Il decreto di Decio contro i cristiani (250)
1. Complessità delle
persecuzioni
L'emanazione dell'Editto di Decio nel marzo o
aprile del 250, a circa sei mesi dalla caduta di Filippo l'arabo,
introduce un problema storiografico non indifferente. Nonostante,
infatti, la tradizione cristiana enumeri prima di quella di Decio molte
altre persecuzioni (quelle di Nerone, Domiziano, Marco Aurelio, Settimio
Severo, Massimino), il provvedimento di legge di Messio Quinto Decio,
che tra le altre cose non conosciamo direttamente, è, invece, il primo
atto legislativo che può essere interpretato in tal senso. Le precedenti
persecuzioni, così percepite dalla letteratura cristiana posteriore,
redatta in massima parte tra IV e V secolo, sono il prodotto di un
fraintendimento, volontario o inconsapevole, del valore e della portata
di episodi locali.
Spesso questi episodi erano il risultato di un'azione spontanea e
diretta della maggioranza pagana contro la nuova comunità religiosa, con
il corollario di pogrom e discriminazioni, qualche volta,
anche, dell'azione dei magistrati locali e anche qui è necessario
distinguere ulteriormente.
In un primo gruppo di casi, era lo zelo verso la tradizione e verso
l'imperatore a informare le intraprese dei magistrati ed è eloquente
(oltre che utile per valutare la complessità della questione) il fatto
che, se non sempre molto spesso, il governo centrale intervenne per
censurarne l'operato, ribadendo la validità dell'assunto giuridico di
Traiano secondo il quale i cristiani non dovevano essere perseguiti
d'ufficio. Così fece Adriano, così Antonino Pio e anche Marco Aurelio,
che pure passa per un persecutore.
In un secondo gruppo di casi, i magistrati locali erano 'trascinati'
verso atteggiamenti e provvedimenti persecutori nei confronti dei
cristiani dai tumulti delle folle pagane che richiedevano un intervento
dei poteri pubblici contro la professione di fede di quelli. Anche qui,
molto spesso, l'imperatore era poi intervenuto per redarguire i suoi
funzionari che si erano fatti intimidire dalla piazza; gustosa in
proposito la notazione di Adriano che, facendo riferimento al fatto che
alcuni tra i pagani imputavano ai cristiani la responsabilità di un
terremoto, ammoniva il magistrato di non farsi impressionare dai
cataclismi naturali e dalla loro origine.
Esistono testimonianze, infine, secondo le quali i magistrati locali si
opposero fin da subito alle richieste dei pagani e si rifiutarono di
appoggiare legalmente l'azione diretta della folla. Insomma la
storiografia e le fonti cristiane del tardo antico scambiarono per
persecuzioni generali eventi che non avevano alla base nessuna precisa e
inequivocabile intrapresa giuridica.
Il caso di Decio, oggettivamente, introduce una novità: si tratta di un
provvedimento di legge con validità generale, estesa a tutte le province
dell'impero e, quindi, gli storici ecclesiastici del IV e V secolo
potrebbero aver trovato una conferma alle loro tesi e testimonianze,
seppur differita nel tempo e molto più tarda.
Ma anche per quel che riguarda l'imperatore pannonico, la facilità
dell'interpretazione si scontra con la difficoltà dei fatti.
L'editto,
in verità, appare destinato non tanto a perseguire esplicitamente i
cristiani ma a confermare la tradizione pagana e, infatti, nemmeno
una parola, a quanto è tramandato, viene scritta a proposito dei
cristiani: la legge si propone di verificare la lealtà e affezione
popolare verso il paganesimo tradizionale romano; si badi bene non
il paganesimo in generale, ma solo quello che veniva legato
all'immagine dell'imperatore e alla salute dell'impero, quindi alla
tradizione religiosa latina e italica.
