Tessalonica e il paganesimo
Graziano e Teodosio, nel 379, avevano rifiutato di assumere il
tradizionale titolo di pontifex maximus. Il
pontificato, somma carica pagana, rimase vacante.
Non accadde, però, solo questo: furono definitivamente
ritirate tutte le sinecure e i privilegi fiscali residui a
favore dei templi pagani e fu abrogata ogni forma di
finanziamento verso quelli. Era come dire: chiudete. Tutto
questo avvenne ben prima di Tessalonica, almeno quindici mesi
prima.
In conseguenza di questi provvedimenti i templi chiuderanno,
soprattutto i luoghi di culto più grandi in oriente quanto in
occidente e a Roma stessa e soprattutto quelli più 'visibili',
dunque quelli urbani, mentre culti più defilati poterono
resistere nelle campagne. Sotto questo profilo le due parti
dell'impero si differenziarono notevolmente: in occidente, ma
soprattutto in Italia e a Roma, la resistenza della
maggioranza pagana si fece sentire e, malgrado la proibizione
del culto pubblico, sopravvisse diffusissimo un culto privato,
radicatissimo nelle campagne.
Teodosio stesso sarà costretto, verso la fine del suo regno, a
ribadire ai romani la proibizione del culto funerario pagano,
la libatio, una sorta di banchetto mistico a favore
del defunto; ma la libatio sopravviverà e, infatti,
in pieno quinto secolo un Papa sarà costretto a stigmatizzarne
l'uso diffuso. Insomma l'editto, emanato a Tessalonica nel
380, sottoscritto da entrambi i colleghi all'impero, che
descrive il cristianesimo come religione ufficiale dell'impero
e religione di stato e proibisce il culto pagano, non riesce
affatto a sradicarlo.
Questa tensione religiosa in occidente produrrà, inoltre,
pericolosi contro effetti politici, ma, soprattutto, un grande
contro effetto religioso: dopo il 380, sempre più, i pagani,
costretti a disertare i loro templi, si accostarono alla nuova
religione degli imperatori, ma si portarono dietro tutto il
patrimonio religioso del vecchio paganesimo.
Le gerarchie ecclesiastiche se ne avvidero e pretesero, in
qualche maniera, di venire incontro al fenomeno, disponendosi
verso un atteggiamento inclusivo. Quelli che praticavano la libatio
sulle tombe degli antenati, nel V secolo, non erano per niente
pagani ma cristiani.
Altri, al contrario, esercitarono una sorta di resistenza
passiva, continuando a frequentare i templi pagani, il
provvedimento non lo punisce, e ignorando i portati ideologici
del decreto del 380.
Di fronte a questo secondo comportamento i cristiani,
soprattutto in oriente, sentendosi appoggiati dalla
legislazione imperiale, si lasciarono andare ad azioni dirette
contro i pagani, assalendo i loro luoghi di culto,
devastandoli, mutilandoli delle statue e spesso, come in
oriente e in Alessandria, compiendo massacri indiscriminati.
Poi ci furono coloro che, di fronte all'emozione del momento,
si convertirono in maniera affrettata al cristianesimo e che,
subito dopo, rinnegarono quella conversione, ritornando al
paganesimo.
Questa fu la facies, piuttosto complessa e
complicata, dell'editto di Tessalonica verso i pagani e
indirettamente verso l'occidente dove i pagani erano ancora
maggioranza.
I pagani, comunque, rimarranno un problema politico e lo
rimarranno per decenni, certamente ancora per un secolo.
1.4. L'editto di Tessalonica e il cristianesimo
L'editto di Tessalonica non fu solo un provvedimento anti
pagano, anzi fu principalmente tutt'altro: un provvedimento
interno al mondo cristiano, un provvedimento anti eretico e
qui, sotto questo profilo, guardava soprattutto all'oriente.
Citiamo la lettera stessa dell'editto emanato da Flavio
Teodosio: "Crediamo - scrive l'imperatore in uno di quelli -
nell'unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo, uniti in una eguale maestà e una pia unità ...” e
coloro che non condividono questo assioma - prosegue l'editto
- non sono altro che "... pazzi stravaganti, li
marchiamo con il nome infame di eretici …" e cioè “... secundum
apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et
filii et spiritus sancti unam deitatem sub parili maiestate
et sub pia trinitate credamus (…) Hanc legem
sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti,
reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici
dogmatis infamiam sustinere ‘nec conciliabula eorum
ecclesiarum nomen accipere’...”
A Tessalonica non si stabilisce il cristianesimo come
religione di Stato, ma si stabilisce il credo Niceno elaborato
al concilio del 325 come religione di stato, soprattutto nella
condanna all'arianesimo e alle nuove varianti eretiche
cristologiche, si scrive infatti “ … nell'unica divinità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ...” e cioè “... patris
et filii et spiritus sancti unam deitatem sub parili
maiestate et sub pia trinitate ...”
D'ora innanzi, ariani, montanisti, monarchiani, adozionisti,
passionisti, donatisti e apollinaristi subiranno il medesimo
trattamento dei pagani: divieto di culto, sanzioni pecuniarie
per i ministri del culto e allontanamento dalle cariche
pubbliche eventualmente rivestite ma, soprattutto, non
potranno essere riconosciuti come chiesa e le loro riunioni
saranno solo assemblee, 'conciliabula', non
riconosciute dal potere pubblico e dunque completamente
illegali.
La lotta al paganesimo contenuta nell'editto può essere
interpretata come un'evidente occasione verso la costruzione
di un' ortodossia cristiana e imperiale.
Nel 380 l'ortodossia cattolica divenne fonte e cemento dello
stato e della società. Diventò, inoltre, la parola stessa
dell'imperatore: il principe stabiliva, in via legale, la
giusta fede.
Il processo persecutorio messo in moto contro i pagani si
rivolgeva anche contro le sette non ortodosse dei Cristiani e
la collaborazione tra Stato e Chiesa, d'ora innanzi, doveva
essere il più possibile organica.
1.5. La tradizione giuridica romana e la città di
Tessalonica
A Tessalonica si fece riferimento nella lotta contro i pagani
e le sette eretiche cristiane alla tradizionale legislazione
imperiale contro le fratellanze, le eterie,
illegali.
Pagani, ariani, montanisti, donatisti e apollinaristi
scivolarono, attraverso l'editto, in quel tradizionale
contesto di illegalità. Nel marzo del 380 a Tessalonica non si
percepì il bisogno di promulgare una legislazione ad hoc
contro le deviazioni religiose, ma si pensò di applicare la
tradizione giuridica romana e di fare riferimento a quella.
Insomma a Tessalonica non c'è ancora nulla di rivoluzionario,
nonostante la data dell'editto sia da molti considerata una
data storica, epocale e rivoluzionaria. A Tessalonica si
estende il repertorio delle associazioni illegali anche al
mondo organizzato pagano e alle ormai 'non – chiese' o
sedicenti chiese del mondo eretico cristiano.
Perché la legge venne pubblicata proprio a Tessalonica? Perché
scegliere Tessalonica per emanare un editto che si rivolge in
primo posto alla parte orientale dell'impero e ai cittadini di
Costantinopoli?
Una prima risposta potrebbe trovarsi nelle preferenze
personali dell'augusto per l'oriente, che adorava la città.
È possibile avanzare anche un' ipotesi geopolitica.
Tessalonica, città egea e contemporaneamente balcanica, si
situava, in maniera defilata e interessante, al crocevia della
parte orientale e quella occidentale dell'impero: vicinissima
all'oriente e a Costantinopoli, era a pochi giorni di cavallo
da Durazzo e dagli imbarchi verso l'Italia.