2. Le cause immediate
L'azione legislativa di Decio non si connota come il risultato di
una scelta ragionata, fredda e ponderata e non sembra fare parte di
un progetto studiato con calma a tavolino e messo in opera
conseguentemente. L'editto nasce maggiormente da valutazioni di
opportunità politica, dalle conseguenze, immaginate come necessarie,
del cambio repentino di governo (Decio, è bene ricordarlo, era un
usurpatore del suo precedente all'impero), dallo scenario sociale
che accompagna la deposizione violenta di Filippo, che non da un
programma preciso che, magari, intendesse completare o confermare la
tradizione giuridica in materia. Testimonia, però, un nuovo modo di
sentire, una nuova sensibilità e ideologia sconosciuta al secolo
precedente e agli esordi di questo. Quasi tutto concorre a
disconfermare l'idea di una legge maturata secondo l'applicazione
automatica e lineare del diritto precedente.
Già nel 248 si ha notizia di un nervosismo sociale e politico, con
un teatro prevalentemente orientale. Gravi torbidi anticristiani si
verificarono in Alessandria, dove la comunità ebraica e quella
pagana misero in atto dei veri e propri pogrom e autentici massacri
contro i cristiani. Questi timori panici si diffusero nelle
province limitrofe, risalirono fino in Asia minore e al
centro respirava sempre uno spirito anticristiano.
L'idea, soprattutto, della prossima vendetta e rivalsa
dell'oriente (incarnate secondo queste vedute dai Persiani)
contro l'occidente e della vicina 'fine del mondo',
identificata con il declino e la scomparsa dell'impero, si
fortificava. Era la convinzione, in quei pagani, che i mali
dell'impero dipendessero dal proselitismo cristiano e per di
più del fatto che il governo imperiale, come scrive il
cristiano Origene, testimone dei fatti: " … non li persegua
[i cristiani] come nel passato…". Fu
il segno di una contestazione a Filippo e sicuramente, per la
componente pagana di questa instabilità, di una preoccupazione volta
ai destini dell'impero. Filippo, bisogna ricordarlo, era cristiano,
anche se aveva limitato la sua professione di fede alla vita
privata.
Decio, come prima cosa, prese provvedimenti amministrativi contro i
cristiani che militavano nel suo esercito, vale a dire che li
licenziò. Si tratta di una comprensibile epurazione ai danni dei
legionari cristiani in quanto possibili componenti di una quinta
colonna nostalgica del vecchio imperatore. Poteva, dunque, trattarsi
solo di un regolamento di conti con l'entourage
dell'imperatore precedente, come era stato nel caso di Massimino
contro gli amici cristiani di Alessandro Severo. Anche l'adozione de
cognomen traianus da parte di Decio, subito dopo la
battaglia di Verona del settembre 249, non porta necessariamente a
ipotizzare un intento persecutorio volto verso i cristiani: il nome
di Traiano era genericamente legato al tradizionalismo romano e non
necessariamente alla lotta contro i cristiani.
Decio si presentava al Senato e a Roma, dove entrava in trionfo,
come un uomo della tradizione. Questa ideologia tradizionalista si
espresse, probabilmente, in un
programma politico che, di fronte alle sollecitazioni popolari
dell'oriente comporterà, anche, l'emissione del decreto.
3. La novità dell'editto
Decio emise un diploma che richiedeva a tutti i cittadini
dell'impero di presentarsi davanti a una commissione giudicante.
Tali commissioni, spalmate sul territorio in modo abbastanza
capillare, avevano il compito di verificare che l'indagato avesse
sempre praticato secondo le direttive religiose tradizionali e
questo attraverso una raccolta testimoniale o auto testimoniale che,
per i cristiani, equivaleva a una apostasia. Eseguita tale verifica,
al cittadino si concedeva un libellum da lui stesso
sottoscritto, un certificato di buona condotta religiosa, in
sintesi, nel quale l'indagato dichiarava la sua ortodossia pagana.
Le commissioni pretendevano dall'inquisito che libasse, assaggiasse
e sacrificasse per gli Dei e questo direttamente, attraverso una
prova in tempo reale. Il rifiuto a presentarsi, nei giorni
stabiliti, alle udienze della commissione equivaleva a un'ammissione
di colpa che prevedeva la detenzione oppure la morte.