Tessalonica, geograficamente, fu elevata a simbolo, simbolo
strategico.
Inoltre Tessalonica era anche un sito storico della
predicazione paleocristiana ed era documentata in quella
l'attività di Paolo di Tarso; la città, inoltre, era
probabilmente un'enclave profondamente evangelizzata immersa
in un retroterra ellenico dove il paganesimo sopravviveva in
forme robuste. Riteniamo che Tessalonica fosse, per Teodosio,
una città dalle molteplici simbologie.
Infine Tessalonica era una città fondamentale, dopo il
disastro di Adrianopoli e il dilagare dei Goti nell'illirico,
per costituire da meridione una maglia di resistenza contro
quell'intrusione e non a caso la città egea venne rinforzata
nei sussidi militari e nelle fortificazioni proprio in questi
anni difficilissimi.
1.6. Il vescovo di Roma e il patriarca di Alessandria
Un passo dell'editto fa riflettere non poco e dà,
davvero, da ragionare.
Nel decreto, infatti, si scrive “... quamque pontificem
Damasum sequi claret et Petrum Aleksandriae episcopum virum
apostolicae sanctitatis ...”. e si manifestano due
fatti importantissimi, espressi in pochissime parole. In primo
luogo scopriamo che il vescovo di Roma, Damaso, si è già
appropriato del paganissimo titolo di pontefice - si scrive pontificem
Damasum - abbandonato l'anno precedente dai due Augusti
Graziano e Teodosio e che questo titolo gli viene riconosciuto
dal decreto. In secondo luogo ci troviamo di fronte a
un’equiparazione di sostanza, non di forma, tra la cattedra
episcopale romana e il patriarcato alessandrino – si scrive,
infatti - Petrum Aleksandriae episcopum virum apostolicae
sanctitatis.
La chiesa di Roma e quella di Alessandria sono donate, nel
decreto, di sostanziale pari autorità in materia dottrinaria e
teologale.
Nella forma, però, e questo è un elemento che non va affatto
sottovalutato, il titolo di pontefice viene riconosciuto solo
ed esclusivamente a Damaso, mentre il carisma del patriarcato
alessandrino è fatto risalire alle virtù del suo rettore,
Pietro, che è un uomo dotato di eccezionale santità
apostolica.
Dopo l'arbitrato di Aureliano del 270, che rimandò al vescovo
di Roma le decisioni intorno alle contraddizioni esistenti tra
i cristiani di Antiochia, è questo il secondo e preciso
riferimento 'laico' al primato romano dentro la chiesa
cattolica.
Rimane, comunque, il fatto, ben registrato dal testo del
provvedimento, dell'autorità della chiesa di Alessandria,
quella, tanto per intenderci meglio, che era stata organizzata
da Atanasio e che si era resa protagonista di una lotta senza
quartiere contro l'arianesimo e le pretese 'cesaro – papiste'
di Costantino prima e di Costanzo II poi.
Inoltre se Roma poteva vantare l'apostolato e il martirio di
Pietro, Alessandria poteva ricordare la predicazione di Marco,
il primo fra gli evangelisti.
1.7. Dopo Tessalonica: Graziano e Teodosio contro il senato
romano
Romanus e christianus divengono,
sotto il profilo della legge, sinonimi, dopo esserlo diventati
nelle operazioni culturali che dal 320 in poi si erano mosse
nell'impero.
Il salto di qualità rispetto alla politica religiosa di
Costantino, stabilita nel 313 attraverso l'editto di
tolleranza, era notevole e non poté passare inosservato e non
sollevare critiche e proteste in buona parte dell'impero e
certamente in quella occidentale. Il senato di Roma si fece
rappresentante di questa opposizione.
Teodosio pose la questione, alla fine, davanti ad un Senato
riottoso e insofferente rispetto a questa sterzata nella
politica religiosa, in maniera politicamente forte, anzi
fortissima, anzi ancora di più ridicolizzante le residue
prerogative e le ideologie del senato. L'imperatore per
l'oriente chiese direttamente al senato, davanti alla sua
opposizione, di assumersi la responsabilità di quella e di
decidere: " ... se la religione romana dovesse essere
costituita dal culto di Giove o da quello di Cristo ...". Ne
ottenne un pronunciamento per Cristo, ma detto a denti stretti
e la romana religio diveniva il cristianesimo di
fronte a un'insostenibile politicamente aut – aut.
Teodosio sapeva che il Senato non aveva la forza politica per
rivendicare il ritorno a una politica di tolleranza
religiosa perché sarebbe stata scambiata dai cristiani
con una nuova persecuzione e parimenti era consapevole del
fatto che la situazione religiosa dell'impero, con l'oriente
monopolizzato dal cristianesimo, avrebbe rapidamente decretato
la fine dell'impero unitario. In questo scenario politico e
per il modo in cui era stata posta la questione, il senato non
poté fare altro che pronunciarsi per Cristo.
La rozzezza del quesito è evidente ma è una rudezza che nasce
da un'attenta analisi storica che Teodosio, Graziano e anche
il vescovo Ambrogio misero in campo e all'opera pratica.
Se pensiamo che subito dopo l'emissione dell'editto e sotto
diretta ispirazione di Ambrogio, vescovo di Milano,
l'imperatore Graziano farà rimuovere la statua della dea
Vittoria che affrontava il palazzo del Senato di Roma,
possiamo descrivere un cerchio politico che rapidamente, anche
nelle forme simboliche, si chiuse. Anche qui, nei confronti di
questo provvedimento, le proteste della tradizionale
aristocrazia romana, anche quella di fede cristiana, furono
elevate, ma ancora una volta bellamente ignorate e
ridicolizzate dall'imperatore.
1.8.
Cunctos populos: la lettera dell'editto
IMPPP. GR(ATI)IANUS, VAL(ENTINI)ANUS ET THE(O)D(OSIUS) AAA.
EDICTUM AD POPULUM VRB(IS) CONSTANTINOP(OLITANAE).
Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in
tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum
tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata
declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum
Aleksandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est,
ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam
patris et filii et spiritus sancti unam deitatem sub parili
maiestate et sub pia trinitate credamus. Hanc legem sequentes
Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero
dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam
sustinere ‘nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere’,
divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex
caelesti arbitro sumpserimus, ultione plectendos.
DAT. III Kal. Mar. THESSAL(ONICAE) GR(ATI)ANO A. V ET
THEOD(OSIO) A. I CONSS.
ESSENDO IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO AUGUSTI.
EDITTO AL POPOLO DELLA CITTA' DI COSTANTINOPOLI.
Vogliamo che tutte le nazioni che sono sotto nostro dominio,
grazie alla nostra carità, rimangano fedeli a questa religione,
che è stata trasmessa da Dio a Pietro apostolo, e che egli ha
trasmesso personalmente ai Romani, e che ovviamente è mantenuta
dal Papa Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, persona con
la santità apostolica; cioè dobbiamo credere conformemente con
l'insegnamento apostolico e del Vangelo nell’unità della natura
divina di Padre, Figlio e Spirito Santo, che sono uguali nella
maestà e nella Santa Trinità. Ordiniamo che il nome di Cristiani
Cattolici avranno coloro i quali non violino le affermazioni di
questa legge. Gli altri li consideriamo come persone senza
intelletto e ordiniamo di condannarli alla pena dell’infamia come
eretici, e alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa;
costoro devono essere condannati dalla vendetta divina prima, e
poi dalle nostre pene, alle quali siamo stati autorizzati dal
Giudice Celeste.
DATO IN TESSALONICA NEL TERZO GIORNO DALLE CALENDE DI MARZO, NEL
CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO.