L'editto di Decio, però, non menzionò direttamente i Cristiani
e si rivolse genericamente ai cittadini dell'impero. Questo, almeno
sotto l'aspetto formale, ci proibisce di scrivere di una legge anti
cristiana, perché, e lo sappiamo da alcune notizie sugli effetti del
decreto, le commissioni inquisirono anche pagani 'eterodossi' (anche
se il concetto di ortodossia riferito al paganesimo è assolutamente
inadatto) comminando anche delle condanne. Possiamo affermare che la
legge fu concretamente anti cristiana nella misura in cui i suoi
affiliati rappresentavano ormai, secondo Mani e secondo molte altre
fonti, la maggioranza della popolazione dell'estremo oriente romano
e una minoranza attiva propagandisticamente nelle altre province. La
natura stessa delle comunità, che era costituita da gruppi
organizzati con rituali codificati e gerarchie interne, rendeva i
cristiani visibili più di altri al censimento che il decreto
presupponeva ed è per questo motivo che, alla fine, furono gli
aderenti a questa relativamente recente setta orientale a finire
nelle maglie della magistratura.
Se, dunque, sotto l'aspetto formale, l'editto di Decio non fu un
provvedimento direttamente anti cristiano, è indiscutibile il fatto
che lo divenne nella sua applicazione, nei fatti, e che, certamente,
nell'artefice del provvedimento era anche questa consapevolezza,
insieme a molte altre convinzioni: sarebbe stato impossibile, per
Decio, ritenere che il suo provvedimento non avrebbe avuto effetti
importanti sulla chiesa organizzata, come non era possibile, per
l'imperatore, disgiungere il successo del decreto dalla salute
dell'impero.
4.
La generalità
Ci troviamo di fronte a un vero,
autentico, processo persecutorio anticristiano che si accompagna,
non casualmente, a una seconda novità assoluta: un'attività
liturgica che viene imposta e verificata dai magistrati.
Questa crediamo sia la prima persecuzione generalizzata anti
cristiana dell'antichità e ci si permetta di considerare tutti i
fatti precedenti come persecuzioni 'in passivo', molto spesso non
volute, non programmate e non preordinate.
La possibilità stessa di dichiararsi cristiani non era neppure presa
in considerazione, ma questa non era un'assoluta novità:
l'impossibilità del cristianesimo come fenomeno pubblico era
assodata anche nella legislazione tollerante di Traiano e in quella
ancora più tollerante del suo successore, Adriano.
L'elemento nuovo stava nel proposito di ottenere una
'paganizzazione' dell'impero, secondo le forme della religiosità
capitolina, in nome della sua salute; emergeva chiaramente il
binomio 'rispetto del divino = salvezza dell'impero', mai adottato
prima, almeno in maniera così stringente, e foriero, questo, di
gravissime conseguenze anche sull'immaginario collettivo dell'epoca.
Anticipazioni in tal senso, naturalmente, ce ne sono e molte: il
rispetto del sacro era percepito, nella superstizione pagana, come
fonte della salvezza personale e collettiva e un modo indiretto di
onorare l'impero e l'imperatore. Massimino il trace aveva ridotto
tutto questo alla divinizzazione del genio dell'imperatore in
carica, ma esempi analoghi li ritroviamo ben prima di Massimino (235
- 238) e nel cuore del I secolo (Caligola e Domiziano).
Questa, però, rimase, sotto il profilo giuridico, materia e dottrina
inapplicata o ampiamente disattesa; Decio, al contrario, la applica
e riprende, stravolgendola. Emettendo un decreto legislativo valido
per tutto l'impero, l'imperatore della Pannonia estende e
generalizza i frammenti e i precedenti che gli forniva la tradizione
giuridica.
5. Crudeltà
Analizziamo la durezza dell'editto, in primo luogo.
Nonostante l'adozione del cognomen traianus, proprio in
relazione alla attività di restitutor sacrorum della quale
era stato fregiato l'imperatore di origini spagnole, Decio si
allontanava e fraintendeva notevolmente il senso del rescritto di
Traiano secondo il quale i cristiani potevano essere giudicati solo
dietro regolare denuncia e non erano perseguibili di ufficio.
Decio, invece, si pose sul solco di una gigantesca caccia all'uomo
che si era scatenata in un oriente (soprattutto in Egitto e in Asia
minore) e che aveva travalicato i limiti della tradizionale
turbolenza locale e circoscritta. Per la prima volta, inoltre,
l'imperatore non cercò di frenare l'attività delle folle, anche se,
quasi sicuramente, l'emissione del decreto aveva lo scopo di
tranquillizzare i pagani e di incanalarne l'azione in un contesto
legale. Così, dopo il giugno 250 (in quel mese giunse infatti
l'editto in quella parte dell'impero), l'attività persecutoria fu
direttamente sponsorizzata dallo stato centrale.