2. Verso il ritorno all'inflessibilità religiosa
Nonostante, quindi, l'apparente asprezza dell'editto del 380,
Teodosio e Graziano mantennero un atteggiamento elastico verso il
paganesimo e paiono più interessati a confermare
un'ortodossia all'interno del campo cristiano.
La fine dell'esperienza imperiale per l'occidente di Magno Massimo
(383 - 388), la revanche senatoria nel medesimo
decennio, che pure Teodosio stesso e i suoi colleghi all'impero
avevano sponsorizzato, e infine il riemergere in Roma e in Italia
di una 'rinascita' pagana determinarono un approfondimento della
politica in materia religiosa dopo il 390.
Non ebbero poca influenza in questa svolta la rivolta di
Tessalonica, il problema politico che ne derivò e la penitenza
subita in Milano dall'imperatore a opera di Ambrogio (390). Tutti
questi eventi e processi storici e politici suscitarono in
Teodosio un ripensamento profondo e lo determinarono ad assumere
provvedimenti più chiari e precisi in materia religiosa, più di
quanto, appunto, non lo fosse stata la dichiarazione di principio
del 380 e i provvedimenti del 383 intorno alla festività della
domenica.
Elementi di carattere squisitamente religioso, politico e sociale
conformarono questa svolta epocale nella storia dell'impero e
dell'Europa e cioè la statuizione del cristianesimo a religione di
stato non solo sotto il profilo costituzionale, come era accaduto
a Tessalonica nel 380, ma anche sotto il profilo della
legislazione civile e amministrativa.
I decreti emessi da Teodosio I nei suoi ultimi tre anni di governo
trasformarono radicalmente l'impianto costantiniano di una
pacifica coesistenza del cristianesimo con il paganesimo, seppur
contaminata da una preferenza imperiale verso i cristiani, in un
progetto radicalmente integralista in materia di politica
religiosa, un progetto che alcuni definiscono e non a torto già
medioevale.
In ogni caso numerose furono le gradazioni, le gradienze e le
varianti che innervarono i singoli provvedimenti e che si
giocarono sui meccanismi e le procedure dei decreti quanto sulle
aree geografiche interessate alla loro applicazione. Bisogna,
inoltre, saper distinguere e stabilire il valore carismatico di
ogni singolo provvedimento.
Al di là delle necessarie discriminazioni tra i meccanismi dei
provvedimenti e i loro contingenti obiettivi politici è
assolutamente necessario sottolineare quanto il vescovo di Milano,
Ambrogio, abbia avuto parte nella loro emissione e abbia
certamente esercitato il ruolo del suggeritore.
Ambrogio si distinse per tutto quello che riguardava la lotta
culturale, più che religiosa, contro il paganesimo e dunque in
diretta conseguenza nella polemica contro il culto del corpo e del
suo uso che distingueva il paganesimo nei confronti del
cristianesimo e che si mostrava in maniera emblematica ogni
quattro anni a Olimpia.
Alla fine di questo percorso è squisitamente lineare la
proibizione dei giochi di Olimpia, stabilita nel 394.
3. Il decreto del 24 febbraio 391: nemo se hostiis
polluat
3.1. L'inflessibilità del decreto
Teodosio emise a Milano, nel febbraio del 391, quello che si può
considerare un primo decreto attuativo del precedente editto di
Tessalonica, redatto undici anni prima. Qui, infatti, si fa aperta
e precisa menzione
di sanzioni pubbliche contro il culto pagano.
In primo luogo si stabilisce che sono vietate in ogni loro forma,
pubblica e privata, i riti sacrificali pagani. I sacrifici pagani
vengono proibiti per due motivi: in quanto in disaccordo con
la purezza morale (“ … nemo se hostiis polluat …”
recita il decreto), e in quanto producono l'eliminazione di
animali e vittime innocenti (scrive, infatti, l'imperatore “ … nemo
insontem victimam caedat ...”).
Qui Teodosio e il pensiero cristiano che lo illumina, si fanno
interpreti di esigenze morali ed ecologiche, condannando la
diminuzione morale che tali pratiche rituali comportavano e lo
spreco di risorse economiche che provocavano.
In secondo luogo, il divieto si estende alla pubblica adorazione
di statue e idoli pagani che non possono neppure essere guardati
senza incorrere nei rigori della legge e si chiede, in buona
sostanza, ai cittadini di abbassare lo sguardo in presenza di
quelle (“ … [nemo] mortali opere formata simulacra suspiciat
...”) .
Infine il provvedimento giunge a proibire la frequentazione dei
templi pagani, “... nemo delubra adeat, templa perlustret
...”, e propone una pena pecuniaria per le infrazioni di quel
genere del valore di 15 lire d'oro.
3.2. Le limitazioni del decreto
Il provvedimento del febbraio 391 parrebbe un decreto generale,
esteso e articolato contro l'esistenza stessa del paganesimo e dei
santuari pagani e in parte lo è, soprattutto nella prima parte e
preambolo. In verità il decreto introduce alcune limitazioni
notevoli.
Le prime limitazioni sono di carattere sostanziale. Scrive,
infatti, l'imperatore che il decreto si applica non a tutti coloro
che entrano ancora nei templi e santuari pagani ma solo a quelli
che vi entrano con l'intenzione di pregare e compiere riti, “... si
quis profano ritui deditus templum uspiam vel in itinere vel in
urbe adoraturus intraverit ...”. Insomma la legge di
Teodosio non si propone la distruzione delle emergenze
architettoniche del paganesimo ma solo lo svuotamento del loro
significato rituale. La stessa pena prevista per i trasgressori,
15 lire d'oro, seppur aggravata dal fatto che il pagamento
dell'ammenda deve avvenire attraverso un pubblico atto, “...
publica adtestatione ...”, è pesante ma non è
davvero una pena esorbitante, per il IV secolo, infatti, la
'soglia della povertà' è stata individuata intorno alle 40 lire
d'oro di reddito annuo.
È possibile, inoltre, individuare anche una limitazione
geografica all'applicazione della legge. Il decreto è indirizzato
a Ceionio Rufio Albino, prefetto del pretorio, ma che
probabilmente ricopriva la carica di prefetto della città di Roma
e come tale viene chiamato in causa dal protocollo della legge.
Anche i sei consolari e quattro presidi che dovranno vigilare
sull'applicazione del decreto (“... Consulares senas, officia
eorum simili modo, correctores et praesides quaternas ...”)
sembrano prefigurare l'applicazione del decreto a un'area
geografica ristretta e probabilmente alla città di Roma e
all'Italia suburbicaria. Addirittura quando si scrive nel decreto
“... vel in itinere vel in urbe adoraturus intraverit
...” e cioè “... quando entrerà [nei templi] con
l'intenzione di pregare o durante il viaggio o nella città ...”
saremmo tentati di tradurre urbe in forma limitativa e
cioè con un chiaro riferimento alla città di Roma.
3.3. Un decreto 'italiano'
Insomma in estrema sintesi il decreto del febbraio del 391, emesso
a Milano e indirizzato al prefetto Rufo Albino prevede la condanna
e il divieto di tutti i riti e liturgie pagane, pubbliche e
private, censurando i sacrifici degli animali e la frequentazione
attiva e a scopo liturgico dei santuari e dei luoghi di culto
pagani.
Il decreto prevede una pena pecuniaria elevata ma non impossibile
da sostenere e una pubblica attestazione del suo pagamento e della
violazione commessa; infine il provvedimento, pur avendo
inevitabilmente un valore generale, pare orientarsi e applicarsi
alla città di Roma e all'Italia piuttosto che prevedere
l'applicazione su tutto il territorio dell'impero.