Traiano, e dopo di lui tutti gli imperatori fino a Filippo l'arabo,
riteneva si dovesse procedere contro i Cristiani solo dietro la
denuncia di flagitia e delitti da loro commessi, capaci,
secondo la mentalità pagana e classica di attirare sull'impero
sciagure e carestie se lasciati impuniti e tra quelli era certamente
considerata l'aperta ignoranza delle liturgie pagane; solo a quel
punto, lo stato poteva intervenire su un fatto assolutamente privato
come la professione di fede e solo a quel punto essa assumeva valore
pubblico e, dunque, all'imputato si poteva richiedere di sacrificare
al genio dell'imperatore. Qui l'imperatore, secondo l'immagine
antonina, era il responsabile e il primo garante della koinè
e dunque obbligato a intervenire per difendere la civiltà e il
diritto.
Ora in Decio è davvero tutto diverso e sotto molteplici e
contraddittori punti di vista.
Mentre il pacato rescritto di Traiano, datato al 115 / 116, era
rivolto chiaramente ai cristiani ed era perfettamente consapevole
del fatto che richiedere loro il sacrificio significava chiederne
l'apostasia e, dunque, era quello strumento estremo e da usare con
cautela, il diploma di Decio, come scritto, non nomina i
cristiani in nessun punto ma chiede a tutti i cittadini dell'impero
di dichiararsi in maniera pubblica rispettosi della religione
tradizionale e nel caso di sacrificare pubblicamente agli dei. Non
si manifesta, dunque, nessun discrimine e nessuna particolare
attenzione contro i cristiani o a favore dei cristiani, cosa che,
invece, era contenuta nei distinguo dei rescritti di Traiano e ancor
più di Adriano.
Il piano di Decio era quello della costruzione di una religione di
stato e di massa e richiedeva l'apostasia da qualsiasi istituto
religioso che non fosse quello pagano tradizionale, in opposizione,
pensiamo al confronto con Traiano, all'autentica inclusività di cui
il paganesimo classico era innervato. Dunque Decio pare riferirsi
alla tradizione antonina o alla versione sincretica elaborata dai
Severi per rivoltarla come un calzino e, nella concretezza storica,
la rivoltò.
C'è, inoltre, una seconda ed eloquente curiosità atta a rafforzare
l'ipotesi di sopra: in massima parte e per ovvie e contingenti
ragioni a fare le spese del decreto furono i cristiani, ma non
vennero escluse dall'ondata persecutoria neppure sette pagane minori
ed esoteriche, soprattutto egiziache, come testimoniato dal
martirio, in quell'anno, di una sacerdotessa di un dio locale.
6. Dolcezza
La costruzione di una religione di stato, presagita già in maniera
magmatica e un po' puerile in epoca severiana e soprattutto da
Caracalla, comunque, faceva così poco parte delle grammatiche e
delle metodiche del potere romano da realizzarsi solo nella sua
parte negativa e repressiva anche in Decio: l'editto si limita a
ribadire la necessità della frequentazione dei luoghi di culto
tradizionale e dell'espletamento delle liturgie ma non vieta o
proibisce la presenza di altri culti. Gli adepti di quelli, però,
devono anche adempiere ai doveri cerimoniali della tradizione. In
verità, l'inclusività romana diventa, con Decio, normativa e
autoritaria, ma rimane inclusività e non si traduce
nell'edificazione di una confessione ufficiale e statalizzata.