È probabile che questa destinazione particolare del decreto del
391 faccia riferimento alle preoccupazioni politiche che destava
la revanche pagana del Senato di Roma e al fatto che il
carisma dei templi romani non fosse affatto estinto presso i
contemporanei.
Il valore carismatico del decreto è basso e quello del febbraio
pare davvero affrontare un problema politico contingente e non
certamente istituire un'ideologia generale per l'impero.
Per la vicinanza temporale dei decreti successivi a questo (la
scansione temporale è febbraio 391 – maggio 391 – giugno 391 –
novembre 392) riteniamo che il decreto del febbraio fu una sorta
di laboratorio che affrontava direttamente il problema della
resistenza della religione pagana nell'impero ma lo limitava a una
piccola quota della parte occidentale dello stato.
È innegabile, però, che il grande suggeritore di questo primo
provvedimento anti pagano fu il vescovo Ambrogio, colui che aveva
provocato l'umiliazione dell'imperatore appena due mesi prima: non
è un caso che la legge venga emanata a Milano e, lo ribadiamo, a
poche settimane di distanza dalla penitenza dell'imperatore per i
massacri di Tessalonica.
Era davvero finita un'epoca.
3.4. La lettera del decreto
Idem AAA. ad Albinum praefectum praetorio.
Nemo se hostiis polluat, nemo insontem victimam caedat, nemo
delubra adeat, templa perlustret et mortali opere formata
simulacra suspiciat, ne divinis atque humanis sanctionibus reus
fiat. Iudices quoque haec forma contineat, ut, si quis profano
ritui deditus templum uspiam vel in itinere vel in urbe
adoraturus intraverit, quindecim pondo auri ipse protinus
inferre cogatur nec non officium eius parem summam simili
maturitate dissolvat, si non et obstiterit iudici et confestim
publica adtestatione rettulerit. Consulares senas, officia eorum
simili modo, correctores et praesides quaternas, apparitiones
illorum similem normam aequali sorte dissolvant.
Dat. VI Kal. Mart. Mediolano Tatiano et Symmacho Coss
L'Augusto Imperatore (Teodosio) ad Albino, prefetto del pretorio.
Nessuno violi se stesso con riti sacrificali, nessuno immoli
vittime innocenti, nessuno si avvicini ai santuari, entri nei
templi e volga lo sguardo alle statue scolpite da mano umana
perché non si renda meritevole di sanzioni divine ed umane. Questo
decreto moderi anche i giudici, in modo che, se qualcuno dedito a
un rito profano entra nel tempio di qualche luogo, mentre è in
viaggio o nella città, con l'intenzione di pregare, venga
questi costretto a pagare immediatamente 15 libbre d'oro e tale
pena non venga estinta se non si trova innanzi a un giudice e
consegna tale somma subito con pubblica attestazione. Vigilino
sull'esecuzione di tale norma, con egual esito, i sei governatori
consolari, i quattro presidi e i loro subalterni.
Emesso in Milano, alle VI calende di marzo sotto il consolato di
Taziano e Simmaco
4. Il decreto dell'11 maggio 391: ii, qui sanctam
fidem prodiderint
4.1. Lo spirito e l'area di applicazione della legge
Tre mesi dopo, nel maggio, Teodosio emise un secondo decreto e
sempre in Italia settentrionale, precisamente a Concordia, nel
Veneto.
Il decreto si rivolge a Virio Nicomaco Flaviano, prefetto del
pretorio per l'Italia, l'Africa e l'illirico e dunque, fin nelle
intenzioni protocollari, manifesta una generalità geografica che
mancava a quello di Milano. Nel decreto si affronta il problema di
coloro che hanno tradito la fede cristiana e si sono nuovamente
avvicinati al paganesimo, letteralmente “... Ii, qui sanctam
fidem prodiderint et sanctum baptisma profanaverint ...”.
Fenomeno preoccupante e probabilmente diffuso soprattutto tra le
classi egregie dell'impero che, dopo la crisi militare dei
Balcani, intravedono nel ritorno al paganesimo la possibilità di
recuperare la salute per l'impero. Insomma si affronta il problema
dell'apostasia e dei cosiddetti lapsi, perduti, e dietro
quello gli effetti della rinnovata propaganda pagana nella parte
occidentale dell'impero.
4.2. Il meccanismo della legge
La legge emanata a Concordia assume contorni drastici e
draconiani.
Nel febbraio per coloro che continuavano a frequentare i templi
pagani bastava il pagamento di un'ammenda per vedere perdonata la
violazione della lettera del decreto, ora per coloro che si sono
nuovamente avvicinati al paganesimo, dopo aver accettato il
battesimo, si prevede la perdita dei diritti civili e cioè la
possibilità di fare testamento, di dare pubblica testimonianza
legale, di essere eletti o di eleggere, letteralmente “... a
testimoniis alieni, testamenti, ut ante iam sanximus, non
habeant factionem, nulli in hereditate succedant, a nemine
scribantur heredes … hominum carere suffragiis ...”.
C'è ancora di più e di peggio per questa particolare categoria di
criminali: la condanna è irrevocabile e non è prevista la
possibilità di fare appello o di ottenere una riparazione. Scrive
in proposito il legislatore, “... nullo remedio
paenitentiae, quae solet aliis criminibus prodesse succurritur...”
e cioè “… non c'è rimedio nella penitenza, che solitamente aiuta a
mondare gli altri crimini ...”.
L'assunto confessionale della legge del maggio 391 è manifesto: la
profanazione del battesimo, che l'apostasia cristiana comporta, è
un crimine contro lo stato che testimonia dell'assoluta immoralità
e inaffidabilità di colui che lo compie.
4.3. Il senso politico del decreto
Il decreto di Concordia descrive un mondo nel quale la
mobilità religiosa era ancora alta e si rivolge contro quella per
censurarla. Obiettivo di questa censura sono
soprattutto le classi
dirigenti dell'occidente, il decreto infatti per il suo
destinatario riguarda principalmente Africa, Italia e Dalmazia.
Teodosio chiedeva a Virio Nicomaco Flaviano, il più insigne
esempio del ritorno del Senato ai vertici dell'impero occidentale,
di applicare un decreto che si rivolgeva in buona parte contro la
sua classe e contro la sua cerchia, perché Virio, oltre che
appartenere alla più chiara aristocrazia clarissimale, era anche
un pagano convinto.
È significativo sotto questo profilo il fatto che si scriva
chiaramente nella legge “... hominum carere suffragiis
...” e cioè sia interdetta agli apostati del cristianesimo per
sempre la vita politica.
Come nel caso del decreto emesso a Milano tre mesi prima dobbiamo
registrare, però, una carismaticità ridotta nel provvedimento del
maggio; è vero che l'area di applicazione della nuova disposizione
è ben più ampia, riguarda quasi tutto l'occidente (anche se
Gallia, Spagna e Britannia sembrano escluse) e coinvolge la
massima carica istituzionale dopo quella dell'imperatore, ma è
anche vero che in quello non si tratta propriamente del
paganesimo, che rimane punito con una sanzione pecuniaria, ma
dell'abiura del cristianesimo e del 'tradimento' dell'istituzione
battesimale.
4.4. La lettera del decreto
Imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius aaa. Flaviano
praefecto praetorio.
Ii, qui sanctam fidem prodiderint et sanctum baptisma
profanaverint, a consortio omnium segregati sint, a testimoniis
alieni, testamenti, ut ante iam sanximus, non habeant factionem,
nulli in hereditate succedant, a nemine scribantur heredes. Quos
etiam praecepissemus procul abici ac longius amandari, nisi
poenae visum fuisset esse maioris versari inter homines et
hominum carere suffragiis.