Il paganesimo, completamente privo di strutture organizzate,
coordinamento e gerarchie, non poteva fornire le risorse umane e le
energie necessarie per realizzare un'operazione simile. Potevano
assolvere un tale compito solo il mondo civile e le strutture di
potere locale e centrale, che, però, in assenza di una struttura
confessionale organizzata, se rendevano e dichiaravano la lealtà
religiosa dei cittadini questione connessa e collegata con la
sicurezza dello stato, come nel caso di Decio, non potevano
trasformarsi in ministeri del culto e, quindi, la questione rimaneva
confinata alla categoria del politico e non riusciva a pervadere la
fascia del religioso. La mancanza, genetica, di una struttura
organizzata del paganesimo impedì ai pagani di conformare una vera
religione di stato e lo stesso Giuliano l'Apostata, a metà del
secolo seguente, dovette constatare l'impossibilità per i pagani di
imitare i cristiani e le loro comunità centralizzate e coordinate.
La persecuzione di Decio, quindi, fu un'attività repressiva volta a
impedire un'obiezione di coscienza molto diffusa verso i culti
tradizionali, ma non a imporli come unica forma della religiosità
dell'impero.
Questo è un primo dato, davvero generale e complesso, che va
sottolineato intorno alla persecuzione del 250.
Un secondo elemento di mitezza va individuato nella forma di
applicazione del decreto. I cristiani non venivano chiamati, nome
per nome, alla commissione, ma tutti i cittadini avrebbero dovuto,
spontaneamente, presentarsi a quella. Insomma, alla fine, l'editto
di Decio lasciava, a seconda delle circostanze, delle aree
geografiche e dei rapporti di forza religiosi, notevoli 'vie di
fuga', che furono naturalmente percorse.
Secondo
la testimonianza di Cipriano, contemporanea ai fatti,
i casi di martirio in Africa, come in Roma, direttamente
riconducibili all'applicazione del decreto, furono davvero
pochi: Cipriano ricorda quindici incarcerazioni e alcune
condanne ai lavori forzati, che si tradussero in morte: la
pena di morte non venne comminata con sistematicità e si
adottarono punizioni alternative a quella. Molti martirii
dei quali riferisce il vescovo cartaginese paiono il
risultato di un'azione incontrollata e spontanea, una vera
crisi di violenza illegale, e non una conseguenza delle
procedure stabilite dall'editto.
Vedremo meglio, grazie alla testimonianza di Cipriano, un altro
aspetto di questa forma 'mite' del provvedimento di Decio.
7. Le diversità
nell'applicazione dell'editto: l'occidente
L'applicazione dell'editto non ebbe un andamento lineare, né sotto
il profilo cronologico, né sotto quello geografico.
Sotto l'aspetto dei tempi, la persecuzione subì, infatti, una
sordina di alcuni mesi, poi, una decisa accelerazione; sotto
l'aspetto geografico, invece, l'impero risultò diviso, in maniera
piuttosto netta, tra occidente ed oriente, tra latinità e grecità.
Mentre in occidente, cioè, l'editto ebbe poche conseguenze, non fu
così per l'oriente.
A spiegare questa divisione concorsero numerose motivazioni.
Da una parte, Decio medesimo non volle approfondire i portati
della sua azione giuridica e a Roma, dove risiedette per quasi tutto
il 250, il ritmo persecutorio fu blando e compassato.
Così, in occidente, furono colpiti dal decreto quasi esclusivamente
personaggi noti e insigni, ben conosciuti, proprio in ragione della
loro eminenza sociale, per la loro eterodossa professione di fede.
Costoro si videro costretti, proprio per la notorietà che li
circondava, a recarsi a sacrificare in Campidoglio o, al contrario,
ad affrontare la condanna e ad autodenunciarsi.
A volte invidie personali e rancori sociali circoscritti fecero il
resto: come per il caso di un argentiere cristiano in Roma che venne
denunciato dai suoi inquilini e debitori, ma furono casi, questi,
abbastanza isolati.
Ancora a Roma fu paradigmatico il caso di papa Fabiano: il vescovo
venne dapprima incarcerato, subì una breve detenzione e poi fu
rilasciato. Dopo qualche tempo fu nuovamente arrestato e condannato
a morte. La vicenda giudiziaria di papa Fabiano segnala,
inequivocabilmente, una grande incertezza nell'applicazione
dell'editto.
La 'dolcezza' della persecuzione in Roma e in occidente fu quasi
sicuramente determinata proprio dall'assenza del contorno
necessario, che lo stesso editto, implicitamente, richiedeva: la
mobilitazione delle masse pagane verso il sacrificio agli Dei.
Questa latitanza dei pagani d'occidente può essere facilmente
spiegata con il fatto che in quell'area dell'impero i cristiani
erano una piccola minoranza e non venivano percepiti come un
problema dal resto della popolazione in stragrande maggioranza
pagana.
Lo stesso Decio pare consapevole di questo e comminò solo alcune e
rare condanne a morte. Si ha addirittura l'impressione che quando
furono decise condanne capitali si cercasse di evitare lo scandalo
di una abiura pubblica e conclamata al suo decreto.
Ritornando alla vicenda di papa Fabiano contraddistinta da carcere -
rilascio - secondo arresto - pena capitale, questa testimonia le
difficoltà che incontra l'imperatore nell'amministrare il processo
persecutorio in occidente e a Roma.
In ogni caso, poi, non appena il principe lasciò Roma per il Danubio
e la Dacia, in occidente la persecuzione cessò immediatamente nei
sui effetti.
8. La diversità
nell'applicazione dell'editto: l'oriente
Abbiamo già scritto del fatto che la natura medesima del decreto di
Decio richiedeva, per la sua attuazione, una sorta di mobilitazione
del popolo pagano. La legge faceva riferimento alle preoccupazioni
paniche e si proponeva di ridonare fiducia ai pagani intorno alle
sorti e alla salute dell'impero.
Mentre per l'occidente si ha la netta impressione che la
persecuzione venisse sollecitata dai magistrati e ignorata dalla
gente comune, in oriente lo scenario era radicalmente diverso: le
folle corsero verso i giudici e si recarono a sacrificare in massa
agli dei. Questa risposta di massa isolava e evidenziava i cristiani
all'interno delle comunità, fossero essi insigni o popolani.
Il decreto imperiale, insomma, scatenò le masse pagane in un'opera
di delazione, indiretta e diretta, generalizzata che ne oltrepassava
addirittura le intenzioni. Molto spesso, qui, i magistrati si videro
costretti a consigliare e richiedere la moderazione ai pagani,
piuttosto che a incentivarne lo zelo religioso.
Inoltre va scritto che in oriente e soprattutto in Egitto la
persecuzione era già in atto da ben prima del decreto e quell'atto
legislativo ne costituì solo la ratifica. Fin dall'ultimo anno di
regno di Filippo l'arabo, cioè, si era scatenata un'azione dal
basso, quando non diretta, dei pagani contro i cristiani che, nei
migliori casi, venivano trascinati in giudizio dalla folla, nei
peggiori, il linciaggio non permetteva loro di giungere davanti ai
giudici.
Casi del genere, numerosissimi, sono testimoniati ad Alessandria,
Cartagine e Smirne.
Insomma fin dal 249, e con ratifica imperiale dal giugno 250 (data
in cui giunse il decreto in oriente e Africa), l'oriente bruciava
della persecuzione.
Dall'Egitto sono giunti fino a noi ben 43 libelli (certificati di
buona condotta religiosa), tutti emessi tra metà giugno e fine
luglio 250; si tratta di una cifra impressionante che testimonia
della radicalità e dell'articolatezza del decreto.
Insomma l'oriente subì un mastodontico 'censimento religioso' al
quale non si prestò, invece, l'occidente.
Ad Alessandria, Antiochia, Cartagine i cristiani erano costretti a
sottoscrivere, come previsto dal decreto, il libellum,
letteralmente il libretto, che testimoniava la loro apostasia; se
non ci si accontentava di questo, il decreto prevedeva l'accensione
di incenso agli dei ed era il caso di quelli che poi saranno detti thuriati
e addirittura il sacrificio, il caso, cioè, dei sacrificati.
9. La dolcezza
dell'atteggiamento dei cristiani
Seguendo, in parte, la testimonianza di Cipriano, vescovo di
Cartagine, contemporaneo ai fatti e martirizzato sotto Valeriano,
dieci anni dopo durante una seconda persecuzione generale, scopriamo
che alla dolcezza dell'editto partecipò una causa esogena, vale a
dire l'atteggiamento accomodante dei cristiani. Coloro tra le file
dei cristiani che si persero durante la persecuzione (i cosidetti lapsi)
furono un numero molto più alto di quelli che affrontarono il
martirio. I veri martiri, soprattutto in oriente, non li provocò il
decreto, al quale era possibile sfuggire con l'apostasia, ma
l'azione diretta della folla o l'azione autonoma dei magistrati
locali, alla quale il pentimento non bastava.