Sed nec umquam in statum pristinum revertentur, non flagitium
morum oblitterabitur paenitentia neque umbra aliqua exquisitae
defensionis aut muniminis obducetur, quoniam quidem eos, qui
fidem quam deo dicaverant polluerunt et prodentes divinum
mysterium in profana migrarunt, tueri ea quae sunt commenticia
et concinnata non possunt. Lapsis etenim et errantibus
subvenitur, perditis vero, hoc est sanctum baptisma
profanantibus, nullo remedio paenitentiae, quae solet aliis
criminibus prodesse succurritur.
Dat. V id. mai. Concordiae Tatiano et Symmacho conss.
Gli augusti imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio a
Flaviano, prefetto del pretorio.
Coloro che hanno tradito la santa fede e hanno profanato il santo
battesimo, siano banditi dalla comune società: dalla testimonianza
esclusi, e come già abbiamo sancito non abbiano parte nei
testamenti, non ereditino nulla, da nessuno siano indicati come
eredi. Coloro ai quali era stato comandato di andarsene lontano e
essere esiliati per lungo tempo, se non sono stati visti versare
un compenso maggiore tra gli uomini, anche del voto degli uomini
siano privati.
Se casomai nello stato precedente ritornano, non sia
cancellata la vergogna dei costumi con la penitenza, né sia
riservata loro alcuna particolare protezione di difesa o di
riparo, poiché certamente coloro i quali contaminarono la fede,
con la quale Dio hanno riconosciuto, e orgogliosamente
trasformarono i divini misteri in cose profane, non possono
conservare le cose che sono immaginarie e a proprio comodo. Poiché
sia portato soccorso ai lapsi e agli erranti, non ci sia rimedio
di penitenza alla vera perdizione, cioè alla profanazione del
santo battesimo, la quale solitamente per gli altri crimini
soccorre per giovare.
Emesso a Concordia, in data V idi di maggio sotto il consolato di
Taziano e Simmaco.
5. Il decreto del 16 giugno 391: nulli sacrificandi
tribuatur potestas
5.1. Il dispositivo di legge del giugno 391
Il decreto del 16 giugno 391, emanato ad Aquileia, e dunque ancora
in Italia dove Teodosio continuava a risiedere diffidando della
debolezza del giovane collega all'impero, Valentiniano II, e
affascinato dal prestigio del vescovo Ambrogio, riprese
sostanzialmente il decreto del 24 febbraio 391, vietando il culto
pagano presso i templi.
Il dispositivo della legge è il medesimo di quello studiato a
Milano quattro mesi prima, scrive il legislatore, infatti “...
Nulli sacrificandi tribuatur potestas, nemo templa circumeat,
nemo delubra suspiciat ...” e cioè “... A nessuno sia
accordata facoltà di compiere riti sacrificali, nessuno si aggiri
intorno ai templi ...”. La pena dell'editto che abbiamo descritto
come editto 'italiano' non è aggravata ma confermata e si tratta
di un'ammenda di quindici lire d'oro.
Troviamo, però, un'interessante precisazione “... Iudex
quoque si quis tempore administrationis suae fretus privilegio
potestatis polluta loca sacrilegus temerator intraverit,
quindecim auri pondo, officium vero eius, nisi collatis viribus
obviarit, parem summam aerario nostro inferre cogatur...” e
cioè si fa diretto riferimento a un'eventuale tiepidezza quando
non connivenza dei giudici verso le sopravvivenze pagane ai quali
si ricorda che anche loro stessi sono sottoposti ai rigori della
legge.
5.2. Un editto 'egiziano'
L'intestazione protocollare dell'editto può spiegare questa,
apparentemente inutile, precisazione.
L'editto, infatti, si rivolge a “.... Evagrio praefecto
augustali et Romano comiti Aegypti ...” e cioè si rivolge
direttamente all'Egitto, al suo governatore, augustalis,
Evagrio e al suo amministratore militare, comes, Romano.
La particolare e nervosa situazione sociale e religiosa
dell'Egitto fu ben presente nei disegni legislativi
dell'imperatore.
Qui, probabilmente, la classe dirigente greca e romana faceva
fatica a riconoscersi nel rissoso mondo cristiano, pur
essendo in quella provincia il cristianesimo professione religiosa
assolutamente maggioritaria. Sappiamo, infatti, che in quell'area
la professione di fede cristiana aveva spesso sconfinato in una
critica aperta verso l'impero e in un radicale rifiuto della leva
e che non era particolarmente amata dalla tradizionale burocrazia
e classe dirigente imperiale.
Teodosio chiuse con queste ambiguità e decise che i templi pagani
andassero abbandonati e disertati e che tutta l'amministrazione
pubblica dovesse schierarsi decisamente a favore del
cristianesimo.
L'interpretazione amministrativa del decreto del giugno 391 fu
quella della chiusura, manu militari, dei templi e santuari
cristiani dell'Egitto, l'interpretazione plebea fu quella
dell'azione diretta contro i luoghi di culto pagani,
dell'eliminazione fisica dei loro frequentatori e della
distruzione o occupazione violenta degli antichi templi. Al
termine di questa manifestazione delle energie popolari i templi
pagani dell'Egitto o furono distrutti o vennero obliterati dalla
liturgia cristiana.
5.3.
La forza orientale dell'editto
L'editto del giugno 391, l'editto di Aquileia, l'editto 'egiziano'
possiede rispetto al suo palinsesto un valore carismatico molto
più alto.
Egitto, Palestina e Siria erano le terre di coltura e di più
profondo proselitismo del movimento cristiano; quelle province
erano di per sé stesse terre carismatiche. La censura verso
l'atteggiamento tiepido dei giudici contro i pagani, ma anche
l'accusa di un loro reiterato paganesimo, magari nascosto, occulto
e privato (importantissimo sotto questo profilo il passo del
decreto “... Interclusos sibi nostrae legis obstaculo
profanos aditus recognoscant ...” e cioè “... Si
riconoscano quegli ingressi profani che sono chiusi come ostacoli
alle nostre leggi ...”) è fondamentale per definire, fino in
fondo, il nuovo carattere religioso che lo stato aveva assunto. A
quel nuovo carattere ogni funzionario doveva adeguarsi e non
poteva più usare 'ingressi secondari e privati' verso il
paganesimo.
5.4. La lettera dell'editto
Idem AAA. Evagrio praefecto augustali et romano comiti
Aegypti.
Nulli sacrificandi tribuatur potestas, nemo templa circumeat,
nemo delubra suspiciat. Interclusos sibi nostrae legis obstaculo
profanos aditus recognoscant adeo, ut, si qui vel de diis
aliquid contra vetitum sacrisque molietur, nullis exuendum se
indulgentiis recognoscat. Iudex quoque si quis tempore
administrationis suae fretus privilegio potestatis polluta loca
sacrilegus temerator intraverit, quindecim auri pondo, officium
vero eius, nisi collatis viribus obviarit, parem summam aerario
nostro inferre cogatur.
Dat. XVI Kal. Iul. Aquileiae Tatiano et Symmacho Coss.
Gli Augusti imperatori al prefetto Evagrio e a Romano comes
d'Egitto.
A nessuno sia accordata facoltà di compiere riti sacrificali,
nessuno si aggiri intorno ai templi, nessuno volga lo sguardo
verso i santuari. Si riconoscano, in particolar modo, quegli
ingressi profani che sono chiusi come ostacoli alla nostra legge
così che, se qualcosa incita chicchessia a infrangere tali divieti
riguardanti gli dei e le cose sacre, riconosca il trasgressore di
doversi spogliare di alcuna indulgenza. Anche il giudice, se
durante l'esercizio della sua carica ha fatto ingresso come
sacrilego trasgressore in quei luoghi corrotti confidando nei
privilegi che derivano dalla sua posizione, sia costretto a
versare nelle nostre casse una somma pari a 15 libbre d'oro a meno
che non abbia ovviato alla sua colpa una volta riunitesi le truppe
militari.