Lo stesso vescovo di Cartagine, Cipriano, abbandonò la città e si
nascose in un luogo sicuro. Egli stesso ammette che rimanere al suo
posto avrebbe significato sollecitare la morte, mettere in grave
pericolo gli altri e lasciare la chiesa senza governo; scegliere un
nuovo vescovo sarebbe stato impossibile, come a Roma. Quindi il
realismo politico e il senso dell'organizzazione consigliarono alla
gerarchia stessa di evitare il martirio. Sempre in Africa, secondo
Cipriano, una parte del clero fece apostasia e sacrificò agli
dei, mentre quasi tutti gli altri sacerdoti si diedero alla macchia.
Per il caso di Cartagine, come per il resto dell'impero, è
testimoniato un andamento ondivago e non lineare nell'azione penale:
sempre secondo Cipriano all'arrivo di un nuovo proconsole, in
aprile, la durezza della persecuzione aumentò. Alla fine, però, si
ha notizia di una sola condanna capitale e di torture e violenze che
hanno un sapore popolare e non organizzato: anche qui il contorno
della persecuzione entrava a far parte della persecuzione, più del
decreto. Emblematico il caso di Numidico, che aveva incoraggiato
molti fedeli al martirio, che vide sua moglie bruciata viva ed egli
stesso fu arso per metà, poi lapidato e lasciato a morire, ma che fu
ritrovato vivo e salvato da alcuni correligionari o di altri che,
dopo essere stati torturati per due volte furono esiliati, e
costretti in mendicità.
Tutte queste notizie di Cipriano testimoniano di una commistione
estrema tra azione legale e azione popolare, di una un'applicazione
del decreto non drastica e puntuale che unita ai pentimenti di massa
dei cristiani resero l'azione persecutoria meno crudele delle
attese.
10. Un nuovo problema
organizzativo, i lapsi
Il numero degli apostati, di coloro che avevano accettato di
sacrificare tra i cristiani fu davvero molto alto. Molti i casi di
quelli che, per evitare il sacrificio, comprarono il libellum,
cioè il certificato di buona condotta che era il risultato finale
dell'intera procedura inquisitoria. Furono questi i libellatici,
cioè i rinnegati tra i cristiani attraverso il libellum.
Secondo Cipriano, la maggioranza dei cristiani di Cartagine avevano
seguito quest'ultima via di fuga.
Pochissimi, inoltre, tra i lapsi rividero le loro
posizioni e ritrattarono, affrontando il martirio. Dentro la chiesa
cartaginese si pose il problema del comportamento da assumere nei
confronti degli apostati. Dal momento che gran parte dei presbiteri
avevano cercato di evitare, in una maniera o nell'altra, il
martirio, divenne veramente impolitico e impraticabile comminare
pene severe o addirittura l'esclusione dalla comunità a tutti
costoro.
La chiesa, quindi, dovette affrontare un problema etico profondo:
come riammettere nel suo seno coloro che si erano pentiti, in
diverso modo e in forme diverse, senza sminuire l'esperienza di
quella minoranza che, invece, aveva affrontato i rigori della legge?
Fu un problema che dominò il dibattito della comunità subito dopo lo
scemare, con la morte di Decio, dell'intensità della persecuzione e
come nuova era stata la forma della persecuzione, nuovo fu il
problema che si manifesterà con maggiore profondità durante le
future persecuzioni di Valeriano e Diocleziano.
L'atteggiamento generale era favorevole alla riammissione, quando
gli apostati si dichiassero pentiti e la chiedessero. Per certi casi
non si prese alcun provvedimento e furono diffusi dei certificati di
riammissione, solitamente rilasciati da fedeli che, per aver
affrontato il martirio, godevano di prestigio e dell'autorevolezza
necessaria. Più spesso l'autorità ecclesiastica, opponendosi a
questa anarchia organizzativa, cercò di concentrare il controllo
delle richieste di riammissione nei vescovi e nei presbiteri e di
subordinare la loro accettazione a un programma penitenziale.