Emesso in Aquileia, alle XVI calende di luglio, sotto il consolato
di Taziano e Simmaco.
6. Il decreto dell' 8 novembre 392: l'editto generale
contro il paganesimo
6.1. Aspetti contingenti del decreto
Nel novembre del 392 venne emesso un quarto editto, questa volta
in oriente e a Costantinopoli, residenza palatina per eccellenza
della sedes orientale.
La situazione politica rispetto all'anno precedente è radicalmente
mutata: Valentiniano II è stato ucciso e spodestato nel maggio e
la carica imperiale in occidente è stata usurpata da Flavio
Eugenio, che pratica un'ampia tolleranza religiosa.
L'editto del novembre, dunque, possiede dei valori contingenti ed
è, probabilmente, una dichiarazione di guerra ideologica contro
Eugenio e Arbogaste; ma la legge possiede dei valori generali ed
epocali: in quella è la statuizione dell'illegittimità del culto
pagano, sotto qualsiasi forma, in tutto il territorio dell'impero.
La pietra di paragone per questo decreto è certamente il primo,
quello emesso nel febbraio 391 a Milano.
L'editto si rivolge a Flavio Rufino, stretto collaboratore di
Teodosio e prefetto del pretorio per l'oriente.
6.2. La generalità del decreto
Il dispositivo della legge è estremamente più articolato di quelli
di Milano e Aquileia.
Scrive l'imperatore “... Nullus omnino ex quolibet genere
ordine hominum dignitatum vel in potestate positus vel honore
perfunctus, sive potens sorte nascendi seu humilis genere
condicione ortuna in nullo penitus loco, in nulla urbe sensu
carentibus simulacris vel insontem victimam caedat vel
secretiore piaculo Larem igne, mero Genium, Penates odore
veneratus accendat lumina, imponat tura, serta suspendat
...” e cioè che la legge si applica a tutti, tanto ricchi e
poveri, sia che rivestano cariche pubbliche oppure no.
Questa precisazione è interessantissima perché conferma
l'impressione che i provvedimenti di Milano e Aquileia, invece,
intendessero soprattutto applicarsi alle classi egregie e alle
personalità in vista ed esposte per la loro eminenza sociale.
La seconda precisazione è di carattere geografico, già evidenziata
attraverso l'indirizzo al prefetto del pretorio per tutto
l'oriente. Si scrive, infatti: “... in nullo penitus
loco, in nulla urbe ...” , “ … in nessun luogo sperduto e
in nessuna città ...”. Si tratta di un editto generale per
estensione e articolazione geografica.
Infine la terza precisazione è di carattere liturgico: tanto il
culto privato (“… Larem igne, mero Genium, Penates …”),
quanto quello pubblico sono banditi con il medesimo rigore.
6.3. Il paganesimo nemico dello stato
Va notato anche un salto di qualità notevole, oltre che una
notevole maggiore articolatezza nelle pene e nei meccanismi della
legge. “... ad exemplum maiestatis reus licita cunctis
accusatione delatus excipiat sententiam competentem ...” si
scrive e cioè chi continua a praticare il paganesimo in forma
pubblica e privata è giudicabile del reato di lesa maestà (maiestatis
reus), e dunque, secondo le disposizioni precedentemente
disposte in materia dal diritto, passibile anche della pena di
morte. Non si prescrive più una pena pecuniaria ma si stabilisce
una condanna penale estrema, una via senza ritorno che può
tradursi nella morte oppure in una deportazione a vita in qualche
campo di lavoro: questo dipenderà dall'interpretazione di reato di
'maiestatis' che sarà sposato da ogni singolo giudice.
6.4. Il paganesimo e il fisco imperiale
Il decreto, inoltre, fece i conti con un comportamento che dovette
essere diffuso, quello del 'trasformismo pagano', e cioè il
fenomeno in base al quale, di fronte al divieto pubblico, i pagani
organizzavano luoghi di culto privati e defilati; almeno è questa
la nostra interpretazione di questa parte dell'editto.
Si scrive, infatti, ancora, : “... Namque omnia loca,
quae turis constiterit vapore fumasse, si tamen ea in iure
fuisse turificantium probabuntur, fisco nostro adsocianda
censemus. ...” e cioè che ogni luogo (abitazione, campo o
altro) dove si continuano a venerare gli antichi dei, sarà, in
tutta semplicità, unito al fisco (fisco nostro adsocianda
censemus) e cioè requisito dallo stato.
In verità nella lettera dell'editto non viene menzionata la
pratica del sacrificio animale o della preghiera ma solo
l'accensione di fuochi e incensi verso le divinità in quei luoghi
che, ormai, non possono che essere privati. Insomma l'editto
stabilisce la requisizione di quei luoghi dove continua a
svolgersi un culto pagano 'minore' e cioè la requisizione delle
case private dei pagani laddove queste continuano a essere ospiti
di liturgie pagane.
Inoltre il semplice sacrificio ai geni degli antenati, particolare
repertorio della tradizione pagana, viene nell'editto separato dal
culto pagano generale e si manifesta verso quello una relativa
tolleranza, giacché, se ci si limita a quello, la pena prevista è
pecuniaria e si risolve in un'ammenda di venticinque lire d'oro.
6.5. La lotta contro i 'fiancheggiatori' dei pagani nelle
istituzioni pubbliche
Il provvedimento del novembre 392 contiene ancora dell'altro e di
più.
Le preoccupazioni che abbiamo già incontrato nell'editto di
Aquileia sul fatto che giudici e amministratori pubblici fossero
tiepidi nell'applicazione dell'editto si manifestano ancor più
chiaramente e vengono ora sanzionati e puniti il loro disinteresse
o negligenza. L'ultima parte dell'editto, infatti, si rivolge agli
iudices ac defensores et curiales e cioè ai magistrati,
agli avvocati e agli amministratori urbani e municipali: se questi
si mostreranno negligenti nell'applicazione del decreto saranno
posti sotto processo e accusati d'ufficio.
Scrive inoltre l'imperatore che “ … illi vero moniti si
vindictam dissimulatione distulerint, triginta librarum auri
dispendio multabuntur, officiis quoque eorum damno parili
subiugandis...” e cioè che quelli tra di loro che, dopo
essere stati richiamati all'ordine, fingeranno di eseguire la
legge saranno multati per trenta lire d'oro e dovranno subire gli
effetti della loro condanna e probabilmente patiranno ulteriori
provvedimenti amministrativi.
6.6. Il significato storico e politico dell'editto
L'editto del novembre 392 è il culmine legislativo del processo
inauguratosi a Tessalonica nel 380: il paganesimo è messo fuori
legge e la professione di fede pagana viene equiparata al reato di
lesa maestà verso l'imperatore.
Viene introdotto il concetto giuridico di 'violata religione', si
scrive, infatti, “... is utpote violatae religionis reus
...”, che era del tutto estraneo alla tradizione
giurisprudenziale romana, in base al quale l'unica religio
è quella cristiana e ogni deviazione da quella è equiparabile a un
attentato contro lo stato poiché presuppone il sacrilegio e la
messa a repentaglio della sicurezza dello stato, secondo il
disegno carismatico pagano ma radicalmente e integralisticamente
ribaltato.
Ed è talmente grosso il cambiamento epocale che facciamo fatica a
trovare parole adatte a descriverlo.