Solitamente la penitenza consisteva in ritiri, preghiere e digiuni
ma poteva comportare un periodo di assistenza ai correligionari che
stavano subendo la carcerazione o i lavori forzati per la coerenza
della loro fede.
Una parte, però, della chiesa cartaginese rifiutò di ritenere valide
e legittime queste riabilitazioni e si diffusero voci intorno a
prodigi e miracoli contro coloro che erano stati riammessi: ad
alcuni si rifiutò miracolosamente l'ostia, altri furono colpiti da
malattie terribili e altri ancora patirono malformazioni. Il
problema della riammissione dei lapsi generò, almeno in
Africa, gravi tensioni tra i cristiani e dal momento che le
riammissioni erano state in gran parte amministrate dai vescovi, che
avevano avocato la questione, critiche alla gerarchia ecclesiastica.
Inoltre, molto spesso, a ingigantire queste censure era il fatto che
molti vescovi, diaconi e presbiteri erano stati apostati: lo stesso
Cipriano fu accusato, da queste correnti rigoriste, di essere
sfuggito al martirio e di non aver compiuto il dovere della
testimonianza di fede che gli era proprio.
Il posto peggiore tra i lapsi in questa graduatoria morale
lo occupavano i libellatici che, non presentandosi alle
commissioni, avevano rinnegato la fede commettendo un reato contro
lo stato e una diserzione verso la comunità. Migliori erano coloro
che avevano affrontato la commissione per poi cedere alle pressioni
e qualche volte alle torture, riducendosi a bere e a sacrificare
sugli altari.
Insomma la prima grande persecuzione provocò nel movimento cristiano
spaccature, tensioni ma anche, come ben testimoniato
dall'acquisizione del controllo sulle riammissioni dei vescovi, una
stretta organizzativa.
11. Le prospettive della
novità di Decio
La persecuzione di Decio fu, dunque, il certo risultato di
molteplici fattori che, in ordine di apparizione, potrebbero essere
così elencati.
In primo luogo va menzionato il confuso precedente giuridico messo
in campo da Nerone, e bisogna tornare al 64 / 65 vale a dire a quasi
due secoli prima, in base al quale la professione di fede cristiana
era equiparata all'adesione a una illicita superstitio.
Poi annotiamo i timori panici dei pagani, spesso confortati
dall'ostilità delle comunità ebraiche, intorno al senso della
presenza nelle città orientali dei cristiani, che praticano, in
questo caso e secondo queste vedute, una prava et immodica
superstitio. Tali timori si erano manifestati
ampiamente già all'inizio del II secolo (pensiamo alla relazione di
Plinio il giovane relativa alla Bitinia).
In terzo luogo si era sviluppata l'idea secondo la quale un
'integralismo religioso', magari di tendenza monoteista, avrebbe
giovato alla stabilità dell'impero e questo agli inizi del III
secolo, soprattutto da Settimio Severo in avanti (emblematico in tal
senso il quemadmodum illic deus colatur di Alessandro
Severo). Può non essere del tutto fuori di luogo ipotizzare che
l'emergere, dopo il 227, in Persia della nuova dinastia Sassanide,
dotata di una forte ideologia religiosa e confessionale, abbia
rafforzato questo processo ideale nell'impero.
Non credo possa essere un caso che fin da Caracalla (212 / 217) ma
molto di più e più raffinatamente da Alessandro Severo (222 / 235)
si facesse strada l'idea che l'imperatore era dominus universi
generis humani, cioè signore e padrone dell'intera umanità.
Così Mamea, madre di Alessandro Severo, e autentica 'regina madre',
venne descritta in un'iscrizione spagnola, tra le altre cose
come: " … madre dell'intero genere umano … ".
Anche nella titolatura epigrafica di Gordiano (235 / 238) e dello
stesso Decio ritroviamo costantemente il riferimento a questo
dominato universale.
Il mondo romano stava cambiando.
(Ancora una volta fondamentali
i riferimenti all'opera di Marta Sordi, alle pagine 118 - 123, per
la stesura di queste righe. Anche la voce dedicato a Cipriano in
Wikipedia è stata consultata. Rimandiamo alla bibliografia generale di
questi appunti per l'opera della studiosa).
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