In questa durezza e intransigenza qualche moderazione si
manifesta, significativamente, verso il culto pagano dei morti e
il loro rispetto per gli antenati, per quel genere di pratiche si
prevedono solo pene pecuniarie anche se sufficientemente elevate.
L'editto di Costantinopoli è davvero una dichiarazione di guerra
al paganesimo.
Inoltre il provvedimento è il culmine di un processo politico che
originava dal 313 e l'editto di tolleranza generale, passava per i
provvedimenti di Costantino I contro l'aruspicina privata,
provvedimenti del 320, e i contemporanei dispositivi contro il
finanziamento pubblico dei templi e dei santuari e infine si era
fortificato nella lotta culturale contro il paganesimo degli anni
cinquanta e sessanta.
Gli editti del 380, 391 e 392 concludono questo processo
lunghissimo che da settant'anni innervava l'istituzionalità
dell'impero: il paganesimo venne messo fuori legge e senza
possibilità di appelli di sorta.
Nel novembre del 392, a Costantinopoli si stabilisce, per legge,
una nuova epoca che camminava sotto il profilo pagano dai tempi di
Decio e Valeriano e cioè dalla metà del III secolo e che viene
ripresa e obliterata sotto il profilo cristiano nel settantennio
che va dal 320 al 390.
6.7. La lettera dell'editto
Imppp. Theodosius, Arcadius et Honorius aaa. ad Rufinum
praefectum praetorio.
Nullus omnino ex quolibet genere ordine hominum dignitatum vel
in potestate positus vel honore perfunctus, sive potens sorte
nascendi seu humilis genere condicione ortuna in nullo penitus
loco, in nulla urbe sensu carentibus simulacris vel insontem
victimam caedat vel secretiore piaculo Larem igne, mero Genium,
Penates odore veneratus accendat lumina, imponat tura, serta
suspendat. Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus
audebit aut spirantia exta consulere, ad exemplum maiestatis
reus licita cunctis accusatione delatus excipiat sententiam
competentem, etiamsi nihil contra salutem principum aut de
salute quaesierit. Sufficit enim ad criminis molem naturae
ipsius leges velle rescindere, illicita perscrutari, occulta
recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae,
spem alieni interitus polliceri.
Si quis vero mortali opere facta et aevum passura simulacra
imposito ture venerabitur ac ridiculo exemplo, metuens subito
quae ipse simulaverit, vel redimita vittis arbore vel erecta
effossis ara cespitibus, vanas imagines, humiliore licet muneris
praemio, tamen plena religionis iniuria honorare temptaverit, is
utpote violatae religionis reus ea domo seu possessione
multabitur, in qua eum gentilicia constiterit superstitione
famulatum. Namque omnia loca, quae turis constiterit vapore
fumasse, si tamen ea in iure fuisse turificantium probabuntur,
fisco nostro adsocianda censemus. Sin vero in templis fanisve
publicis aut in aedibus agrisve alienis tale quispiam
sacrificandi genus exercere temptaverit, si ignorante domino
usurpata constiterit, viginti quinque libras auri multae nomine
cogetur inferre, coniventem vero huic sceleri par ac
sacrificantem poena retinebit.
Quod quidem ita per iudices ac defensores et curiales singularum
urbium volumus custodiri, ut ilico per hos comperta in iudicium
deferantur, per illos delata plectantur. si quid autem ii
tegendum gratia aut incuria praetermittendum esse crediderint,
commotioni iudiciariae, subiacebunt; illi vero moniti si
vindictam dissimulatione distulerint, triginta librarum auri
dispendio multabuntur, officiis quoque eorum damno parili
subiugandis.
Dat. vi id. nov. constantinopoli arcadio a. ii et rufino conss.
Gli augusti imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio a Rufino
prefetto del pretorio.
Nessuno, di qualunque genere, ordine, classe o posizione sociale o
ruolo onorifico, sia di nascita nobile sia di condizione umile, in
alcun luogo per quanto lontano, in nessuna città scolpisca
simulacri mancanti di significato o offra vittima innocente o
bruci segretamente un sacrificio ai lari, ai geni, ai penati,
accenda fuochi, offra incensi, apponga corone. Poiché se si
ascolterà che qualcuno avrà immolato una vittima sacrificale o
avrà consultato viscere, sia accusato di reato di lesa maestà e
accolga il tribunale competente, benché non abbia cercato nulla
contro il principio della salvezza o contro la salvezza. È
sufficiente infatti per l'accusa il volere contrastare la stessa
legge, perseguire le azioni illecite, manifestare le cose occulte,
tentare di fare le cose interdette, cercare una salvezza diversa,
promettere una speranza diversa.
Se qualcuno poi ha venerato opere mortali e simulacri mondani con
incenso e, ridicolo esempio, teme anche coloro che essi
rappresentano, o ha incoronato alberi con fasce, o eretto altari
con zolle scavate alle vane immagini, più umilmente è possibile il
castigo attraverso una multa: perché ha tentato una ingiuria alla
piena religione, è reo di violata religione. Sia multato nelle
cose di casa o nel possesso, essendosi reso servo della
superstizione pagana. Tutti i luoghi poi nei quali siano stati
offerti sacrifici d'incenso, se il fatto viene comprovato, siano
associati al nostro fisco. Se poi in templi e luoghi di culto
pubblici o in edifici rurali qualcuno cerca di sacrificare ai
geni, se il padrone di casa non ne è a conoscenza, 25 lire di oro
di multa si propone di infliggere, è bene poi essere indulgenti
verso lui e la pena trattenere.
Poiché poi vogliamo custodire l'integrità dei giudici o dei
difensori legali e dei curiali delle varie città, coloro tra
questi che siano scoperti in queste pratiche siano subito
denunciati, quelli accusati siano puniti. Se quelli dovessero
ritenere di nascondere e coprire queste pratiche con favori o
negligenza, saranno posti sotto giudizio. Coloro poi che dovessero
assolvere con finzione, saranno multati per 30 lire di oro,
sottostando anche agli obblighi che derivano da un loro simile
comportamento dannoso.
Emesso in Costantinopoli, alle VI idi di novembre, sotto il
consolato di Arcadio e Rufino
7.
Durante e dopo gli editti
7.1. Terribili battaglie di strada: la reazione pagana ai
decreti e i militanti cristiani
La proibizione del culto non fu ovviamente accolta favorevolmente
dai pagani, che rappresentavano ancora la maggioranza degli
abitanti dell'impero, almeno nella sua parte occidentale, ma che
anche in oriente, seppur minoranza, erano ancora una robusta
organizzazione di fede.
I decreti del 391 – 392, se interpretati alla lettera, stabilivano
la requisizione immediata, da parte dell'esercito, dei luoghi di
culto pagani e, interpretati in maniera libera, legittimavano i
cristiani ad attaccarli, danneggiarli, saccheggiarli e chiuderli
con il fuoco.
In oriente tanto l'esercito quanto i cristiani fecero la loro
parte nell'applicazione del decreto. Vescovi e monaci erranti,
invece, in entrambe le parti dell'impero e con eguale sforzo,
attuarono un'applicazione plebea degli editti.
Si verificavano, in forme rovesciate, i fenomeni che avevano
tenuto dietro al decreto di Decio del 249 e a quello di Valeriano
del 257: fu un tuffo indietro e un tuffo sul dorso dentro il
terribile III secolo e le persecuzioni anti cristiane.
Non citiamo Diocleziano e le sue persecuzioni, dalle quali la
nascente chiesa egiziana ed eretica iniziava a datare il tempo del
mondo, la famosa per quella 'epoca dei martiri', perché il
provvedimento dioclezianeo cercò di eludere ed evitare
l'intervento diretto delle masse nelle questioni religiose e
nell'applicazione del suo decreto.
Teodosio I, qui, assomiglia, seppur in forma rovesciata
ideologicamente, a Decio e Valeriano e si allontana da Diocleziano
e certamente dal suo precedente solariano e 'moderatamente'
cristiano, Costantino I.
Ancora una volta ci tocca di scriverlo: ci troviamo di fronte alla
determinazione di una nuova epoca.
7.2. Il terribile oriente: esercito imperiale e masse cristiane
In oriente, i pagani di fronte all'ostilità dell'esercito
imperiale verso i loro luoghi di culto iniziarono a presidiarli,
spesso in maniera armata.
L'esercito, allora, interveniva e si giunse a battaglie urbane
intorno ai templi che spesso terminavano con il massacro dei
fedeli e la demolizione del santuario.
Sempre in oriente, inoltre, quando per svariati motivi l'esercito
imperiale non interveniva contro i templi pagani, monaci cristiani
e gruppi di fanatici, guidati quasi sempre dai vescovi,
provvedevano all'assalto armato dei templi e alla relativa
demolizione e massacro dei fedeli pagani che li presidiavano. Fu
una terribile stagione.
In occidente, invece, l'atteggiamento dell'esercito fu più
accomodante e solitamente dovettero essere i cristiani a prendere
in mano le armi contro, in quel caso, la maggioranza pagana.
Stiamo descrivendo, davvero, una delle peggiori pagine della
storia dell'umanità.
7.3. Il terribile oriente: Alessandria e il suo cristianesimo
Descriviamola ora con qualche dato specifico e cioè facendo
riferimento ad atti e azioni precise. Particolarmente
significativo fu il caso del Serapeo di Alessandria d'Egitto.
Alessandria era una città dove la maggioranza della popolazione
era cristiana, almeno dal III secolo, e che aveva enormemente
patito per le persecuzioni di Decio, Valeriano, Diocleziano e
Galerio. Inoltre il cristianesimo diffusosi in quella metropoli
era, spesso, un cristianesimo non ortodosso ma affascinato dalla
predicazione degli apollinaristi che presto si sarebbe traslata,
all'inizio del secolo seguente, nel movimento monofisita.
Infine Alessandria, oltre che una comunità cristiana ortodossa che
si contrapponeva a una eterodossa e già monofisita, conosceva una
fortissima concentrazione ebraica e infine, ovviamente, una
tradizionale minoranza, ma notevole, pagana.
Alessandria era una città nervosa, teatro delle rivolte contro
Costanzo II e della predicazione del vescovo Atanasio contro di
lui e, già nel secolo precedente nei tempi di Aureliano (270 –
275), città dove pagani, ebrei e cristiani si fronteggiavano in
maniera violenta ed egemonizzavano interi quartieri della città e
se li dividevano.
7.4. Il terribile oriente: i fatti del Serapeo
In questa città nervosa, subito dopo l'emissione dell'editto di
Aquileia, il vescovo Teofilo chiese ed ottenne da Teodosio il
permesso di convertire in chiesa il tempio di Dioniso e dedicato a
Serapide, che era una sorta di santuario concentrato e volto verso
la pratica di un paganesimo escatologico e al contempo più
profondamente legato al culto e alla cura delle passioni e del
corpo.
Per di più, elemento di scandalo ancora più grande per i
cristiani, la venerazione nel Serapeo non pretendeva di rinnegare
Cristo ma semmai di assimilarne gran parte degli insegnamenti.
Insomma il Serapeo di Alessandria proponeva una mediazione e un
disegno salvifico che fosse accettato tanto dai pagani quanto dai
cristiani e si poneva in competizione con il proselitismo
cristiano. Non è quindi un caso che il patriarca di Alessandria
Teofilo individuò quel tempio sincretista che ospitava i culti di
Dioniso, di Serapide e forse anche di Cristo come un obiettivo
strategico e di fondamentale importanza per la sua polemica anti
pagana.
Ci fu dapprima un'azione diretta dei cristiani che attaccarono il
tempio e uccisero, torturandoli, i suoi sacerdoti. Seguì la contro
risposta dei pagani che occuparono il tempio, armati, allo scopo
di difenderlo.
A quel punto una guarnigione imperiale comandata dal comes
Romano e appoggiata da fanatici ed estremisti cristiani guidati
dal patriarca Teofilo assediò il tempio.
Per quanto ne sappiamo conduceva la resitenza pagana un certo
Olimpio, che esortava i pagani a morire piuttosto che rinnegare la
fede dei loro padri. Alla fine le truppe di Romano e i cristiani
assalirono il Serapeo e ne venne fuori un massacro orribile, tanto
orribile da essere ingiustificabile.
Si fecero, allora, passare alcuni dei cadaveri dei pagani
massacrati come ostaggi cristiani sommariamente giustiziati dagli
occupanti. Addirittura pare che si traslarono nel tempio i corpi
di alcuni incarcerati perché potessero essere spacciati e
individuati come ostaggi cristiani uccisi dai ribelli pagani.
Insomma si cercò di giustificare davanti all'opinione pubblica
quel terribile eccesso di violenza.
Il massacro del Serapeo di Alessandria testimonia molte cose: in
primo luogo quanto il livore e la volontà di vendetta dei
cristiani in oriente fosse profonda e quanto alta fosse la
copertura della forza pubblica alle azioni di piazza contro i
pagani, ma in secondo luogo, attraverso la macabra montatura
dei cadaveri trafugati e rinominati, registra quanto questa crisi
di violenza dovesse essere giustificata di fronte allo stato che
nonostante la sua aperta e recentissima professione di fede non
era certamente disposto ad accettare omicidi indiscriminati.
Anche qui la persecuzione di Decio e di Valeriano furono ridotte
al loro contrario.
7.5. Il mite occidente
L'ondata repressiva anti pagana non si limitò all'oriente ma
giunse in occidente dopo la battaglia del Frigido: a Roma venne
sciolto l'ordine delle vestali e spento il fuoco sacro di Vesta.
L'ennesima richiesta del Senato a favore del reintegro dell'altare
della Dea Vittoria venne respinta. In Gallia gran parte dei templi
pagani iniziarono ad essere attaccati per iniziativa del vescovo
Martino di Tours che predicava l'azione diretta contro il
paganesimo.
Qui, in occidente, gli eserciti imperiali e gli amministratori
locali paiono tenersi in disparte e lasciano fare alle
ristrettissime minoranze attive dei cristiani.
Caso emblematico per il secolo seguente ma illuminante della
temperie e del modo di 'fare politica religiosa' inaugurato dopo
il 391, fu quello del martirio di Vigilio, vescovo di Trento,
occorso nel 405.
Vigilio iniziò a predicare nell'attuale Trentino occidentale, tra
la tribù degli Anauni, ma usò gli strumenti dell'azione diretta in
una terra a maggioranza assoluta pagana, attaccò templi, piccoli
santuari, e alla fine la popolazione locale, esasperata, lo
linciò.
Questi sono pochi ma illuminanti casi della repressione anti
pagana in occidente.
In ogni caso nell'occidente, anche dopo il 394, l'atteggiamento
delle truppe e degli amministratori verso i pagani, che sono
maggioranza, fu, nonostante i decreti del 391 – 392, più defilato
e certamente meno schierato.
Ancora nel V secolo, in occidente, il paganesimo sarà un fenomeno
di massa e maggioritario, orizzontale e necessariamente non
organizzato in maniera pubblica, mentre, al contrario, in oriente
sarà certamente costretto ad assumere i connotati di
un'organizzazione clandestina.
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